Caffè Lungo – Parlando della quota femminile tra la popolazione attiva, negli ultimi decenni il Giappone si è sempre collocato molto in basso nella classifica dei Paesi industrializzati. Un dato poco edificante non solo da un punto di vista sociale e culturale, ma anche economico: in Giappone infatti c’è scarsitĂ di forza lavoro, da anni. Il Governo Abe ha portato avanti delle politiche di maggiore inclusione, ma la pandemia ha dimostrato quanto le donne lavoratrici siano ancora vulnerabili.
TUTTO INIZIÒ CON LA “WOMENOMICS”
Secondo i canoni della famiglia tradizionale giapponese, la divisione dei ruoli tra moglie e marito è la seguente: lui è l’unico breadwinner e lavora tantissime ore al giorno, lei è l’angelo del focolare dedito alla cura di bambini e anziani. Questo schema rigido si è protratto ben oltre il secondo dopoguerra, rendendo il Giappone uno dei Paesi più avanzati, con un tasso di partecipazione delle donne alla forza lavoro estremamente basso. Parallelamente, a partire dagli anni Novanta, il Giappone è venuto a trovarsi sempre più in una situazione nella quale la popolazione invecchia molto velocemente e, per motivi burocratici, sociologici e culturali, c’è pochissima propensione al ricorso a manodopera straniera.
Visto ciò, cosa accadrebbe se si coinvolgessero maggiormente le donne nell’economia nazionale? Che impatto avrebbe questa “svolta” sul PIL? A questa domanda ha risposto Kathy Matsui nel suo report “Womenomics” pubblicato nel 1999. L’economista, nata e cresciuta negli Stati Uniti da genitori giapponesi, sosteneva che per ogni 100 donne che lavorano, si creano posti di lavoro per altre 15 semplicemente esternalizzando i lavori domestici. in termini di PIL, la manovra ne avrebbe garantito un aumento annuo fino al 15%. Nel 2012 l’allora premier giapponese Shinzo Abe decise di abbracciare questa tesi, rendendola una colonna portante della Abenomics (è famosa la sua affermazione “We need to build a Country where women can shine”). Negli ultimi 10 anni in effetti i numeri hanno dato ragione a questa tesi: nel 2016 ad esempio la percentuale di donne nella forza lavoro in Giappone ha raggiunto quota 76,3%, superando sia gli Stati Uniti che i Paesi OECD. Eppure, dietro al “miracolo” c’è ancora qualcosa che non funziona.
Fig. 1 – Giovani donne di Nishinomiya partecipano alle cerimonie di passaggio all’etĂ adulta, che si tengono all’inizio di ogni anno in tutto il Giappone, gennaio 2021
COSA SI CELA DIETRO L’OCCUPAZIONE FEMMINILE IN GIAPPONE
Con l’inizio della pandemia, delle restrizioni alla circolazione e della conseguente fase di recessione economica le donne lavoratrici sono state colpite molto più pesantemente rispetto agli uomini. Uno studio di Shinnosuke Kikuchi del MIT e Sagiri Kitao e Minamo Mikoshiba dell’Università di Tokyo ci dà i numeri del fenomeno: la perdita in termini di entrate dei lavoratori uomini è stata mediamente dell’1,1%, mentre quella delle donne è stata del 3,4%, con picchi del 9,75% nel caso di impiegate irregolari o in settori vincolati al face-to-face (ristoranti, alberghi, scuole).
Se il recente crollo salariale è donna e se il crollo salariale è maggiormente legato a lavori precari, irregolari o part-time, ecco svelato l’arcano: dietro l’aumento dell’occupazione femminile si celano contratti di bassa qualità e mansioni spesso di basso profilo (o comunque non caratterizzate da salari stabili e medio-alti). Riecheggiano qui le considerazioni sopra citate riguardo alla “storica” distinzione dei ruoli uomo donna, che tuttora non solo causa l’uscita dal mondo del lavoro delle donne divenute madri, ma genera anche molti sensi di colpa tra quest’ultime (e non solo).
Fig. 2 – Una donna di Tokyo si appresta ad andare al lavoro in metropolitana, aprile 2020
IL WORKING PAPER DEL FONDO MONETARIO INTERNAZIONALE
Nel novembre 2019, poco prima dello scoppio della pandemia, è stato pubblicato un interessante working paper del Fondo Monetario Internazionale intitolato “Guilt, Gender, and Work-Life Balance in Japan: A Choice Experiment”. Gli autori, Chie Aoyagi e Alistair Munro, hanno cercato di quantificare alcuni aspetti relativi alla scelta di un posto di lavoro sia da un punto di vista maschile che femminile. Ne è emerso che le donne sarebbero molto piĂą propense a “cedere” parte del proprio salario pur di non dover effettuare trasferte o straordinari estenuanti. Ma non solo: il dato ancora piĂą indicativo di quanto le pressioni sociali impattano sulla partecipazione alla vita lavorativa delle donne giapponesi è che parte di questa maggiore propensione è data da sensi di colpa. Le donne lavoratrici finiscono per non sentirsi nĂ© brave madri, nĂ© brave lavoratrici. L’indicazione qui per i policymakers è chiara: le donne necessitano di un migliore work-life balance.
Completiamo quest’analisi con alcuni dati non tanto sull’occupazione femminile stricto sensu, ma sulla presenza delle donne in ruoli di vertice e di potere. Nel 2018 le donne rappresentavano circa il 10% dei membri del Parlamento, collocando il Giappone in fondo alla classifica dei Paesi del G20. Ciliegina sulla torta, la posizione del Paese secondo il Global Gender Gap Index del 2020: 121° posto su 153, in calo di 11 posizioni rispetto all’anno precedente.
La strada per una reale, concreta e duratura partecipazione delle donne alla vita lavorativa giapponese è ancora lunga. Il prossimo obiettivo significativo è nel 2030, quando si auspica che le donne in posizioni esecutive arrivi al 30% (ora i numeri sono inferiori al 10% in quasi tutte le più grandi aziende giapponesi). Questi erano inizialmente i desiderata di Shinzo Abe per il 2020: speriamo che la prossima volta sia quella buona.
Mara Cavalleri
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