Analisi – Il 27 novembre è stata approvata dalla Camera dei Rappresentanti una nuova e discussa legge sull’immigrazione, che aumenterebbe notevolmente il numero di ingressi di lavoratori stranieri per far fronte alla crisi demografica. La strategia del Governo nipponico per gestire quella che potrebbe essere un’autentica rivoluzione delle proprie politiche migratorie.
NON È UN PAESE PER GIOVANI
Come in Italia, anche in Giappone negli ultimi mesi il dibattito politico si è focalizzato molto sul tema dell’immigrazione. Nonostante i due Paesi abbiano in comune alcuni aspetti, primo fra tutti una popolazione che invecchia molto rapidamente e tassi di natalità bassi, le proposte governative su questo tema non potrebbero essere più diverse. Mentre in Italia si discute su come arginare e controllare il flusso migratorio, in Giappone è appena stata approvata una normativa che permetterà di accogliere lavoratori stranieri per sopperire alla mancanza di manodopera locale. Attualmente la popolazione giapponese over 65 è circa il 28%, ovvero il 12% della forza lavoro (in Italia è il 3%). L’aspettativa di vita è la più alta al mondo (84 anni) e al tempo stesso il saldo annuale tra decessi e nuovi nati è di 400mila persone: inutile dire che questa situazione demografica ha un impatto molto forte sulle finanze statali. Le politiche per favorire il lavoro femminile – soprattutto dopo la nascita dei figli – hanno portato a dei risultati, che tuttavia non sono minimamente sufficienti. Da ogni prefettura dell’arcipelago arrivano richieste di lavoratori soprattutto in agricoltura e assistenza alle persone. Il tasso di disoccupazione è del 2%, ovvero quasi nulla, cosa che contraddistingue nettamente la situazione giapponese da quella italiana (dove è circa del 10%). Considerato il contesto, risulta logico pensare di “importare” forza lavoro per arginare l’emergenza e sostenere la crescita economica.
Fig. 1 – Anziani a passeggio nel quartiere di Ginza a Tokyo. Si stima che questa fascia della popolazione spenda circa 9,7 trilioni di yen (87 miliardi di dollari) l’anno per i propri figli.
LA PROPOSTA DEL GOVERNO ABE
Dopo l’approvazione alla Camera Bassa della discussa proposta di legge sull’immigrazione, si attende a breve lo stesso esito anche presso la Camera dei Consiglieri, l’altro ramo della Dieta giapponese. O meglio, questo è l’intento del Governo di Shinzo Abe, che punta moltissimo sula legge per sciogliere il nodo della crisi demografica e avere così sufficiente forza lavoro per sostenere il suo ancor più ambizioso piano di crescita economica e “rinascita” della potenza giapponese.
La normativa introduce due tipi di visto: uno valido 5 anni e indirizzato ai lavoratori dei settori dove la carenza di personale è cronica, l’altro (che prevede anche il ricongiungimento familiare) vale per professionisti altamente specializzati. La questione della residenza permanente rimane pressoché invariata, ovvero bisogna dimostrare di aver vissuto almeno 10 anni nel Paese. In precedenza il visto era valido solo per 3 anni e riguardava il contratto con un solo datore di lavoro, peraltro non scelto dal lavoratore stesso. Chiaramente questo approccio ha fatto sì che i lavoratori stranieri venissero sottopagati o considerati di serie B rispetto ai colleghi giapponesi.
Secondo le stime dell’agenzia Kyodo News, la nuova legge permetterebbe l’arrivo nei prossimi 5 anni di almeno 345mila persone. Considerato il saldo tra decessi e nuovi nati, l’Economist ha sottolineato che un arrivo di 70mila lavoratori all’anno non risolve definitivamente il problema. Mentre il premier Abe vorrebbe che la legge fosse in vigore già da aprile 2019, le opposizioni non intendono rendergli la vita facile. La controproposta è quella di un ingresso più graduale di manodopera, accompagnata da opportune misure di accoglienza e inserimento nella società.
Fig. 2 – Manifestazioni di protesta a Tokyo contro la proposta di legge sull’immigrazione promossa dal Premier Abe, 14 ottobre 2018
“JAPAN FIRST”
In Giappone la popolazione straniera è di poco superiore all’1%. Questo dato, più che il risultato dell’applicazione di una legge, è il riassunto di un’impronta culturale, una mentalità insita nell’essere giapponese, che, proprio per questo, è difficile da scardinare. Chi è “Gaijin” è straniero, è esterno al Giappone, quindi non può appartenere a quel luogo e alla sua comunità. Il razzismo in Giappone ha radici molto lontane: basti pensare ai soprusi perpetrati non solo nei Paesi limitrofi e di conseguenza nei confronti di immigrati cinesi o coreani, ma anche verso minoranze etniche come gli Ainu o i Ryukyuniani ad opera dei giapponesi di etnia Yamato, considerati i discendenti del gruppo etnico nativo dominante dell’arcipelago nipponico. Di recente sui social network è tornata alla ribalta la questione dei diritti umani violati dei richiedenti asilo in Giappone. Sul profilo Twitter del Tokyo Immigration Bureau è stato pubblicato un post che mostrava dei graffiti su ponti e strade, dove la scritta è la medesima : «Free refugees». Sebbene l’intento del Bureau fosse quello, legittimo, di condannare il vandalismo, il focus si è spostato sulla condizione in cui versano i richiedenti asilo detenuti in strutture apposite. Carceri sovraffollate, isolamento, scarsità di cibo: queste è la realtà per migliaia di rifugiati in Giappone già denunciata più volte da ONG che si occupano della tutela dei diritti umani. Sono sempre più frequenti anche casi di suicidio nelle strutture d’accoglienza. Un numero esemplificativo: delle 19.629 richieste di asilo pervenuto nel 2017 ne sono state accolte solo 20.
Fig. 3 – Immigrati indonesiani al lavoro nella fabbrica Nakamoto Mfg di Oizumi, nella prefettura di Gunma
La questione dell’immigrazione in Giappone solleva molti più interrogativi di quello che sembra. Una cosa è chiamare dall’estero dei lavoratori per far fronte a un’emergenza nazionale, ben altra è accettarli all’interno di uno schema sociale tendenzialmente rigido che perdura da secoli.
Mara Cavalleri
Image by Jason Ortego from Jason Ortego