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Messico, le irrisolte contraddizioni di un gigante fragile

Il Messico è oggi la quattordicesima economia mondiale, eppure sembra non riuscire a risolvere le gravi contraddizioni interne, dovute anche a scelte economiche drastiche e a un rapporto con gli Stati Uniti non sempre vantaggioso, soprattutto per le fasce più povere della popolazione. Una ricognizione delle politiche degli ultimi decenni aiuta a capire meglio le ragioni della fragilità di un gigante. 

COSÌ VICINO AGLI STATI UNITI – Celebre è la riflessione del presidente messicano Porfirio Díaz (1876-1880, 1884-1911), che nei discorsi pubblici era solito definire il suo Paese, non senza una punta di disperazione, «così lontano da Dio e così vicino agli Stati Uniti». Se la distanza dal Regno dei Cieli non è misurabile con precisione, la prossimità agli Stati Uniti non è per il Messico solo un dato di fatto geografico, ma anche una evidente condizione storica dalle perduranti conseguenze politiche ed economiche. Non serve tornare al 1848, quando in seguito al conflitto messicano-statunitense il governo di Washington strappò al suo rivale sconfitto il Texas, gli attuali California, Arizona, Nuovo Messico e una parte di Utah, Colorado, Oklahoma e Kansas. È sufficiente fare un salto in avanti di quasi un secolo e mezzo ed analizzare fatti più recenti, che ben dimostrano quanto sia necessario addentrarsi nei nodi cruciali delle relazioni dirette e indirette con gli Stati Uniti per comprendere il Messico odierno, prestando particolare attenzione alle interdipendenze economiche da cui sono scaturiti effetti talvolta positivi, talaltra drammatici.

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Foto 1 – Tratto di confine tra Messico e Stati Uniti 

LE POLITICHE ECONOMICHE DOPO LA CRISI DEL DEBITO – Dalla fine degli anni Settanta il Messico ha impresso una drastica svolta alla sua politica economica. Al protezionismo commerciale e alla forte presenza del settore pubblico nei settori ritenuti strategici (in particolare agricolo, energetico ed industriale) iniziati con la presidenza di Lázaro Cárdenas del Río (1934-1940) e continuati per almeno un trentennio, ha fatto seguito una strategia dalla forte impronta liberista. Un punto di non ritorno è stata la crisi debitoria del 1982, in seguito alla quale il Fondo Monetario Internazionale, la Banca Mondiale e il Tesoro americano (espressione del cosiddetto Washington Consensus) hanno imposto al governo messicano la riduzione della spesa pubblica per contenere il debito, alti tassi d’interesse per frenare l’inflazione attraverso il controllo della quantità di moneta e maggiore apertura commerciale per far giungere valuta estera al fine di riuscire a rispettare le scadenze dei pagamenti, contratti in dollari. I risultati sono stati meno positivi del previsto: da una crescita dell’8-9 % del periodo pre-liberista (in parte ottenuta grazie all’impennata del prezzo del petrolio), si è passati, nel 1990, a un aumento del reddito monetario pari ad appena lo 0,7 % (e a un decremento reale dell’1,6). Nonostante ciò, la svolta liberista non si è attenuata e con la presidenza di Carlos Salinas (1988-1994) ha visto un’ulteriore accelerazione: il settore bancario è stato privatizzato, i controlli sui cambi aboliti e il tasso di svalutazione rispetto al dollaro dimezzato. L’obiettivo, in buona parte raggiunto, era di rendere il Messico un mercato appetibile soprattutto per gli investimenti esteri. La volatilità dei cambi ha però scatenato un’ulteriore crisi, datata 1994, che in soli due anni ha fatto crollare il Pil reale del 6,2%. La soluzione alla recessione è stata però perseguita ancora dal lato dell’offerta: attraverso l’ulteriore svalutazione del peso la competitività delle esportazioni è aumentata, ma la conseguente inflazione è stata contenuta perlopiù attraverso le politiche di restrizione fiscale e di controllo della domanda interna.

L’ADESIONE AL NAFTA – Nel 1994 il Messico ha aderito al NAFTA (North American Free Trade Agreement), un importante accordo di libero scambio con gli Stati Uniti e il Canada. È stato questo il passo che ha definitivamente consacrato la sua politica di apertura commerciale, accelerando un processo di integrazione regionale che ha ulteriormente accresciuto il ruolo degli Stati Uniti. Oltre l’80% delle esportazioni messicane (rappresentate perlopiù da petrolio e derivati, caffè, prodotti ortofrutticoli, metalli, motori e parti di ricambio per autoveicoli) sono infatti oggi dirette verso i vicini americani. Se si aggiunge che il reddito complessivo del Messico dipende per quasi il 40% dalle esportazioni, ben si capisce quanto il destino del gigante centroamericano sia legato a quello degli Stati Uniti, in un rapporto che i secoli sembrano aver mutato solo nella forma. In ogni caso, il nuovo millennio ha portato al Messico una buona stabilità economica che gli permette di studiare con profitto da grande potenza, potendo vantare la quattordicesima economia mondiale e un ruolo di rilevo nel G20. I fantasmi del passato non sono però stati sconfitti e il confine con gli Stati Uniti rimane il nodo cruciale di molte delle contraddizioni ancora irrisolte.

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Foto 2 – Peña Neto in visita negli Stati Uniti lo scorso luglio

UN CONFINE CHE DIVIDE – Con il dispiegamento degli effetti del NAFTA sono molto cresciute di numero e di fatturato le cosiddette imprese maquiladoras, nate alla fine degli anni Sessanta con lo scopo di ridurre la disoccupazione nel Messico del Nord, storicamente il più povero. Si tratta di aziende localizzate in Messico ma di proprietà perlopiù statunitense, che assemblano o trasformano i pezzi importati per poi riesportarli al mittente, il tutto in regime di duty free ed esenzione fiscale. Troppo spesso dietro questo ping-pong commerciale si nasconde, tuttavia, il più bieco sfruttamento. La convenienza delle imprese sta infatti nel potere usufruire del basso costo del lavoro messicano e di norme ambientali meno rigide, che permettono un vistoso risparmio sul costo complessivo del prodotto finito. I dati dicono che oltre il 50% delle esportazioni messicane segue tale procedura e con l’attuale presidenza di Peña Nieto la questione non solo non è stata risolta, ma nemmeno affrontata, se non attraverso la consueta repressione del malcontento. Le maquiladoras diventano quindi un esempio paradigmatico che ben spiega il triste primato dei recenti governi messicani, poco attenti alle disuguaglianze sociali e incapaci, nonostante la continua crescita economica dell’ultimo ventennio, di ridurre l’indice di Gini (che misura proprio il livello della disuguaglianza), ancora tra i più alti del continente. La sperequazione distributiva contribuisce anche al triste fenomeno delle emigrazioni irregolari verso gli Stati Uniti che, seppur in lieve diminuzione, nel 2014 hanno coinvolto 5,8 milioni di messicani.

I PASSI DA COMPIERE – Il Messico di oggi offre una buona rappresentazione degli effetti che possono scaturire da una politica economica di drastica liberalizzazione commerciale e finanziaria. Da un lato una crescita trainata perlopiù dalle esportazioni e dagli investimenti esteri, talvolta poco trasparenti, dall’altro una ricchezza che fatica a coinvolgere tutte le classi sociali, soprattutto a causa della deregolamentazione del mercato del lavoro, utile ad attrarre capitali esteri. Sembra che il Messico, se davvero aspira ad entrare stabilmente e con credibilità nell’arena delle grandi potenze mondiali, debba compiere ancora molti passi in avanti non solo nella cruciale lotta alla corruzione e al malaffare, ma anche nel tanto complicato quanto necessario processo di redistribuzione della ricchezza. Il presidente Peña Neto sembra però ben poco intenzionato a cambiare marcia, guardando forse troppo agli Stati Uniti e troppo poco al di sotto dell’Equatore.

Riccardo Evangelista

[box type=”shadow” align=”” class=”” width=””]Un chicco in più

Uno degli episodi recenti che rappresentano il tipo di relazione tra Stati Uniti e Messico riguarda una della voci più dissacranti dell’arena politica odierna, quella di Donald Trump. Da almeno un anno a questa parte il candidato repubblicano alla presidenza continua a dichiarare che, in caso di elezione, costruirebbe un muro al confine col Messico per impedire l’emigrazione clandestina e obbligherebbe i messicani a pagarlo.[/box]

Foto di copertina di lazha Rilasciata su Flickr con licenza Attribution-NoDerivs License

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Riccardo Evangelista
Riccardo Evangelista

Sono nato nel 1987 in provincia di Frosinone. Dopo una laurea triennale in Scienze Politiche e una magistrale in Sviluppo e Cooperazione, a inizio 2016 ho conseguito il dottorato di ricerca in Sviluppo economico: analisi, politiche e teorie presso l’Università di Macerata. Mi interesso disordinatamente di politica economica, storia dell’economia e teorie dello sviluppo. La mia passione per l’America Latina nasce identificandola con un sogno, troppo spesso infranto: quello di un mondo più giusto. Io, comunque, continuo a crederci. Tra gli hobby vanno annoverati la lettura, un attento apprezzamento per il cibo e una certa morbosità per il gioco del calcio (in televisione).

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