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Gli indigeni Waorani e l’oro nero in Ecuador

Storie Nell’Amazzonia occidentale ecuadoriana l’arrivo dell’uomo bianco ha rotto l’equilibrio tra natura e comunità indigene, lasciando quest’ultime tra il mondo moderno e quello ancestrale. Il racconto di una protagonista, in viaggio presso i Waorani

WAORANI, GLI INCONTRI IN AMAZZONIA

La prima uscita sul campo per il progetto è con un gruppo di Waorani. Dobbiamo dargli un passaggio per raggiungere la loro casa. Bisogna attraversare il ponte, da El Coca entrare nella Via Auca e percorrerla finché non finisce. Da lì i Waorani proseguono in canoa fino alla loro comunità. Partiamo da dove alloggiano a El Coca, una semplice casa di legno vicino al fiume Payamino. Dal finestrino della macchina mi presento a uno di loro stringendogli la mano e noto subito che gli mancano due dita. Chiedo ad Adrian chi è e cosa gli è successo alla mano. Si chiama Penti, un Waorani famoso per portare avanti la lotta contro l’estrazione petrolifera e la contaminazione ambientale a favore della difesa dei diritti delle comunità indigene amazzoniche. Mi dice che su Youtube posso trovare tanti video con lui e su di lui.A questo punto mi immagino che abbia perso le dita in una lotta a colpi di lancia, ma Adrian mi racconta che da piccolo è stato morso da un serpente velenoso e gliele hanno dovute amputare.

In macchina entrano due ragazzi, una ragazza e le sue due piccole figlie. Tra di loro parlano in Wao, penso che le bambine non sappiano ancora lo spagnolo. Dopo una mezz’ora a girovagare per la città sale in macchina un ragazzo che lavora per il governo, se non ricordo male per il Ministero dell’Ambiente. Diamo quindi un passaggio anche a lui. Mi accorgo inoltre che seduti nel cassone del pick up ci sono altri due ragazzi Wao con un cagnolino senza un occhio. La ragazza mi dice che è il cane della comunità e che sa cacciare benissimo.

Fig. 1 – Preparando le canoe. Foto di Viola Graldi 

LE PETROLERAS DI DAYUMA

Durante il viaggio veniamo fermati da un gruppo di persone che bloccano l’ingresso a Dayuma: ecco il mio primo sciopero. Dayuma è una cittadina sulla via Auca e, come El Coca, anche questa è nata con i soldi del petrolio e per il petrolio. Gran parte delle persone che vivono a Dayuma lavora per le compagnie petrolifere. Davanti a me ci sono decine di uomini in mezzo alla strada con una lancia in mano. Alcuni di loro sono vestiti da indigeni: a torso nudo con collane di semi, corpo e volto pitturati di rosso, in testa corone piumate. Chiedo ai miei compagni di viaggio cosa sta succedendo. La risposta è di quelle che lasciano sgomento e tante domande in testa. Quasi tutti i lavoratori delle petroleras non sono autoctoni dell’Amazzonia. Le compagnie li scelgono strategicamente della sierra o della costa perché la probabilità che creino problemi, come scioperi o manifestazioni, è molto bassa non essendo del posto. Gli uomini in sciopero davanti a me sono colónos e indigeni che reclamano i loro diritti: lavorare dentro ai pozzi e avere gli stessi diritti degli altri lavoratori. Capisco e appoggio le loro richieste, ma quello che ho di fronte mi sembra assurdo. Vogliono lavorare per chi ha invaso i loro territori? Per chi ogni giorno contamina le loro acque? In altre parole, vogliono aiutare a distruggere la loro casa? Come si è arrivati a questo punto?

Fig. 2 – Un anziano Waorani. Foto di Viola Graldi

QUANDO IL PETROLIO ROVINA E SOSTIENE

La risposta l’ho avuta qualche settimana dopo quando ho sentito dire “Il petrolio è un problema ma purtroppo è anche una necessità”. I manifestanti non vogliono farci passare e guardandomi perplessi mi chiedono “extranjera petrolera?”. Poi riconoscono i miei colleghi che da sempre li aiutano nelle loro lotte e necessità. Fanno due chiacchiere, Washo scende e intervista un indigeno Shuar ‘vestito da Shuar’. In macchina mi spiegano che in realtà non si vestono più così, è solo un modo per attirare l’attenzione durante lo sciopero e che ormai le culture ancestrali di questi territori si stanno perdendo.

Il viaggio prosegue e io faccio qualche domanda al gruppo Wao. Vivono in mezzo alla foresta dentro a un blocco petrolifero nell’area del parco nazionale Yasunì. Ci sono tanti bambini nella comunità che vanno a scuola in canoa e le donne producono gioielli e altri pezzi di artigianato che vendono ai pochi turisti che passano per di lì. Cacciano ancora, mangiano carne di scimmia e di tartaruga, ma circa una volta al mese vanno a El Coca per comprare altro cibo. Ecco perché erano in città. Quando arriviamo alla fine della strada iniziano a scaricare dalla macchina gli acquisti che caricano poi sulle canoe: diversi sacchi di riso e mais e tantissime bottigliette di coca cola. Ci sono anche degli anziani Waorani vicino alle canoe. Non parlano spagnolo, camminano scalzi, i loro volti sono scavati dalle rughe, hanno enormi dilatatori di legno nei lobi delle orecchie e dai colli delle donne pendono bellissime collane colorate. Però tutti indossano malmessi vestiti ‘occidentali’. I più giovani hanno in mano uno smartphone che però non possono usare perché nella foresta non c’è quasi mai segnale. E i bambini mangiano dolcissime caramelle comprate in città. Guardo tutto ciò incredula dall’ombra di una parete. Che cosa è successo a queste comunità? Perché devono andare in città per comprare del cibo? Non basta quello che gli offre la foresta? Perché mangiano come noi e bevono coca cola? Perché i giovani non indossano ornamenti indigeni? Cerco di rispondere a queste domande discutendone con Washo e Adrian.

Con l’arrivo dell’uomo bianco – petroleros, madereros illegales e evangelizzatori – è iniziato per gli Waorani e gli altri gruppi indigeni un processo di civilizzazione che li ha lasciati però a metà tra due mondi, quello ancestrale e quello occidentale. Ha senso tornare indietro? Si deve guardare avanti? Se sì, come? Per ora si può dire che questi popoli indigeni non stanno beneficiando in alcun modo dell’estrazione petrolifera. Anzi, ne subiscono i disastri ambientali e l’emarginazione dal resto della società davanti all’indifferenza dell Stato e della società ecuatoriana. Mentre parliamo mi accorgo che le canoe sono piene. Una ragazza si avvicina per chiedermi se voglio comprare dei gioielli, ma purtroppo non ho soldi. Poi arrivano altri Wao. Ci salutano, ci ringraziano e mi dicono che ci vuole più di un giorno di canoa per raggiungere la loro comunità. E noi torniamo verso El Coca, lasciandoci alle spalle la foresta e le sue persone.

Viola Graldi

[box type=”shadow” align=”aligncenter” class=”” width=””] Un chicco in più

Per saperne di più sulla suddivisione del territorio amazzonico tra comunità e compagnie petrolifere clicca qui  [/box]

Foto di copertina di morpholux Licenza: Attribution-NoDerivs License

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Viola Graldi
Viola Graldi

Classe 1992. Viaggiatrice fin da piccola e sempre curiosa di conoscere ciò che mi circonda. Conseguo la laurea triennale in Scienze Internazionali e Diplomatiche all’Università di Bologna, studiando l’ultimo semestre nella coloratissima Lisbona. Da lì nasce la mia passione per il portoghese e per l’energia latino americana che si respira per le ruas lisboetas.  Volendo continuare a studiare oltre confine, atterro in Olanda per un Master in Politica Economica Internazionale all’Università di Groningen, durante il quale torno nella capitale lusitana per un tirocinio in diplomazia economica. Terminati tirocinio e tesi (sulla microfinanza in Bolivia) io e il mio zaino partiamo per un viaggio indimenticabile in America Latina. Ritorno in Europa, precisamente ad Amburgo per un tirocinio formativo e stimolante in politiche ambientali e energie rinnovabili. Caso (e desiderio) vuole che adesso sia tornata in America Latina per un anno di servizio civile nell’affascinante amazzonia ecuadoriana, ora protagonista dei miei racconti
scritti sorseggiando un buon caffè!

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