Per il Giappone la Belt and Road Initiative rappresenta un dilemma. Deve essere ostacolata in quanto proiezione delle ambizioni egemoniche cinesi oppure può favorire il business delle aziende giapponesi nelle medesime aree d’interesse? E soprattutto: vista la “virata protezionistica” di Trump, il Giappone ha la forza di contrastarla da solo?
NUOVA VIA DELLA SETA: UN BILANCIO DEL 2017
Che piaccia oppure no, nessun Paese dell’area asiatica e nessuna tra le economie più avanzate del pianeta può rimanere indifferente a questo progetto grandioso e non sentirsi in qualche modo coinvolto. Pensiamo ad esempio al Regno Unito, che poco dopo la Brexit si è premurato di assicurare a Pechino la volontà di cooperare con il progetto della Belt and Road Initiative (BRI) e, più in generale, di instaurare una proficua relazione economica nel lungo periodo. Esattamente con questo intento, il Cancelliere dello Scacchiere Philip Hammond ha incontrato il 15 dicembre scorso il Primo Ministro Cinese Li Keqiang. Il succo del discorso è che gli scambi commerciali tra i due Paesi non devono essere influenzati in alcun modo dalla questione Brexit.
Al di là di questioni politiche, rimane il fatto che la Nuova Via della Seta è in primo luogo un progetto infrastrutturale volto a favorire e aumentare il traffico delle merci tra due aree continentali (Europa e Asia, coinvolgendo anche l’Africa), quindi l’attrattiva sotto il profilo economico è indubbia. I numeri infatti sono in continuo aumento: tra gennaio e settembre 2017 il commercio tra la Cina e i Paesi partecipanti alla BRI è aumentato del 15% rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente, per un valore complessivo di 786 miliardi di dollari. L’anno scorso i treni merci hanno percorso la tratta Cina-Europa ben 3.270 volte e nel 2018 con ogni probabilità la cifra salirà a più di 4mila. Anche l’Italia sta facendo la sua parte: a fine novembre è partito da Mortara il primo treno diretto a Chengdu carico di manufatti Made in Italy, dai macchinari ai prodotti alimentari. Del resto, tra gennaio e ottobre 2017 l’export italiano verso la Cina è aumentato del 24,2%.
Parallelamente non possono che crescere i timori per un’eccessiva espansione dell’influenza politico-strategica di Pechino, soprattutto nei Paesi limitrofi. Questo ha portato in certi casi a dei ritardi o alla parziale incrinatura della partnership, come è successo in Pakistan (uno dei più fedeli vicini) a proposito dei progetti per la diga Diamer-Bhasha: l’autorità pakistana per la gestione delle acque ha voluto escluderla dal Corridoio Economico Cina-Pakistan (CPEC) poiché le autorità cinesi intendevano detenerne la proprietà. Episodi simili sono accaduti anche in Myanmar e in Nepal. La BRI appare dunque problematica e non sempre conveniente per i Paesi coinvolti.
Fig. 1 – Alcuni giornalisti attendono l’uscita dei leader invitati al Belt and Road Forum di Pechino del maggio 2017
IL PUNTO DI VISTA GIAPPONESE
Nei mesi scorsi Tokyo ha cercato alleati nel tentativo di contrastare la BRI, partendo dalla consolidata partnership con gli USA e sondando il terreno tra chi diffida dai grandiosi progetti di Pechino, in primis l’India. Durante la visita a Tokyo del Presidente Trump lo scorso novembre, sono stati firmati tra i due Paesi degli accordi di collaborazione per il finanziamento di opere infrastrutturali nell’area indo-pacifica; con l’India invece era stato inaugurato nel 2016 l’Africa-Asia Growth Corridor, con il preciso scopo di offrire agli interlocutori africani un’alternativa alla “generosità” cinese. Per questo scopo il Giappone ha sempre fatto leva sulla maggiore qualità e affidabilità sia delle strutture (puntando sul grado di innovazione tecnologica e il rispetto per l’ambiente) che degli investimenti (quindi sulla trasparenza).
Ciononostante, Tokyo si trova ora in una posizione problematica. Gli Stati Uniti non solo sembrano essersi parzialmente disimpegnati dall’arena internazionale, ma continuano anche a promuovere misure protezionistiche piuttosto che il libero scambio, andando così nella direzione opposta rispetto agli interessi del Giappone. È notizia recente infatti che gli USA hanno introdotto dei dazi doganali sulle importazioni di beni come lavatrici e pannelli solari da Paesi asiatici come la Corea del Sud e la Cina. Al contrario, proprio in occasione del World Economic Forum di Davos, il Primo Ministro canadese Justin Trudeau ha annunciato il raggiungimento dell’accordo per il Comprehensive and Progressive Agreement for Trans-Pacific Partnership (leggi TPP senza USA), di cui il Giappone è il principale promotore. Stesso luogo stessa ora, il Premier indiano Narendra Modi ha eletto il protezionismo come una delle 3 grandi sfide della civiltà assieme al terrorismo e al cambiamento climatico. Cosa può fare dunque il Giappone, di fatto lasciato solo da Washington sui temi economico-commerciali e senza le disponibilità finanziarie di cui la Cina dispone? Le tendenze nazionaliste del Premier Shinzo Abe sono ben note, ma è anche un leader pragmatico: è probabile dunque che non consideri saggio starsene in disparte e attendere. Verosimilmente, la strategia nel medio periodo è quella di mantenersi “vicino al nemico” e tendere la mano poiché non è questo il tempo di uno scontro diretto con la Cina. Infatti, la stabilità nella regione è attualmente un obiettivo prioritario.
Sotto questa lente può essere visto l’invito di Abe a collaborare insieme alla Cina per la realizzazione di quattro progetti in Africa già rientranti nella BRI. Tra questi c’è il cosiddetto “Growth Ring” ovvero 4200 km di strada che uniscono tra loro Costa d’Avorio, Burkina Faso, Ghana, Benin e Nigeria occidentale. Certamente Cina e Giappone sono accomunati dal grande interesse verso un enorme potenziale mercato, ma queste considerazioni non possono prescindere dalle condizioni geopolitiche in cui si trova la loro regione.
Fig. 2 – Una delle poche strette di mano tra Shinzo Abe e Xi Jinping al G20 di Hangzhou del settembre 2016
MISSILI, MISSILI OVUNQUE
È piuttosto difficile per il Sol Levante pensare di costruire dei ponti con la Cina quando si susseguono notizie sul costante incremento degli investimenti militari voluto da Pechino e sul successo dei test cinesi di armi di nuova generazione. Per entrambi i Paesi la principale minaccia armata proviene attualmente da Pyongyang, ma il fatto di avere in comune la volontà di evitare l’evoluzione delle tensioni con la Corea del Nord in un vero e proprio conflitto non rende necessariamente Cina e Giappone degli amici. Tokyo e Pechino sono perfettamente consapevoli che le loro antiche rivalità fomentate dalle reciproche rivendicazioni territoriali rimangono sempre poco al di sotto della superficie, pronte a riemergere una volta venute meno queste circostanze eccezionali.
All’inizio dell’anno il People’s Liberation Army Daily (il giornale ufficiale delle forze armate cinesi) ha rivelato delle immagini relative ad un nuovo missile, il DF-16, che può trasportare delle testate nucleari e raggiungere una distanza di circa 625 miglia, ovvero corrispondente a quella delle isole del Giappone, di Taiwan e delle Filippine. La crescente capacità militare cinese è stata lodata dal Presidente Xi Jinping in un discorso alle truppe all’inizio dell’anno: “In passato avevamo più spirito che acciaio. Ora abbiamo un equipaggiamento ottimale, per questo abbiamo bisogno di essere ancora più forti e risoluti per utilizzarlo”. Non va dimenticato che la Cina detiene uno dei più potenti missili intercontinentali al mondo: il DF-41 testato lo scorso anno ha una portata di 12mila miglia ed è quindi in grado di raggiungere Stati Uniti, Russia e d Europa.
Il Giappone non è nelle condizioni di poter soprassedere. Nel dicembre scorso è stato approvato un budget per la difesa a livelli record: 46 miliardi di dollari, in aumento rispetto all’anno precedente. Al di là delle polemiche relative alla costituzionalità della manovra, rimane il fatto che il livello di militarizzazione dell’Asia orientale continua a salire. Il vero punto d’incontro tra Cina e Giappone potrebbe dunque essere quello di cooperare non tanto per iniziative infrastrutturali (di cui, tra l’altro, beneficerebbero anche le imprese giapponesi con fabbriche in Cina) ma per tenere sotto controllo la crisi nordcoreana e preservare un seppur instabile equilibrio regionale.
Fig. 3 – L’esercito cinese fa sfoggio dei suoi missili a lungo raggio DF-31A durante una parata militare a Pechino nel 2015
Mara Cavalleri
[box type=”shadow” align=”aligncenter” class=”” width=””]Un chicco in più
Che piaccia oppure no, la Belt and Road Initiative è un progetto che difficilmente scomparirà. Il fatto che sia stata inserita nella costituzione cinese in occasione del 19° Congresso del Partito Comunista lascia intendere come il tracciato sia già stato segnato. L’aspetto più aneddotico è che Pechino non intende limitarsi ai progetti già in corso, ma vuole letteralmente espandersi in due spazi di vitale importanza in una prospettiva futura: l’Artico, divenuto navigabile in certi periodi dell’anno a causa dello scioglimento dei ghiacci, e l’etere. Il fatto che le grandi imprese monopoliste del digitale come Facebook, Google e Amazon siano sostanzialmente bandite sul territorio cinese non deve indurre a credere che non vi sia interesse da parte del PCC per lo sviluppo degli e-commerce e ancor più del data-mining. Considerate queste premesse, sarà sempre più difficile per il Giappone convivere con un vicino così sicuro di sé. [/box]
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