Analisi – L’Iran è alle prese con grandi proteste popolari all’indomani della morte di una giovane donna arrestata dalla polizia morale. Ma le radici profonde dello scontento popolare sono riconducibili a problemi strutturali della Repubblica Islamica.
LA MORTE DI MAHSA AMINI
Il 16 settembre, in un ospedale di Teheran, una ragazza muore dopo tre giorni in coma. Si chiama Mahsa Amini, ha 22 anni e proviene da Saqqez, una città del Kurdistan iraniano. Era giunta a Teheran con la sua famiglia, ma era stata arrestata poco dopo il suo arrivo, il 13 settembre, dalla polizia religiosa, accusata di non aver indossato il velo come prescritto dalle rigide regole imposte dal Governo. Le Autorità attribuiscono la sua morte a cause naturali, ma presto emergono testimoni che parlavano di un pestaggio e che al momento della morte la giovane riportava gravi lesioni alla testa. La notizia si è diffusa rapidamente sui social media e i primi gruppi di manifestanti si sono riuniti già il giorno stesso davanti all’ospedale in cui era ricoverata la ragazza. Il giorno successivo, ai funerali, alcune donne hanno iniziato a rimuovere l’hijab in segno di protesta. In pochi giorni sono esplose manifestazioni in diverse città del Paese, con slogan che attaccano la polizia religiosa e le leggi che regolano l’abbigliamento femminile, inasprite a metà agosto dal Governo dell’ultraconservatore Raisi.
Embed from Getty ImagesFig. 1 – Una manifestazione tenuta a Venezia in supporto delle proteste iraniane per la morte di Mahsa Amini
LO SCONTENTO POPOLARE
Le proteste scatenate dalla morte di Mahsa Amini sono le più grandi dal 2019, quando un incremento vertiginoso del prezzo del carburante provocò manifestazioni alle quali parteciparono circa 200mila persone e che furono represse nel sangue da parte delle Autorità iraniane. Le proteste odierne si contraddistinguono per una forte componente incentrata sull’emancipazione femminile: molte donne si strappano l’hijab, lo bruciano, si tagliano i capelli per protestare contro l’oppressione della donna nella società iraniana. Ma oggi come allora sono insistenti gli slogan che criticano duramente l’intero establishment, a partire dalla Guida suprema stessa. Ali Khamenei è descritto come un dittatore, le sue forze di polizia lo strumento che usa per opprimere il Paese. C’è una continuità tra queste proteste, in quanto il sostrato che le caratterizza è quello di una popolazione colpita duramente dalla crisi economica e sempre più stanca delle restrizioni alle proprie libertà personali, all’accesso a servizi essenziali e al contatto con il mondo esterno. La profonda corruzione e il clientelismo che dominano la politica iraniana hanno creato un abisso tra il Governo e il popolo, che non si riconosce nell’establishment, come testimoniato i dati di affluenza alle urne delle scorse elezioni (48,8%) – la più bassa di sempre nella Repubblica Islamica.
Embed from Getty ImagesFig. 2 – L’attuale Presidente iraniano Ebrahim Raisi durante una cerimonia al parlamento iraniano nel 2021
LA REAZIONE DEL REGIME
Nel tentativo di arginare le proteste il Governo ha limitato l’accesso a internet nel Paese e le forze dell’ordine hanno attaccato con violenza i manifestanti. Dopo due settimane, Human Rights Watch riporta che almeno 83 persone sono state uccise durante le manifestazioni. Ma alcuni difensori dei diritti umani hanno affermato che le proteste sono così veementi perché gli iraniani “non hanno più nulla da perdere”. Il Paese è isolato da gran parte del mondo a causa delle sanzioni, e la speranza che un rinnovato accordo sul nucleare possa allentarne la stretta si sta progressivamente dissipando, visto anche il rifiuto dell’Amministrazione Raisi di partecipare costruttivamente ai negoziati. Il popolo iraniano ha smesso di credere che il sistema sia capace di cambiare le cose. Raisi ha promesso di indagare le cause della morte di Mahsa Amini. Ma il Governo ha già scelto, come di consueto, di rispondere alle proteste con la repressione, di supportare incondizionatamente le forze dell’ordine e di accusare Stati stranieri ostili di fomentare il dissenso all’interno del Paese. Non è certo se queste proteste saranno in grado di destabilizzare in modo decisivo il regime, ma portano alla luce problemi strutturali dell’establishment iraniano, che non potranno essere veramente risolti senza un cambiamento decisivo nell’ordine delle cose – dall’alto, o dal basso.
Embed from Getty ImagesFig. 3 – Una manifestazione di protesta a sostegno delle donne in Iran ad Istanbul il 2 ottobre 2022
‘AND YET IT SURVIVES’
Nel giugno del 2021 il New York Times scriveva: “Iran’s System Keeps Its Grip, Despite the Chaos (or Because of It)“, perché nonostante le proteste che si susseguono e il malcontento popolare, questa volta tinto di rosa, il regime continua a resistere e a godere dell’appoggio dell’élite militare e della burocrazia amministrativa, epurate da ogni tipo di opposizione. Un Governo nato in seguito a una forte rivoluzione sociale di cui forse nessuno ricorda più il significato, che di fatto ha ribaltato il vecchio ordine senza però riuscire a svolgere una reale funzione statale a vantaggio della società. Il processo rivoluzionario ha esteso il proprio controllo a tutti i livelli del Paese, riducendo i rischi di un reale capovolgimento del regime, legittimato quindi ad usare la forza contro i dissidenti, come dimostrano le repressioni contro le proteste. E anche se il sistema apre il proprio spazio a diverse fazioni al suo interno, tutte rimangono ancorate alla preservazione dello status quo e maggiori sono le minacce, esterne o interne, più questo sembra permettere alle Istituzioni di assumere posizioni di rigidità prive di forme di larga legittimazione. Un concetto che sembra essere valido per molti regimi, come il caso siriano dimostra. Ma il dissenso e le instabilità permangono e queste proteste ne sono l’ennesimo segnale.
Allegra Wirmer, Altea Pericoli
“Solidarity with Iranian Protests” by matt hrkac is licensed under CC BY