Analisi – A fine 2020 la Cina sembra essere l’unico motore dell’economia globale ancora in funzione, avendo contenuto la Covid-19 e firmato il RCEP, che mette Pechino al centro di un nuovo sistema asiatico di libero scambio. Ma la “wolf warrior diplomacy” irrita molti Paesi, mentre le incongruenze nella narrativa della leadership cinese stridono con il suo status conclamato di grande potenza mondiale.
PECHINO “MOTORE DEL MONDO”
La Cina cresce inarrestabile proiettata nel 2021, proprio mentre la World Bank prevede un recupero importante della domanda globale, con le imprese cinesi in prima linea per soddisfarla. Al netto delle considerazioni politiche, Pechino sostiene la crescita economica globale in un periodo difficile come quello dell’epidemia di Covid-19. Tuttavia, la crescita cinese è anche un dilemma per i partner internazionali.
L’epidemia ha reso molti Paesi improvvisamente dipendenti dalla Cina (partner economico, ma anche, secondo la Commissione Europea, rivale sistemico autoritario) sia per forniture mediche che per informazioni sul virus, anche se la rapidità e completezza delle stesse è ancora oggetto di dibattito. Inoltre la contrazione del commercio USA-UE, principalmente dovuta alle scelte dell’Amministrazione Trump, ha spinto ulteriormente Bruxelles verso Pechino, oggi primo partner commerciale dell’UE. Sullo sfondo l’insuccesso dei Paesi occidentali – e di riflesso dei sistemi democratici – nel contenere la seconda ondata dell’epidemia: uno smacco all’ordine liberale occidentale, di fronte al contenimento cinese del virus attraverso metodi che vanno dal blocco degli spostamenti interni e esteri fino al geotracking obbligatorio, dal blocco di alcune importazioni alla detenzione di giornalisti.
Ma l’ottima salute dell’economia cinese non è solo dovuta a tali controverse misure di contenimento, né alle iniezioni di liquidità e agli sgravi fiscali messi in atto dal Governo. Il tessuto industriale cinese è semplicemente solido, perché basato su un’industria privata innovativa che offre trattamenti competitivi per talenti esteri e assorbe buona parte di quelli formati in patria, alimentando l’innovazione in tutti i settori chiave: dall’IA al biotech, alle telecomunicazioni. La sola Cina produce già quasi ogni sorta di bene e tecnologia, con qualità sempre maggiore e poche lacune (come i microchip o le turbine jet), che saranno presto colmate. Infine la preesistente infrastruttura online ha permesso un rapidissimo adattamento al lavoro a distanza e l’economia cashless ha ridotto sensibilmente l’impatto della Covid-19 sulle transazioni.
Fig. 1 – Anche a Hong Kong, nonostante una certa ripresa di contagi da Covid-19, i centri commerciali sono brulicanti di clienti che indossano le mascherine e mantengono la distanza sociale (dicembre 2020). In Cina i consumi hanno rallentato poco e sono già ripartiti con slancio
UE E USA VS. CINA
L’eredità di Trump, che ha scardinato la “cauta” China policy dell’era Obama, passa a Joe Biden assieme a una percezione chiaramente negativa della Cina da parte dell’opinione pubblica statunitense. Lo stesso Biden in campagna elettorale ha definito Xi Jinping un “gangster”, il tutto mentre la diplomazia americana resta ancora senza Ambasciatore a Pechino dopo le dimissioni di Branstad lo scorso 4 ottobre, ed è difficile immaginare che Washington si rimangi le affermazioni di Mike Pompeo, il quale ha sostanzialmente definito illegittimo il Governo del PCC nel suo discorso alla Nixon Library. Biden potrebbe aprire cautamente a una stabilizzazione delle relazioni bilaterali, ma non senza importanti concessioni da parte di Pechino dal punto di vista, ad esempio, della reciprocità in termini di commercio, proprietà intellettuale, tutela degli investitori e delle imprese estere. Ma la gravità economica esercitata da Pechino, che con il recente Regional Comprehensive Economic Partnership (RCEP) riafferma la natura sino-centrica dell’Asia, non lascia presagire concessioni sostanziali da parte di un gigante che, in corsa per diventare prima economia e superpotenza mondiale, non sembra razionalmente incentivato ad aprirsi e regolarsi in modo sostanziale per accomodare i partner internazionali.
Il RCEP è un trionfo cinese e un’opportunità anche per il nostro Paese. Ma non è un “game changer”: un accordo importante per le economie che aggrega (30% del PIL mondiale), ma anche una roadmap costruita su dazi già abbassati dai precedenti accordi presi principalmente in seno al WTO. Certamente, a dispetto dell’assenza dell’India, è una vittoria d’immagine che riafferma la primazia cinese sull’ASEAN dopo il ritiro americano dal TPP, soprattutto con l’inclusione dell’Australia nonostante le tensioni politiche correnti. Non ci si può tuttavia aspettare che la creazione di questa nuova FTA spinga l’UE a un compromesso nel negoziato per l’accordo Cina-UE sugli investimenti. Infatti il RCEP non include gli elementi “chiave” del TPP, cioè le norme e il meccanismo di dispute settlement connessi al trasferimento tecnologico e ai diritti dei lavoratori, due aspetti su cui la Cina ha sempre continuato a fare resistenza. Constatare l’assenza del dossier “diritti” dal RCEP è una chiave importante per comprendere le conseguenze del vuoto di leadership americana in Asia.
Fig. 2 – Al vertice ASEAN “online” di Hanoi il premier vietnamita Nguyen Xuan Phuc celebra la firma della Regional Comprehensive Economic Partnership (RCEP), 15 novembre 2020
PRETESE E INCONGRUENZE
La wolf warrior diplomacy difende il Partito Comunista Cinese con veemenza, ricorrendo sistematicamente al “blastaggio” pubblico e persino alle fake news. Ma l’influenza economica di Pechino trascende la retorica e si traduce in pressione politica che spinge al silenzio assenso su pratiche cinesi che potrebbero violare i diritti umani così come sono concepiti nelle convenzioni di cui la Cina è parte (UDHR, ICESCR, ICERD, CAT). Un esempio è quello di Atene, che nel 2017 ha posto il veto su una dichiarazione UE indirizzata alle Nazioni Unite concernente proprio la Cina e i diritti umani.
Proprio alle Nazioni Unite, dedalo di voti e veti incrociati, la Cina conta su un blocco di Paesi in via di sviluppo in cui gli investimenti cinesi sono molto rilevanti. Non a caso, tra i Paesi maggiormente allineati con Pechino in tale sede, ci sono perlopiù i destinatari africani e asiatici di ingenti capitali provenienti dal Dragone. Recentemente Pechino è anche entrata a far parte di un panel del Consiglio ONU per i diritti umani (UNHRC), con l’incarico di nominare ispettori in ambiti quali la libertà di parola e la detenzione arbitraria.
Secondo alcuni, ora che la Cina è una grande potenza, la sua concezione dei diritti umani andrebbe presa in considerazione e impatterebbe rebus sic stantibus su alcuni elementi del diritto internazionale. Anche qualora si accettasse ciò, le incongruenze cinesi non si esaurirebbero però ai soli diritti umani. La seconda economia del mondo, fulcro dell’innovazione globale, avanza ancora la pretesa di essere considerata un’economia in via di sviluppo e di restare ai margini del processo di integrazione economica del WTO senza soddisfare i requisiti per essere considerata market economy e senza contribuire in modo decisivo alla riforma di un sistema che non manca di criticare.
Nel suo storico discorso di Davos 2017, Xi Jinping annunciava l’obiettivo di ergersi pubblicamente a paladino del commercio globale, mentre sullo sfondo Pechino perseguiva un mastodontico programma di investimenti strategici (Made in China 2025 e la più recente teoria della “dual circulation”) orientato all’autarchia. Anche la pur legittima pretesa che ci si adatti agli standard politici e regolatori per accedere al mercato cinese va confrontata con la reticenza all’assunzione di misure di reciprocità, molte delle quali promesse al Boao Forum 2018 e ancora lontane dall’essere attuate.
Fig. 3 – Il carismatico portavoce del Ministero degli Esteri cinese Zhao Lijian è il volto e la voce della “wolf warrior diplomacy” di Pechino: i suoi toni forti e taglienti sono imitati da molti diplomatici cinesi
UNA SUPERPOTENZA “DIVERSA”
La Cina post-Covid chiede che le venga riconosciuto lo status di grande potenza globale, rifiutando però le responsabilità connesse e frustrando i partner internazionali, che vorrebbero accedere al mercato cinese come aventi pari diritti e doveri. Pechino, che per ora cresce da sola, fa orecchie da mercante, lontana dal modello di leadership americana che si sobbarcava il deficit della bilancia commerciale in funzione dello sviluppo degli alleati e che, ancora oggi, sostiene buona parte degli oneri nella sicurezza globale dei trasporti.
È bene rendersi conto che la Cina non è un altro “dispensatore di beni pubblici internazionali”, bensì una superpotenza con valori molto diversi da quelli occidentali, con cui l’intero ordine liberale occidentale deve fare i conti senza toni bellicistici, ma con la fermezza e la coordinazione che fino a oggi sembrano mancare.
Federico Zamparelli
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