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Un altro “caso Battisti”?

Una storia che si ripete? Dopo l’Italia, è la Spagna a vedersi negata dal Brasile l’estradizione per un presunto terrorista dell’ETA, accusato di aver compiuto due attentati alla fine degli anni ’80. I due casi, tuttavia, sembrano diversi. Come diversa sembra essere l’attitudine di Dilma Rousseff nei confronti delle estradizioni rispetto al suo predecessore Lula. Vediamo come

 

ORA TOCCA ALLA SPAGNA – Dopo il caso Battisti, la storia sembra ripetersi. Nelle scorse settimane il Brasile ha negato l’estradizione alla Spagna di Joseba Gotzón Vizán, presunto terrorista basco affiliato all’ETA, che da oltre vent’anni si nascondeva sotto falso nome nella nazione sudamericana. Sotto accusa per avere partecipato a due attentati compiuti nel 1988 contro due agenti della polizia spagnola, che però non rimasero uccisi, l’etarra (questo il nome dei membri dell’ETA) Gotzón Vizán era quindi fuggito dapprima in Messico e in un secondo momento in Brasile dove, con l’alias di Aitor Julián Arechaga Echevarría, viveva a Rio de Janeiro impartendo lezioni di spagnolo. Appresa la notizia del mandato di cattura internazionale, i legali di Gotzón Vizán hanno invocato il diritto di asilo come rifugiato politico. L’ex indipendentista basco si trova ora in carcere in Brasile, dove le autorità giudiziarie hanno bloccato il procedimento di estradizione per esaminare la richiesta di asilo.

 

DUE CASI DIVERSI – Il caso ha suscitato interesse in Spagna, dove il terrorismo basco è stato una ferita aperta fino a pochi anni fa. In Italia è passato pressoché sotto silenzio, ma non può non indurre a un paragone con la vicenda di Cesare Battisti, il terrorista la cui estradizione è stata negata dalle autorità brasiliane adducendo il pretesto che, nelle carceri italiane, avrebbe potuto subire delle persecuzioni per le sue idee politiche. Le due vicende sono effettivamente simili e toccano dei nervi ancora scoperti della storia – relativamente ancora recente – di Italia e Spagna dove il terrorismo, di estrema destra e sinistra nel primo caso, di matrice autonomista nel secondo, ha rappresentato forse la pagina più buia della storia repubblicana di questi due Paesi. Non si possono però trascurare alcune differenze sostanziali. Innanzitutto, il processo dell’etarra basco non è ancora stato effettuato e dunque, fino al raggiungimento di una sentenza, Gotzón Vizán non può essere ritenuto colpevole. Battisti, al contrario, era stato giudicato colpevole in via definitiva per l’omicidio di quattro persone. Seconda differenza: mentre nel caso spagnolo non ci sono morti e le motivazioni, seppure esecrabili, possono essere ricondotte a motivazioni “politiche”, tra le vittime di Battisti ci furono anche un macellaio e un gioielliere non riconducibili a particolari appartenenze ideologiche o politiche.

 

DILMA E LULA – L’esacesare-battistime della richiesta di asilo politico da parte delle autorità brasiliane può dunque essere considerato in questa fase legittimo. Inoltre, il Gover no presieduto da Dilma Rousseff sembra avere adottato una politica meno incline a favorire i criminali che hanno trovato rifugio sulle calde spiagge brasiliane. L’anno scorso il Ministero della Giustizia ha prodotto una sorta di “manuale di estradizione” con il chiaro intento di evitare altri “casi Battisti”. Il Brasile ha anche firmato nel 2011 un accordo per disciplinare l’estradizione con altri 25 Paesi, tra cui l’Italia, che pochi mesi fa si è vista concedere il rimpatrio di Paolo Santigli, condannato in via definitiva per traffico internazionale di droga. E allora perché Battisti non torna in Italia? Semplicemente perché gli accordi e le nuove norme non hanno valore retroattivo.

 

FERITE APERTE – Sembra dunque difficile accusare Dilma Rousseff di simpatizzare per criminali politici, come invece era accaduto per il ministro della Giustizia durante la presidenza Lula, Tarso Genro. Va però sottolineato un fatto: il Brasile ha trascorso circa venti anni della sua storia (dal 1964 al 1985) sotto un regime militare e la stessa Dilma ha trascorso un periodo in carcere come oppositore politico. La sensibilità dei politici brasiliani, e più in genere sudamericani, nei confronti delle dittature che hanno dovuto subire nel recente passato è ancora decisamente alta e questo serve a spiegare in parte la differenza di vedute sorta con alcuni Paesi europei, come l’Italia. Dittature e terrorismo politico sono dunque due ferite ancora aperte nelle società sudamericane e in quella italiana. Il Governo Lula ha istituito nel 2010 una “Commissione per la Verità”per fare piena luce sulle violazioni dei diritti umani avvenute negli anni della dittatura, mentre in Argentina si è recentemente pervenuti alla condanna di Jorge Videla e Reynaldo Bignone, responsabili della morte di migliaia di desaparecidos. Una lezione anche per l’Italia, per fare piena chiarezza sulle responsabilità di tante tragedie avvenute negli “anni di Piombo” e rimaste ancora senza un colpevole?

 

Davide Tentori

Gwadar, l’ultima perla della collana cinese

Il porto di Gwadar è uno scalo di recente costruzione, posto in posizione strategica non lontano dallo stretto di Hormuz, in territorio pakistano. Da gennaio 2013, revocata la concessione accordata a Singapore

Commercio di armi, America Latina divisa

Le Nazioni Unite hanno approvato il primo trattato che regolamenta il commercio mondiale delle armi. L’importante strumento internazionale è stato adottato lo scorso 2 aprile dall’Assemblea Generale con il voto favorevole dei 2/3 degli Stati partecipanti

La politica italiana vista da fuori

Siamo abituati a sentir parlare del nostro Paese dai nostri giornali, dalla gente nei nostri caffè, dai nostri politici e qualche volta dai nostri analisti, ma di rado ci fermiamo a leggere cosa all’estero scrivono di noi. Come ci vedono? Quali sono i fattori politici che gli specialisti all’estero analizzano del nostro Paese? Eccovi un’indicazione politica molto attuale, che viene da fuori ma è tutta per noi.

 

 

SOTTO LA LENTE – Vi proponiamo un breve estratto da un’analisi pubblicata oggi dalla autorevole agenzia privata americana Stratfor, dal titolo inequivocabile: Explaining Italy’s Fragmented Politics.

 

L’Italia ha avuto 61 governi e 25 primi ministri nel corso degli ultimi 67 anni, e il paese sembra sempre sull’orlo del collasso politico. Questo perché il governo centrale di fatto esercita una semplice gestione degli interessi locali. La funzione del governo di Roma è principalmente quella di cercare un equilibrio tra le esigenze generali del paese e gli interessi dei poteri locali, che vanno da leader politici locali, regionali e nazionali, ai sindacati, alla chiesa cattolica e alle varie organizzazioni criminali che operano nel paese.

Non è certo quello che si spera per il proprio Paese, sebbene ci teniamo a sottolineare che pensiamo sia un’analisi molto semplificata e parziale. La percezione messa in evidenza è che ognuno pensa ai fatti propri, insomma. Ognuno per sé e Dio per tutti… Infatti continua Stratfor:

Principale imperativo geopolitico in Italia è quello di raggiungere un livello minimo di unità politica per impedire la disgregazione del paese, cercando anche di bilanciare la pressione degli attori nazionali ed esteri. I politici italiani ritengono che, grazie alle dimensioni dell’economia italiana e alla sua posizione centrale rispetto alla crisi della zona euro, le autorità dell’UE alla fine forniranno comunque assistenza finanziaria al paese, se necessario. Tuttavia, con l’aggravarsi della crisi, il disagio sociale si allarga, il rifiuto verso i partiti tradizionali si espande, l’integrità politica in Italia si fa più tenue, rendendo la strategia di Roma sempre più rischiosa.

Lo ripetiamo, pensiamo che sia un riassunto un po’ troppo ristretto e solo parzialmente consapevole della nostra realtà, ma se questo è ciò che risulta dall’analisi politica straniera c’è poco da rallegrarsi. D’altro canto, fare comprendere agli altri quello che è l’Italia è anzitutto compito nostro.

Come in ogni analisi politica che si rispetti, proviamo quindi ad analizzare noi stessi, ponendoci quattro semplici “domande geopolitiche”: chi vuole cosa? Come? Con chi? Perchè?

Soprattutto adesso, a valle di una tornata elettorale inconcludente e con in ballo l’elezione del nostro Presidente della Repubblica, pensare con una visione più ampia è doveroso, e potrebbe illuminare la via.

 

LA PAROLA A NOI: CHI VUOLE COSA? – Partire dalla base non sarebbe male, come scriveva qualche giorno fa Alberto Rossi nel suo editoriale Cercando una visione:

Eppure, noi siamo convinti che buona parte di questo stallo politico e dell’insoddisfazione crescente per questa classe politica risieda, oltre ad una naturale crescente insoddisfazione per vizi e privilegi della cosiddetta casta, anche nell’incapacità da parte di tutte le parti politiche di proporre una visione. Abbiamo parlato di conti, cifre, tagli, sacrifici. Abbiamo parlato di presente, e non di futuro. Non abbiamo mai ragionato su un’idea condivisa di Paese: chi siamo, che posto abbiamo nel mondo, cosa aspiriamo ad essere. Probabilmente (e questo è il dramma) non abbiamo nemmeno questa idea di base condivisa. E senza un progetto, senza un’aspirazione, non si va lontano […]

Queste riflessioni vale la pena applicarle ad ampio raggio, a partire da queste ore di fermento in Parlamento, la sede più opportuna dove trovare quegli accordi che possano sbloccare lo stallo e cominciare a liberare un po’ di energie.

Certo la politica estera non sarà al centro della scena, ma è comunque un punto di attenzione che non si può e non si deve trascurare, e può concorrere a costruire accordi. Noi, nel piccolo della nostra associazione culturale, abbiamo messo sul tavolo dieci punti di discussione nel recente articolo Italia non sei sola, di Lorenzo Nannetti, proprio perchè

I risultati delle recenti elezioni politiche italiane stanno giustamente avendo un’importante risonanza nel nostro paese e all’estero. Ma l’Italia non è sola nel mondo e i suoi interessi non si fermano ai confini dello stivale. Anzi, mai come oggi i destini del nostro paese sono legati a ciò che succede al di fuori.

Niente di più vero. Limitarci ai fatti di casa nostra, rimanere ai margini di ciò che ci accade e che si decide intorno a noi, a partire dall’Europa, non può che portarci a essere pedine del gioco e quindi a subire misure e decisioni anche molto lontane dai nostri interessi. La crisi economica in corso ne è un esempio a tratti evidente.

 

Il Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano ha spesso saputo mostrare gli aspetti migliori del Paese
Il Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano ha spesso saputo mostrare gli aspetti migliori del Paese

ALLORA COME, CON CHI, PERCHÈ? – De Gasperi disse che “un politico guarda alle prossime elezioni. Uno statista guarda alla prossima generazione”, forse però al momento è più concreta una citazione meno aulica e certo non della medesima portata politica, ma più prossima ai giorni nostri: “Se ci fosse un Croce, un De Gasperi o un Salvemini me ne andrei anche, ma non li vedo, e non vedo neanche un Van Basten in panchina” (S. Berlusconi).

Forse è vero, ecco allora che avremmo proprio bisogno del calcistico “modello Barcellona”: facciamo crescere la nostra cantera, i giovani del nostro Paese, perchè siamo certi che coltivando la nostra classe dirigente troveremo più di un futuro Pallone d’oro. Nel frattempo, almeno, teniamoci in allenamento e proviamo a non mandare in campo soltanto pedine sin troppo rodate, che sono necessarie, ma da sole perdenti.

 

Voi, che ne pensate?

 

Pietro Costanzo

Sudan e Sudan del Sud, proviamo a parlarci?

Dopo quasi un anno e mezzo di turbolenze, il Sudan e il Sudan del Sud tentano di riprendere un percorso di convivenza pacifica, trovando un’intesa sulla demilitarizzazione della zona cuscinetto tra le due frontiere e negoziando sulla cooperazione in materia di estrazione e trasporto del petrolio. All’orizzonte rimangono però molte incertezze, a cominciare dallo stato dell’economia e dallo sfruttamento delle risorse naturali nei due Paesi, pur non dimenticando l’assenza di una forza di sicurezza per vigilare sul rispetto degli accordi.

 

Cittadino sudsudanese festeggia l'indipendenza.
Cittadino sudsudanese festeggia l’indipendenza

LO SCENARIO RECENTE – Lo scorso settembre l’accordo di pace tra Sudan e Sud Sudan sembrava essere ormai raggiunto. Il presidente sudanese, Omar al-Bashir, faceva sapere che si era finalmente raggiunta un’intesa sui vari punti di cui si era a lungo discusso, anche su quelli economici, riguardo ai quali effettivamente si erano incontrate le maggiori difficoltà. Infatti, da quando il Sud Sudan ha ottenuto l’indipendenza, nel luglio del 2011, sono emersi immediatamente numerosi argomenti di rottura tra i due governi, in particolar modo per lo sfruttamento del greggio, abbondante proprio nel nuovo Stato. Nel mese di aprile dello scorso anno la tensione divenne altissima e Khartoum, dichiarando lo stato di emergenza, prese la decisione di sospendere la Costituzione e avviare l’embargo commerciale con il Sud Sudan. Il pretesto per la reazione di al-Bashir fu l’arresto di quattro persone accusate di essere spie pagate da Salva Kiir, presidente del Sud Sudan, e il conseguente schieramento di forze sudsudanesi lungo le frontiere. Già all’inizio del 2012 vi era stato un deterioramento delle relazioni tra i due Paesi, causato dalla pesante accusa mossa dal Sud Sudan contro al-Bashir circa il tentativo di ostacolare l’esportazione del greggio sudsudanese. Il problema nasce dal fatto che, dato che il Sud Sudan non ha sbocchi verso il mare, Juba è costretta a pagare ingenti tributi per raggiungere i porti sudanesi e da qui vendere, ma anche raffinare, il petrolio estratto. Per questo motivo Salva Kiir ha deciso di interrompere l’estrazione dell’oro nero, scelta che ha generato gravi ripercussioni nelle economie di entrambi i Paesi. Proprio nel mese di settembre era stato deciso di creare una zona cuscinetto per permettere il ritiro delle truppe ed evitare che queste potessero venire a contatto. È stato l’ennesimo tentativo fallito che ha comportato un’ulteriore perdita di tempo, dato che le reciproche promesse sono state puntualmente disattese.

 

GLI ULTIMI AGGIORNAMENTI – Il 9 marzo i due Paesi, grazie anche alla mediazione dell’Unione Africana, hanno firmato l’accordo per il richiamo dei soldati dalla buffer zone e l’impegno concreto a demilitarizzare l’area. Tutto ciò deve avvenire nel termine perentorio del 5 aprile, quindi si tratta di vedere se questa volta verranno rispettati gli impegni presi. Sono molti gli esperti che si dicono scettici del fatto che ci possa essere, in tempi così brevi, una totale smobilitazione. Proprio in questo senso si è espresso EJ Hogendoorn, vice direttore del “Crisis Group’s Africa Program”, che sottolinea come non sia prevista la presenza di nessuna forza di sicurezza che possa, in qualche modo, monitorare il rispetto di quanto previsto dall’accordo. Questa mancanza può inficiare gli sforzi dell’Unione Africana, dato che le parti in causa si accusano vicendevolmente di sostenere gruppi ribelli che, non sottoposti al controllo dei governi, cercano di provocare la reazione del nemico.

 

IL PIANO INTERNAZIONALE – Sul piano geopolitico il confronto tra i due Paesi tende a coinvolgere gli alleati di entrambi, soprattutto la Cina, da sempre alleata di Khartoum e disposta a parteggiare per la causa sudanese, al fine di recuperare parte dei proventi dell’estrazione del greggio. I giacimenti petroliferi, come detto, si trovano nei territori sudsudanesi, mentre le infrastrutture per la raffinazione sono in Sudan e sono state costruite in buona misura proprio dai cinesi. Dunque, Pechino vede in Khartoum non solo un partner politico, ma, in modo decisamente più pragmatico, anche un importante terminale economico (il 70% del greggio sudanese nel 2010 è stato acquistato dalla Repubblica Popolare). Per questo motivo negli ultimi mesi vi è stato un aumento delle visite ufficiali cinesi a Juba, alleata degli Stati Uniti, e addirittura è stato aperto un consolato cinese proprio nella capitale sudsudanese. La scelta di Salva Kiir di bloccare le esportazioni mirava a destabilizzare il governo di al-Bashir e scatenare una rivolta interna che indebolisse la sua leadership, ma l’obiettivo è stato raggiunto solo parzialmente. Proprio per questo mancato introito sono stati imposti numerosi tagli sia a livello di efficienza delle spese governative, sia sulla già risicata spesa sociale, con gravi ripercussioni su una popolazione stremata.

 

Soldati dell'esercito sudanese.
Soldati dell’esercito sudanese

LA PARTITA DELLE RISORSE NATURALI – Il territorio del Sudan è stato sconvolto da una lunga guerra civile, durata quasi quarant’anni, e da emergenze umanitarie che hanno pregiudicato la crescita economica, nonostante la presenza di ingenti risorse naturali. Il referendum del 2011, attraverso il quale la popolazione sudsudanese ha avuto modo di esprimere la propria volontà, sembrava poter porre la parola “fine” ai conflitti che non solo hanno danneggiato l’economia, bensì hanno letteralmente lacerato la società. Si è già detto dell’importanza del petrolio e degli effetti che la questione sudanese produce nella comunità internazionale, eppure si deve in ogni caso tener conto anche dell’importanza della gestione delle risorse idriche e delle ripercussioni che vi possono essere nei confronti del vicino Egitto. I guadagni provenienti dalla gestione delle risorse naturali sono ridotti da una mala gestione, ma soprattutto dalla grave corruzione che domina in tutto il Paese. Lo stesso Presidente sudsudanese ha ammesso che la corruzione debba essere stimata attorno a quattro miliardi dollari, circa un terzo delle entrate fiscali.

 

SFIDE PER IL FUTURO – Gli ultimi sviluppi sembrano portare finalmente a un rappacificamento tra le due parti, che potrebbe consentire un po’ di respiro alle loro economie, fiaccate dallo stop alla produzione di greggio. Nonostante sia il Sud Sudan a poter gestire la situazione da una posizione di vantaggio, è necessario rilevare come Salva Kiir si trovi a controllare uno stato che ha ottenuto l’indipendenza soltanto due anni orsono e dunque è ancora in corso il processo di state building. Oltre alla necessità di poter disporre di risorse utili a rafforzare le neonate istituzioni, vi è anche la necessità di far partire l’economia di uno dei Paesi più poveri al mondo, cercando di diminuire la dipendenza dalla sola economia del petrolio. Per giungere ad una pace duratura e stabile, bisognerà poi anche affrontare, sempre sotto l’egida dell’Unione Africana, il problema dei confini e delle frontiere tra i due paesi, ancora lontano dall’essere risolto, nonostante la stipulazione di numerosi trattati e accordi. Una volta che saranno dibattute in modo risolutivo queste problematiche, insieme alla questione della gestione delle risorse naturali, si potrà parlare di pace tra Sudan e Sud Sudan.

 

Andrea Marras

Malvinas-Falkland, contesa infinita

“Sei d’accordo che le isole continuino a mantenere il loro attuale statuto di Territorio d’Oltremare?” Questa è stata la domanda posta dal referendum indetto dalla Gran Bretagna nelle Malvinas-Falkland il 10 e l’11 marzo. Sui 1672 elettori che si sono recati alle urne,  il 99,8% ha risposto “si”. Un’iniziativa non riconosciuta dal Governo argentino, destinata ad aumentare la tensione mai sopita per la sovranità dell’arcipelago.

 

Venezuela, lo stallo dopo le elezioni

Se c’è un vincitore delle elezioni presidenziali venezuelane, non è Nicolás Maduro. Il successo ottenuto di misura sullo sfidante Henrique Capriles apre infatti scenari inediti per il Paese sudamericano. Il “socialismo del XXI secolo” potrebbe scomparire insieme a colui che l’ha creato, ovvero Hugo Chávez? È forse ancora presto per dirlo, ma  certo è che in Venezuela sta per cominciare una nuova fase.

 

Mediterraneo, a volte (i Russi) ritornano

Il Ministro della Difesa russo Sergei Shoigu e il Comandante in capo della marina militare russa Viktor Chirkov hanno confermato la volontà di schierare, entro il 2015, una squadra navale permanente nel Mar Mediterraneo. Obama in Medio Oriente, la crisi siriana e la Corea del Nord hanno offuscato la notizia del ritorno della flotta russa nel Mediterraneo.

 

C’ERA UNA VOLTA L’URSS – La presenza russa nel Mediterraneo non è una novità. Dal 1967 al 1992 l’Unione Sovietica schierava nel cosiddetto “ventre molle” della NATO il 5th Operational Squadron (Sovetskaya Sredizemnomorskaya eskadra). La squadra navale destinata al Mediterraneo comprendeva in media tra le 30 e le 50 navi, distaccate dalla Severnyy Flot (Flotta del Nord) e dalla Chernomorskiy Flot (Flotta del Mar Nero). L’obiettivo dichiarato della formazione navale era il contrasto alla 6th Fleet statunitense di base a Napoli (e Gaeta). La flottiglia ha cessato di esistere nel dicembre 1992, in seno al processo di dissoluzione dell’Unione Sovietica. La spartizione delle unità tra gli stati post-sovietici portò ad una sensibile riduzione del numero di scafi a disposizione di Mosca ed al ritiro di alcuni gruppi navali, tra i quali quello di stanza nel Mediterraneo orientale.

 

IL RITORNO – Gli anni 2000 per la Russia sono stati spesso definiti come l'”Era di Putin”. Tra i punti dei programmi politici avanzati da Vladimir Putin nell’ultimo decennio,  la ristrutturazione delle forze armate e il loro ritorno ad un ruolo di primo piano è tra le priorità. La flotta russa ha così ottenuto le risorse finanziare necessarie a garantire l’operatività delle proprie navi e pianificare un graduale ammodernamento. La volontà di operare nuovamente nel Mediterraneo risale al 2004, anno dei primi piccoli eventi addestrativi e “show the flag”.  Dal 2008 il Mediterraneo è tornato ad essere una meta abituale delle navi Russe e teatro di esercitazioni maggiori. Da allora voci e smentite sul possibile ritorno di una pedina operativa si sono rincorse. Nelle ultime settimane, la certezza: entro il 2015 una squadra navale russa ricomincerà ad operare nel Mediterraneo. I catalizzatori della decisione sono stati la crisi siriana e la minaccia che l’instabilità ha portato agli interessi russi nell’area. Il tutto unito alla necessità di difendere la base militare di Tartus, ultimo caposaldo della marina russa nel Mediterraneo. Ancora una volta possiamo cogliere una somiglianza col passato, ricordando quando, nel 1967, fu la terza guerra arabo-israeliana a convincere i sovietici della necessità di dislocare proprie unità in Siria.

 

Vista del porto di Tartus. Unità siriane alla fonda.
Vista del porto di Tartus. Unità siriane alla fonda

VERSO IL 2015 – Due-tre anni sono il limite temporale previsto per disporre della flottiglia. Le forze dovrebbero comprendere 10 navi, di cui 5-6 da combattimento più le navi ausiliarie. E’ ufficialmente cominciato anche il toto-base. Sicuramente la base principale sarà Tartus, ma alcuni esperti dubitano che il porto siriano possa essere attrezzato in tempi brevi per ospitare una vera task force. Il presidio di Tartus è solo una base di appoggio logistico che impiega poco personale ed è scarsamente attrezzato. I russi hanno dichiarato che vogliono riqualificare lo scalo, ma anche che si avvarranno di altri porti quali Cipro, Beirut e il Pireo. I rumors ancora una volta corrono. I più timorosi che la crisi siriana si protragga ipotizzano un rischieramento a Beirut come base maggiore, ma da parte libanese non è arrivata una sola parola in merito. I maliziosi, invece, parlano di una futura base a Cipro, recentemente sotto i riflettori per l’impasse finanziaria e il ruolo che gli ingenti capitali russi (legali e non) hanno giocato nell’economia della stessa. Cipro però è anche sede di unità della NATO, che difficilmente accetterebbe una presenza esterna troppo forte e condividerebbe le facilities con l’ex nemico dichiarato. Considerando che la flottiglia sarà posta alle dipendenze della Chernomorskiy Flot e avrà quartier generale a Sebastopoli è però probabile che se Tartus non fosse ampliata a sufficienza entro il 2015 alcune navi potrebbero, molto più semplicemente, trovare appoggio temporaneo nel Mar Nero. I prossimi mesi saranno decisivi e le prove generali inizieranno a metà maggio, quando un gruppo tattico di 5 navi, provenienti dalla Tikhookeanskiy flot (Flotta del Pacifico) attraverserà Suez e si appoggierà a Tartus.

 

IL MARE NOSTRUM SI RISCALDA – L’ultimo decennio del secolo scorso, dopo la fine della Guerra Fredda, ha visto un raffreddamento del fronte sud. Sedati anche i virulenti conflitti jugoslavi, che non hanno comunque avuto un fronte marittimo, il Mediterraneo sembrava esser divenuto un mare tranquillo, privo di scontri. L’impressione generale del calo di importanza di un mare tutto sommato piccolo e quasi chiuso ha convinto perfino gli Stati Uniti che la rilevanza strategica dello scacchiere meridionale fosse esaurita. Ma, mentre i grandi giochi si spostano negli oceani Indiano e Pacifico, ecco che il piccolo Mare Nostrum si risveglia e rimette tutto in discussione. Il ritorno dei Russi non sancisce certo un nuovo confronto, ma è indicativo della necessità, per gli attori di primo piano, di essere presenti in un teatro che non sembra mai esaurire i colpi di scena. La primavera araba porta con sè pericoli ma anche opportunità. E ognuno vuole guadagnarci. In Siria la caduta di Assad più volte annunciata non è ancora avvenuta e questo significa che egli continuerà a giocare un ruolo nella vicenda siriana ancora a lungo. I rivoluzionari potrebbero rimanere molto delusi, ma le potenze mondiali non scenderanno mai al confronto diretto sul campo per la Siria. I russi dal canto loro non molleranno l’osso, anche perchè l’osso siriano ha il sapore di un miliardo di dollari spesi annualmente a Mosca in armamenti (8% delle esportazioni russe). Anche la Turchia è coinvolta nel conflitto siriano, ma non è questo che ai russi interessa maggiormente. La Turchia è un paese NATO la cui potenza e capacità industriale crescono ogni giorno e il suo millenario ruolo di guardiano dei Dardanelli riporta la Russia al vecchio problema strategico di poter rimanere imbottigliati nel Mar Nero. Dulcis in fundo, la Cina. Quale migliore prova che Pechino sia già una potenza mondiale se non quella che l”‘argomento Cina” ricorra in qualunque teatro operativo. Negli ultimi anni le navi militari cinesi hanno più volte passato Suez e hanno eseguito manovre ed esercitazioni. I cinesi non hanno ancora una “politica mediterranea”, ma maturano crescente interesse in Medio Oriente e sondano il terreno. Mentre lo fanno, le loro unità fanno scalo al Pireo, largamente ricostruito grazie a fondi cinesi, intervenuti in un momento critico per Atene. La Grecia ha salutato gli investimenti cinesi con favore, stringendo sostanziosi accordi di collaborazione per lo stoccaggio di merci e l’appoggio logistico alle unità militari in visita. In poche parole, il Mediterraneo ha ancora da dire la sua e i russi non vogliono lasciarsi sfuggire il dibattito.

 

Marco Giulio Barone

Tensioni in Corea del Nord (live update)

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L’escalation della tensione in Corea del Nord arriva dopo mesi di provocazioni e duri faccia faccia tra Pyongyang, Seul e Washington. China Files ha realizzato un interessante live update, che riportiamo qui.

Quale Turchia?

Il Giro del Mondo in 30 Caffè 2013 – I dati economici presentano la Turchia come un Paese totalmente rinnovato, uscito quasi indenne dalla crisi contrariamente agli “acerrimi confinanti” greci. Tuttavia, deve fare ancora i conti con quelle ombre interne che le impediscono di ottenere lo status di membro dell’Unione (su tutte: affaire Cipro, questione curda e depenalizzazione dei reati di opinione sul genocidio armeno). Ma al Paese conviene davvero prendere parte ad un progetto politico attualmente instabile come quello europeo? Ecco perché gli eredi del califfato ottomano si preparano ad influenzare i prossimi equilibri euroasiatici.

 

AL PASSO DEI BRICSLa Turchia possiede senza dubbio l’economia più virtuosa dell’Europa meridionale, con una crescita invidiabile che, secondo le previsioni, oscilla tra il 3% di quest’anno ed il 3,8% del 2014. E’ una buona notizia dopo il recente crollo del PIL nazionale, passato dall’ 8,5% del 2011 al 2,5% del 2012 (comunque in saldo positivo se comparato alle cifre al di sotto dello zero che si continuano a prospettare per alcuni Paesi tuttora in recessione, tra i quali l’Italia). I motivi di questo successo straordinario risiedono non solo nell’attuazione di politiche di sviluppo pianificate, ma anche nella definizione di redditizi accordi commerciali, stipulati dai governi di Recep Tayipp Erdoğan con i paesi limitrofi, quali Russia, Georgia, Azerbaijan e perfino Armenia: tutti ricchi di risorse naturali e soprattutto di gas, l’ “oro liquido” di cui l’Europa ha disperato bisogno.

Per di più, secondo il recente rapporto pubblicato dal team macroeconomico PwC (PricewaterhouseCoopers) dal titolo “World 2050 – The BRICs and beyond: prospects, challenges and opportunities” (qui il link: http://www.pwc.com/en_GX/gx/world-2050/assets/pwc-world-in-2050-report-january-2013.pdf) la Turchia, nel giro di quarant’anni, rientrerà nel novero delle grandi potenze, assestandosi al dodicesimo posto della classifica mondiale per crescita del PIL  davanti all’Italia e a poche migliaia di dollari dal Regno Unito. Un successo che non arriva a caso, alla luce di alcuni dati molto incoraggianti come ad esempio l’assestamento della percentuale di disoccupazione al 10% e gli accordi di libero scambio concordati con l’UE. Questi ultimi in particolare hanno immesso capitali esteri per un valore di 20 miliardi di dollari l’anno, stando ai dati resi noti dalla Banca centrale turca. Tanto per avere un quadro generale della reale ascesa del Paese, dal 2011 ad oggi il Sud Africa, che rientra appieno nel club BRICS, ha ricevuto “soltanto” 11,8 miliardi di dollari di investimenti esteri (fonte: Il Sole 24 ore).

Inoltre lo stesso rapporto parla della nascita di un nuovo consesso mondiale allargato che condizionerà i mercati internazionali negli anni a venire, il cosiddetto “E7” (le “sette sorelle” emergenti in questione sono Cina, India, Brasile, Russia, Indonesia, Messico e, appunto, Turchia). Dunque le statistiche dicono che il Paese dei due stretti, a partire dal 2013, probabilmente crescerà nei prossimi cinquant’anni più di quanto l’Europa possa immaginare.

 

UNA RELAZIONE PERICOLOSA? – L’entrata della Turchia nell’Unione, il cui processo è stato avviato formalmente nel 1963 con la stipulazione degli accordi di Ankara, sembra essere arrivata ad una fase di stallo. Ciò dipende da numerosi fattori che qui conviene chiarire. Innanzitutto attualmente la popolazione del Bosforo tocca quota 74,7 milioni, seconda solo alla Germania, locomotiva d’Europa e soprattutto meta simbolo dell’immigrazione turca nel Vecchio Continente (i residenti sono circa 2,4 milioni). In aggiunta, il 30% degli abitanti ha meno di 16 anni, rispetto al 16% dell’Europa occidentale. Quindi, per dare un senso a questi dati, con la Turchia in Europa, i tedeschi (assieme ai francesi, che hanno respinto una prima richiesta di adesione) dovrebbero fare i conti con una scomoda rivale, la cui manodopera qualificata, specializzatasi proprio in Germania, potrebbe rientrare alla casa madre. La beffa di dover affrontare un temibile concorrente sarebbe realmente concreta in caso di ammissione di Ankara all’UE, per non parlare del peso in termini di seggi al Parlamento europeo, assegnati in base al numero di cittadini.

L’altro punto è l’agricoltura: il PIL agricolo del paese incide del 12% sull’economia, rispetto al 2% degli altri Stati europei. Così la Turchia toglierebbe una grossa fetta di aiuti a Francia e Italia, da sempre protagoniste delle politiche agricole continentali. Tuttavia un grosso motivo di rifuto appare di carattere culturale: proprio la cancelliera Angela Merkel, in una passata dichiarazione choc, ha ribadito che “il multiculturalismo ha fallito”. Evidentemente il vero ostacolo all’integrazione è l’accettazione di consuetudini presenti in un paese islamico moderato – unico caso in Europa, escluse alcune zone dei Balcani – difficili da adeguare al diritto europeo, baluardo delle idee liberali. E ciò nonostante il laicismo di stampo kemalista sia uno dei valori fondamentali dello Stato turco.

Infine ci sarebbero da sciogliere i nodi della questione cipriota: divisa dal 1974 tra turchi al nord e greci al sud, l’isola non è mai stata riconosciuta indipendente dai governi di Ankara, e la sua occupazione porta tuttora veti insuperabili tra gli Stati membri (Grecia su tutti). Inoltre, pendono sul capo turco le questioni curda e armena. La prima sembra in via di risoluzione, dopo l’apertura al dialogo con il capo della formazione del PKK (Partito dei Lavoratori del Kurdistan) Öcalan. La seconda sembra parzialmente allentata, in quanto il famoso articolo 301 del Codice penale turco, che prevede il carcere per chi parla del genocidio armeno, non si sta più applicando. Il premier Erdoğan ha stabilito una data, il 2023 – anno in cui si festeggerà il centenario della nascita della Repubblica turca – come termine ultimo per entrare nell’Unione. Entro i prossimi dieci anni l’ultimatum di Ankara verrà soddisfatto? Il 2013 sarà l’anno della svolta?

Il Parlamento Turco
Il Parlamento Turco

 

NEL CUORE DELL’INSTABILITA’ – Il conflitto siriano vede le truppe lealiste di Assad spingere ai confini della vicina Turchia, che a sua volta, ha risposto prontamente alle provocazioni del nemico minacciando di organizzare una vasta operazione in sostegno dei ribelli. Questo è solo un primo tentativo di influenzare un’area così instabile come il Medio Oriente, sul solco della Primavera araba. In effetti la zona manca di un arbitro che non siano gli Stati Uniti o la Russia, un interlocutore capace di dirimere le controversie presenti nel vicinato evitando fastidiose ingerenze.

Sarà questo il compito del governo turco nei prossimi anni: cercare di collaborare alla risoluzione del conflitto arabo-israeliano, rilanciare la transizione in Siria e Libano, infine farsi protettore e federatore dei Paesi di fede sunnita, ruolo che contende all’Arabia Saudita. Ma il vero capolavoro politico potrebbe essere la costruzione del gasdotto “Nabucco” (in collaborazione con l’Unione Europea), che trasporterà il gas dall’Azerbaijan fino in Europa, sfidando l’alleato russo e il suo progetto parallelo, cioè il “South Stream”. Insomma, la nuova Turchia dovrà emulare il vecchio Impero ottomano in politica estera: per un’Europa stabile dovrà farsi carico dei Paesi a confessione musulmana, cioè i Balcani; per un Mediterraneo più forte dovrà ritessere faticosamente i rapporti con la rivale Israele e ripensare il panislamismo in una versione più moderata. Dovrà però prima risolvere le sue questioni interne.

 

QUALE RUOLO? Il 6 febbraio, il Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano ha esortato le istituzioni europee ad “aprirsi alla Turchia e ai Balcani”. Si tratta di un obiettivo irrinunciabile per Bruxelles, affinché si possa costruire quel ponte che unisca le nazioni dal Mediterraneo al mar Nero, soprattutto alla luce del premio Nobel per la Pace 2012 assegnato all’Unione Europea in quanto organizzazione capace di mediare tra popoli un tempo divisi da forti rivalità.

Possiamo supporre che la Turchia dell’anno 2013 si comporterà da moderatore tra realtà divise e diverse, cercando quindi di ritagliarsi un ruolo da protagonista non solo tra le maggiori potenze, ma anche dirimendo le controversie che Paesi quali Stati Uniti, Russia e la stessa UE non sembrano più in grado di gestire? Sarebbe assurdo pensare che un solo Stato possa riuscire nell’intento di cambiare la situazione geopolitica del Medio Oriente, zona storicamente instabile, tuttavia il Paese dei due stretti sembra il candidato ideale ad assumere questo intento pacificatorio inscritto nel DNA dell’Europa unita e ad ergersi a difensore della stabilità mediterranea. Sempre che non cerchi di fare tutto troppo in fretta.

 

Fabrizio Neironi

Primavera araba, un terremoto geopolitico (II)

Seconda parte della nostra intervista ad Alberto Negri, giornalista del Sole 24 Ore, sulla Primavera araba. Allarghiamo lo sguardo su una serie di attori, regionali e non, che influenzano in maniera significativa lo scenario in cui si gioca il futuro di diversi Paesi di Maghreb e Medio Oriente, in una situazione di instabilità tale da mettere a rischio il loro stesso futuro

 

(Segue. Leggi qui la prima parte)

 

Hai definito la Primavera araba un terremoto geopolitico. Quale può essere l’effetto principale di questo terremoto?

Gran parte dei Paesi di cui parliamo non sono in grado di controllare le frontiere. La forza delle milizie Tuareg in Mali è dovuta anche alla porosità delle frontiere libiche. E la situazione è analoga per Tunisia ed Egitto, che di fatto sta rinunciando a buona parte del Sinai. Stiamo assistendo al vero e profondo problema del Medio Oriente. Non vi è solo una transizione politica che sta aprendo fronti contrapposti di divisione nelle società, tra chi appoggia governi islamici e chi sostiene formazioni di stampo laico o civile. Non solo questa transizione è aggravata da una crisi economica dilagante, soprattutto in Egitto e Tunisia, con tassi di disoccupazione in forte crescita, un tema che non può che accrescere l’instabilità. Il punto chiave è che questi aspetti stanno mettendo in questione la stessa unità politica di questi Paesi. Lo snodo centrale non è la transizione politico-economica: dobbiamo chiederci se questi Paesi possono continuare a stare insieme così come lo sono stati sinora. Nella fase successiva alla decolonizzazione, questi Stati sono rimasti uniti con delle dittature durate 40-50 anni. Terminata questa fase, non solo occorre trovate nuovi Governi, ma anche delle buone ragioni per stare insieme all’interno dei vari Paesi. Molti analisti arabi stanno attualmente mettendo in luce questo aspetto. I Paesi di cui stiamo parlando ci saranno ancora in futuro sulle carte geografiche, così come li conosciamo adesso?

 

Tra tutti, qual è il Paese che vive maggiormente questo rischio?

Questo discorso vale soprattutto per la Siria. Non vi sono solo divisioni etniche (basti pensare ai curdi) o settarie/religiose (sunniti e sciiti, oltre al tema cristiani); vi è anche la questione dei territori del Golan, occupati da Israele nel ’67. La situazione attuale ha inoltre conseguenze su tutti i Paesi attorno alla Siria, e su tutti gli assetti internazionali: basti pensare che Russia e Cina sostengono Assad, mentre Usa, Gran Bretagna e Francia sono a lui avversi, assieme ai loro alleati arabi. E anche la stessa contrapposizione sciiti-sunniti si sta espandendo in tutto il Medio Oriente, Iraq in primis.

 

In tutto questo non abbiamo ancora citato l’Iran…

In questa contrapposizione sciiti-sunniti l’Iran si gioca la sopravvivenza del suo asse geopolitico, la mezzaluna sciita con il relativo problema del Golfo, in un anno chiave come quello delle presidenziali. Il punto è che siamo nel pieno di un conflitto che riguarda tutta la comunità internazionale e gran parte degli equilibri internazionali. Le trattative sul dossier nucleare iraniano non sono slegate a tutta la situazione mediorientale.

 

Un conflitto che riguarda tutta la comunità internazionale: un altro degli effetti della Primavera araba è stato quello di modificare l’approccio delle altre potenze rispetto alla regione mediorientale, Stati Uniti in primis.

Gli Stati Uniti sono attualmente in una fase di riflessione, volta a rivedere la propria presenza nella regione. Tendenzialmente, gli Usa non si vedono presenti in Maghreb, mentre diverso è il caso dell’Egitto, ed il recente viaggio di Kerry ne è testimonianza. I tre punti principali dell’attuale strategia americana sono i seguenti: 1) nessun coinvolgimento in Siria; 2) interessi limitati a due Paesi: Israele e Arabia Saudita; 3) intenzione di chiedere ad Europa e Paesi Arabi un maggiore impegno sui temi di difesa e sicurezza, dato che non c’è volontà di investire ancora molti miliardi di dollari. Per quanto riguarda l’Iran, il recente viaggio di Obama in Israele ha confermato come Teheran rimanga centrale, ed anche l’ipotesi di un negoziato diretto Usa-Iran non è attualmente da escludere. Va detto però che Obama ha anche rimarcato con forza la sua volontà di ripresa dei negoziati israelo-palestinesi, un obiettivo tutto sommato contrastante con la volontà del Governo del suo alleato israeliano.

 

Bahrainis protest in ManamaQuali altre potenze hanno un buon livello di influenza sulla regione?

Gli Stati Uniti sono sicuramente condizionati anche dalla Russia, che non è più la Russia arrendevole di qualche anno fa, ma una potenza militare ed economica mondiale che non ha intenzione di cedere sul Medio Oriente, visto come “mezzo” di negoziazione con gli Stati Uniti. La Russia ha ceduto sulla Libia, ma sulla Siria una possibilità analoga non è neanche presa in considerazione. La flotta russa tornerà con forza nel Mediterraneo. La Russia in Medio Oriente non chiede solo una transizione ordinata per la Siria; in gioco c’è una vasta area di interesse, un più ampio dossier strategico da coordinare con gli Usa, che si espande fino al Caucaso e all’Asia Centrale e che comprende i missili Nato puntati contro la Russia in Europa, gli apparati missilistici e i radar in Turchia contro Russia e Iran, lo scudo anti missile e quant’altro.

 

Ti aspetti in futuro qualche evento particolare che possa influenzare nuovamente gli equilibri regionali?

La questione chiave sarà il ritiro dall’Afghanistan nel 2014. Sarà una situazione difficile, molto tormentata, su cui andrà svolto un ragionamento importante, poiché vi saranno influenze sul comportamento della Russia, sul Pakistan, sull’Iran, e sul Medio Oriente in generale.

 

Anche la Cina sta giocando un ruolo? E a quale livello?

La Cina sta acquisendo una posizione importantissima nel Medio Oriente. La Cina è attualmente il principale importatore del petrolio iraniano, e a sua volta esporta in Iran e in altri Paesi della regione le sue merci, con uno schema che è stato applicato anche all’Africa. Certo vi sono dei dubbi sul fatto che la Cina possa divenire il sostituto dell’Occidente in Medio Oriente e in Africa. Ad esempio la Banca Centrale Nigeriana ha espresso forte scontento nei confronti della Cina, chiedendo di fatto la fine del “colonialismo cinese” in Africa. La Cina in generale non convince del tutto, sconta una considerazione ancora peggiore rispetto a Usa e Occidente, e a mio avviso finirà per essere “rifiutata”, come già avvenuto 5-6 secoli fa. Certo va aggiunto che tutto quanto discusso sinora va a legarsi anche con il quadrante Asia-Pacifico, che interessa gli Stati Uniti. Attorno a Cina, Coree e Giappone le tensioni aumentano con frequente intensità, e lì si va a giocare una partita chiave.

 

Insomma, una regione così piccola ancora una volta sembra poter influenzare i destini del mondo intero. Ma chi tra i vari attori può subire il coinvolgimento maggiore?

Tolto il Brasile, in crescita ma ancora con un peso geopolitico di minor rilievo (i “Brics” in quanto tali hanno insieme un peso economico, ma non geopolitico), abbiamo visto che esistono legami forti tra tutti gli attori in gioco. Le condizioni del Medio Oriente e del Mediterraneo hanno però in particolare una connessione fortissima con l’Europa. Non solo per una vicinanza geografica e per alcuni scenari che collegano le due aree (si veda la Francia con il Mali, un intervento di cui non si capisce quale possa essere lo sbocco). Il tema vero è se la crisi economica, sociale e politica che si sta aprendo in Europa non porterà proprio nel nostro continente il prossimo terremoto geopolitico, rischiando di finire noi stessi in condizioni che possano presentare alcune analogie con quelle dell’area mediterranea e mediorientale.

 

Alberto Rossi

Primavera araba, un terremoto geopolitico (I)

Una chiacchierata a 360 gradi con Alberto Negri, giornalista del Sole 24 Ore, sulla Primavera araba e i suoi effetti, approfondendo la forte instabilità che colpisce tutti i Paesi coinvolti da questo fenomeno.