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Il difficile cammino da soggetto a oggetto

Il Giro del Mondo in 30 Caffè – È in Iraq l'ultima tappa del nostro giro del mondo. Il 2011 vede un Iraq in parte rinnovato da elementi come la piena assunzione della sicurezza interna da parte delle forze nazionali, e per altri versi ancora interessato dalle problematiche che lo affliggono da anni, come l’instabilità interna, la frammentazione e la lotta per le risorse. Mentre tanti attori giocano parte delle loro politiche estere anche sull’Iraq, Baghdad tenta progressivamente di diventare più autonoma. Ma vi sono questioni che è arrivato il momento di affrontare, pena lo stallo.

IL “NUOVO IRAQ” – E’ passato ormai un anno dalle ultime elezioni parlamentari dell’Iraq, quelle che avrebbero dovuto decidere quali sarebbero stati i nuovi equilibri del paese e dirci anche quale sarebbe stato, quindi, l’Iraq del 2001 e del futuro. Come era forse prevedibile, siamo invece ancora ad aspettare che tutti i ministri vengano nominati, dopo che abbiamo assistito ad uno stallo politico-istituzionale che è durato per mesi, prima che l’incarico di primo Ministro fosse nuovamente affidato a Nour al-Maliki (nella foto sopra), capo dell’esecutivo uscente. Si pensava che la vittoria a sorpresa dell’ex uomo forte di Baghdad Iyad Allawi, leader di Iraqiyya e a sua volta già Primo Ministro del paese post-Saddam, potesse determinare un cambio di governo. L’incapacità di giungere ad un accordo è stata però determinata dal mancato appoggio che Allawi avrebbe incassato dalle altre componenti politiche del Paese e questo, in mancanza di una maggioranza assoluta in parlamento della propria formazione politica, e senza interlocutori pronti a concedergli fiducia, ha portato nuovamente l’ago della bilancia a pendere per al-Maliki. Il vecchio che avanza, dunque? In realtà sembrerebbe che le cose, nonostante alcuni cambiamenti di facciata, non siano tanto diverse rispetto al governo precedente. La comunità politica sciita, se mai ci fosse bisogno di una conferma ufficiale di questo fatto, si è divisa in due blocchi maggiori: da un lato, appunto, la compagine di al-Maliki (lo “Stato di Diritto”) e, dall’altra, i seguaci di Muqtada al-Sadr e di al-Hakim (vale a dire l’ex SCIRI, Supreme Council for the Islamic Revolution in Iraq oggi cambiato in ISCI, Islamic Supreme Council of Iraq), raggruppati nella “Alleanza Nazionale Irachena”. Ciò non ha portato, però, a cambiamenti sostanziali, dal momento che i due raggruppamenti sciiti si sono trovati, gioco forza, a doversi sostenere a vicenda. E, nonostante ciò, le divisioni rimangono a tal punto che non tutto il governo è stato ancora formato.

LA NOVITA’ DELLE PROTESTE – Quali sono, a questo punto, le sfide future per il Paese? Verrebbe da dire che sono le stesse che l’Iraq si è lasciato alle spalle nel 2010, vale a dire particolarmente la soluzione della controversia circa la legge sul gas e sul petrolio, la definizione dello status della città di Kirkuk e la stabilizzazione politica, preludio a una situazione più sicura per i cittadini. Verrebbe da dire, appunto, se non fosse che, con l’inizio del 2001, si aggiunge l’ira della popolazione per le condizioni socio-economiche in cui versa il Paese. Ira che sicuramente era presente già prima, ma che adesso trova nuova linfa vitale dall’esempio degli altri paesi arabi, dalla Tunisia all’Egitto, dal Bahrein allo Yemen. L’Iraq è un paese ancora tutto da (ri)costruire e resta a tutt’oggi uno dei banchi di prova più importanti per misurare l’efficacia dello sforzo della comunità internazionale. Questo sarà il primo anno in cui nel Paese non saranno più presenti le forze statunitensi ad assicurare la sicurezza dei centri urbani e il governo che verrà posto in essere dovrà raccogliere la sfida di camminare sulle proprie gambe verso una possibile stabilizzazione e normalizzazione delle dinamiche politiche interne. Sicuramente le proteste in corso anche in Iraq complicano un quadro già molto compromesso da anni di conflitto interno e un susseguirsi di attentati terroristici che continuano ad alimentare l’instabilità interna, ma le sfide sul tavolo per Baghdad sono ancora le stesse da anni, e senza la soluzione delle questioni fondamentali -politiche ed economiche- che attanagliano il Paese, non si potrà verosimilmente arrivare neanche al miglioramento delle condizioni sociali e di sicurezza dell’Iraq post-Saddam Hussein.

IL NODO KIRKUK – Prima di tutto vi è da ricordare come una delle questioni più spinose e ancora tutta da risolvere (e in realtà ancora da affrontare quasi dall’inizio, vista la continua posticipazione della sua discussione) rimane quella legata al futuro dello status della città e dell’area di Kirkuk. Posizionata in una posizione strategica all’interno del Paese, dal momento che ospita circa il 10% di tutte le immense risorse petrolifere dell’Iraq, vale a dire circa 15 miliardi di barili di petrolio, questa città rappresenta in parte l’emblema di una nazione che non riesce ad affrontare i problemi reali e concreti che la interessano. La città è storicamente ritenuta, secondo la comunità curda, parte del Kurdistan ma la sua natura è ancora dibattuta, per motivazioni di carattere economico e geopolitico. Durante gli anni del regime di Saddam Hussein, la città è stata testimone di una forzata “arabizzazione”, in modo da sconvolgerne gli equilibri demografici. La Costituzione approvata nel 2005 aveva in seguito stabilito, tramite l’articolo 140, che l’annessione o meno di Kirkuk all’autorità regionale curda venisse deciso per mezzo di un referendum popolare. Tale referendum è però slittato più volte, così come il censimento della popolazione che stabilisca definitivamente quali siano i reali equilibri demografici nell’area, dal momento che tutte e tre le comunità che la abitano, cioè quelle turcomanna, araba e curda, rivendicano la maggioranza.

LA CONTINUITA’ DEL FATTORE PETROLIO – Sebbene, con il senno di poi, la tesi che avrebbe voluto gli Stati Uniti coinvolti in un’azione militare in Iraq nel 2003 solo per poter assicurarsi l’approvvigionamento energetico a loro necessario, possa essere in parte smentita (le motivazioni potrebbero essere state più da rintracciare in un riposizionamento strategico nel’area mediorientale), il petrolio rimane uno dei fattori, se non il più importante, intorno al quale ruotano le dinamiche politiche ed economiche irachene. Il Paese, nonostante le carenze infrastrutturali ne limitino le effettive capacità, possiede le quarte riserve mondiali di petrolio, quantificabili in circa 115 miliardi di barili. Le maggiori questioni in merito sono due: il fatto che il petrolio sia concentrato quasi esclusivamente nel Nord e nel Sud del Paese, vale a dire nei territori abitati e in parte controllati (discorso, quello dell’autonomia, che vale soprattutto per il Nord curdo) rispettivamente dalle comunità curdo-sunnite e arabo-sciite; a fronte di tale elemento vi è un governo centrale a Baghdad che dovrebbe stabilire una legge unitaria e condivisa da tutte le comunità del Paese circa la regolamentazione dei contratti per gli idrocarburi e la destinazione degli introiti derivanti dalla vendita o dalle concessioni sui giacimenti di gas e petrolio dell’Iraq. I curdi, auto-amministrati nel Nord tramite il Governo Regionale del Kurdistan, rivendicano il diritto di poter concludere separatamente degli accordi con le società operanti nel settore, ma a tutt’oggi il quadro giuridico in merito non è chiaro e il governo centrale non riconosce la maggior parte dei contratti stipulati dal governo curdo. Tale questione è destinata ad andare avanti ancora per un tempo indefinito e, potenzialmente, dal momento che riguarda la risorsa strategica per eccellenza del Paese, potrebbe ancora rimanere irrisolta per paura di creare nuove tensioni. Risulta però evidente come, senza una chiara legislazione in merito, l’economia e di conseguenza la sicurezza dell’Iraq non potranno svilupparsi in maniera adeguata agli standard richiesti affinché cessi l’instabilità interna. Anche, e forse soprattutto, su questo, dovrà tornare il nuovo governo di al-Maliki.

UN PAESE PER TANTI ATTORI – Vi è poi l’annosa questione delle ingerenze esterne: gli Stati Uniti, sebbene abbiano abbandonato il controllo diretto delle città, sono ancora presenti con migliaia di uomini sul territorio iracheno; l’Arabia Saudita e la Siria, seppure in misura differente e probabilmente con scopi non del tutto unitari, esercitano una loro influenza sulle condizioni di stabilità o meno del Paese; la Turchia, soprattutto per ciò che riguarda il suo rinnovato interesse nella regione settentrionale curda, è tornata a giocare un ruolo attivo e positivo in Iraq; infine l’Iran, nonostante le dichiarazioni di non ingerenza, è senza dubbio interessata a giocare la sua parte per favorire l’ascesa di un governo iracheno accondiscendente e per lo meno amico di Teheran, soprattutto grazie alla comune appartenenza alla galassia dell’Islam sciita. Vi è da sottolineare, però, come il regime degli Ayatollah, a differenza di quanto spesso paventato da molti analisti e da alcuni governi occidentali ed arabi, non starebbe influenzando direttamente la scena politica irachena, anche dal momento che per adesso il panorama dell’Iraq è già abbastanza sconvolto dal susseguirsi di attentati da parte di elementi legati all’estremismo di matrice sunnita. Ciò fa sì che l’Iran non sia interessato a destabilizzare il Paese per interessi funzionali all’acquisizione di una propria influenza, quanto piuttosto possa per il momento giovare di tale situazione interna, senza coinvolgimenti diretti, per tessere una rete di contatti che possa tornare utile nel breve-lungo termine. Del resto, non basterebbe la semplice appartenenza allo sciismo per determinare una cooperazione e una visione geopolitica condivisa tra Teheran e Baghdad, dal momento che lo stesso mondo sciita appare diviso al proprio interno, sia tra la visione politica iraniana e quella irachena, sia tra lo stesso sciismo iracheno. All’interno di quest’ultimo, infatti, vi sono elementi più vicini all’Iran, come l’ISCI, e di contro vi sono forze più improntate al nazionalismo, come risulta essere il movimento che fa capo a Muqtada al-Sadr. Tutti questi fattori mettono in evidenza il ruolo importante giocato dall’Iraq, non tanto come soggetto, quanto ancora come oggetto delle politiche dei maggiori attori mediorientali. Una delle sfide del futuro sarà proprio quella di trasformarsi in soggetto attivo.

Stefano Torelli [email protected]

Finisce oggi il lungo viaggio del Giro del Mondo in 30 Caffè: clicca qui per andare all'indice dello speciale, rivedere tutte le tappe e rileggere i nostri articoli

Il Giro del Mondo in 30 Caffè

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I nostri speciali

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Nuova puntata di Caffè150, sulla storia della politica estera italiana. Focus Maghreb-Medio Oriente, dalla Tunisia alla guerra in Libia, passando per l'Egitto. Si è inoltre concluso il lungo viaggio del Giro del Mondo in 30 Caffè: clicca qui per leggere tutti i nostri speciali

_ Caffè 150: Centocinquant'anni di politica estera. Storia e prospettive di una geopolitica italiana. Leggi qui il piano di presentazione dello speciale

_ Focus Nord Africa e Medio Oriente: Il Caffè segue con attenzione le vicende del Maghreb: ecco in evidenza gli articoli che i nostri autori hanno proposto nei giorni passati. Un Focus importante, che continueremo ad aggiornare per provare a dare una visione chiara e diretta di quello che sta succedendo e di quali siano i punti chiave di queste difficili vicende. Consultate qui l'indice degli articoli, che aggiorneremo con le nuove pubblicazioni.

_ Si è concluso il lungo viaggio del Giro del Mondo in 30 Caffè: clicca qui per andare all'indice dello speciale, rivedere tutte le tappe e rileggere i nostri articoli

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A cavallo del confine: tra Europa ed Eurasia

Il confine dell'Europa si è progressivamente ampliato verso est, arrivando a lambire lo spazio un tempo occupato dall'Unione Sovietica. I cambiamenti storici e le diverse influenze provenienti da est e da ovest rendono il limes europeo e, soprattutto, i Paesi che vi si affacciano, un delicato punto di incontro tra la storia e l'attualità. In questo Focus vi proponiamo un viaggio in Romania e Moldavia: due Paesi con grandi affinità che si guardano dai due lati di un confine che ne determina, oggi, l'evoluzione

Questo speciale è stato realizzato nell’ambito della collaborazione tra Il Caffè Geopolitico ed il VIS (www.volint.it), ONG che si occupa di cooperazione allo sviluppo.

In relazione alle attività degli amici del VIS in Romania e Moldavia, Il Caffè ha elaborato questo Focus a fini didattici ed operativi: delle schede brevi, snelle, idonee a formare una base di conoscenze sull'area ed a fornire uno strumento per l'approfondimento.

Il Focus, di cui abbiamo già pubblicato alcune parti, comprende:

  • A cavallo del confine: tra Europa ed Eurasia

Romania

  • I rapporti tra Italia e Romania

  • La Romania e la sicurezza del Mar Nero

Moldavia

  • Moldavia e Transnistria, il confine tra due mondi

  • GUAM: la cooperazione tra poveri

Temi trasversali

  • La Black Sea Economic Cooperation (BSEC)

Il documento completo è visualizzabile sulla nostra pagina di Scribd

 

La redazione

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Il Regno delle due Sicilie: più Mediterraneo che Europa

Il Regno delle due Sicilie e lo Stato della Chiesa/parte I – A metà del 1800 nella nostra Penisola c’erano ben sette Stati, di cui solo tre pienamente indipendenti: Regno delle Due Sicilie, Regno di Sardegna e Stato della Chiesa; gli altri erano sotto il dominio diretto o indiretto dell’Austria. Il Regno del meridione mantenne sempre un profilo internazionale poco attivo, alle volte ambiguo, mostrando però un forte senso di indipendenza

Parte I: il Regno delle due Sicilie

 

UN REGNO BREVE – Il Regno delle Due Sicilie nasce nel 1816, dopo il Congresso di Vienna, dall’unione dei regni di Napoli e Sicilia, per mano di Ferdinando IV di Borbone, e finisce con l’invasione garibaldina e la seguente annessione al Regno di Sardegna, nel 1861. Nella sua breve durata è governato dalla Real Casa di Borbone, che gestisce i suoi territori “al di là e al di qua del faro” (di Messina) in maniera non sempre costante, sia nei rapporti con l’estero che nei rapporti con le popolazioni. A periodi di modernizzazione economica e istituzionale si alternarono repressioni e “controriforme”, come nel caso della repressione dei moti del 1848.

I Borbone, non proprio grandi sostenitori dell’Unità d’Italia, capitolarono dopo la battaglia del Volturno, nell’ottobre 1860, contro le truppe garibaldine e sabaude. Anche il Meridione, adesso, faceva parte di quello che da lì a poco sarebbe stato il Regno d’Italia.

 

AMICI DI TUTTI, NEMICI CON NESSUNOFerdinando II di Borbone (immagine sotto), Re dal 1830 al 1859, e personaggio chiave per la politica estera del Regno, credeva molto in questo principio, che però comportava non pochi svantaggi: significava infatti che, in realtà, nessuna relazione con un Paese straniero potesse essere troppo stretta, per non indisporre gli altri. E comportava anche che i tentativi di ingerenza delle potenza del tempo (Francia, Inghilterra, Austria), venissero respinti con dei giochi di equilibrio non sempre fruttuosi. Metternich (l’importante diplomatico e politico austriaco) scrisse di Ferdinando II: “egli non sopporta intrusioni, è convinto che il suo regno, per posizione geografica, non ha bisogno dell’Europa”. In effetti la politica commerciale ed estera dei Borbone fu sempre prevalentemente volta al Mediterraneo: lo dimostrava anche il fatto che i maggiori investimenti fossero nelle flotte più che nelle infrastrutture di terra. La Marina Mercantile del Regno era tra le più avanzate nel Mediterraneo, con tecnologia e cantieristica di alto livello (i primi battelli a vapore a viaggiare nel Mediterraneo furono napoletani), e anche la Marina Militare era avanzata, nell’organizzazione e nei mezzi.

Inoltre, i Borbone si ritennero sempre molto legati soltanto allo Stato Pontificio, che completava, in qualche modo, il “meccanismo di protezione” del Regno…

 

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UN REGNO BEN DIFESO – …”per tre lati dall’acqua salata e per il quarto dall’acqua santa”, questa era la convinzione di Ferdinando II, che mai mise in discussione la fedeltà al Papa e che gli faceva concepire il confine nord dei suoi territori come invalicabile. La politica estera dei Borbone viene spesso identificata quindi come isolazionista: lontani dalle grandi potenze e davvero alleati solo con Spagna e Russia, l’una militarmente poco utile, l’altra troppo distante.

Il Regno comunque, sebbene geograficamente piccolo, soprattutto a confronto con i grandi stati europei, era riconosciuto dai patti internazionali e godeva di un certo rispetto.

È quindi possibile leggere nella politica estera borbonica non solo, o non tanto, una mancanza di intraprendenza, ma anche un modo di mantenere l’indipendenza. D’altra parte il Regno delle due Sicilie non avrebbe potuto competere con le grandi potenze, avrebbe solo potuto diventarne subordinato.

 

UNA QUESTIONE DI ZOLFO – La conquista delle materie prime non è certo un problema soltanto dei giorni nostri. Nell’Ottocento la Sicilia produceva grandi quantità di zolfo, fondamentale per fare la povere da sparo e quindi molto ricercato dalle grandi potenze militari. Tra Londra e Napoli vi era un accordo commerciale molto sbilanciato a favore degli inglesi, che acquistavano lo zolfo a basso prezzo. Ferdinando II volle però cambiare gli accordi oramai ventennali nel 1836, concordando la vendita di questa materia prima ai francesi, a prezzo più alto. Gli inglesi non la presero bene e scoppiò una grave crisi tra Londra e Napoli, che quasi portò alla guerra; grazie alla rinuncia francese agli accordi la guerra si evitò, ma Napoli dovette risarcire entrambe le potenze e la posizione del Regno si deteriorò agli occhi dei partner europei. Da allora gli inglesi furono apertamente ostili ai Borbone, avendo di fatto perso il monopolio strategico del prezioso minerale. Fu così che gli stessi inglesi avviarono una politica di indebolimento del Regno, con il Primo Ministro Palmerston e il diplomatico inviato a Napoli, Gladstone, che puntarono a deteriorare l’immagine del Sovrano Borbone in Europa. Inoltre, i britannici ebbero anche un ruolo nel favorire lo sbarco dei Mille a Marsala, importante colonia inglese.

Negli anni conclusivi di vita del Regno, con la successione al trono di Francesco II (1859-1861), figlio di Ferdinando II, la politica estera perse di rilevanza a fronte dell’avanzata garibaldina. Francesco II, detto Franceschiello in tono non proprio lusinghiero, non ebbe possibilità e capacità di ricostruire rapporti con le potenze straniere per ottenerne protezione; allo stesso tempo il rapporto con la popolazione, soprattutto in Sicilia, era oramai compromesso dalla repressione che negli anni era diventata sempre più pesante (Messina era stata bombardata da Ferdinando II, per quello soprannominato “Re Bomba”), e così l’avanzata del movimento unitario non trovò grandi difficoltà nell’abbattere i Borbone.

 

Pietro Costanzo

Buon anno, Afghanistan

Il Giro del Mondo in 30 Caffè – Si è festeggiato due giorni fa in Afghanistan il Nawroz, il capodanno sciita, una delle festività più sentite e in passato vietate dai talebani. Dopo un 2010 particolarmente cruento e segnato dalla ricerca, da parte della coalizione occidentale, di una rapida e indolore via d'uscita, questo nuovo anno nasce in equilibrio sul sottile filo di un termine ambiguo: transizione. Verso cosa?

DA LISBONA A KABUL – …e poi via di corsa. Così potrebbe apparire il nuovo indirizzo politico che emerge nel 2010 in seno alla coalizione internazionale, al suo decimo anno di guerra. Tanti anni, tante vittime, ma soprattutto la concreta difficoltà di dire, oggi, cosa si possa considerare vittoria e cosa sconfitta. Al Qaeda praticamente è stata sradicata dal territorio: una vittoria, ma parziale, perché sacche di terroristi sopravvivono forti a cavallo dei confini col Pakistan e l'Asia Centrale. I Talebani incombono in tante zone del Paese, usano il solito terrore sulla popolazione, fanno guerriglia sempre dura ai nostri militari e intanto trattano in proprio con il governo centrale: sconfitta, ma parziale, perché il fronte talebano adesso è molto meno forte. Così si potrebbero elencare parecchi esempi di parziali vittorie e sconfitte, senza poter tracciare una chiara linea di demarcazione. D'altro canto, dopo dieci anni di combattimenti, i contorni si sfumano anzitutto agli occhi della popolazione che percepisce sempre più le forze militari straniere come occupanti anziché come protettrici, cerca la via della pacificazione nazionale con i Talebani anziché la loro estromissione dal Paese, comincia a maturare scontento verso il governo di Karzai. Ecco allora che diventa prioritario che Karzai, Talebani e militari stranieri chiariscano come e con che tempi intendano rapportarsi alla popolazione, ed è il Summit NATO di Lisbona in Novembre a trovare la chiave di questo riposizionamento: transizione. (Nella foto sopra: festeggiamenti per il Nawroz)

TANTA TATTICA, POCA STRATEGIA – Ma una transizione verso cosa? Anzitutto, verso maggiore sicurezza. Il concetto di sicurezza è però parecchio ampio e tocca tanto la vita militare quanto quella civile. Transizione in questo caso significherà, per come definito a Lisbona, trasferire quanto prima il controllo del territorio nelle mani delle forze di sicurezza afgane da parte degli eserciti stranieri, che proseguiranno, almeno fino al 2014, in una missione che dovrà cercare di convertirsi in missione di formazione e polizia. Se il concetto è certamente valido, non pare però che il contesto sia favorevole: le forze afgane non sembrano tecnicamente e materialmente in grado di gestire il territorio, il programma di affiancamento e formazione sembra frettoloso e, dulcis in fundo, polizia ed esercito sono percepiti dalla popolazione come corrotti e spesso pericolosi. Se non vi sarà infatti un reale miglioramento nel livello di sicurezza umana reale e percepita, difficilmente le operazioni militari e di polizia potranno ottenere risultati stabili. Né pare favorevole la strategia occidentale: essa non dimostra ancora come la missione ISAF possa davvero migliorare la suddetta sicurezza, per ottenere risultati, tutelarsi, e riguadagnare del credito prima di andar via. In questo senso il primo test è già pronto. Appena ieri infatti Karzai ha annunciato le prime sette aree che passeranno a breve sotto il diretto controllo delle forze locali: il distretto di Mihtarlam (provincia orientale di Laghman), le regioni di Panjshir (nord-est), Bamyan (centro) e Kabul (meno il distretto di Surubi), le città di Lashkargah (nella provincia meridionale di Helmand), Mazar-i-Sharif (provincia settentrionale di Balkh) e Herat City. 

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NOI E LORO – Dal punto di vista militare il 2010 ha visto un maggiore impegno in profondità nelle regioni più contese, per guadagnare terreno, ma ha comportato e richiesto più azioni di combattimento, maggiore esposizione dei soldati della coalizione internazionale e di conseguenza più guerra, più vittime militari e civili. Il risultato però non è stato decisivo e le aspettative sono rimaste spesso disattese. Inoltre l'intensità degli attacchi suicidi contro la popolazione e degli attentati con i temutissimi ordigni improvvisati (IED) piazzati sul ciglio delle strade è aumentata, anche in zone del paese generalmente meno toccate delle violenze (ad esempio nel nord). È stato l'anno con più vittime tra gli eserciti occidentali dall'inizio del conflitto.

Per quanto riguarda gli attori locali in campo, andando oltre il dibattito su quali siano i Talebani buoni e quali quelli cattivi, il 2010 ha registrato un fatto positivo, cioè il riavvicinamento e l'instaurazione di una trattativa tra Governo e Talebani, che potrebbe in effetti portare ad un equilibrio di potere interno più rispondente alle reali posizioni sul terreno (nella foto: la tenda in cui si è svolta la Peace Jirga nel 2010). La necessità è però quella di affiancare a questo processo un sostegno per il rafforzamento delle strutture dello Stato, sia a livello centrale che, soprattutto, regionale, altrimenti il rischio sarà quello di tornare ad un frazionamento tale da impedire un qualunque processo di costruzione istituzionale. Il problema cruciale in questa trattativa è che attualmente non esiste un mediatore riconosciuto. ONU, Stati Uniti e Pakistan devono scontare i tanti insuccessi e le ambiguità degli anni passati, mentre Arabia Saudita, Russia e Turchia, pur papabili, non sembrano ancora in grado di guidare una tale trattativa.

COSA ASPETTARSI? – Il rischio Al Qaeda non è oramai alto: per concretizzarsi, i talebani e gli insorti dovrebbero riprendere il controllo totale di parti importanti del territorio, quel che resta di Al Qaeda dovrebbe ri-trasferirsi lì, e dovrebbe essere ripristinata la capacità di formare terroristi. Tutti compiti di lungo periodo: poco o per nulla verosimile che possa accadere. I rischi principali da arginare rimangono traffico di droga, di uomini, e comunque l'estremismo islamico che può destabilizzare le aree adiacenti, come ad esempio i vicini dell'Asia Centrale.

E poi c'è la popolazione, la società civile, l'attore geopoliticamente meno considerato ma il cui peso, se di transizione si vuol davvero parlare, non può che aumentare. Giustizia transizionale e riconoscimento dello status delle vittime, transizione da una economia assistita e che ruota intorno alla guerra a una che possa vedere un minimo di autonomia, transizione verso delle istituzioni più credibili. Questi sono alcuni dei temi che bisognerebbe cominciare a trattare, in parallelo alle questioni militari e diplomatiche.

Il 2011 dunque si pone come l'inizio di un ultimo tentativo che possa consentire di uscire dalla guerra senza lasciarsi dietro solo macerie. Adesso ci sono delle scadenze, non vincolanti certo, ma sapere che il 2014, che il momento del ritiro definitivo delle truppe si avvicina, comporta che delle scelte vengano fatte. I Talebani e gli insorti dovranno decidere se resistere fino al 2014 o se trattare mentre possono ancora ottenere qualcosa non solo da Karzai ma anche dall'Occidente. Gli Stati Uniti e la coalizione internazionale dovranno decidere se defilarsi in sordina passando sulle macerie o se lasciarsi dietro qualcosa che possa evitare di consegnare alla memoria dei popoli solo ostilità.

 

Pietro Costanzo

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La pace e’ l’ultima a morire?

I tumulti in Medio Oriente hanno colto Israele impreparata. La caduta di Mubarak mette in forse il trattato di pace con L’Egitto, unico alleato di peso rimasto nella regione dopo il brusco raffreddamento delle relazioni con la Turchia. Un esito islamista della rivoluzione egiziana rende una nuova guerra arabo-israeliana una possibilità

FRA SPERANZA E TIMORE – In Israele la speranza per un esito democratico delle rivoluzioni arabe si mischia alla preoccupazione per gli equilibri nelle regione. La caduta di Mubarak in Egitto, Ben-Ali in Tunisia, e i tumulti in Bahrein (a maggioranza sciita ma governato dai sunniti) che l’Arabia Saudita sta cercando di reprimere, segnano l’indebolimento dell’asse sunnita e il rafforzamento della posizione dell’ Iran.

LA GIUNTA MILITARE – L’apparato militare ha assunto il compito di guidare la transizione. Il leader del consiglio militare,  Mohamed Hussein Tantawi, ha segnalato che l’atteggiamento verso Israele non e’ cambiato e il trattato di pace non è in discussione. Tuttavia diverse mosse della giunta non fanno ben sperare gli israeliani:  primo, non aver ancora ripristinato la fornitura di gas ad Israele, interrotta dopo che il gasdotto era stato colpito circa un mese fa; secondo, aver nominato un ministro degli esteri, Nabil el-Araby, che ha immediatamente chiesto l’apertura del valico di Rafah, il che significherebbe la fine della collaborazione egiziana al mantenimento dell’embargo su Gaza; terzo, aver indetto un referendum, approvato con il 77% di sì, che fissa le elezioni fra soli quattro mesi – a Giugno si terranno quelle per il Parlamento e a Settembre le presidenziali –  permettendo alla Fratellanza Musulmana di capitalizzare il vantaggio organizzativo di cui gode; quarto, aver permesso il transito nel canale di Suez alle navi iraniane, contraddicendo una consuetudine consolidata, senza ispezionarle.

L’esercito israeliano ha avanzato l’ipotesi che una di queste navi trasportasse le armi trasferite sul cargo diretto a Gaza, intercettato dalla marina miliare israeliana. A bordo c’erano settantamila pallottole per fucile Kalashnikov, quasi tremila proiettili per mortaio, e, soprattutto, sei sofisticati missili anti-nave C-704.

Durante la guerra in Libano del 2006, Hezbollah sorprese il mondo colpendo con un missile una corvetta Sa’ar 5 della marina militare israeliana, danneggiandola e uccidendo quattro marinai. Hamas non ha dimostrato di possedere tale capacità durante l’attacco a Gaza (2008-2009). Se dovesse entrare in possesso di questo tipo di armi, come l’esercito israeliano teme, Hamas sarebbe in grado di limitare la libertà di movimento della marina di Gerusalemme nel corso di future operazioni militari. Per questo la prosecuzione della cooperazione dell’Egitto nel mantenere Gaza sigillata è considerata centrale per Israele.

SINAI – In Egitto gli ufficiali chiedono la revisione di alcune clausole del trattato in merito al prezzo del gas e alla demilitarizzazione del Sinai. Nelle settimane della crisi Israele ha acconsentito il dispiegamento di forze militari per proteggere Sharm e il valico di Rafah, e potrebbe anche valutare limitati modifiche del trattato per permettere un più efficace controllo del Sinai da parte dell’Esercito egiziano. Durante la crisi il Sinai, il cui territorio e grande tre volte Israele, si era trasformato in un’area senza legge per trafficanti di armi e gruppi jihadisti tra i quali Hamas ha cercato di espandere la sua rete di contatti. Se il Sinai diventasse in una rampa di lancio per razzi e colpi di mortaio indirizzati ai civili israeliani, e il nuovo Egitto si dimostrasse non capace o non interessato a combattere il fenomeno, sortite dell’esercito israeliano oltre il confine potrebbero diventare pericolosa fonte di frizione tra i due stati.

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EQUILIBRIO MILITARE – Per il riconoscimento di Israele e il passaggio nella sfera di influenza statunitense, l’Egitto è stato negli anni compensato con quasi 36 miliardi di dollari di aiuti dagli USA. Da allora questi finanziamenti hanno permesso all’esercito egiziano di recuperare parte del gap tecnologico che aveva permesso ad Israele di prevalere nelle quattro guerre combattute contro gli stati arabi tra il 1948 e il 1973. L’esercito egiziano è totalmente dipendente dai trasferimenti di denaro da Washington, che svanirebbero in caso di conflitto, ma se l’Egitto che uscirà dalla transizione si dimostrerà meno amichevole verso Israele, perfino aggressivo, la prospettiva di un’altra guerra arabo-israeliana diventerebbe concreta e l’esito di tale confronto difficile da prevedere.

L’Esercito egiziano conta approssimativamente il doppio degli effettivi di quello israeliano. Dispone di circa 3.500 carri armati (di cui 1000 M1A1 Abrams prodotti in Egitto) contro i 3.700 di Israele (di cui 1.500 Merkava, prodotti in Israele).  L’aviazione conta circa 200 aerei da combattimento operativi (F16s e Mirage2000) contro più di 400 aerei israeliani (f16s e f15s). La marina egiziana è la più grande della regione, vantando 10 fregate, ma le navi Israeliane hanno migliori strumenti di acquisizione bersaglio e guerra elettronica. I sistemi di difesa anti-area dell’Egitto sono basati su tecnologia americana, ma Israele dispone di una sofisticata difesa anti-aerea multi strato, integrata con tecnologie antimissile di ultima generazione come l’Iron Dome (sviluppato in Israele e in corso di dispiegamento), e in caso di conflitto su larga scala potrebbe contare su tecnologie americane esclusive come THAAD e PAC-3. In guerre di media durata, la capacità di riparare o sostituire l’equipaggiamento distrutto, o procurarne di nuovo, è importante quando la dotazione iniziale, e in questo Israele ha un deciso vantaggio.

La bilancia pende in favore di Israele nel confronto diretto con l’Egitto. Se altri attori regionali fossero coinvolti, in particolare Siria e Iran ma potenzialmente anche la Turchia, l’esito di una guerra sarebbe più incerto. In caso di sconfitta convenzionale Israele potrebbe valutare, tra le altre opzioni, l’utilizzo delle armi nucleari, anche se in uno scenario di questo tipo la conseguenza più probabile potrebbe essere un intervento delle forze occidentali per ottenere il cessate il fuoco.

Luca Nicotra

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Obama Redentore?

Il primo viaggio del Presidente statunitense in Sudamerica è stato accompagnato dalla consueta retorica legata al cambiamento. Effettivamente le condizioni per un rilancio delle relazioni tra Washington e il suo antico “cortile di casa” ci sarebbero. Una nuova fase della politica USA verso le Americhe non può però prescindere da un nuovo rapporto con il Brasile

 

CAPOEIRA E CAIPIRINHA – Mentre in Libia la coalizione dei “volenterosi” faceva partire i primi aerei e sparava i primi colpi contro le Forze Armate di Gheddafi, Barack Obama assisteva ad uno spettacolo di capoeira (caratteristica danza-combattimento brasiliana) e camminava mano nella mano con moglie e figlie ai piedi del Cristo Redentore, affacciato sul panorama mozzafiato della baia di Rio de Janeiro. Con tutti i problemi che ci sono nel mondo, tra la crisi maghrebina e la catastrofe giapponese, era questo il momento di prendersi una vacanza? In realtà, la visita in Brasile era stata programmata già da diversi mesi e si inserisce nella prima “tournée” ufficiale del Presidente statunitense in Sudamerica. Dopo la prima tappa brasiliana Obama è volato in Cile lunedì 21 marzo, da dove ripartirà alla volta di El Salvador.

A parte il passaggio obbligato in Brasile, che è una delle principali potenze emergenti sulla scena globale e il più importante attore geopolitico ed economico di tutta l'America Latina, le altre due destinazioni sono i Paesi con i quali – a parte la storica relazione di alleanza con la Colombia e con il Messico – la Casa Bianca intrattiene attualmente i migliori rapporti in America Latina. Quanto agli altri Stati, le relazioni sono in buona parte da ricostruire.

 

BARACK E DILMA – Il primo Presidente statunitense nero che incontra la prima Presidente brasiliana donna: cosa desiderare di più per sfruttare l'effetto mediatico dell'incontro tra Barack Obama e Dilma Rousseff, entrata in carica dopo gli otto anni di Governo Lula? Al di là della retorica, le attuali leadership di Usa e Brasile potrebbero ridare vita alle relazioni bilaterali, dopo alcuni anni in cui – durante la Presidenza Bush ma anche nei primi due anni di Obama – gli Usa si erano sostanzialmente dimenticati del proprio “cugino” sudamericano. Dilma Rousseff ha infatti impresso da subito alcuni cambiamenti importanti alla politica estera brasiliana: su tutti il raffreddamento delle relazioni con l'Iran (dopo l'ambigua amicizia intrapresa da Lula con Ahmadinejad) e la sostituzione del precedente ministro degli Esteri Celso Amorim, fautore dell'avvicinamento a Teheran, con Antonio Patriota, guarda caso ex ambasciatore negli Stati Uniti.

Nonostante le buone intenzioni, tuttavia, sul tappeto ci sono alcuni nodi spinosi da sciogliere e che precludono una robusta ripresa dei rapporti bilaterali. Brasilia vuole ottenere un seggio permanente nel Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite (sempre che la riforma dell'organo venga prima o poi effettuata), Washington vuole mantenere il proprio surplus commerciale nei confronti del Brasile. Gli USA vorrebbero anche che la nazione sudamericana supportasse la sua richiesta alla Cina di apprezzare finalmente lo yuan (che Pechino tiene artificialmente basso per favorire le esportazioni), dall'altra parte il colosso carioca vorrebbe che lo zio Sam rinunciasse a sussidiare i propri produttori di biocarburanti per consentire a quelli brasiliani, ben più efficienti, di espandere il proprio mercato.

Il Brasile sarà un Paese molto appetibile nei prossimi anni in tema di investimenti, soprattutto per quanto riguarda lo sfruttamento dei ricchi giacimenti petroliferi recentemente scoperti al largo dell'Atlantico e per le commesse di opere infrastrutturali che precederanno l'organizzazione dei Mondiali di Calcio nel 2014 e delle Olimpiadi del 2016.

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SEBASTIAN, AMICO MIO – Obama ha lodato il Presidente cileno Piñera per i successi conseguiti nel suo primo anno di mandato, funestato dal terremoto del febbraio 2010 a cui ha però fatto seguito una formidabile e pronta ripresa. Il leader Democratico, additando Santiago come un “modello” per tutto il continente sudamericano, ha sottolineato la buona salute delle relazioni bilaterali, che erano rimaste positive anche durante gli anni di Presidenza di Michelle Bachelet, esponente del Centrosinistra. Gli USA intrattengono una discreta cooperazione con il Cile, che però non è inserita all'interno di un disegno di integrazione regionale ma è bensì volta verso lo spazio del Pacifico. Così strutturata, dunque, l'amicizia tra USA e Cile non può apportare sensibili giovamenti al rafforzamento dei vincoli tra Nord e Sudamerica.

 

PROSPETTIVE – Gli USA non possono prescindere da una relazione strategica con il Brasile, seconda potenza delle Americhe, e con tutta la regione sudamericana, specialmente in un periodo nel quale la supremazia yankee sta venendo meno per effetto della crescita di altre potenze come la Cina. Pechino, attraverso commercio e investimenti, sta accrescendo la propria influenza anche in Sudamerica, andando a coprire lentamente un vuoto geopolitico lasciato colpevolmente vuoto negli ultimi anni dagli Stati Uniti, che hanno concentrato la maggior parte dei propri sforzi in politica estera in Afghanistan e Iraq. Dal punto di vista della sicurezza economica e difensiva, tuttavia, gli USA dovrebbero ricostruire un sistema di relazioni emisferiche. La logica del “divide et impera”, implementata fino agli anni '80, oggi non può più funzionare, ma nuovi rapporti vanno improntati sulla parità e il rispetto reciproco. Ecco perchè il Brasile dovrebbe diventare un alleato fondamentale.

 

Davide Tentori

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Confusione nei cieli

A pochi giorni dall’inizio delle operazioni contro il regime di Gheddafi, la coalizione presenta già divergenze di opinioni su come procedere. Al di là delle problematiche politiche, ampiamente valutate dai media, torniamo ad esaminare alcuni aspetti tecnici, spesso meno comprensibili dal pubblico. Cerchiamo dunque di capire come si svolgono queste azioni e diamo un’occhiata, più in profondità, al testo della risoluzione 1973 del Consiglio di Sicurezza ONU

 

I NOSTRI AEREI NON SPARERANNO? – In seguito alle divergenze sorte all’interno della maggioranza sull’argomento, il Presidente del Consiglio Silvio Berlusconi ha affermato che i nostri aerei non hanno sparato e non spareranno. Tale dichiarazione ricalca un po’ la dottrina D’Alema del 1999, quando l’allora Presidente del Consiglio affermò la nostra estraneità ai bombardamenti. Come allora, le cose potrebbero però risultare differenti all’atto pratico.

 

L’Italia al momento offre un supporto modesto all’operazione aerea, fornendo solo alcuni cacciabombardieri (4-8 a seconda delle fonti) e altrettanti caccia di scorta. Le missioni in cui sono impiegati sono riferite all’implementazione della no-fly zone, che richiede necessariamente anche la soppressione delle difese antiaeree che potrebbero minacciare i voli alleati di controllo sulla Libia.

 

COME SI SVOLGONO LE AZIONI – Si tratta di missioni tipo SEAD (Suppression of Enemy Air Defence), dove i cacciabombardieri volano fino alla zona designata e controllano la presenza di apparati antiaerei attivi, ovvero con i radar accesi. In caso positivo il cacciabombardiere impiega un missile tipo HARM (Homing Anti-Radiation Missile) che si “aggancia” alla radiazione radar; quest’ultima funge quindi da faro e guida il missile su di sé, portando alla distruzione del radar. L’importanza di tali missioni è dovuta al fatto che senza radar le batterie antiaeree sono cieche e i missili terra-aria non hanno alcun segnale a cui agganciarsi per poter essere sparati. Finora sembra che i nostri cacciabombardieri non abbiano mai incontrato radar accesi (perché già distrutti o perché tenuti spenti per paura venissero eliminati), dunque non c’è stata necessità di aprire il fuoco. Tuttavia appare evidente come la decisione di sparare o meno non possa essere effettuata a priori, a meno di ridefinire l’intera partecipazione e quindi autorizzare solo missioni differenti – cosa che non appare militarmente sensata.

 

E GLI ALTRI? – Le missioni tipo SEAD sono alla base delle moderne campagne aeree di bombardamento e una delle modalità per garantire una no-fly zone (assieme alla distruzione dei caccia avversari e delle piste di atterraggio e decollo); sono state effettuate da tutte le nazionalità coinvolte proprio per guadagnare la superiorità aerea. In aggiunta i missili cruise lanciati da navi e sottomarini e le missioni dei cacciabombardieri esteri, in particolare quelli francesi, hanno colpito anche le truppe terrestri di Gheddafi (carri armati, artiglieria, concentrazioni di soldati) e le infrastrutture che ne permettono l’efficienza (posti di comando, depositi di munizioni e carburante).

 

Tali operazioni non ricadono tra quelle necessarie per garantire una no-fly zone, ma sono tra quelle possibili per la protezione della popolazione civile dalla rappresaglia del regime, altro punto espressamente autorizzato dalla risoluzione ONU 1973 del 17 Marzo scorso (paragrafo 4).

 

In effetti è stato grazie alla distruzione di questi bersagli che le offensive contro i rivoltosi sono state parzialmente fermate, tuttavia è evidente che più bersagli si cerca di colpire e maggiori sono i rischi di incidenti e vittime civili, soprattutto a causa della tendenza libica di usare scudi umani, non sempre volontari. Non trovano però conferma le accuse già mosse dal regime, poiché ai giornalisti internazionali a Tripoli e dintorni non è stato finora mostrata alcuna vittima (come invece promesso da giorni) e un reporter indonesiano ha osservato una normale attività negli ospedali.

 

Allo stesso modo non è escluso che non si tenti di eliminare gli esponenti del regime tramite attacchi mirati qualora se ne presenti l’occasione.

 

COSA FARE DOPO? – Il punto infatti non è tanto se le attività attuali siano autorizzate o meno; la risoluzione del Consiglio di Sicurezza è abbastanza chiara su questo punto, pur lasciando spazio ad alcune interpretazioni. Il problema rimane cosa fare sul medio periodo. Una volta soppresse completamente le difese antiaeree – cosa che avverrà in questi giorni – e ridotto drasticamente la capacità offensiva dei lealisti, quale linea verrà seguita? Al momento non è possibile fare previsioni perché esistono notevoli divergenze di opinioni tra gli attori coinvolti. Si vuole la caduta di Gheddafi per mano occidentale? O vogliamo lo facciano i ribelli tramite armi da noi fornite? Oppure basta dividere la Libia in due parti proteggendo la metà est in mano agli insorti? Finché non si avrà un comando ben definito e un obiettivo finale condiviso che rispondano a tali domande, le dichiarazioni contraddittorie continueranno.

 

Lorenzo Nannetti

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Potete leggere tutti gli articoli precedenti su questi temi andando all’indice del Focus Maghreb

L’imprevedibile tsunami

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A distanza di dieci giorni dalla tragedia che ha colpito il Giappone, si possono tracciare i primi scenari geopolitici che si pongono dinanzi al Sol Levante nei prossimi mesi. Il Paese asiatico, già in difficoltà politica ed economica prima del maremoto, potrebbe accusare il colpo irreversibilmente, perdendo altro terreno nei confronti della Cina. Oppure potrebbe trovare le energie per rialzarsi un’altra volta…

 

NELLA FINE… – La peggiore delle catastrofi nel peggiore dei momenti storici: può definirsi così, secondo molti esperti, il terremoto abbattutosi sul Giappone lo scorso 11 marzo. A crollare in Giappone, però, non sono solo gli edifici, le case, i grattacieli, simbolo della sua potenza mondiale, e la sua popolazione, allo stremo delle forze. Il terremoto ha causato una forte scossa anche al sistema interno, ripercuotendosi con i suoi cerchi concentrici in ogni contesto, fino a danneggiare irrimediabilmente il ruolo geoeconomico, geostrategico e geoculturale del Sol Levante. Già prima della catastrofe, gli errori diplomatici commessi dal Partito Democratico nei confronti di Stati Uniti e Cina sembravano condannare il paese ad un infausto destino. Eppure la crisi causata dal terremoto potrebbe dare una nuova occasione al governo di Naoto Kan: il mondo non dimenticherà la sua immagine sull’aereo di Stato, mentre sorvola le aree devastate dallo tsunami, ma è ancora troppo presto per comprendere se abbia fatto abbastanza. Kan ha accettato gli aiuti internazionali, ed è apparso spesso in tv per rassicurare la popolazione, nonostante l’eccessivo ottimismo sulle fughe nucleari, poi smentito dall’evidenza e dal reale pericolo. Di fronte alla catastrofe, anche l’opposizione ha ceduto di fronte a determinati temi discussi negli ultimi mesi in Parlamento. Ma ciò che preoccupa di più, è ovviamente l’economia, non solo del paese, ma anche il suo riflesso sul sistema mondo: nel breve periodo, non si può che pensare al peggio. Non sono state danneggiate solo le sue capacità produttive, ma anche il sistema dei trasporti, le infrastrutture e la possibilità di produrre e rifornirsi di energia, tramite il nucleare: tutto irrimediabilmente da rifare. Sebbene negli ultimi giorni la borsa di Tokyo abbia guadagnato qualche punto percentuale, bisogna aspettarsi che la crescita del PIL giapponese possa assestarsi ad un livello piuttosto basso durante il secondo e forse anche durante il terzo quadrimestre del 2011. L’apprezzamento dello Yen potrebbe esacerbare questo meccanismo, così come le imprese giapponesi potrebbero essere spinte a rimpatriare i propri investimenti per supportare la ricostruzione interna. La Banca Centrale però, insieme con il Ministero delle Finanze, hanno già posto in essere una politica monetaria per scongiurare il pericolo inflazionistico. Non dimentichiamo però che la crisi potrebbe essere più grave del previsto, dato che il Giappone ha già dovuto sopportare un calo dei consumi di un certo livello negli ultimi due decenni, aggravato da una crescita lenta, che l’ha declassato a terza economia mondiale, scavalcata dalla Cina. Se le implicazioni per l’economia interna fanno presagire un disastro, il suo apporto internazionale sarà uniformemente negativo. L’interruzione della normale attività commerciale in Giappone ridurrà la domanda globale e da quel momento l’inflazione diventerà un problema globale, anche a causa della perdita di solidità di una moneta come lo Yen. In più, il problema del reattore a Fukushima non fa altro se non aggravare la situazione. Anzi, il Giappone sembra destinato a lasciare la sua politica nucleare, di cui tanto era sicuro ed orgoglioso. Il paese, già vessato da un forte debito pubblico, con il disastro di Sendai non può che pensare al peggio. Anche una riforma fiscale sarebbe impensabile: significherebbe solo stremare una popolazione ormai al limite. La naturale reazione al disastro sarà quella di rimandare l’importante questione fiscale per almeno un altro paio di anni, lasciando il paese a discutere su problemi più grandi, come l’invecchiamento della forza lavoro, il basso surplus di capitale e una grossa probabilità di fallimento. Con il debito nazionale già al 200% prima del terremoto, le agenzie di ratings hanno affermato che il rischio di una crisi finanziaria diviene sempre più reale, rendendo sempre più veritiera la possibilità che l’economia giapponese venga declassata. In questo senso, quanto accaduto a causa dello tsunami può essere paragonato alla sconfitta finanziaria accaduta tra il 1997 ed il 1998 in Asia Orientale in seguito all’esplosione della bolla tecnologica.

 

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C’E’ UN INIZIO – A muoversi allora non è solo la crosta terrestre, ma anche gli assetti geopolitici: gli eventi recenti potrebbero migliorare le relazioni tra Stati Uniti e Giappone, in un contesto internazionale che sta diventando pian piano sempre più complesso e poco favorevole. Il Giappone ha da sempre accettato la supremazia statunitense nel suo cortile di casa, ma la musica sembrava cambiata già dal 2009, quando il Partito Democratico al governo aveva valutato la possibilità di allearsi con la Cina. I rapporti poi si erano nuovamente raffreddati per via dell’embargo cinese sulle esportazioni, come strumento diplomatico. A seguito del terremoto la Cina ha comunque manifestato la sua empatia, ed il primo Ministro Wen Jiabao ha promesso 4.5 milioni di dollari in aiuto. Questi iniziali approcci fanno presagire ciò che gli studiosi chiamano “il più aspro e nazionalistico riflesso anti-giapponese in Cina che ha avvelenato le relazioni con il Giappone negli ultimi anni”. Gli Stati Uniti invece non hanno perso tempo ad offrire il proprio aiuto, all’inizio rifiutato dal governo di Tokyo: Obama ha espresso il proprio rammarico, promettendo assistenza finanziaria e umanitaria. In più, alla richiesta giapponese, l’America ha prontamente reindirizzato la USS Ronald Reagan e la sua task force dalle coste della Corea del Sud alle aree colpite dallo tsunami. Non è mancato lo sviluppo aereo sulla discussa base di Futenma, ad Okinawa.

 

GIRO DI BOA – Nonostante le alleanze, gli aiuti umanitari, la commozione internazionale e la storica capacità di un paese come il Giappone di riuscire a risollevarsi, Tokyo è ormai al cosiddetto giro di boa. Da una parte la Cina può rinsaldare la propria posizione, e dominare economicamente laddove il Giappone provava ancora a strapparle terreno. C’è poi da valutare la questione nucleare: un discorso che vale per tutti quei paesi che non hanno energia propria, a sufficienza per conservare un certo tenore e determinati obiettivi economici. Un paese così dipendente dall’approvvigionamento dell’energia come il Giappone non può rischiare di inimicarsi l’Europa e gli Stati Uniti, come è accaduto all’Iran. Sta di fatto che il governo di Tokyo ha attualmente la possibilità di agire in maniera audace e responsabile, a pochi giorni dal disastro che ha galvanizzato l’intera opinione pubblica. Sembra quasi di rivedere nella tragedia appena trascorsa e che ancora si sta consumando nel paese, il duplice significato dell’ideogramma orientale che in italiano si legge “crisi”: è anche opportunità di rinascita, e dunque di uscire fuori da un impasse che dura da diverso tempo e ha trascinato il paese verso il crollo economico, la perdita di consenso interna ed un conseguente vuoto di potere preoccupante per la sua tradizione.

 

Alessia Chiriatti

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Caffè150

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Centocinquant'anni di politica estera. Storia e prospettive di una geopolitica italiana. Leggi qui il piano di presentazione dello speciale

Centocinquant'anni di politica estera. Storia e prospettive di una geopolitica italiana. Leggi qui il piano di presentazione dello speciale

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Lo stato della democrazia in Africa – III

Terza e ultima puntata del nostro focus speciale. Dopo il contesto generale e il quadro storico, e dopo l'analisi ricorrente di alcune problematiche (alternanza, ricerca dell'uomo forte, divisione dei poteri, fattori etnici, ruolo delle ex-colonie), è il momento di alcuni esempi concreti, sia positivi che negativi. Se in diversi Paesi si registrano passi in avanti significativi (tra gli altri, la prima donna al governo, in Liberia), permangono ancora molte zone d'ombra, tra cui i casi di Zimbabwe e Costa d'Avorio appaiono paradigmatici. E in conclusione, quale futuro per la democrazia in questo continente?

(Segue. Clicca qui per leggere la prima e la seconda puntata)

PROGRESSI RECENTI – A partire dagli anni Novanta, diverse cose sono cambiate per il meglio, pur rimanendo aperte le complesse questioni di fondo cui abbiamo accennato sin qui.

In alcuni casi, il principio dell’alternanza tra governo ed opposizione ha cominciato a farsi strada: il primo caso fu quello del Senegal (2000), quando l’uscente Abdou Diouf accettò la sua non rielezione a favore dell’oppositore di sempre (Wade), al potere da due mandati ma che ora culla l’idea di farsi succedere dal proprio figlio Karim (gli oppositori spesso cambiano idea quando divengono forza di governo).

Seguirono poi altri casi positivi d’alternanza, normale in altri contesti ma felici novità in Africa: Benin, due volte il Ghana (2000, vittoria dell’opposizione, 2008 ritorno al potere del partito precedentemente sconfitto in elezioni decise per strettissimo margine ma non contestate). In tre occasioni (Mali, Ahmadou Toumani Touré, 1991), Mauritania (Vall 2005) e Guinea (Kounatè) si sono registrati dei casi di colpi militari che al termine di corti periodi di transizione sono sfociati in elezioni libere nelle quali i golpisti non si sono presentati. In Mali, Ahmadou Toumani Touré ritornò al potere mediante elezioni sono anni più tardi, circondato da un’aureola di salvatore della democrazia. Nel caso della Mauritania, purtroppo, la presidenza di Abdallahi fu presto disarcionata da un altro colpo di stato militare, quello di Abdelaziz nel 2008, successivamente legittimato da elezioni cui purtroppo il golpista si presentò.

In Liberia e Sierra Leone, paesi distrutti da tremende guerre civili, si sono svolte elezioni ragionevolmente trasparenti che hanno portato al potere presidenti civili (in Liberia, la prima donna presidentessa africana, Ellen Johnson Sirlaef).

Le elezioni nigeriane del 2005 furono una buona notizia, ma quelle successive furono purtroppo molto meno limpide, dimostrando che il progresso della democrazia non è esente da possibili marce indietro. Alcune elezioni recenti sono state particolarmente significative, e non sono state necessariamente portatrici di buone notizie.

OMBRE RECENTI – In Kenya, Paese nel quale era avvenuta nel 2002 una transizione indolore, l’ex–oppositore Kibaki fece di tutto per farsi rieleggere nel 2007. La sua frettolosa proclamazione come vincitore a conteggio non ancora finalizzato e in presenza di margini strettissimi nei confronti del suo oppositore Odinga, che avrebbero consigliato maggiore prudenza, provocò un inizio di guerra civile, in seguito bloccata per la mediazione di un gruppo di esperti internazionali, che consigliò al Paese l’adozione di una riforma costituzionale che creasse un posto di primo ministro da assegnare allo sconfitto. I risultati dell’elezione non erano chiari, e nella confusione succeduta alla proclamazione di Kibaki molte schede furono bruciate, rendendo impossibile un riconteggio.

In Zimbabwe, nel 2008, il “padre della patria” Robert Mugabe rifiutò d’accettare la sua sconfitta elettorale al primo turno ad opera di Morgan Tsvangirai. Autorità elettorali partigiane dichiararono necessario, in disprezzo d’ogni evidenza, un secondo turno, in attesa del quale i militante dello ZANU di Mugabe si dedicarono ad intimidare (e spesso ad uccidere) i militanti dell’opposizione. Alla fine Tsvangirai si ritirò per evitare ulteriori spargimenti di sangue. Risultato: un Presidente sconfitto nelle urne riusciva a mantenersi alla presidenza, tra l’altro sostenuto nella sua pretesa dalla maggior parte dei suoi colleghi africani, che rispettano molto l’anzianità al potere ostentata da un Mugabe.

La crisi dello Zimbabwe è tra le più gravi. Il malgoverno di Mugabe, che ha portato il Paese – un tempo prospero – alla bancarotta, è potuto proseguire mediante una riforma costituzionale appoggiata dalla comunità internazionale, che ha offerto allo sconfitto un posto, di fatto onorifico, di primo ministro. Ma come si è già visto, in Africa il potere lo gestisce spesso una sola persona, e immaginare soluzioni sulla carta impeccabili serve a poco, perchè la divisione dei poteri non è di facile applicazione nel continente.

Sostenere soluzioni di questo tipo ha il pregio di evitare sanguinose guerre civili, ma il difetto di assecondare l’idea che comportarsi da prepotenti, frodare e intimidire gli avversari alla fine si traduce nel mantenere in un modo o nell’altro il potere: la prepotenza paga, e non è un bel messaggio. Sarebbe molto meglio appoggiare le democrazie africane introducendo su vasta scala, e non solo come eccezione, il principio sacrosanto dell’accettazione del risultato elettorale, quand’anche fosse di corta misura (le elezioni ghanesi del 2008 sono apparse un buon esempio in merito).

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LA CRISI IN COSTA D’AVORIO – L’attuale crisi della Costa d’Avorio è emblematica rispetto alle ambiguità sin qui mostrate. La crisi ivoriana richiederebbe centinaia di pagine per essere descritta compiutamente, e potrebbe rappresentare bene la complessità africana in tutte le sue dimensioni.

Un Paese stabile e prospero sotto il padre dell’indipendenza Houphouet Bigny, alla sua morte nel 1992, senza successore, entra in una deriva che lo porta alla guerra civile, con conseguente instabilità e decadenza. L’oppositore di sempre Laurent Gbagbo ottiene finalmente, non senza difficoltà, una vittoria elettorale nel 2000. Scaduto il suo mandato nel 2005, la divisione tra nordisti e sudisti si accentua sino al punto di rendere impossibili elezioni sino alla fine del 2010. Il contenzioso è il censimento elettorale in un Paese erede dell’Africa Occidentale Francese e dalle frontiere porose. Il censimento elettorale più lungo e caro della storia avrebbe dovuto portare ad elezioni finalmente limpide. Questa era la speranza di tutti, affinchè la normalità potesse tornare in un Paese dal grande potenziale.

Purtroppo, i risultati del secondo turno del 29 novembre 2010 tra l’uscente Gbagbo ed il suo avversario Ouattara non sono stati accettati dal primo, che nonostante l’evidenza della sconfitta, dichiarata dalle autorità elettorali e certificata da Nazioni Unite e da tutti gli osservatori internazionali, ha rifiutato di lasciare il palazzo presidenziale e, forte d’un pretestuoso controconteggio della Corte Costituzionale a lui asservita, ha proclamato il risultato opposto. Ora la Costa d’Avorio ha due Presidenti e due governi, uno riconosciuto da tutta la comunità internazionale, l’altro detentore del potere di fatto. Per l’ostinazione cieca d’un uomo, il Paese è di nuovo alle porte della guerra civile. Tra l’altro, il voto ivoriano è particolarmente interessante, dato che, in maniera eccezionale, non aveva seguito le linee etniche, sconvolgendo le previsioni del presidente uscente.

CONCLUSIONI – Si sono sin qui analizzate alcune delle caratteristiche che rendono complessa l’applicazione piena della democrazia in Africa. È ovviamente un work in progress, ma non si dovrebbe fare l’errore di dare l’impresa per impossibile ed accettare il ricatto dei prepotenti, interessati a che nulla cambi. In pochi hanno il coraggio di non dichiararsi democratici: appare importante però identificare meccanismi che permettano di sostenere le emergenti democrazie africane (osservazione elettorale, internazionale ma anche nazionale; sostegno ai partiti politici, ai media, al sistema giudiziario, ad autorità elettorali indipendenti, alla società civile; condizionalità della cooperazione al buongoverno e dalle riforme economiche nell’interesse generale). Purtroppo, la crescente influenza cinese in Africa, in cerca di penetrazione economica (materie prime) costituisce un’alternativa che ai leader africani piace, perchè non richiede impegni in termini di democrazia e rispetto dei diritti umani. I buoni esempi, anche se ancora minoritari, non mancano, ed i giovani africani meritano d’essere sostenuti e non scoraggiati, in un’epoca nella quale la gioventù araba ha dato a tutti una grande lezione.

I tempi non sono ancora maturi per una piazza Tahrir africana, ma la democrazia dev’essere il futuro anche dell’Africa, perchè i risultati di cinquant’anni di natura diversa non provano affatto che l’Africa abbia identificato una miglior forma di governo.

(3. fine. Clicca qui per leggere la prima e la seconda puntata)

Stefano Gatto [email protected]