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"L'imparzialità è un sogno, la probità è un dovere"

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Per capire: quali missioni compiono i cacciabombardieri italiani in Libia?

Le missioni SEAD (Suppression of Enemy Air Defence) coinvolgono velivoli che si alzano in volo e vanno sulla zona predefinita. Se i radar nemici si “accendono”, i cacciabombardieri sparano missili tipo HARM (Homing Anti-Radiation Missile) che si agganciano (lock-on) sulla radiazione radar.

 

 

Quest’ultima di fatto “guida” gli HARM su se stessa e quindi permette al missile di colpire il radar (ricordate che una batteria antiaerea senza radar che lo guidi è cieca e non può sparare perché non ha un segnale a cui il missile si può agganciare). Se il radar è spento, non c’è alcuna radiazione che permetta ai missili di essere sparati con successo, ma come detto sopra le difese antiaeree di fatto sono spente.

 

Quindi i nostri cacciabombardieri che recentemente si sono alzati in volo, sono arrivati nell’area assegnata, hanno verificato che i radar erano spenti (perché? proprio per paura venissero distrutti) e sono tornati a casa: la missione è stata un successo perché ha raggiunto gli scopi (distruzione o verifica dell’inazione della difesa antiaerea) senza perdite nostre o civili. L’Italia al momento offre cacciabombardieri per missioni SEAD e caccia intercettori di scorta.

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Vento caldo sulla Libia

Odyssey dawn, Ellamy, Harmattan, Mobile: tanti nomi per la stessa operazione. Dopo settimane di tentennamenti e delicati negoziati dietro le quinte, è stato necessario che le forze di Gheddafi arrivassero alla periferia di Bengasi e il Colonnello minacciasse una sanguinosa rappresaglia perché il Consiglio di Sicurezza ONU autorizzasse l’uso della forza contro il regime libico per proteggere i civili. Guidate da Francia e Gran Bretagna, le operazioni militari sono ora partite: cerchiamo di capire cosa significa

 

DIETRO LE QUINTE – Quello che più ha stupito l’opinione pubblica è stata la lentezza nel reagire a una situazione che già da settimane appariva disperata per i ribelli, soprattutto se si considera la richiesta diretta di intervento da parte della Lega Araba e dei rivoltosi stessi, oltre alla disponibilità fornita da Parigi e Londra per un intervento immediato. Ma dietro le quinte le manovre diplomatiche sono state più complesse, con Russia e Cina riluttanti ad autorizzare l’appoggio di una rivolta interna a un paese che potrebbe sempre essere utilizzato come precedente nel caso simili situazioni si verifichino anche in casa propria. Da parte USA invece è emerso il desiderio di non voler aprire un nuovo fronte militare che potesse apparire una riedizione dell’intervento in Iraq del 2003 senza un chiaro mandato ONU.

 

COSA E’ CAMBIATO? – E’ cambiata la situazione sul campo. Proprio i successi del Colonnello e le minacce di repressione hanno posto soprattutto la Cina di fronte all’impossibilità di rifiutare ancora l’appoggio. L’astensione (in opposizione al VETO che avrebbero potuto opporre se fossero stati davvero contrari) permette loro di mantenere una posizione defilata per non apparire troppo allineati all’Occidente, dando comunque il via libera alla risoluzione ONU e seguenti azioni militari.

 

Dunque la NATO è il braccio armato dell’operazione, ma il mandato è ONU e, cosa più importante e più volte rimarcata dal Presidente Obama, agisce su richiesta esplicita e diretta della Lega Araba. Una situazione molto più simile alla Guerra del Golfo del 1991 che a quella del 2003.

 

OPERAZIONI MILITARI – Differenti sono anche le modalità operative, più simili al Kossovo-Serbia del 1999. L’opzione di terra non è infatti un’opzione, esplicitamente esclusa dal mandato ONU e dalle richieste arabe, e che comunque comporterebbe rischi eccessivi per le necessità attuali. Ma come scrivevamo pochi giorni fa, una semplice no-fly zone non è stata giudicata sufficiente allo scopo. Già, ma qual’è lo scopo?

 

Se l’obiettivo strategico sul lungo termine rimane quello di abbattere il regime di Gheddafi, quello operativo al momento è molto più ridotto e coinvolge lo smantellamento della capacità militare del regime, principale rischio per i rivoltosi e i civili, fino a giungere a un cessate il fuoco. Ecco quindi che assieme al controllo dello spazio aereo e alla soppressione delle difese antiaeree locali i cacciabombardieri alleati e i missili Tomahawk lanciati dalle navi bersagliano attivamente concentrazioni di truppe a terra (in particolare carri armati ed artiglieria), basi aeree, depositi di munizioni e carburante per mezzi militari, centri comando e di comunicazione. Lo scopo è eliminare gran parte della potenza di fuoco e capacità operativa delle truppe di Gheddafi, fino ad ora decisivi nello svolgimento della guerra civile in atto sul terreno. I nuclei di truppe lealiste che sono già penetrati nelle zone urbane contese, come le forze speciali della brigata Khamis alla periferia di Bengasi, sono sicuramente meno vulnerabili proprio per la difficoltà di colpirli senza rischiare vittime civili. Tuttavia la speranza è che il crollo della struttura militare che li supporta possa di fatto bloccarne l’avanzata e costringerli a ripiegare.

 

Contemporaneamente team di truppe speciali e osservatori sono molto probabilmente stati inviati sul posto per segnalare i bersagli e prendere maggiore contatto con i rivoltosi, organizzarli e coordinare meglio la loro azione.

 

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BREVE E LUNGO PERIODO – Le modalità dell’operazione potranno ovviamente variare col tempo, adeguandosi alla situazione sul campo, ma l’intera questione andrà valutata su due aspetti. Sul breve periodo è prevedibile un enorme successo della campagna di bombardamento. Le difese libiche – in particolare quelle antiaeree – sono obsolete e si dimostrarono del tutto inadeguate già negli anni ‘80. Ogni bersaglio in campo aperto è del tutto vulnerabile e destinato a essere colpito e distrutto in rapida successione, mentre quelli meno scoperti saranno di fatto immobilizzati e, pur continuando a combattere, perderanno parte della loro efficacia.

 

Sul lungo periodo invece la questione è differente: Gheddafi non è Milosevic e difficilmente si dimetterà o verrà estromesso da una campagna di bombardamenti. Inoltre non è detto che le truppe lealiste crollino velocemente e il conflitto potrebbe richiedere molto tempo per risolversi, soprattutto perché sono i rivoltosi a terra a dover riconquistare il terreno fino ad abbattere il regime, almeno nell’intenzione della comunità internazionale. La speranza è che tante unità dell’esercito regolare libico decidano di appoggiare la rivolta piuttosto che rischiare la distruzione per mano alleata; eppure anche in questo caso non si prevede una soluzione rapida.

 

Il regime di Gheddafi può essere disarmato abbastanza rapidamente. Ma rovesciarlo è tutta un’altra questione, e non è un caso che gli alleati si siano riservati un cavillo: l’obiettivo dichiarato è il cessate il fuoco, non l’estromissione del Colonnello. Un modo per mantenere aperta la possibilità di passare a una strategia diplomatica quando l’opzione militare avrà esaurito la propria utilità.

 

Lorenzo Nannetti

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Lo spettro russo nei paesi baltici

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Recentemente uno scandalo ha colpito il capo dell’opposizione estone, accusato di aver ricevuto finanziamenti da una ONG russa e di subire oltremodo l’influenza di Mosca. L’opinione pubblica baltica è da sempre molto attenta alle mosse russe e i tentativi di resistere all’influenza di Mosca devono scontrarsi con la dipendenza energetica che lega le tre repubbliche al colosso energetico russo

IL CASO ESTONE – Il leader dell’opposizione e sindaco di Tallinn, Edgar Savisaar (foto) è stato accusato di aver ricevuto finanziamenti da una organizzazione non governativa russa legata alla persona di Vladimir Yakunin, uno degli uomini più potenti al Cremlino, per la costruzione di una chiesa russo-ortodossa e di essere per questo un “agente di influenza” di Mosca nella politica estone. Questo fatto, in qualche modo percepito come uno scandalo, ha probabilmente influenzato anche l’esito delle elezioni parlamentari estoni del 7 marzo scorso, nelle quali il partito di Savisaar – prima della consultazione valutato come partito di maggioranza all’interno del centro sinistra – ha registrato un calo rispetto alle precedenti elezioni e un aumento netto dei voti a favore dell’altro partito di sinistra, il partito socialdemocratico. Savisaar ha negato qualsiasi coinvolgimento e ha affermato che le vere motivazioni dello scandalo fossero politiche, proprio dovute all’imminenza delle elezioni. Infatti, l’opinione pubblica estone, e baltica più in generale, è molto suscettibile e timorosa rispetto a qualsiasi influenza russa nella regione, e sussiste una sorta di paura collettiva rispetto ad un ritorno russo nell’area sotto qualsivoglia forma.

INFLUENZA ECONOMICA E INFLUSSO DI CAPITALI – Che la Russia desideri mantenere la presa sui paesi dello spazio post sovietico è innegabile. Occorre però fare subito una distinzione su modalità e intensità. Infatti, mentre Ucraina, Bielorussia, Caucaso e Asia Centrale hanno mantenuto legami molto stretti con la Russia e ne subiscono una forte influenza, i paesi Baltici sin dai giorni post indipendenza hanno orientato i loro obiettivi di politica estera verso legami più stretti con l’Occidente e hanno cominciato immediatamente un percorso di integrazione nell’UE e nella NATO. L’influenza russa nell’area baltica dunque deve fronteggiare una certa resistenza da parte dell’opinione pubblica e delle amministrazioni politiche, e segue le direttive di una influenza economica piuttosto che quelle di una influenza politica diretta come accade invece negli altri paesi dello spazio post sovietico. Questo tipo di influenza economica si palesa in vari modi. Uno di questi include il tentativo russo di acquisire il controllo di aziende e compagnie baltiche. A questo proposito, il processo di privatizzazione delle numerosissime industrie pubbliche ereditate dal periodo sovietico si è rivelato particolarmente problematico per Estonia, Lettonia e Lituania. La Russia, infatti, ha cercato in più occasioni di acquisire il controllo di queste imprese, ingenerando paura e azioni confuse di rifiuto da parte delle amministrazioni politiche baltiche, che spesso hanno preferito ri-nazionalizzare le compagnie o accettare accordi meno vantaggiosi da altri offerenti piuttosto che accettare l’ingresso di capitali russi. Questo atteggiamento non ha fermato il Cremlino, che comunque mantiene molte altre possibilità di influenza sui paesi baltici, soprattutto dal punto di vista energetico.

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L’ENERGIA COME STRUMENTO NEGOZIALE E DI PRESSIONE – La sicurezza e l’economia delle tre repubbliche baltiche sono state spesso minacciate dalla loro dipendenza dalle risorse energetiche russe: gas e petrolio. Mosca ha spesso e per lungo tempo chiuso i rubinetti energetici e lasciato vuote le condutture verso i paesi baltici, che dipendono dal gas russo al 100%: è facile capire che una chiusura politica da parte della Russia è in grado di danneggiare enormemente la produzione industriale dei tre paesi. Inoltre, data la leadership russa nel settore, i mercati baltici sono di una entità trascurabile per le esportazioni russe, cosa che rende possibile per Mosca chiudere i rubinetti in modo piuttosto discrezionale in caso di controversie politiche. Un altro elemento da considerare è l’essenzialità dell’approvvigionamento energetico, che pone la Russia in una posizione negoziale di favore e può forzare gli stati partner a fare concessioni nelle negoziazioni con Mosca.

È quello che pare dunque accadere anche nei confronti di Vilnius, Tallinn e Riga, dove l'influenza russa su questi paesi – che ricordiamo sono parte della UE – per quanto osteggiata, trova pochi ostacoli.

 

Tania Marocchi

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Elezioni per il cambio?

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Domenica 20 marzo si svolgerá il secondo turno della campagna presidenziale ad Haiti, che è stata caratterizzata da ritardi, accuse di frodi ed ostacoli legati alla ricostruzione del paese. Ecco i due candidati,  con le loro rispettive proposte per il cambio, in uno Stato ancora devastato dagli effetti del terremoto e dalla povertà.

 

SECONDO TURNO – Ad Haiti tutto é differente e le sorprese diventano spesso all’ordine del giorno, ci si incomincia ad abituare. É il caso dell’elezione presidenziale alla quale sono chiamati a votare i cittadini haitiani, un processo iniziato lo scorso 28 novembre, con lo svolgimento del primo turno e che si terminerá, salvo sorprese, domenica 20 marzo. Due i candidati rimasti, Mirlande Manigat, già First Lady ed intellettuale riconosciuta, il cui marito Leslie aveva rappresentato il primo governo legittimamente eletto nel 1988 dopo la dittatura decennale duvalierista e vittima, dopo solo cinque mesi di governo, di un colpo di stato militare. Il suo avversario é Michel Martelly, alias “Sweet Mickey”, fino a tempi ancora molto recenti, un popolare cantante della scena musicale haitiana, ammirato dai piú giovani per i quali rappresenta il cambio. Per giungere a questa configurazione, tuttavia, sono stati necessari due mesi di attesa, una revisione dei risultati del primo turno elettorale -sul quale aleggiavano sospetti di frodi-, il dispiegamento di una missione d’esperti dell’Organizzazione degli Stati Americani che ha invertito l’esito iniziale dello scrutinio che aveva sancito il candidato filogovernativo, Jude Celestin, al secondo provvisorio posto con solo 7,000 voti di vantaggio su Martelly. Tutto ció sullo sfondo di proteste da parte dei sostenitori delusi di Martelly che hanno paralizzato la capitale Port-au-Prince per vari giorni seguenti il primo turno e di fatto ottenuto che la verifica dei risultati.

 

MARTELLY – Il primo turno é stato vinto da Mirlande Manigat (32%)  con 10 punti di vantaggio sul suo rivale. Questo peró non le assicura il posto di favorita nei pronostici. Michel “Sweet Mickey” Martelly, i cui concerti sono noti per le sue movenze sensuali, ha saputo mobilitare la popolazione in suo favore, soprattutto nelle campagne dove si trova la base elettorale del suo partito “Reponz Paysans”, Risposta  Paesana.  Un sondaggio condotto all’inizio di marzo lo situa in prima posizione col 50,6% delle preferenze contro il 46,2% della sua rivale.

 

MANIGAT – Martelly si dice essere il candidato del cambio da “30 anni di sistema”, definizione nella quale include la sua avversaria. Mirlande Manigat, 70 anni, professoressa di diritto costituzionale di una prestigiosa universitá haitiana, per un certo tempo residente all’estero -in Francia-, a dire il vero non sembra che rappresenti proprio l’aspetto del cambio. Ciononostante, la “professoressa” come ironicamente la chiama Martelly, si é sempre opposta ai governi che si sono succeduti in Haiti dopo il colpo di stato contro suo marito. Manigat, che conta con l’appoggio della numerosa diaspora haitiana all’estero, soprattutto negli USA e in Canada, rappresenta un discorso coerente, cosa che ha mancato al suo avversario durante il dibattito televisivo che si é svolto la settimana scorsa per la prima volta per Haiti. In uno scambio fra i due contendenti, incalzato da Manigat a definire la Corte Costituzionale -una istanza di cui il paese é drammaticamente sprovvisto a causa della scarsa volontá politica mostrata dai suoi dirigenti attuali, il candidato Martelly non ha potuto che balbettare un accenno di risposta. La “professoressa” invita a non cedere alla tentazione populista ed inesperta che giudica essere rappresentata da Martelly.

 

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PROSPETTIVE – Con due proposte che si definiscono incarnare il cambio, questa é una delle domande alle quali la popolazione é chiamata a rispondere. Il secondo punto di domanda riguarda chi, fra i due candidati, avrá maggiori chances di portare avanti il suo programma. Washington, che da anni considera l’isola come parte del suo cortile, e ne influisce le scelte, non é notoriamente a favore del cambio. La vera questione é quindi chi fra Martellly e Manigat sará capace di metter in avanti gli interessi del paese, in primis la urgente ricostruzione dal devastante terremoto avvenuto all’inizio del 2010 e le cui ferite rimangono aperte, negoziando con una Comunitá Internazionale molto presente in Haiti.

 

La revisione dei risultati del primo turno elettorale ha avuto l’effetto benefico di pacificare gli animi della popolazione e tutto lascia pensare che il comizio di domenica si svolgerá con relativa calma. Questa sarebbe giá una grande differenza rispetto al passato. Se poi l’afflusso alle urne superasse la misera media del 10% alla quale hanno abituato le elezioni in Haiti, potrebbe anche essere che il cambio stia davvero arrivando.

 

Gilles Cavaletto

Un ‘affaire’ di ‘justicia’

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La vicenda di Florence Cassez, cittadina francese condannata a sessant’anni di reclusione in Messico, si sta trasformando in un incidente di politica estera tra il Paese centramericano e Parigi, due paesi amici diplomaticamente da lungo tempo, anche se attraversati da una certa sfiducia recondita che risale al XIX secolo quando la Francia invase per brevi periodi il territorio messicano. L’episodio è l’occasione per riflettere sul cattivo stato della giustizia messicana.

L’ARRESTO – Il 9 dicembre del 2005 con una spettacolare operazione la polizia federale messicana entrò in una casa del Estado de Mèxico, regione a poca distanza da Città del Messico, dove trovò varie persone sequestrate e catturò la banda di criminali, Los Zodiacos, che aveva terrorizzato la zona nord della capitale. Tra i detenuti vi era Florence Cassez, cittadina francese arrivata in Messico da poco più di due anni, quando si era innamorata probabilmente di uno dei capi della banda, decidendo di rimanere in terra azteca. Settimane dopo la detenzione le autorità riconobbero che l’arresto della Cassez era avvenuto il giorno precedente e che si era inscenato l’ingresso nella casa affinché le televisioni avessero immagini “di effetto” da mandare in onda. I sequestrati dissero che anche se la detenzione ripresa dalle telecamere era stata ricostruita, effettivamente si era svolta come era stato rivelato dai media; secondo la versione della francese invece l’arresto era stato effettuato in autostrada quando, fermata per un controllo di routine, i poliziotti avevano riconosciuto il fidanzato pluriricercato. E questa messinscena, sempre secondo Cassez, sarebbe stata l’inizio della serie di irregolarità e prove false create probabilmente ad arte per condannarla a 60 anni di prigione per vari sequestri. 

LA GIUSTIZIA IN MESSICO – Non sappiamo se fosse una criminale o povera vittima delle autorità giudiziarie messicana: quello che preme sottolineare in questo articolo è il precario stato di salute della giustizia in Messico, soprattutto in campo penale, come segnalato da varie organizzazioni internazionali in ripetute occasioni. Fabbricazioni di delitti, prove false, testimoni che firmano in bianco le loro dichiarazioni, imputati che non vedono mai il giudice, torture e altre pratiche discutibili sono particolarmente diffuse. E la Francia lo sa. Per questo ha chiesto ripetutamente che Cassez possa scontare la sua pena in patria, pena che verrebbe ridotta a 20 anni per la legislazione francese. Negli anni vi sono anche state anche numerose manifestazioni di piazza a Parigi per chiedere la sua liberazione o per lo meno un giudizio giusto.

SARKOZY – Tuttavia il Messico ha sempre chiesto rispetto per i propri processi interni, in nome dell’autonomia e della non ingerenza, rifiutandosi di concedere l’estradizione ma ricordando che Florence Cassez può rivolgersi alla giustizia messicana come qualunque persona e chiedere la revisione del processo, come effettivamente sta facendo, dato che il mese scorso ha appellato l’ultima sentenza possibile che l’ordinamento messicano permette. D’altro canto, questa presa di posizione del Presidente francese Nicolas Sarkozy di dedicare a Cassez le celebrazioni dell’anno messicano in Francia pare leggermente fuori luogo: per quanto il tema stia a cuore al Presidente francese, che in tutti i suoi viaggi messicani ha fatto riferimento al caso, non pare logico che una estradizione mancata possa rovinare la relazione diplomatica tra due paesi così importanti. In seguito a questa decisione, il Messico ha deciso di sospendere gli eventi legati all’evento in questione. Le celebrazioni annullate erano un investimento per entrambi i paesi, visto che erano state progettate da svariato tempo e prevedevano una serie di scambi pubblicitari per promuovere entrambi i paesi.

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LA LIBERA STAMPA – Nonostante ciò sui giornali francesi sono state dedicate poche notizie alla vicenda. Invece in Messico pare la principale notizia accaduta negli ultimi anni nell’ambito delle relazioni internazionali: commenti, opinionisti infuriati, note marche di prodotti francesi che cambiano la loro pubblicità. Forse per distrarre l’opinione pubblica dalla violenza quotidiana che infuria tra la polizia e le bande del narcotraffico. Il bilancio è di 35000 morti solo negli ultimi 6 anni.

Andrea Cerami (da Città del Messico)

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Lo stato della democrazia in Africa – II

Seconda puntata del nostro documento. Dopo aver esaminato il contesto generale e il quadro storico, entriamo nello specifico su alcune problematiche, che partono dalla ricerca di un “uomo forte”: oltre alla difficoltà dell'alternanza e della condivisione della leadership, che porta a un potere assoluto e a rielezioni pressochè infinite, guardiamo ai fattori etnici, assolutamente determinanti, senza dimenticare il ruolo delle ex-potenze coloniali, spesso tutt'altro che positivo

Se – come visto nella prima parte dell'analisi – la ricerca dell’uomo forte, del capo supremo è connaturata alla psicologia africana, questa caratteristica ha una serie d’inconvenienti per l’affermazione d’una democrazia piena nel continente.

IL POTERE NON SI CONDIVIDE – In primo luogo, alimenta il concetto che il potere appartiene ad uno solo, e che non è trasferibile: da qui l’ossessione di molti presidenti africani per perpetuarsi nel potere, sino alla morte. D’altra parte, la fissazione dei presidenti africani con il loro potere assoluto, senza limiti, vanifica il concetto di divisione di poteri, fondamentale per il funzionamento d’una democrazia. Governi, giudiziario, stampa, tutto deve essere sottomesso alla volontà e controllo del leader, che con il tempo tende ad isolarsi sempre più nel suo palazzo, circondato da sicofanti.

Molte costituzioni africane, ad esempio nell’Africa francofona, sono modellate su quella della V Repubblica francese, ma non portano affatto agli stessi risultati, rimanendo spesso lettera morta quando applicate in un contesto africano.

L’ALTERNANZA DIFFICILE – Se il potere appartiene per sempre ad un uomo forte, l’alternanza per via delle urne non è vista come un cammino possibile, ma in fondo neanche sempre desiderabile. Spesso in Africa s’apprezza di più la forza di chi ha vinto una guerra che quella di chi saputo vincere delle elezioni: pensiamo alla caduta di Mobutu dopo anni di potere in Zaire. Non portò al potere l’eterno oppositore Tsikehedi, ma Laurent Desirè Kabila, signore della guerra. Allo stesso modo, si può considerare la forza che all’angolano Dos Santos derivò dall’essere il vincitore della guerra civile che l’oppose per anni all’Unita di Savimbi: gli accordi successivi alle prime elezioni tra MPLA e UNITA non poterono mai funzionare, perchè una vicepresidenza come quella concessa allo sconfitto Savimbi non è nulla in Africa. E ancora, la legittimità eterna che la vittoria bellica concede a leader peraltro anche con caratteristiche positive come Kagamé in Rwanda o Museveni in Uganda.

IL FATTORE ETNICO – Altra anomalia derivante dal potere assoluto nella persona del leader è la natura etnica del consenso politico. Salvo poche eccezioni, i partiti africani sono organizzati, al di là dei loro nomi, non secondo linee ideologiche o programmatiche ma secondo divisioni etniche, perfettamente conosciute ai votanti, che tendono a scegliere il partito della loro etnia o tribù, non il partito di cui preferiscono le idee.

La democrazia funziona male in caso gli elettori pensino in questo modo: perchè il dibattito fra idee contrapposte non avviene mai, e le campagne elettorali africane ne sono prive. Questo non alimenta un humus, fondamentale in democrazia, di dibattiti o proposte alternative. Prevalgono invece messaggi d’appartenenza etnica e spesso fautori di divisione.

Male hanno fatto le internazionali politiche ad accettare nel loro seno partiti africani basandosi solo su denominazioni prive di significato o testi di statuti del tutto disattesi nella pratica. Questo le ha trascinate ad appoggiare candidati e partiti che tali appoggi internazionali non meritavano affatto (vedi il caso recente di Gbagbo in Costa d’Avorio).

In molti casi, la politica africana è quindi etnica e personalista. La gestione del potere segue poi gli stessi parametri:

_ sovrarappresentazione dell’etnia al potere nei governi, uffici pubblici ed esercito;

_ discriminazione delle altre etnie, in totale disprezzo alla cultura del merito e della competenza;

_ conseguente cattivo funzionamento della pubblica amministrazione e sviluppo d’una cultura patrimonialista e di politiche economiche e infrastrutturali non legate a piani coerenti di sviluppo ma alla distribuzione sul territorio delle differenti etnie.

Questo è particolarmente vero in grandi Paesi, nati a seguito della sparizione degli imperi coloniali ma poco coesi sul piano interno (Nigeria, Camerun, RD Congo) ma anche nei paesi del Golfo di Guinea, dove generalmente esiste una divisione storica di fondo tra etnie della costa (commercianti) e etnie dell’interno (di ascendenza guerriera e economicamente legate all’allevamento e all’agricoltura).

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IL POTERE ASSOLUTO – Se quindi il potere assoluto è gestito come tale, poco cambia che sia fondato in elezioni o in un conflitto. Una volta che lo si ottiene, non lo si lascia. Essere oppositore in Africa è mestiere ingrato, privo di spazi, ruoli chiari e prospettive di diventare un giorno governante, a meno che non si diano condizioni particolari. Difficilmente si ottengono grandi appoggi, salvo quelli della propria etnia e semmai di qualcun’altra anch’essa emarginata, ma che ambirà piuttosto a gestire essa il potere tramite un suo rappresentante appena possibile.

RIELEZIONI INDEFINITE – Dal canto loro, i presidenti da tempo al potere, ora eletti, hanno progressivamente eliminato regole costituzionali che li rendevano non rieleggibili o rieleggibili solo una volta. Uno dopo l’altro, vari presidenti hanno ottenuto riforme costituzionali, avallate da poteri non indipendenti a loro soggetti, che hanno trasformato le loro presidenze in monarchie costituzionali. Come monarchie di fatto nonostante la parvenza repubblicana, un’altra tendenza in corso in Africa è quella della successione, alla morte del capo, solo da parte di suo figlio, la cui legittimità può essere o no elettorale, ma è fondamentalmente di sangue. Togo (prima di fatto, e successivamente con elezioni), Gabon (mediante elezioni sospette), RD Congo i casi più recenti. Quest’ultimo fu il caso più sorprendente, dato che Joseph Kabila, figlio di Laurent Desiré, era praticamente sconosciuto fino all’assassinio del padre, ed imposto dall’esercito come successore. Nel 2006, dopo qualche anno al potere, vinse delle elezioni (le prime nella storia del Paese) ed ora le regole sono state modificate in maniera da assicurarne la rielezione nel 2011.

IL PATERNALISMO COLONIALE – Le ex–potenze coloniali hanno spesso mantenuto politiche poco positive in Africa, sostenendo con frequenza, in nome della realpolitik, uomini forti che poco meritavano tali appoggi, in spregio del loro malgoverno e delle loro dubbiose (o inesistenti) credenziali democratiche, che del resto poco importavano almeno sino agli anni Novanta.

Troppo spesso gli ex–dittatori si sono trasformati in presidenti eletti in esercizi elettorali che solo a fine anni Novanta sono stati sottoposti a serie osservazioni internazionali (che devono essere credibili e di lungo periodo, non limitarsi a turismo elettorale nella settimana del voto). La politica di cooperazione allo sviluppo, pur necessaria per accompagnare il processo di consolidamento di paesi fragili, troppo spesso è stata ostaggio di malgoverno e corruzione che non erano ignorate ma non sufficientemente combattuti.

(2. continua. Rileggi qui la prima parte del focus)

Stefano Gatto [email protected]

Non più unici decisori

Il Giro del mondo in 30 Caffè – Con un’intervista a Mattia Toaldo, esperto di politica estera americana, facciamo il punto su come Washington sta guardando agli eventi del Maghreb di inizio 2011. Tra gli altri spunti, il tema wikileaks e il rapporto con l’Europa, da cui emerge un quadro che conferma la nostra cartina “al rovescio”: i rapporti sono tutt’altro che solidi, e – ci piaccia o no – una rappresentazione del mondo “atlanticocentrica”, con l’Europa in mezzo, appare quanto mai obsoleta

 

Mattia Toaldo ha preso un dottorato di ricerca a Roma Tre in Storia delle Relazioni Internazionali, studiando la politica di Reagan in Medio Oriente. Dal 2003 al 2006 ha scritto di economia per il Messaggero. Attualmente insegna politica italiana agli studenti americani dell’IES di Roma, svolge ricerche sul Medio Oriente e gli Usa presso il Geopec-CRS, scrive per Limes, Affari Internazionali, Quale Stato ed Aspenia. È uno dei fondatori di America 2012 ed è uno dei curatori del blog italia2013. Ha vissuto per vari periodi negli Stati Uniti tra la California, il Texas e Washington. A lui rivolgiamo qualche domanda relativa agli eventi delle ultime settimane, al polverone Wikileaks e al rapporto con l’Europa, da dove emerge che questa relazione non sta certo vivendo i momenti di maggiore solidità e unità.

 

Accantonata la dottrina della guerra preventiva voluta da Bush, l’amministrazione Obama si è da sempre orientata nel considerare l’uso della forza come ultima ratio.La politica estera statunitense è ancora ferma su questo indirizzo o sta cambiando qualcosa?

 

Ritengo che Washington non si muoverà da questo indirizzo.

Ciò di cui si discute oggi non è certamente il ritorno ad una politica di attacchi preventivi bensì all’attuazione di una no-fly zone più simile alle politiche applicate negli Stati Uniti negli anni 90.

La dottrina dell’attacco preventivo presupponeva una superiorità militare non più ipotizzabile oggi, con gli Stati Uniti impegnati attivamente in operazioni di presidio in Iraq e Afghanistan.

 

A margine del caos nordafricano generatosi dalla caduta di alcuni decennali regimi autoritari (ed in particolare nel rapido evolversi degli eventi in Libia) quale dovrebbe essere e quale sarà il ruolo di Washington nella gestione e risoluzione di tale crisi?

 

Prima di tutto va detto che queste crisi evidenziano come gli Stati Uniti non siano più l’unica potenza ad avere l’esclusività decisionale in quella regione, il loro ruolo deve svolgersi necessariamente con l’appoggio di altri soggetti.

Ad esempio nell’attuazione dell’eventuale no-fly zone in Libia gli Stati Uniti necessitano del via libera della Lega Araba da una parte e della cooperazione con l’Unione Europea dall’altra.

Certamente, in alcuni scenari Washington continua a ricoprire un ruolo chiave; in Egitto, gli USA forniscono importanti aiuti militari e dunque hanno un potenziale di pressione elevato come anche in Israele, dove gestisce la partita importante del processo di pace con la Palestina.

 

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Qual è stata l’effettiva ripercussione generata dalle pubblicazioni di Wikileaks sui rapporti diplomatici tra gli Stati Uniti ed il resto mondo?

 

Sin da principio l’approccio alla politica estera dell’amministrazione Obama è stato orientato nel favorire le relazioni diplomatiche, dopo che queste negli ultimi anni di presidenza Bush hanno subito alcune sostanziali battute d’arresto.

La diplomazia da sempre si è basata su un certo grado di segretezza e fiducia tra gli interlocutori, è ovvio che la divulgazione di questi rapporti abbia minato la base fiduciaria.

Sicuramente però l’impatto è stato inferiore rispetto a quello che ci si sarebbe potuto attendere. Tuttavia Wikileaks ha contribuito a diffondere il parere della diplomazia americana su alcuni regimi, come quello tunisino di Ben Ali e dunque può aver influenzato l’accelerazione degli eventi che hanno portato al colpo di stato.

 

Europa e Stati Uniti, alleati nella difesa dello stato democratico ma in competizione su diversi fronti, primo tra tutti quello economico. Che grado di cooperazione esiste in realtà tra Washington e Bruxelles?

 

In realtà non vi è una grande cooperazione. Un luogo comune vuole che l’Europa non abbia una effettiva strategia univoca in tema di politica estera, in realtà non è esattamente così.

Pur essendo differente da quella degli Stati Uniti, la politica estera dell’Ue è basata sullo stanziamento di aiuti economici e sull’inclusione nei mercati interni europei.

Anche in Medio Oriente l’Ue è presente con alcuni finanziamenti autonomi rispetto agli stanziamenti americani.

Una maggiore cooperazione sicuramente potrebbe essere utile nell’accelerare i tempi del processo di pace mediorientale, ma come tutti sappiamo la vicenda è molto delicata e richiede purtroppo tempi molto dilatati.

 

Intervista a cura di Andrea Ambrosino

Gli stati minori pre-unitari, strumenti della “Pax Austriaca”

Così come era stato nei secoli precedenti, la Restaurazione seguita alla sconfitta di Napoleone I Bonaparte riportò la penisola italiana a una struttura politica molto frammentata, secondo i piani dello statista austriaco Klemens von Metternich. Dietro una facciata di indipendenza formale, tali stati risultavano spesso mere pedine di Vienna prive di una propria volontà politica

 

VIENNA DECIDE – Il Congresso di Vienna che decise il riordino dell’Europa dopo le guerre napoleoniche ristabilì i tanti staterelli minori che l’Imperatore francese aveva inglobato nel suo dominio o riorganizzato nei vari regni distribuiti ai propri parenti. Allo stesso modo anche in Italia vennero restaurati tutti quegli stati che, sorti durante il Medioevo o il Rinascimento, erano poi stati inglobati nel sistema francese: principalmente il Granducato di Toscana, il Ducato di Parma, Piacenza e Guastalla, il Ducato di Modena e Reggio, che inglobarono poi anche i piccoli Ducato di Lucca e Principato di Massa. (nalla cartina: l’Italia dopo il Congresso di Vienna)

 

STATI CUSCINETTO – Uno storico dell’Italia pre-unitaria potrebbe illustrare come ciascuno di essi possedesse caratteristiche proprie, tuttavia essi condividevano soprattutto alcuni tratti comuni. Si tratta in tutti i casi di stati a piccola estensione territoriale, ma il punto che ci interessa maggiormente è la loro dimensione geopolitica, minuscola anch’essa. Possiamo dire che di fatto essi non avevano una politica estera propria. Nel progetto del Metternich dovevano assolvere un doppio compito: innanzi tutto costituire una prima barriera contro eventuali nuovi avventurismi francesi – Napoleone aveva davvero spaventato tutta l’Europa e una situazione analoga non doveva ripetersi! Secondariamente dovevano costituire i pilastri del definitivo controllo austriaco sulla penisola italiana, contesa a più riprese tra le grandi monarchie europee fin dal Rinascimento.

 

Da qui la restaurazione di case regnanti legate all’Austria da vincoli dinastici e politici – spesso coadiuvate da un ministro austriaco nominato e inviato appositamente da Vienna – e dalle nobiltà che erano state espropriate di tanto potere durante l’epopea napoleonica a favore dell’emergente borghesia. La parola d’ordine rimaneva dunque mantenere lo status quo: niente avventurismi, niente politiche estere indipendenti, nessuna iniziativa non approvata da Vienna.

 

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DEBOLEZZA MILITARE E POLITICA – Del resto militarmente questi staterelli erano dei nani, raramente capaci di schierare più di una divisione o un piccolo corpo d’armata di truppe e dove i migliori ufficiali, veterani delle guerre napoleoniche, venivano spesso degradati o relegati in posizioni secondarie e contribuivano a ingrossare perciò le schiere dei cospiratori, mentre le redini dell’esercito erano affidate a generali meno esperti ma più fedeli. La stessa “pax austriaca” auspicata dal Metternich in Italia veniva mantenuta solo grazie alle truppe imperiali schierate nel Lombardo-Veneto e spesso inviate su e giù per la penisola per sedare insurrezioni e altre minacce allo status quo troppo grandi per gli eserciti locali, primi fra tutti il tentativo di riunificazione di Gioacchino Murat, cognato di Napoleone I Bonaparte, nel 1815.

 

Niente autonome rivendicazioni territoriali né guerre di frontiera dunque, tanto che una delle più rilevanti variazioni di confini registrata fu quella di alcuni territori scambiati tra Ducato di Parma e Ducato di Modena nel 1847 per permettere al sovrano parmense Carlo II di Borbone di ripianare vari debiti… A una politica estera nulla si sommano poi misure di protezionismo negli scambi commerciali (imposizione di dazi) che assieme a una crisi negli anni ’20 del XIX secolo frenarono notevolmente l’economia. Non necessariamente si trattò di governi incapaci, sicuramente furono però quasi sempre fortemente conservatori, lontani dagli ideali di gran parte della borghesia cittadina. Questa infatti, anche se allontanata dal potere, non sia accontentava di essere relegata al silenzio e voleva contare ancora nei nuovi stati. Voleva poter esprimere e far valere i suoi interessi, indipendentemente, e questo germe di libertà ne costituiva il pericolo per la monarchia asburgica perché risultava meno controllabile di un sovrano assoluto proprio vassallo.

 

UN DESTINO LEGATO A VIENNA – Si può infatti ragionevolmente affermare che una cosa il Metternich non aveva tenuto conto a sufficienza… per quanto questi stati fossero stati ricondotti alla calma, non era possibile eliminare del tutto l’esperienza napoleonica e i suoi effetti. Esistono testi ben più quotati per descrivere il complesso processo sociale che portò – in tanti modi differenti – al desiderio di unificazione. Quello che interessa notare dal punto di vista geopolitico è che la totale mancanza di una politica estera che non fosse aderente alla volontà di Vienna fece sì che i governi locali venissero visti come sue estensioni e dunque anche il loro destino fosse legato alle fortune degli Asburgo. Finché i moti rivoluzionari rimasero ridotti, come negli anni ’20 e ’30 e nel decennio tra le due guerre d’indipendenza, ogni stato poteva infatti provvedere autonomamente alla propria sopravvivenza di fronte alle rivolte. Nel caso delle forti insurrezioni del ’48-49 invece, i governi furono costretti all’esilio per mesi poiché l’esercito austriaco era impegnato da quello piemontese e furono ristabiliti solo in seguito alla sconfitta dei Savoia. Dieci anni dopo toccò invece all’Austria la sconfitta e a questi staterelli di scomparire, assorbiti dal nascente stato italiano.

 

Lorenzo Nannetti

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La resurrezione del Colonnello

Nei giorni scorsi la controffensiva di Gheddafi contro l’est ribelle del paese è proseguita e le forze fedeli al Colonnello appaiono aver ripreso i nodi petroliferi di Ras Lanuf e Marsa el-Brega, avanzando ulteriormente verso est. Le chiavi della superiorità dei lealisti sono molteplici, e a nessuna al momento gli insorti possono opporre una sufficiente contromisura. Nel suo piccolo, ad analizzarla è una lezione di scienza militare

 

FORZE CONTRAPPOSTE – Gheddafi controlla relativamente poche truppe regolari libiche, ma sono le più esperte, più motivate e meglio armate grazie ad artiglieria e carri armati, guidate dalle forze speciali del figlio Khamis. A queste si aggiungono un numero notevole di miliziani reclutati dai vicini stati sub sahariani grazie a un ingente dispendio di risorse finanziarie. I ribelli sono probabilmente (il condizionale è d’obbligo data l’impossibilità di una vera valutazione) in numero maggiore, ma sono anche notevolmente dispersi, spesso poco desiderosi di allontanarsi dai propri villaggi e città d’origine e in generale dotati solo di armi ed equipaggiamenti leggeri. Come spesso succede in casi simili, il loro morale, alto all’inizio, sta ora iniziando a cedere. Osservatori internazionali riportano inoltre una scarsa organizzazione e coordinazione che nuocciono ulteriormente alla capacità di resistenza: non esistono linee logistiche (quindi mancanza di carburante e munizioni), né piani operativi definiti. Le poche unità dell’esercito che si sono unite ai ribelli potrebbero ovviare in parte a tali problemi ma per ora sono rimaste quasi esclusivamente a Bengasi.

 

LINEE INTERNE – Le forze di Gheddafi possono far valere i loro vantaggi contando sullo sfruttamento dei cieli. Il vero plus non sono i bombardamenti, molto pubblicizzati ma di scarsa efficacia reale se non psicologica; il vantaggio è costituito dai trasporti aerei, che consentono sia di trasferire i rinforzi dal sud del paese (dove sono reclutati) alla costa (dove vengono impiegati), sia di spostare le truppe velocemente da Tripoli al fronte.  In breve i lealisti sfruttano il concetto militare di “linee interne”, ovvero, semplificando, sono in grado di muovere le loro forze velocemente all’interno dei territori sotto il loro controllo e concentrarle là dove di volta in volta ne hanno più bisogno. Il controllo dei mari vicino alla costa aumenta tale mobilità permettendo sbarchi limitati di truppe che prendono ulteriormente sul fianco le posizioni dei rivoltosi. In altre parole, Gheddafi non ha necessariamente la superiorità totale, ma ottiene ogni volta una superiorità locale (in numero, mezzi e tattica) tale da sopraffare ogni volta i ribelli.

 

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PROSPETTIVE – In assenza di sostanziali modifiche della situazione attuale – come un intervento internazionale – il trend attuale è destinato a continuare. Mano a mano che Gheddafi avanzerà nella sua offensiva, il territorio sotto il suo controllo aumenterà e questo lo obbligherà a diluire maggiormente le sue forze per presidiarlo o lo costringerà a lasciarne varie porzioni pressoché sguarnite per continuare l’attacco con la stessa intensità. Normalmente queste due opzioni sono la chiave che può consentire a un avversario deciso di ribaltare la situazione colpendo le retrovie dell’esercito avanzante, ma tale ipotesi non è al momento realistica. Come già accennato i ribelli non possiedono la coordinazione necessaria per lanciare un contrattacco deciso e tenderanno a chiudersi sempre più nelle zone loro rimaste, in particolare Bengasi, cercando di resistere il più possibile nella speranza di un intervento estero.

 

DESTINO SEGNATO? – Al momento Gheddafi non possiede la forza necessaria per riconquistare la capitale degli insorti, anche perché lì vi sono le poche forze militari regolari ribelli, meglio armate, ma la situazione può modificarsi nel tempo, soprattutto se saprà far affluire nuovi rinforzi dal sud e armi dall’estero – esistono ad esempio rapporti di intelligence che indicano un possibile asse Damasco-Tripoli per la fornitura di armi.

 

Il Colonnello non appare sempre lucido ed è improbabile sia un fine stratega, ma i suoi generali hanno dato prova di essere meno sprovveduti e, per ora, sembrano essere destinati a vincere. Soprattutto se il resto del mondo rimane a guardare.

 

Lorenzo Nannetti

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Lo stato della democrazia in Africa – I

Due parole che non possono stare nella stessa frase, o un’impresa possibile? Cosa succede sotto il Maghreb? Proviamo a fare luce sulle possibilità di sviluppo della democrazia nel continente africano, con questo documento in tre puntate. Nella prima, analizziamo il contesto storico e visualizziamo il quadro generale entro cui tenta di instaurarsi la democrazia, tra fatiche, limiti e fallimenti. Ma anche con alcuni sviluppi positivi e incoraggianti

Anche alla luce di questa fase di grande attenzione nei confronti dei sorprendenti ed inattesi sviluppi politici in Nordafrica, appare importante analizzare lo stato della democrazia in Africa subsahariana, una regione del mondo che e’ probabilmente quella cui si presta meno attenzione dal punto di vista della politica interna, prendendola spesso al contrario come esempio di un fallimento endemico della democrazia.

CONTAGIO DAL NORDAFRICA? – Può l’onda di proteste che ha sconvolto i paesi arabi del Nordafrica attraversare il Sahara e diffondersi anche nei paesi dell’Africa subsahariana? Qual è il bilancio della democrazia in Africa a una cinquantina d’anni dall’indipendenza e venticinque anni dopo la caduta del muro di Berlino, che tanti cambiamenti ha portato anche nel continente nero?

Ipotizzando di scrivere questo testo anche solo due mesi fa, in ogni caso era opportuno tenere fuori dall’analisi i Paesi arabi della riva sud del Mediterraneo, che sono sì africani, ma la cui problematica è in gran parte diversa da quella dei loro soci membri dell’Unione Africana (54 paesi in totale con il prossimo arrivo del Sud Sudan).

I CAMBIAMENTI NELL’AREA MEDITERRANEA – Per quanto riguarda quei Paesi, basti qui sottolineare come la democrazia nel mondo arabo abbia dato sinora scarse prove di sè, riducendosi nella maggior parte dei casi al compimento di riti elettorali privi di valore a causa della scarsa partecipazione (segno di sfiducia degli elettori nel sistema) e delle ricorrenti frodi tese a perpetuare ad aeternum il potere di leader autoritari spesso corrotti ma appoggiati internazionalmente in nome dell’alt agli islamici.

Il tutto in un contesto di scarse o nulle prospettive di cambiamento: gli ultimi due mesi non hanno mutato queste prospettive, salvo l’ultima. Per un concorso di fattori, le popolazioni tunisina ed egiziana (oltre agli eventi libici tuttora in divenire) si sono ribellate come mai avevano fatto, abbattendo proprio quei regimi che sembravano più solidi (hanno sinora resistito meglio quei paesi, come Marocco ed Algeria, nei quali esiste maggior pluralismo).

LIMITI DELLA DEMOCRAZIA IN AFRICA – L’Africa subsahariana è spesso presa come l’esempio perfetto di fallimento della democrazia, che sarebbe un vano esercizio a quelle latitudini. Almeno, questo è il sentire comune in Europa. È vero che esistono molti condizionanti che limitano l’espressione democratica in Africa, ma la realtà è più variegata e ci sono stati degli sviluppi positivi per la democrazia africana negli ultimi anni.

LE INDIPENDENZE AFRICANE – Quando la maggior parte dei paesi africani divennero indipendenti, tra gli anni cinquanta e sessanta, la democrazia elettorale non era considerata una condizione essenziale per i nuovi Paesi. Anche se non mancarono elezioni in quei primi anni, spesso tra partiti definiti in chiave europea e non locale: la politica africana non disponeva di categorie proprie, perchè i processi d’indipendenza presero le potenze coloniali alla sprovvista. Esse non avevano minimamente previsto questa possibilità prima della guerra mondiale e, salvo in pochi casi, non avevano preparato tramite esperienze d’autogoverno una transizione verso l’autonomia dei territori coloniali. La prima preoccupazione dei nuovi stati fu poi di natura economica, più che politica: la chiave del futuro era assicurare agli africani l’accesso alle risorse naturali presenti nei loro paesi, non garantire il funzionamento di una democrazia, concetto poco presente nella cultura atavica africana.

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I LEADER DIVENTANO DITTATORI – Una volta proclamata l’indipendenza e spariti gli imperi coloniali con l’eccezione di quello portoghese, i leader dei processi d’indipendenza si trasformano poco a poco in capi a vita o vengono deposti in frequenti colpi di stato militari, i cui istigatori si trasformano a loro volta in leader con vocazione all’eternità. Nel quadro della guerra fredda, l’Africa diviene un altro scenario del bipolarismo imperiale, nel quale i Paesi si schierano con Mosca o con Washington a seconda della convenienza e degli appoggi ricevuti. In questo contesto, a pochi importa che sopravviva una parvenza di democrazia elettorale. I partiti protagonisti dell’indipendenza tendono a diventare partiti unici con leader inamovibili, che possono essere rimossi solo mediante colpi di stato.

I regimi si fanno personali, plutocratici e di polizia. Di democrazia non si parla più in Africa fino al 1989. In alcuni paesi i colpi di stato sono frequenti e l’instabilità perenne. In altri si consolidano regimi che durano decenni attorno ad un leader (Costa d’Avorio, Zaire, Camerun, Malawi).

CADE IL MURO ANCHE IN AFRICA – La caduta del muro di Berlino cambia completamente il panorama anche in Africa. La sparizione del partner sovietico rende obbligata l’adozione della forma democratica occidentale, divenuta una conditio sine qua non per il mantenimento di rapporti economici privilegiati con le antiche potenze coloniali. Inizia la stagione delle conferenze nazionali, quando l’Africa, un po' a malavoglia, cerca di costruire quasi dal nulla esperienze di multipartitismo, quando sino a poco prima gli oppositori erano perseguitati.

Molto spesso, quello che succede è che l’ex-partito unico, convertitosi al multipartitismo per convenienza, s’impone facilmente in elezioni impossibili da vincere per i partiti d’opposizione: i dittatori si trasformano, negli anni Novanta, in presidenti rispettabili eletti in elezioni plurali nelle quali però hanno goduto di tutti i vantaggi e delle risorse accumulate in anni di permanenza al potere.

L’UOMO FORTE AFRICANO – In questo gioca un elemento importante della psicologia africana, che condiziona parecchio la democrazia nella regione: l’africano tende a rispettare l’uomo forte, traslitterazione del capo villaggio della cultura tradizionale, piuttosto che considerare un suo diritto decidere chi lo debba governare. Per questo motivo di fondo, mentre in Europa dell’Est le prime elezioni multipartitiche videro ovunque la sconfitta dell’ex partito comunista ed il trionfo degli oppositori alla dittatura, in Africa, esse videro generalmente la conferma dell’ex-partito unico che, spogliatosi di una patina superficiale d’ideologia marxista importata, completamente estranea alla cultura africana e trasformatisi in una specie di primus inter pares trionfarono nelle prime elezioni pluraliste (anche se poco aperte).

Ovvia eccezione il Sudafrica, che nel 1994 celebrò le prime elezioni aperte alle persone di colore e che videro il trionfo di Mandela e della sua ANC. Ma il Sudafrica è paese che ha ben poco a che spartire con i suoi vicini in termini di storia e società (e contrariamente alle previsioni di allora, si è trasformato nella prima democrazia africana). Un altro caso simile a quello del Sudafrica è quello dello Zimbabwe, dove lo ZANU di Robert Mugabe si consolidò al potere, senza però ottenere i risultati brillanti del Sudafrica: vi torneremo, ma senz’altro possiamo dire che Mugabe è molto distante da Mandela.

(1. continua)

Stefano Gatto [email protected]

Caffé150: non è solo una storia

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La ricorrenza del 150° anniversario dell’Unità Nazionale rappresenta un’occasione unica per guardare alla storia recente del nostro Paese e riscoprirne aspetti a volte un po' trascurati. Come nasce la nostra politica estera? Perchè oggi “siamo dove siamo”? La storia, come sempre, non solo può spiegare, ma può indicarci la via per il futuro. Soprattutto perchè non è solo "una storia", è la nostra storia!

Quando si parla di Unità d’Italia si pensa ai moti rivoluzionari di ispirazione mazziniana, all’azione di Garibaldi e a quella di altri patrioti, ma meno a quegli aspetti che hanno contribuito a far nascere l'Italia come attore della politica internazionale, come ad esempio la complessa azione politica e diplomatica di Cavour che, creando una politica estera consapevole e per la prima volta indipendente, permise infine al Piemonte di riunificare la penisola.

Non solo. Dall’unità ad oggi sono passati, appunto, 150 anni: un intervallo di tempo che ha visto la nostra politica estera nascere, evolversi e mutare nel tempo, fino a determinare quella che è l’attuale identità internazionale italiana.

Ecco quindi nascere l’idea dello speciale "Caffé 150": il Caffè Geopolitico si propone di analizzare la storia delle relazioni internazionali dell’Italia, dal periodo pre-unitario ai giorni nostri, per raccontare l’evoluzione della geopolitica italiana. Il progetto si prefigge infatti l’obiettivo di rispondere ad un quesito che, partendo dal passato, guarda al futuro: come nasce e a cosa dovrebbe puntare la nostra politica estera?

A tal fine, Il Caffè Geopolitico studierà i temi ed i periodi storici che hanno segnato l’evoluzione dell’Italia come Paese e come attore sulla scena internazionale, raccontandone alleanze, rapporti, personaggi di spicco.

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LA STRUTTURA DELLO SPECIALE – Come si è mosso il nostro Paese sullo scacchiere internazionale? Come gli altri Stati hanno guardato all’Italia durante questi 150 anni? Come la nostra storia, la nostra esperienza di Stato, hanno determinato la nostra posizione internazionale attuale?

Il progetto si articolerà attraverso la produzione di articoli brevi e saggi, strutturati indue fasi: la prima fase punterà ad approfondire il periodo a cavallo dell’Unità, per fare una sintesi delle principali dinamiche geopolitiche pre-unitarie.

Questo servirà ad identificare i primi passi delle relazioni internazionali dell’Italia come Paese unito, evidenziando come sono cambiate le relazioni con l’estero passando da un contesto di frammentazione territoriale ed istituzionale (sintetizzando i principali legami dei singoli Regni italiani), a quello unitario.

La seconda fase del progetto sarà invece dedicata allo studio delle tappe fondamentali nella creazione dei legami internazionali dell’Italia durante il Novecento. Questa fase avrà il duplice scopo di evidenziare, da una parte, quali siano e da dove nascano i legami internazionali “storici” del nostro Paese e, dall’altra, di tracciarne l’evoluzione per tappe fondamentali.

Il risultato finale consisterà in una raccolta strutturata di articoli che consenta di conoscere le basi delle relazioni internazionali dell’Italia, spiegando per grandi linee perché oggi “siamo dove siamo”: alleanze, aree geografiche e settori di interesse e, soprattutto, prospettive auspicabili.

Non temete, lo stile sarà quello solito del Caffé Geopolitico: rigoroso nelle informazioni, ma semplice da leggere, anche per i non esperti. La nostra politica estera non appartiene solo ai tecnici, ma a tutti noi!

Seguiteci dunque in questa avventura! Non è solo “una storia”… è la nostra storia!

La Redazione

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Presentazione e piano dell’opera

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occhiello speciale

Presentazione e Indice dello Speciale

corpo del testo

                           Caffè150

Centocinquant'anni di politica estera Quali prospettive per una geopolitica italiana?

La ricorrenza del 150° anniversario dell’Unità Nazionale rappresenta un’occasione per guardare alla storia recente del nostro Paese e, imparando a conoscerla, capire come eventi e dinamiche del passato abbiano determinato e potranno determinare l’identità internazionale italiana. In particolare, Il Caffè Geopolitico si propone di analizzare la storia delle relazioni internazionali dell’Italia, dal periodo pre-unitario ai giorni nostri, per raccontare l’evoluzione della geopolitica italiana.

Il progetto si prefigge infatti l’obiettivo di rispondere ad un quesito che, partendo dal passato, guarda al futuro: come nasce e a cosa dovrebbe puntare la nostra politica estera?

Studieremo i temi ed i periodi storici che hanno segnato l’evoluzione dell’Italia come Paese e come attore sulla scena internazionale, raccontandone alleanze, rapporti, personaggi di spicco. Come si è mosso il nostro Paese sullo scacchiere internazionale? Come gli altri Stati hanno guardato all’Italia durante questi 150 anni? Come la nostra storia, la nostra esperienza di Stato, hanno determinato la nostra posizione internazionale attuale?

Il progetto si articolerà attraverso la produzione di articoli e saggi, strutturati in due fasi: la prima fase punterà ad approfondire il periodo a cavallo dell’Unità, per fare una sintesi delle principali dinamiche geopolitiche pre-unitarie. Questo servirà ad identificare i primi passi delle relazioni internazionali dell’Italia come Paese unito, evidenziando come sono cambiate le relazioni con l’estero passando da un contesto di frammentazione territoriale ed istituzionale (sintetizzando i principali legami dei singoli Regni italiani), a quello unitario. La seconda fase del progetto sarà invece dedicata allo studio delle tappe fondamentali nella creazione dei legami internazionali dell’Italia durante il Novecento. Questa fase avrà il duplice scopo di evidenziare, da una parte, quali siano e da dove nascano i legami internazionali “storici” del nostro Paese e, dall’altra, di tracciarne l’evoluzione per tappe fondamentali.

Il risultato finale consisterà in una raccolta strutturata di articoli che consenta di conoscere le basi delle relazioni internazionali dell’Italia, spiegando per grandi linee perché oggi “siamo dove siamo”: alleanze, aree geografiche e settori di interesse e, soprattutto, prospettive auspicabili.

Piano dell'opera: i temi
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Articoli pubblicati
Tema primo L'Italia pre unitaria: 1840-1861

Gli stati minori pre unitari: strumenti della "pax austriaca" – di Lorenzo Nannetti Stato Pontificio e Regno delle due Sicilie: due attori di peso – parte I: Il Regno delle due Sicilie: più Mediterraneo che Europa – di Pietro Costanzo

 Come ci vedevano loro? L'Austria, la Francia e la scacchiera italiana –  di Lorenzo Nannetti e Pietro Costanzo

Tema secondo Il Regno di Piemonte e Sardegna: 1840-1861
 Pensare in piccolo: il Regno di Piemonte e Sardegna e la I Guerra di  Indipendenza – di Lorenzo Nannetti   Pensare in grande: Cavour crea l'Italia guardando oltre confine   – di Lorenzo Nannetti

  Cavour: l'uomo di Stato, per uno Stato che ancora non c'era –   di Adele Fuccio

Tema terzo L'Italia in formazione: un nuovo giocatore Europeo – 1860-1870

  La conquista di Roma – di Paolo Valvo

  L'Italia unita con la forza (della Diplomazia) – di Paolo Iancale

Tema quarto Italia unita: lo sguardo rivolto al mondo – 1870-1900

  L'Italia in un'Europa divisa tra grandi potenze – di Tania Marocchi

 Crispi: costruire lo Stato per dar forma alla Nazione – di Tania Marocchi  La grande proletaria si è mossa. Male. – di Gloria Tononi

Tema quinto Verso il primo conflitto mondiale: l'Italia stretta tra le alleanze europee – 1900-1915
Giolitti: luci ed ombre di uno statista – di Jacopo Marazia

 L'Italia tra Triplice Intesa e Triplice Alleanza – di Marianna Piano

 Tripoli bel suol d'amore – di Ulisse Morelli  

Tema sesto L'Italia tra le due guerre: la politica estera dell'assolutismo – 1918-1940

 Il dopoguerra: la vittoria mutilata, la crisi, gli Stati Uniti – di Gloria Tononi

Il cambio di rotta: verso la Germania – di Cristiano Proietti (parte I e parte II)

Tema settimo L'Italia dopo la II Guerra Mondiale: la NATO e l'Europa Unita – 1945-1989

 L'Italia torna in Europa – di Antonio Cocco

 Mattei: il sogno dell'autonomia energetica e le relazioni scomode  – di Anna  Longhini

 Al confronto, era un gigante – di Alberto Rossi

 Un Paese riNATO – di Alberto Rossi

 La primavera araba dell'Italia – di Stefano Torelli (parte I e parte II)

Tema ottavo Italia post-Guerra Fredda: il Paese in un mondo che offre nuove opportunità (1989-2011)
Stretta tra Francia e Germania – di Gilles Cavaletto Chi fa la politica estera? – di Davide Tentori

Peacekeeping all'italiana – di Marco Nieddu

Le rette parallele – di Paolo Valvo

Tema nono Le prospettive – quali obiettivi e opportunità per l’Italia?
Potenza di pace – di Marina Calculli – Parte I e Parte II

A tutto gas – di Anna Bulzomi

Quale politica nel "Mare Nostrum"? – di Anna Bulzomi

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