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Molto più che una partita

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Capita spesso che lo sport non sia solo un gioco. Mercoledì 30 Marzo si è tenuta a Mohal, Punjab, la semifinale dei mondiali di cricket tra India e Pakistan. Più di un miliardo di telespettatori hanno assistito alla cosiddetta “guerra senza armi”, che ha letteralmente paralizzato i due Paesi per tutta la durata della partita, otto ore. Il match, da cui è uscita vincitrice l’India, ha riportato a galla le antiche tensioni di un conflitto irrisolto

QUANTO CONTA IL CRICKET – Frammentata in una miriade di religioni, la popolazione indiana è unita dal cricket, il credo comune. Importato negli anni venti dai colonizzatori inglesi, è sempre stato più che uno sport: era ed è tuttora una prova di forza, il mezzo con cui imporre la propria supremazia. Sulla madrepatria prima, sui Paesi avversari ora.

Per questo, alla vigilia dello scontro, un’atmosfera febbrile aleggiava sul’intero subcontinente. Come se non bastasse, si trattava del primo scontro giocato sul suolo di uno dei due Paesi dagli attentati di Mumbai del 2008, nei quali l’India ha sempre visto lo zampino dell’eterno nemico. Nella semifinale del 30 Marzo, dunque, non si giocava solo l’accesso alla semifinale contro lo Sri Lanka, ma anche l’ennesima battaglia di una guerra antica come i due Paesi stessi.

QUANTO CONTA IL KASHMIR – La rivalità tra India e Pakistan ebbe inizio immediatamente dopo il crollo dell’Imperialismo coloniale inglese, quando il subcontinente fu diviso nelle due attuali nazioni, destinate ad ospitare rispettivamente Indù e Musulmani. Seguì successivamente una guerra per determinare i confini del Kashmir, confini mai accettati da ambo le parti. La regione, a maggioranza musulmana, è stata teatro di abusi dei diritti umani e (anche di recente) di rivolte popolari, sovente appoggiate dallo Stato pakistano. Da parte sua, invece, nel 1971 l’India aiutò il Pakistan Orientale a ribellarsi e a costituire il Bangladesh. Nonostante alcuni tentativi di porre fine alle tensioni da parte di premier illuminati, il terrorismo si inserì nel lessico del conflitto a partire dagli anni 90. La situazione precipitò ulteriormente il 26 novembre del 2008, quando dieci distinti attentati terroristici colpirono simultaneamente Mumbai, cuore vibrante e capitale finanziaria dell’India, provocando 195 vittime.

CRICKET DIPLOMACYData l’importanza del momento, il Primo Ministro Indiano Dr. Manmohan Singh ha invitato il Presidente pakistano  Asif Zardari e il Primo Ministro Yousuf Raza Gilani a guardare il match insieme allo stadio di Mohal, sul suolo indiano. Tale gesto, esplicitamente diretto a sciogliere la tensione, ha raccolto un’ondata di scetticismo. Infatti, la ben nota cricket diplomacy si è già dimostrata più volte non all’altezza della situazione: nel 1987 la visita del generale pakistano Zia-ul-Haq a Jaipur era stata più un’ostentazione delle testate nucleari da poco acquisite. Solo la visita di Pervez Musharraf a Delhi nel 2005 era stata produttiva, avendo posto fine al conflitto sul ghiacciaio Siachen e le acque del Sir Creek e gettato le basi per una risoluzione della questione Kashmir. Questi sforzi vennero vanificati nel 2007, quando al posto di Musharaff salì al potere il generale Ashfaq Kayani.

All’indomani della partita, comunque, il giudizio finale sembra coerente con i precedenti storici: l’amore per lo sport e in particolare per il cricket ancora può poco contro un patriottismo pronto a sfociare in odio. Infatti, nonostante i tentativi di nasconderle, circolano notizie contrastanti riguardo all’arresto di un autista della missione diplomatica pakistana a Delhi. Mentre il Pakistan sottolinea l’insensatezza del gesto, l’India minimizza riducendo l’accaduto ad una semplice misura di sicurezza.

Gloria Tononi [email protected]

Qualcosa è cambiato?

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Mercoledì 30 marzo l’ex Primo Ministro Thein Sein è entrato in carica come nuovo Presidente della Repubblica dell’Unione di Myanmar (Birmania), e al tempo stesso è stata sciolta la Giunta Militare Associazione di Solidarietà e dello Sviluppo del Sindacato, a capo del Paese dal 1962. Il Presidente è stato eletto tramite una consultazione elettorale ritenuta una farsa da molti osservatori. Nonostante tutto, questo passaggio di potere potrebbe rappresentare il primo passo di un processo di democratizzazione a lungo atteso

 

REGIME POST ELEZIONI – Insieme alla nomina di Thein Sein quale nuovo Presidente, sono saliti al potere altri 30 membri nel nuovo Gabinetto, tra cui due vice Presidenti, alcuni ufficiali e Ministri eletti dal Parlamento nella sessione di febbraio. Nonostante undici membri della vecchia giunta siano, di fatto, usciti dalla scena politica, il passaggio da un potere militare a uno civile è solo formale. Infatti, nel 2008, quando per la prima volta si è parlato di elezioni, è stata approvata una legge elettorale secondo la quale il 25% dei posti in Parlamento è riservato ai militari. Il resto dei posti è stato preso da ex militari che avevano smesso l’uniforme proprio pochi mesi prima delle elezioni, tra cui i due leader della giunta, il Presidente Than Shwe e il suo deputato, il Generale Maung Aye. Come se non bastasse, sembra che la nomina di Thein Sein sia stata fortemente voluta dal suo predecessore stesso.

 

ELEZIONI LIBERE E GIUSTE – Le elezioni del 7 novembre 2010 sono le prime dopo il 1990 quando la Lega Nazionale per la Democrazia guidata dal Premio Nobel Aug San Suu Kyi ebbe la meglio. Tuttavia, tale vittoria non fu mai ratificata e accettata dalla giunta militare al vertice del paese. Vent’anni dopo, il ricorso alle urne è stato fortemente voluto dalla Giunta Militare stessa. Numerosi partiti si sono presentati al voto, tra cui il vincitore, il Partito dell’Unione, della Solidarietà e dello Sviluppo, con oltre 1100 candidati tra cui molti militari, e la Lega Nazionale per la Democrazia che ha deciso di non boicottare l’evento. Boicottaggio che è stato promosso in seguito all’esclusione della candidatura di Aung San Suu Kyi, da poco liberata dopo 14 anni di arresti domiciliari: la Giunta, infatti, si è valsa di una legge che impedirebbe a chiunque fosse stato condannato da un tribunale birmano di presentarsi come candidato alla elezioni presidenziali.

 

Ad ogni modo, la nuova Carta Costituzionale approvata nel 2008 tramite un referendum popolare di dubbia regolarità garantisce alla Giunta la guida del Paese anche in caso di sconfitta elettorale, conferendole, infatti, il diritto di nominare 110 tra i 440 membri della Camera Alta del Parlamento e 56 tra i 224 della Camera Bassa. Inoltre, una distribuzione non uniforme delle urne elettorali, che non sono state aperte in ben 4.000 villaggi, ha significato di fatto l’esclusione dal voto delle minoranze etniche maggiormente colpite dagli abusi del regime. Si stima che circa 2,5 milioni di persone appartenenti ai gruppi etnici degli Shan, Karen e Mon siano stati impossibilitati a raggiungere i seggi. Nonostante le numerose irregolarità, le elezioni di Novembre sono parte centrale della RoadMap to Discipline-Flourishing Democracy, guida alla democratizzazione del Paese scritta dal regime, che prevede “elezioni libere e giuste” e rappresentano un tentativo di legittimazione del proprio dominio a livello internazione, anche mirato ad attirare investimenti stranieri.

 

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SANZIONI: ARMA A DOPPIO TAGLIO – Lo stato birmano è ben consapevole della strategicità di cui gode a livello internazionale. A cavallo tra India e Cina, è uno sbocco preferenziale per Pechino verso l’oceano Indiano. Oltretutto, possiede importanti riserve di gas, petrolio e minerali. A gennaio è stata approvata una legge, la cosiddetta Special Economic Zone Law, finalizzata allo sviluppo di regioni strategiche e alla privatizzazione di alcune imprese statali. Mentre Paesi come Cina, partner economico per eccellenza, e Thailandia stanno approfittando della recente apertura agli investimenti stranieri del Myanmar, i Paesi Occidentali ne sono esclusi a causa delle pesanti sanzioni che hanno imposto al regime al fine di ostacolarne gli abusi. Sanzioni la cui efficacia è discutibile: infatti, sembra che a rimetterne maggiormente sia la popolazione birmana. L’apertura al commercio estero, invece, pare affermarsi come una possibile via alla democratizzazione del paese, tanto che anche Suu Kyi stessa ha accennato ad una possibile sospensione delle sanzioni.

 

Gloria Tononi

Retirada. Così parlò Zapatero

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A poco meno di un anno dalle elezioni politiche spagnole, Josè Luis Zapatero rende pubblica la volontà di non candidarsi per un ipotetico terzo mandato, aprendo così la strada verso le primarie del Psoe, fondamentali per l’individuazione del candidato socialista che correrà per la Moncloa nel 2012. Facciamo il punto sulla situazione, e ipotizziamo possibili scenari futuri

PASSO INDIETRO – Uscire di scena prevedendo il tramonto di un’era, avvalendosi di quell’onestà intellettuale necessaria per riconoscere l’inevitabile conclusione di un percorso politico fatto di alti e bassi. E’ così che, con un anno di anticipo rispetto alla naturale scadenza della seconda legislatura, Josè Luis Zapatero ha annunciato alla Spagna l’intenzione di non candidarsi alle prossime elezioni politiche del 2012. Una scelta questa, secondo fonti vicine al Primo ministro, dettata dalla ferma volontà di non spingersi oltre i due mandati. Per altri, invece, la rinuncia del leader socialista rappresenta la via di fuga per sottrarsi ad una potenziale, più volte preannunciata, disfatta elettorale.

LA CRISI ECONOMICA – La decisione di Zapatero va senza dubbio contestualizzata in un momento di grandi difficoltà per il Psoe, dovute in parte alla politica di tagli resa indispensabile dal collasso finanziario degli ultimi due anni. La linfa vitale che contraddistingueva l’operato della prima legislatura socialista pare, infatti, essersi definitivamente esaurita sotto i colpi di una crisi dei mercati internazionali che non ha lasciato scampo alla giovane e fragile economia iberica.

Il crollo dell’edilizia e delle banche, motori trainanti nella crescita del Pil spagnolo durante i primi anni di stampo zapateriano, ha fatto salire la Spagna sull’ottovolante finanziario, con una rapida ascesa seguita da un improvviso e drastico trend negativo difficile da arrestare.

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SOCIALISMO “CIUDADANO” – Gli esordi di Zapatero al timone della Spagna sono stati caratterizzati da alcune discusse ma importanti scelte in materia di politica estera e dalla riscoperta di determinati diritti considerati fino ad allora tabù in una società abbastanza tradizionalistica come quella spagnola. Vinte le elezioni del 2004, probabilmente anche grazie all’ondata emotiva provocata dalla strage terroristica alla stazione ferroviaria di Atocha, costata la vita a 191 persone, Zapatero ha da subito ritirato le truppe spagnole dalla guerra in Iraq, distaccandosi così anche dalla posizione di supporto agli Usa scelta dal socialismo blairiano. Successivamente l’azione del governo, come sottolineato in precedenza, ha predisposto un piano d’attuazione su determinate materie sociali: il matrimonio civile per le coppie omosessuali, la legge sull’aborto e l’accorciamento dei tempi per la richiesta del divorzio hanno si contribuito ad ergere la Spagna socialista a nuovo emblema di laicità nel vecchio continente ma hanno anche separato l’opinione pubblica spagnola, ancora molto legata ai valori tradizionali della Chiesa cattolica.

Un grande successo per il governo Zapatero è stato inoltre il dialogo ad oltranza con l’ETA, che tra mille proteste dell’opposizione, sembrerebbe aver prodotto un definitivo abbandono della lotta armata da parte dell’organizzazione terroristica basca.

LE PRIMARIE – Tramontato politicamente un leader se ne farà un altro: con questo spirito il Psoe è pronto a lanciarsi sulla strada delle primarie che serviranno ad individuare nel più breve tempo possibile l’erede di Zapatero alla guida del partito. Obiettivo irrinunciabile sarà quello di far emergere il candidato ideale per sfidare il leader del Partito Popolare Mariano Rajoy alle elezioni del 2012. Due i nomi che al momento sembrano essere tra i più accreditati: quello del vicepremier Alfredo Perez Rubalcaba e quello della ministra della Difesa Carme Cachòn. Zapatero, dal canto suo, ha annunciato assoluta imparzialità su ipotesi di appoggio nei confronti dei candidati.

L’ultimo anno di governo zapateriano sarà altresì necessariamente orientato nel tentativo di conferire alla Spagna la stabilità necessaria per avviare una nuova stagione di rilancio sul piano economico e di conseguenza politico.

Andrea Ambrosino [email protected]

Tra incudine e Martelly

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Il popolo più povero del continente americano è stato chiamato ad eleggere il proprio presidente e a rinnovare il parlamento. Gli ultimi giorni di campagna elettorale sono stati caratterizzati dal ritorno, dopo sette anni di esilio, dell’ex presidente Jean-Baptiste Aristide. La sfida tra Manigat, ex first lady, e Martelly, cantante popolare e populista con nessuna esperienza politica alle spalle, pare abbia visto prevalere il secondo. Riuscirà Haiti a emergere dalla sua immensa e drammatica crisi post-terremoto?

 

IL SECONDO ROUND – Il 20 marzo è stata la giornata del ballottaggio tra i candidati alla guida del Paese. È stata anche una giornata di tensione, seppur sicuramente in maniera inferiore rispetto al clima del 28 novembre, quando gli elettori, frustrati e costretti a scegliere tra diciannove candidati diversi, avevano devastato i seggi. Tuttavia, le voci di brogli (seppur molto più flebili rispetto al primo turno) si fanno sentire. In alcune zone del Paese vi sono stati incidenti che avrebbero portato alla morte di due persone; inoltre, molte schede siano arrivate in ritardo, ed alcuni elettori non è stato permesso votare. Una delle questioni chiave di questo appuntamento elettorale riguardava proprio l’affluenza alle urne, che si è tenuta tra il 23 e il 30 %; una cifra alta, considerando che nel recente passato si è a fatica superato il 20%. Sarà poi interessante capire la distribuzione dei votanti; pare che la gran partedi questi sia ubicato nel dipartimento Ovest, quello di Port-au-Prince.

 

TORNA ARISTIDE – In questo scenario, il 18 marzo è rientrato in patria l’ex sacerdote Jean-Bernard Aristide, dopo sette anni di esilio in Sudafrica. L’ex presidente, il primo di Haiti a essere eletto democraticamente nel 1990, è amato dai poveri, ma è accusato di corruzione e di aver represso violentemente gli oppositori durante i suoi anni al potere. Appena atterrato, Aristide ha denunciato l’esclusione del suo partito dalle elezioni. Anche diversi tra i sostenitori di Aristide hanno comunque deciso di recarsi ai seggi, stanchi di vivere nelle tende dopo che le loro case sono state distrutte dal terremoto del gennaio 2010.

 

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TRA LA CHIOCCIA E IL RIBELLE – I due candidati hanno entrambi promesso cambiamento, sviluppo, e ammodernamento dell’economia. Certo i due profili sono completamente diversi. Mirlande Manigat, 70 anni, studiosa di diritto costituzionale, ex senatrice e moglie dell’ex presidente Leslie Manigat, è la chioccia, Martelly è il figlio ribelle. Il cantante di kompa, noto come Sweet Micky, spera che le folle dei giovani presenti ai suoi concerti possano aiutarlo a completare la sua trasformazione da divo a capo di stato ben vestito e rispettato.

I risultati definitivi arriveranno il 16 aprile prossimo. Dunque, ci sarà ancora molto da attendere. In ogni caso, i dati ufficiosi sembrano dare a Martelly la vittoria, con il 67,57% dei voti. Viene da domandarsi se una persona finora completamente estranea alla politica che ha avuto una vita segnata da eccessi e da droga, tanto da non riuscire a portare a termine nè la carriera scolastica, nè quella militare possa essere la persona migliore per guidare la ricostruzione di Haiti. Certo Martelly ha dalla sua il consenso popolare: con slogan di svolta contro corruzione e malgoverno, la sua sembrava una candidatura populista da outsider, cresciuta col tempo. In ogni caso, la maggioranza del Parlamento sarà sempre saldamente in mano al partito del presidente uscente Preval,il cui candidato è stato escluso per brogli dal secondo turno, ripescando di fatto Martelly.

 

LE SFIDE – Di fatto, il 20 marzo si è aperta una nuova fase politica per il Paese che segnerà il futuro dell’isola. Il principale compito del nuovo presidente sarà quello di iniziare la ricostruzione del Paese e restituire la dignità al popolo haitiano, indebolito e sconfortato da decenni di dittature e colpi di Stato, e soprattutto dal devastante terremoto dell’anno scorso e dalle sue conseguenze (tremila vittime di colera, un milione e mezzo di abitanti ancora alloggiati in tende e ripari improvvisati). Al di là di tutto, le elezioni e l’affluenza sembrano un segnale di speranza perché il Paese riesca ad andare avanti.

 

Adele Fuccio

 

Leggi qui altri due articoli del Caffè sulla vicenda:

Nè Unified, nè Protector

Libia – Dopo i successi durante Odyssey Dawn, ora l’operazione internazionale è passata sotto comando NATO col nome di Unified Protector. Quasi contemporaneamente i ribelli hanno dovuto fermare la loro avanzata a causa dell’ennesimo contrattacco dei lealisti. Che succede? I raid non funzionano più o è una coincidenza? La realtà è ben più complessa…

 

NATO AL COMANDO – Siamo tutti consapevoli del passaggio di consegne del comando dell’intervento internazionale da USA a NATO, ma meno dei suoi effetti, che hanno comportato un contemporaneo ritiro di buona parte dei velivoli USA; inoltre dopo alcuni giorni di impiego il 2 Aprile anche le cannoniere AC-130H e gli A-10 sono stati posti in riserva. Soprattutto però ciò che è cambiato è la situazione politica. L’uscita di scena delle forze USA ha ridotto il numero di aerei disponibili da circa 250 a 140, solo la metà dei quali adatti a missioni di bombardamento. Molti Alleati membri della NATO hanno inoltre usato il cambio di comando come scusa per tirarsi indietro e impiegare le proprie forze solo per il controllo dei cieli e del mare, entrambi elementi che, come spiegato in precedenza, ora non sono però più così vitali nello scontro tra lealisti e ribelli. A causa di questa sorta di ritirata il numero di cacciabombardieri a disposizione per i raid contro le forze di Gheddafi è drasticamente calato; si aggiungano poi le condizioni meteorologiche sulla Libia di questi’ultima settimana, caratterizzate da nubi che spesso rendono difficile il volo e l’individuazione dei bersagli.

 

Il risultato è stato una drastica diminuzione delle missioni di bombardamento a supporto dei ribelli, cosa che ha modificato l’intero equilibrio dello scontro a terra.

 

ORGANIZZAZIONE VS CAOS – Bisogna ammettere che le forze fedeli al Colonnello, pur vulnerabili, hanno mostrato una discreta solidità rimanendo operative nonostante gli attacchi dal cielo. Ora continuano a mostrare una buona organizzazione e impiego di solidi principi tattici che, per la prima volta dall’inizio di Odyssey Dawn, non vengono inficiati dagli attacchi aerei. I ribelli sono stati fermati davanti a Sirte da una combinazione di artiglieria e razzi tipo Grad (Katyusha modificati) che hanno colpito le colonne avanzanti, e da un insieme di trincee e zone sottoposte a tiro incrociato che hanno trasformato le strade principali in trappole.

 

I ribelli da parte loro continuano invece a dimostrare una scarsa organizzazione e preparazione militare. I convogli di pick-up armati e furgoni che trasportavano i miliziani si sono mossi a gruppi sulle strade: questo li ha resi facili bersagli, mentre avrebbero avuto maggiore successo disperdendosi e avanzando off-road. Anche i pochi lanciarazzi a loro disposizione risultano meno efficaci e sono spesso maneggiati con limitata abilità.

 

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NE’ UNIFIED NE’ PROTECTOR – Al momento appare evidente che senza appoggio aereo da parte degli alleati i ribelli non siano in grado di avanzare oltre e anzi rischino seriamente di essere respinti ancora, mentre Gheddafi continua a bombardare Misurata (dove varie fonti riportano anche spari di cecchini) e altri centri in rivolta. In più le forze del Colonnello stanno provando a ridurre i rischi di bombardamenti NATO impiegando meno mezzi pesanti e più pick-up loro stessi, nascondendo inoltre le batterie e i tank in zone abitate o meno visibili. Anche quando lo stratagemma non funziona e i veicoli vengono individuati, questo aumenta comunque il rischio di vittime civili e la conseguente condanna internazionale dei raid. E’ questa infatti l’arma più forte per il regime, poiché l’operazione NATO, nonostante il nome, non appare né unificata né protettrice. Come fanno notare numerosi analisti, non esiste una visione unica condivisa da tutti su come proseguire, e fino a quando. Gli Alleati inoltre sembrano disposti a combattere più intensamente solo quando i ribelli sono più in difficoltà, mentre tendono a ritrarsi quando sono i lealisti a trovarsi più alle corde.

 

Questo sembra confermare il desiderio di trovare un accordo diplomatico, al quale sia Tripoli sia i ribelli appaiono ogni giorni più interessati, ma quale soluzione può essere considerata accettabile? Un paese diviso in due non impedirà a Gheddafi di sedare nel sangue la rivolta nelle città che rimangano sotto il suo controllo; del resto al momento non si intravede una svolta che comporti la caduta del suo regime. La soluzione militare esiste, ma non viene considerato politicamente accettabile.

 

Lorenzo Nannetti

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Come ci vedevano loro? L’Austria, la Francia e la scacchiera italiana

Caffè150 – L’Italia era stata per secoli stretta tra le grandi potenze europee che se la contendevano continuamente. Lo stesso avvenne durante il Risorgimento, con Austria e Francia come protagonisti. Per queste ed altre nazioni l’Italia era solo uno delle tante regioni europee dove sfidarsi, ove i loro interessi e desideri spesso non coincidevano con quelli dei patrioti italiani. Eppure, forse proprio comprendendo meglio la situazione europea sarebbe stato possibile per il Davide italiano sconfiggere il Golia straniero

 

UNA PROVINCIA DELL’IMPERO ASBURGICO – Abbiamo già parlato dei progetti del Principe Metternich nei confronti degli stati pre-unitari (Gli stati minori pre-unitari, strumenti della “Pax Austriaca”), ma questo non basta a capire la situazione del Lombardo-Veneto. Nel 1848 quelle che diventeranno le regioni italiane del nord-est sono ormai da tempo una provincia, per di più piuttosto ricca, del vasto impero asburgico. In generale il territorio austriaco vero e proprio era come oggi ridotto, mentre la gran parte dell’Impero era costituito da provincie popolate da etnie diverse, con lingue e tradizioni differenti specialmente nelle provincie italiane e ungheresi dell’Impero. Non si trattava però di regioni necessariamente poco fedeli; le forze armate asburgiche avevano anzi spesso reclutato alcuni tra i migliori generali (ad esempio nel ‘700 il Principe Eugenio di Savoia e il Generale ungherese di cavalleria Nadasdy) e tra le migliori truppe (alcuni ottimi reggimenti italiani e i famosi Ussari ungheresi). Ma nel XIX secolo le cose erano cambiate e la rinascita dei sentimenti nazionali italiano e ungherese portò a numerose rivolte.

 

UN TEATRO IMPORTANTE MA SECONDARIO – La cosa interessante da comprendere è che mentre per noi la situazione del Lombardo Veneto appariva vitale, per gli Asburgo esso era solo uno dei tanti teatri di lotta, spesso nemmeno il più importante. L’Austria venne progressivamente impegnata dalla Prussia per mantenere la supremazia in Germania e anche per quanto riguarda le insurrezioni, l’Italia non fu il solo luogo dove si verificarono. Altre ne avvenivano anche a Vienna e nel 1848 si svolse una grossa rivoluzione in Ungheria. Entrambi i fatti ebbero dimensioni tali da costituire una seria minaccia per l’impero, soprattutto perché coinvolgevano la capitale e alcune tra le regioni più vaste. Furono tanto pericolose da richiedere che per sedarle venissero impiegate la maggior parte delle risorse e delle truppe. A Vienna le rivolte ottennero la destituzione del Metternich, mentre l’insurrezione ungherese fu sedata nel sangue anche grazie all’intervento dei Russi, tradizionali alleati. Si potrebbe pensare che l’esercito austriaco, proprio perché composto da soldati provenienti un po’ da ovunque, fosse colpito da forti diserzioni; molti soldati si unirono agli insorti, ma tanti altri restarono invece fedeli agli Asburgo come era stato per secoli. Questo ci porta a capire un punto fondamentale: risultava pura illusione pensare che i moti italiani e il piccolo Piemonte potessero trionfare da soli contro un nemico tanto vasto e potente. Era quindi necessario combinare l’azione italiana con condizioni europee favorevoli. Un appoggio in tal senso poteva darlo la Francia, anch’essa piena di propri interessi nella nostra penisola e in generale nell’intero continente.

 

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DOVE OSANO I FRANCESI – La Francia infatti aveva interessi economici stabili nella penisola, ad esempio banche francesi detenevano una importante fetta del debito di diversi degli Stati pre-unitari, e i mercati francesi importavano molti prodotti agricoli e tessili dal sud e nord Italia. Inoltre, dal punto di vista geopolitico, il nord Italia rappresentava per Francia una prima linea di difesa nel confronto con l’Austria: sostenere il Piemonte e agevolare l’annessione di territori a est (Lombardia, Veneto) significava anche poter avanzare le proprie difese su quel versante. D’altro canto però l’interesse francese allo sviluppo di uno Stato unitario ai suoi confini non poteva essere davvero alto. Di fronte al possibile vantaggio di guadagnare un alleato più forte e più numeroso, ad esempio, c’era anche il rischio di un vicino che poteva diventare ingombrante (l’Italia unita sarebbe stato un Paese con 22 milioni di persone) e difficilmente gestibile per la potenza d’Oltralpe, anche per via di una evidente frammentazione interna. Per questo il sostegno fornito da Napoleone III (raffigurato nell’immagine) agli sforzi politici e bellici piemontesi non fu pieno, né rispetto ai conflitti contro l’Austria, né in sostegno al programma unitario di Cavour.

 

NOI E LA FRANCIA – Ecco infatti alcune delle tappe che meglio possono spiegare il comportamento francese nei confronti della nascente Italia. La prima di queste è la Prima Guerra di Indipendenza (1848-1849): la Francia agisce militarmente a sostegno dello Stato Pontificio, contro la Repubblica Romana di Mazzini, Armellini e Saffi. Il suo esercito contribuisce a scacciare Garibaldi da Roma e il sostegno di Parigi alla Restaurazione è quindi importante. Pio IX infatti rientrerà in una Roma occupata dai francesi e il Piemonte, poi sconfitto dall’Austria (Custoza, Novara), dovrà rinunciare al primo tentativo di costruire l’indipendenza italiana. Ma il disegno di Cavour è ampio, e la scelta di allearsi con Francia e Inghilterra, contro la Russia, nella lontana guerra di Crimea, serve a rinsaldare il rapporto con Parigi, facendo aumentare il peso diplomatico del Regno di Sardegna. Cavour, Vittorio Emanuele e D’Azeglio entrano nel circolo delle riunioni tra le potenze europee, dove ottengono che la posizione dell’Austria occupante sul suolo italiano venga denunciata. Si arriva così alla Seconda Guerra di Indipendenza: nel 1859 la Francia è in forze accanto al Piemonte contro l’Austria, per la conquista del Lombardo-Veneto. Mentre nel resto della penisola le rivolte ottengono buoni risultati e le annessioni di diverse regioni al Piemonte sembrano finalmente fattibili, Napoleone III firma un inatteso armistizio con l’Austria a Villafranca, che blocca di fatto il raggiungimento di un successo ampio. La guerra si conclude comunque con esito favorevole al Piemonte che può annettere la Lombardia e poi altri territori, ma questo accordo è stato visto spesso come un tradimento del progetto unitario italiano da parte francese. Di certo fu la dimostrazione di una politica estremamente cauta e dubbiosa nei confronti di un Paese che faticava a nascere. Ne parleremo ancora.

 

Lorenzo Nannetti, Pietro Costanzo

La prima vittima di Wikileaks

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Carlos Pascual, ambasciatore USA in Messico, si è dimesso pochi giorni fa  dopo mesi di braccio di ferro con lo staff del presidente Calderón a causa delle sue dichiarazioni poco diplomatiche sull’attuale governo messicano, pubblicate in questi mesi dal discusso sito di Julian Assange. Ecco gli attuali risvolti delle relazioni bilaterali tra Washington e Città del Messico

OBAMA E CALDERÓN – Lo scorso 4 marzo Barack Obama e Felipe Calderón, presidenti di USA e Messico, hanno avuto uno dei loro frequenti incontri per dibattere e risolvere le numerose questioni, dall’agricoltura al narcotraffico all’emigrazione clandestina, che legano questi due enormi paesi amici-nemici da moltissimo  tempo. In quell’occasione Calderón ha chiesto, ed ottenuto in solamente due settimane, le dimissioni di Carlos Pascual, ambasciatore statunitense in Messico da quasi due anni, il quale si era distinto per lodare in pubblico il governo messicano mentre ne criticava le sue politiche nei cablogrammi che mandava al Segretario di Stato Hillary Clinton e che Wikileaks ha pubblicato. Per esempio, nei suoi rapporti, l’ormai ex ambasciatore americano ha definito l’esercito messicano “lento” e “pauroso”, arrivando ad affermare che preferisce non combattere direttamente i cartelli della droga: questi commenti non potevano non lasciare pesanti strascichi dato che l’esercito è una delle istituzioni più appoggiate politicamente ed economicamente dal presidente Calderón, il quale ha deciso di fondare il suo mandato sul massiccio dispiegamento di militari in tutto il paese per combattere la guerra senza fine contro il crimine organizzato.

LE DIMISSIONI – Le opinioni di Pascual hanno spinto tutti i partiti politici dell’arco parlamentare a chiedere le sue dimissioni e l’intervento del presidente, il quale negli ultimi 3 mesi ha aspramente criticato l’operato dell’ex ambasciatore, prima di richiedere formalmente la sua rimozione. Tuttavia, le dimissioni di Pascual cercano solamente di distogliere l’attenzione dal vero nodo di geopolitica che si sta profilando nelle relazioni Messico – Usa e non faranno cambiare strategia alla diplomazia statunitense. Gli Stati Uniti non possono permettersi attualmente un vicino instabile come il Messico di oggi: dalla firma del NAFTA (North American Free Trade Agreement) i lacci tra Messico e Stati Uniti si sono fatti sempre più stretti, a tal punto che l’eventuale fallimento economico del Messico non sarebbe sostenibile per il suo fratello maggiore. Per esempio, nel settore agricolo una caduta del mercato messicano, principale compratore del mais statunitense, avrebbe una pesante conseguenza sui redditi di vari stati degli USA, colpendo in maggior misura la manodopera messicana che dal 1994 in poi è emigrata negli Stati Uniti per lavorare nei campi “foraggiati” da ingenti sussidi governativi.

LA STRATEGIA STATUNITENSE – Hillary Clinton, quindi, accetta di rimuovere Pascal, da anni uomo di fiducia della diplomazia americana soprattutto negli stati con evidenti problemi di sussistenza, in cambio di poter continuare con la sua strategia “antinarcos”. Per comprenderla dobbiamo fare un passo indietro ai primi mesi del 2009 quando entra in carica la nuova amministrazione Obama, la quale eredita l’appoggio incondizionato che Bush aveva concesso a Calderón nella sua guerra al narcotraffico, suggellata dal maggiore programma di assistenza bilaterale nella storia dei due paesi. SI tratta  dell’Iniziativa Merida, un pacchetto di aiuti pluriennale di più di 1 miliardo di dollari in cui gli Stati Uniti si impegnano a fornire al Messico denaro, armi e strumenti tecnologici per combattere i cartelli della droga. Un accordo simile al Plan Colombia, che dal 2000 approvvigiona il paese sudamericano. Oberati da questi vincoli, una volta al potere Obama e la Clinton non possono ritrattare gli accordi firmati con il Messico; decidono quindi di modificarne l’approccio: invece di appoggiare le strategie di Calderón, preferiscono influenzarle. Per questo mandano Pascual, di origine cubana, avvezzo ai mezzi di comunicazione, con una vasta esperienza nei paesi dell’est Europa e nelle operazioni di salvataggio di stati in difficoltà. Dopotutto era stato lo stesso Calderón a offrire la motivazione di questo cambio nella politica estera americana, quando aveva dichiarato in pompa magna che con la firma dell’Iniziativa Merida, gli Stati Uniti avevano riconosciuto che il consumo illegale di droga è un problema condiviso che ha bisogno di una soluzione condivisa. Quindi condivise anche le strategie difensive, dovranno aver pensato Obama e Clinton.

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IL CAMBIO DI OBAMA – E infatti, dalla metà del 2009 Pascual prepara lentamente il cambio di strategia, spinto anche dai suoi stessi consoli che hanno cominciato ad esprimere numerosi dubbi sulla strategia militare di Calderon: come ci mostra Wikileaks (http://www.wikileaks.ch/cable/2010/01/10MEXICO202.html) , da un lato Pascual ottiene il via libera ai fondi dell’Iniziativa Merida, dall’altra prepara gli incontri che nell’autunno 2009 una serie di alti funzionari statunitensi, dalla Clinton a John Brennan, capo del Consiglio di Sicurezza Nazionale, svolgono in Messico con i propri omologhi con l’obiettivo di creare strutture di lavoro bilaterali per la lotta al narcotraffico. Un esempio è il gruppo di lavoro sulla sicurezza nazionale, comandato da Paul Stockton, responsabile della Sicurezza Emisferica del Pentagono, il quale ha il compito di modernizzare l’esercito messicano, attraverso anche corsi di giustizia militare e protezione dei civili durante gli operativi, aspetti su cui avevano espresso preoccupazioni sia i membri del Congresso statunitensi che le ong che si occupano di diritti umani. Inoltre gli Stati Uniti appoggiano l’intelligence messicana fornendogli informazioni della CIA sui principali narcotrafficanti, come avvenne del dicembre 2009, quando grazie alla soffiata statunitense, la marina messicana potette fermare Beltrán Leyva, uno dei capi dell’omonimo cartello.

LA PERDITA DI SOVRANITA’ MESSICANA – Grazie a queste ottime collaborazioni tra le intelligence di entrambi i paesi, la relazione tra i due fratelli nordamericani si fa più stretta e gli Stati Uniti acquistano con il tempo maggior potere nell’influenzare le scelte interne messicane. Nel gennaio del 2010 convincono Calderón a ritirare l’esercito da Ciudad Juarez, dopo aver constatato che l’esercito sembra non voler interferire sul Cartello del Chapo Guzman; recentemente hanno dato inizio all’operazione “Fast and Furious”, nella quale la polizia USA avrebbe consentito l’ingresso in Messico di armi da fuoco di grosso calibro, comprate in territorio statunitense, cercando, in questo modo, di cominciare a raccogliere prove sull’uso di armi statunitensi nella guerra al narcotraffico messicana. Infatti, come denunciano varie associazioni da anni, chi arma le mani dei messicani sono le fabbriche di armi statunitensi che vendono liberamente nei loro negozi qualunque tipo di arma a chi possa permetterselo, senza indagare se i loro compratori sono tra i principali ricercati narcotrafficanti. Queste operazioni, probabilmente decise congiuntamente dagli staff dei due presidenti, anche se Obama ha recentemente dichiarato di non essere stato a conoscenza di “Fast and Furious”, sono però un attacco alla sovranità messicana, secondo i principali partiti del Congresso di Città del Messico, che da sempre utilizzano i motivi del nazionalismo e del patriottismo, attaccato dai fratelli yankee, soprattutto alla vigilia delle elezioni presidenziali dell’anno prossimo dove non si asterranno di certo dall’usare contro l’amministrazione in carica il cavallo di battaglia dell’antiamericanismo e dell’ingerenza strutturale che gli USA hanno sul Messico. Non sorprende quindi come le dimissioni di Pascual siano state salutate da tutti i partiti messicani come una liberazione, utile specchietto per le allodole in chiave elettorale, in attesa di lamentarsi sulla prossima nomina statunitense, mentre entrambi i governi assicurano che nonostante l’uscita di scena di Pascual, le strette relazioni tra i due paesi saranno mantenute.

Andrea Cerami

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Lima sceglie il proprio futuro – I

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Si avvicinano le elezioni presidenziali per il Perù. Il 10 aprile il popolo peruviano sarà chiamato a scegliere il nuovo presidente che succederà ad Alan García, il presidente uscente che sta per terminare il suo mandato con quasi il 70% di dissenso della gente sul suo operato, secondo i sondaggi. La situazione appare piuttosto incerta: i candidati sono molti, diversi tra loro, e sono appaiati nei sondaggi.

 

Prima parte

L’ EREDITA’ DI ALAN GARCIA – García lascia un’ eredità marcata soprattutto dal tentativo di recuperare le relazioni bilaterali in tutto il continente americano. In primo luogo con gli Stati Uniti, con i quali ha intessuto un riavvicinamento diplomatico e commerciale, stipulando un trattato di libero commercio nel 2006, ma anche con le confinanti Colombia ed Ecuador. Con la Bolivia di Evo Morales ha recentemente rinnovato la concessione di uno sbocco non sovrano sull’Oceano Pacifico, che permette ai boliviani di stabilire una zona franca industriale ed economica speciale (ZOFIE) e una zona franca turistica (ZTF). Ma è soprattutto con il Cile che García ha saputo riallacciare rapporti politici, prima riottenendone il ritorno come membro associato nell’ organizzazione regionale della Comunidad Andina de Naciones (CAN), poi siglando con lo Stato cileno, nel gennaio 2011, due accordi bilaterali relativi al transito frontaliero e alla lotta contro il traffico di droga ed infine riaffermando l’ intenzione di rispettare qualsiasi decisione del Tribunale dell’ Aja in merito alla domanda fatta dal Perù nel 2008, nella quale chiede una modifica in suo favore del confine marittimo col Cile, non riconoscendo legittimo il contenuto dei due trattati (1952 e 1954) siglati dai due Stati nel dopoguerra.

In economia il governo García si è distinto per aver seguito la linea del precedente governo Toledo, adottando un politica fiscale austera anche se con un’ ottica differente alla questione sociale. Di rilievo è anche l’ annuncio, dato nel 2008, della volontà del Perù di far parte dell’ Accordo Strategico Trans-Pacifico di Associazione Economica, meglio conosciuto come Accordo P4, vale a dire un trattato di libero commercio già vigente tra Brunei, Cile, Nuova Zelanda e Singapore. Importanti e strategici sono, infine, i trattati sul libero commercio siglati con Cina (2009) e UE (2010).

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I CANDIDATI PRESIDENTI – La sfida per il nuovo governo sarà quella di risollevare le sorti di uno tra i paesi latinoamericani con il più alto indice di disuguaglianza sociale e con un 30% circa della popolazione che vive ancora sotto la soglia della povertà. Nonostante ciò il paese ha vissuto una impressionante crescita economica negli ultimi tredici anni, che sembra continuare nel 2011 dato che si registra una crescita della produzione nazionale pari al 10,02% rispetto al 2010 e a trainarla sono stati quasi tutti i settori produttivi. Da sottolineare inoltre che, a partire dal 2002, il flusso di esportazioni del Perù è aumentato vertiginosamente, anche grazie all’ apparizione sulla scena di partners come la Cina e al rafforzamento dei rapporti commerciali con Stati Uniti, Brasile e Cile. I principali prodotti esportati sono rame, oro, zinco, tessile e prodotti ittici.

Analizziamo quindi, in una rapida successione, chi sono i principali candidati di queste presidenziali 2011, quelli che in un autentico testa a testa tra sondaggi e proiezioni di voto, si stanno contentendo la carica di  nuovo presidente.

ALIANZA GANA PERÙ – La coalizione più ambigua e meno decifrabile dell’ attuale compagine elettorale peruviana  è senza dubbio la Alianza Gana Perù, formata dal Partido Nacionalista e dal Partido Nacionalista Peruano. Fondata nel 2005 dall’ ex comandante dell’ Esercito peruviano Ollanta Humala, risulta attualmente in cima alle preferenze dei peruviani nelle proiezioni a pochi giorni dalle elezioni. Humala ebbe già modo di competere alle elezioni presidenziali del 2006, arrivando poi al ballottaggio nel secondo turno perso in favore di Alan Garcìa, presidente uscente.

La particolarità della coalizione di Humala risiede proprio nella fusione di forze politiche “derechiste” e tradizionaliste, vicine agli ambienti militari peruviani e forze della sinistra “tradicionalista”, come il Partido Comunista e Socialista, e addirittura estremista, come il Partido Socialista Revolucionario. Questa alleanza trasversale, non priva di contraddizioni, non ha certo risparmiato critiche ad Humala soprattutto da parte della destra più conservatrice.

Nel suo programma elettorale la Alianza Gana Perù mischia elementi tipici del socialismo, come il rifiuto del modello neoliberale attuale e la diffusione di un modello di società pluriculturale, ad altri più marcatamente di destra, come la nazionalizzazione di attività economiche strategiche per il paese. A questo si aggiunge la proposta di una nuova politica di sviluppo economico che comprenderebbe un’ imposizione fiscale sui super-redditi, un aumento della tassazione generale per aumentare spesa e investimenti pubblici e addirittura la volontà di rinegoziare i trattati sul libero commercio.

FUERZA 2011 – E’ senza dubbio la outsider politica di queste elezioni. Partito giovanissimo nato nel 2010, orientato a destra, ha un altissimo gradimento nei sondaggi a pochi giorni dal voto ed é capeggiato dalla trentacinquenne Keiko Fujimori figlia di quell’ Alberto Fujimori protagonista di un duro decennio di presidenza negli anni ’90, che i peruviani ricordano come regime autoritario.

Si presenta a queste elezioni in coalizione con Renovaciòn Nacional. Sul partito e sulla sua traiettoria politica non si può dire molto, dato che ha appena compiuto un anno di vita. Quello di cui si può parlare è lo straordinario consenso politico che i nuovi “fujimoristi” hanno ottenuto tra la gente in così poco tempo. Un consenso basato sulla figura della giovane Keiko che dapprima si è presentata come una “reduce” perseguitata e poi uscita vittoriosa dalla lunga battaglia giudiziaria che ha avuto nel mirino lei e la sua famiglia nel travagliato dopo-Fujimori padre e poi ha saputo spendere la sua immagine pubblica soprattutto con campagne incentrate sull’ aiuto alle fasce più deboli della popolazione, all’ infanzia e alle minoranze etniche.

Accanto a questa faccia umanitaria, che prevede anche lo sradicamento della povertà estrema e la riduzione della povertà generale, la campagna elettorale è stata incentrata su una forte politica della sicurezza. Infatti la candidata Keiko promette lotta senza quartiere contro la criminalità comune ma soprattutto contro il narcotraffico e una riforma istituzionale per ridurre la diffusa corruzione dei colletti bianchi. Nel passato politico della giovane Fujimori vi sono due preoccupanti proposte di legge relative all’ estensione della pena di morte, ancora vigente in Perù per i reati più gravi, a delitti di natura sessuale su minori, punti questi che sono stati riproposti nel programma elettorale.

Alfredo D'Alessandro

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Lima sceglie il proprio futuro – II

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Continua il nostro viaggio in Perù in vista delle elezioni presidenziali che si terranno il prossimo 10 aprile. Vi presentiamo gli altri candidati, che aspirano a prendere il posto del Presidente uscente Alan García. Lo scenario elettorale è piuttosto incerto. Chiunque vinca si troverà a dover governare uno dei Paesi più dinamici del Sudamerica, che sta attraversando un periodo di fortissima crescita economica.

Seconda parte

ALIANZA PERÙ POSIBLE – Altra coalizione in lotta per le presidenziali e molto competitiva è la Alianza Perù Posible che si compone dell’ omonimo partito e di Acciòn Popular e Somos Perù e presenta quale candidato presidente il sessantacinquenne Alejandro Toledo. Già presidente del Perù dal 2001 al 2006, si propone sicuramente come l’ oppositore ideologico principale della nuova “armata fujimorista” capeggiata da Keiko Fujimori. Prima del suo mandato presidenziale quale leader di Perù Posible, è stato infatti protagonista di una dura battaglia politica proprio contro Alberto Fujimori che lo sconfisse nelle contestate elezioni del ’90, secondo Toledo viziate da brogli e terminate con il ritiro della sua candidatura e con l’ invito ai suoi elettori di votare in bianco. Quando Fujimori iniziò il suo terzo mandato, Toledo capeggiò i suoi elettori in una protesta di piazza contro il regime, poi ribatezzata ironicamente “La marcia di quattro dei suoi”.

La coalizione Perù Posible si caratterizza per non avere una compagine politica omogenea: nelle sue fila figurano dai conservatori ai cattolici di sinistra. In materia economica Toledo, quando era presidente, optò per una posizione vicina al liberalismo e per un avvicinamento diplomatico e commerciale con gli Stati Uniti. In campagna elettorale ha promesso che con la sua politica economica farà crescere il PIL peruviano non meno di un 6% annuo ma anche di aumentare la pressione fiscale e la spesa pubblica nei campi dell’ educazione, della salute e della sicurezza nella lotta al nCastañedaarcotraffico.

ALIANZA SOLIDARIDAD NACIONAL – Luis Lossio, famoso ex sindaco di Lima, è il candidato leader della coalizione Alianza Solidaridad Nacional, composta dal partito principe Solidaridad Nacional fondata e presieduta dallo stesso Castañeda e da altri quattro partiti. Può definirsi un’ alleanza di centro destra, conservatrice. Già alle elezioni generali del 2000, il partito si presentò e ottenne un misero 1.8% nella votazione finale.

Castañeda sarà poi eletto sindaco di Lima in due occasioni, nel 2002 e nel 2006, nell’ ambito delle elezioni amministrative a capo di una coalizione chiamata Unidad Nacional. A livello nazionale, per Solidaridad Nacional, sono arrivate invece due sonore sconfitte elettorali rispettivamente nel 2001, come detto, e nel 2006  con una candidata presidente donna, Lourdes Flores.

Personaggio controverso in Perù, Castañeda è passato da accuse di corruzione, come nello scandalo “Comunicore” nel quale gli furono addebitati illeciti arricchimenti sottraendo fondi pubblici, accusa poi archiviata ma che ha aperto un processo a carico di funzionari municipali comunque contrattati da lui, a premi internazionali come il NGV Champion Awards conferitogli a Roma nel 2010 per i risultati ottenuti promuovendo l’ uso del gas naturale nel trasporto pubblico di Lima e per l’ adozione di una politica ambientalista che ha recuperato molte aree verdi della città.

Solidaridad Nacional annovera tra le sue promesse elettorali l’ intenzione di ridurre le tasse sugli interessi e di sviluppare l’ industria nazionale, in campo economico, mentre in materia di sicurezza assicura lotta al narcotraffico e progressivo aumento di stipendio per le forze dell’ ordine.

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ALIANZA POR EL GRAN CAMBIO Altro aspirante presidente è l’economista Pedro Pablo Kuczynski (foto), meglio conosciuto come PPK, leader della coalizione Alianza por el Gran Cambio ed anche il candidato più anziano di queste elezioni, con i suoi 72 anni. La coalizione capeggiata da Kuczynski è nata recentemente nel 2010 proprio in vista delle presidenziali e si compone della Alianza para el Progreso, il Partido Humanista Peruano, il Partido Popular Cristiano e Restauraciòn Nacional.

Kuczynski è da considerarsi una vecchia volpe della politica peruviana avendo avuto incarichi nei due governi del presidente Belaúnde Terry (1966 e 1980) ed in quello di Toledo nel 2001. Protagonista della storia peruviana anche in occasione del  “golpe militar” avvenuto in Perù nel 1968 quando fu dapprima incarcerato quale oppositore e poi esiliato dal Governo Rivoluzionario delle Forze Armate. Figura controversa nel suo paese, PPK fu criticato quando era ministro dell’ Energia e delle Miniere, sotto la gestione Terry, per una politica di esenzioni tributarie concesse ad imprese petrolifere straniere, soprattutto statunitensi, ed anche per avere la cittadinanza statunitense, alla quale lui dice di voler rinunciare. Nonostante ciò, sotto il governo Toledo, quale ministro dell’ Economia e delle Finanze la sua politica di vendita di metalli alla Cina diede un impulso all’ economia peruviana, che crebbe dal 5% all’ 8% su base annua.ù

La Alianza por el Gran Cambio punta al successo proponendo una politica basata sugli investimenti privati come motore dell’ economia e il principio dell’ intervento sussidiario dello Stato a complemento di un’ economia sociale di mercato. Inoltre promette investimenti pubblici nell’ educazione, destinandogli il 7% del PIL e nella salute e un nuovo sistema di lavoro per la polizia in materia di sicurezza.

Alfredo D’Alessandro

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Se il Dalai Lama va in pensione

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Il Tibet e il riconoscimento dei Diritti Umani. L'annunciato ritiro dall’attività politica del Dalai Lama, se può apparire come normale per un Leader Politico, comporta tuttavia dei mutamenti nell’assetto istituzionale del Tibet, le cui conseguenze politiche possono coinvolgere i rapporti con la Cina e soprattutto i rapporti tra questa e l’occidente. Conseguenze frutto della pervasività dei Diritti Umani

FORMAZIONE DELLE ISTITUZIONI – Per chiarire occorre considerare l’assetto istituzionale Tibetano, tenendo presente l’influenza che su di esso ha esercitato nel tempo la Cina e sottolineando fin d’ora come il Dalai lama e il Panchen Lama siano delle figure religiose che svolgono rilevanti funzioni politico – istituzionali, tanto che insieme rappresentano gli elementi chiave per il governo del Tibet.

La figura del Dalai Lama viene istituita nel 1578 per mezzo dell’investitura ad autorità temporale e religiosa ricevuta dalla Cina. L’assetto istituzionale viene completato poi dal V° Dalai Lama che attribuisce al suo maestro il titolo di Panchen Lama. Le due figure diventano quindi le più alte cariche tibetane, la prima con funzione anche di governo temporale, la seconda con autorità in ambito religioso; entrambe comunque interdipendenti nell’importantissima funzione del ”riconoscimento delle rispettive incarnazioni”.

FORME STORICHE DI INFLUENZA – La Cina ha sempre esercitato un forte controllo sul Tibet, indirizzando la sua azione in modo da incidere direttamente sui Lama. Ciò, ad esempio, attraverso “l’investitura” da parte cinese o attraverso il sistema del “Sorteggio Imperiale”. Contrapposti all’azione cinese vi sono i tentativi dei paesi occidentali di esercitare la loro influenza sul Tibet; tali tentativi, principalmente in ragione degli strumenti usati – quali la semplice apertura di uffici nella capitale, o accordi sullo status del Tibet (non coinvolgenti la Cina) – non hanno raggiunto il loro obbiettivo, ovvero affievolire l'influenza ed il controllo cinese sul Tibet.

DOPO LA RIVOLTA DI LHASA – Nel corso del 1959, tuttavia, gli eventi legati alla rivolta di Lhasa, che porteranno in breve tempo all’istituzione e all’insediamento presso Dharamsala (India) di quello che viene chiamato Governo Tibetano in Esilio, rappresentano un momento fondamentale per l'avvicinamento dei Paesi occidentali ai Tibet.

Dotati di nuovi strumenti, quali i diritti dell’uomo, in grado di penetrare profondamente nell’assetto istituzionale, questi paesi riescono a incidere sulla fonte primaria del diritto tibetano, la “Charter of The Tibetan in Exile”, che tra l'altro prevede anche il principio della separazione dei poteri.

Attualmente, quindi, coesistono istituzioni di antiche origini quali Dalai Lama e Panchen Lama basate, in senso lato, sull’investitura da parte della Cina, aventi valore principalmente religioso e istituzioni di nuovo conio, fondate su principi culturalmente appartenenti ai Diritti dell’Uomo dotate di valore politico-istituzionale anche se operano al momento al di fuori del territorio tibetano.

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DOPO IL DALAI LAMA – Proprio sul piano istituzionale sia l’eventuale “ritiro a vita privata” del Dalai Lama sia la sua eventuale “non reincarnazione”, come da lui dichiarato, possono rappresentare un ulteriore momento di svolta nella questione tibetana.

In entrambi i casi, infatti, il potere temporale verrebbe esercitato dal Governo Tibetano il quale, trovando il suo fondamento nei valori propri delle moderne democrazie comporta il venir meno di un importante e simbolico elemento del controllo della Cina, esercitato nella continuità della prassi dell’investitura.

Che questo governo, nel futuro, operi all’interno di un Tibet indipendente o dotato di maggior autonomia può solo influire sulla misura del problema creato alla Cina, ma non sulla sua esistenza.

In primo luogo tanto l’indipendenza quanto l’autonomia possono rappresentare un esempio che altre regioni Cinesi, in cui vi sono forti presenze di gruppi etnici con una loro specificità, possono voler seguire.

L’indipendenza inoltre, lasciando il Tibet libero di stringere rapporti con altri stati all’interno della Comunità Internazionale, può rappresentare motivo di preoccupazione per la Cina da molti punti di vista.

D'altro canto anche l’autonomia può rappresentare una difficoltà per la Cina, giacchè in questo caso il Tibet, restando legato alla Cina e quindi all’interno della sua struttura istituzionale, potrebbe di fatto introdurre principi e valori quali il principio di separazione dei poteri, il principio del giusto processo, e soprattutto il principio di libertà di religione. Principi che per loro natura, per il messaggio universale che esprimono, tendono a diffondersi nelle e tra le società.

DIRITTI UMANI COME FATTORE D'INFLUENZA – Il lavoro di denuncia e sensibilizzazione iniziato in seguito agli eventi del 1959, portato avanti dal Dalai Lama con il sostegno della Comunità Internazionale e svolto sottolineando il valore dei “Diritti dell’Uomo” nel contesto della questione tibetana, ha legittimato l'introduzione di istituzioni e principi attraverso i quali è possibile esercitare la propria influenza geopolitica.

Il ritiro dalla vita pubblica del Dalai Lama, la sua possibile “non reincarnazione”, il passaggio del potere temporale ad istituzioni di stampo occidentale avvenuto senza esercizio di forza, più che un semplice fatto/notizia, può rappresentare un passaggio chiave di un percorso di ricollocazione del Tibet in cui si evidenzia la capacità e la forza che i principi dei Diritti dell’Uomo sono in grado di manifestare quando considerati quali strumenti di geopolitica.

Matteo Mirti

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Corsa alle armi in Costa d’Avorio: una guerra silenziosa

Prendendo spunto da quanto avviene in Libia, il governo del presidente riconosciuto dalla comunità internazionale, Alassane Ouattara, ha chiesto alle Nazioni Unite di autorizzare il ricorso alla forza in Costa d’Avorio per proteggere la popolazione civile. Intanto si moltiplicano gli scontri tra i sostenitori di Ouattara e dell'ex Presidente Gbagbo

I DUE PRESIDENTI – Dopo le elezioni del 28 novembre 2010 la Costa d’avorio è divisa tra i sostenitori di Alassane Ouattara, Presidente riconosciuto dalla comunità internazionale, e quelli del Presidente uscente, Laurent Gbagbo. La guerriglia tra le forze fedeli a Gbagbo e quelle pro-Ouattara continua ed entrambe le milizie sono accusate di aver commesso abusi e atrocità. La settimana scorsa, le Nazioni Unite hanno parlato di "crimine contro l'umanità" a proposito dell'incendio di un mercato nella capitale, provocato dalle forze armate di Gbagbo.

IL DILEMMA CONTINUA – Outattara, la cui vittoria è stata riconosciuta a livello internazionale, ha nominato un Governo che si è insediato in un hotel della capitale Abidjan. Migliaia di sostenitori dell'ex presidente ivoriano Laurent Gbagbo – che si rifiuta da mesi di cedere il potere – si sono riuniti in una base militare ad Abidjan, capitale amministrativa, per arruolarsi in massa. I giovani attivisti hanno risposto all'invito di Charles Ble Goude, alleato chiave di Gbagbo, che li ha sollecitati a unirsi all'esercito e liberare le zone del Paese in mano alle Forces Nouvelles, le forze armate che sostengono Alessane Ouattara. Assiepata intorno al quartier generale di Abidjan, la folla ha scandito slogan come "I ribelli moriranno". Secondo i sostenitori del Presidente uscente, i combattenti armati di kalashnikov e lanciarazzi, soprannominati da una parte della stampa ivoriana “commando invisibile”, sarebbero elementi delle Forze Nuove, che fanno capo all’ex ribelle Soro, attuale Primo Ministro del Governo Ouattara. Nel frattempo nel paese si moltiplicano gli scontri. Dal 21 al 23 febbraio scorso l’Unione Africana ha inviato ad Abidjan, una missione formata da quattro Capi di Stato per trovare una soluzione alla crisi politica, che però non pare dare risultati. (Nella foto: a sinistra Gbagbo, a destra Outtara)

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NEL BRACCIO DI FERRO VINCE LA CRISI UMANITARIA – La crisi ivoriana, di questo piccolo paradiso africano primo produttore al mondo di cacao, si avvia ad un bivio: da una parte c'è una soluzione politica, dall'altra la deflagrazione definitiva di una guerra civile che cova da quasi tre mesi sotto la cenere. Intanto nell’ovest del paese i ribelli delle Forze nuove, che controllano il nord dal 2002, hanno continuato ad avanzare conquistando le città di Toulepleu, Dokè e Blolequin. Presa quest’ultima cittadina, gli insorti avrebbero gioco facile nell'avanzare verso San Pedro, il più grande porto per la distribuzione del cacao al mondo. E questo avrebbe come immediata conseguenza quella di rendere quasi inutile la nazionalizzazione del mercato del cacao, decisa due settimane fa da Gbagbo nel tentativo di assicurare al suo regime un afflusso costante e imponente di denaro. Mentre lo sguardo preoccupato di tutto il mondo è concentrato da settimane sugli eventi in Nord Africa, la tragedia che si sta vivendo in Costa d'Avorio rimane attualmente sotto traccia, ma la popolazione sta già soffrendo pesanti ripercussioni in questa lotta di potere.

 

Adele Fuccio

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Il Giro del Mondo in 30 Caffè

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Finisce oggi il lungo viaggio del Giro del Mondo in 30 Caffè: clicca qui per andare all'indice dello speciale, rivedere tutte le tappe e rileggere i nostri articoli

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