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I perchè del Maghreb in rivolta – I

Pubblichiamo in esclusiva, in quattro puntate, un documento del Generale Saverio Cascone, che con estrema chiarezza riesce ad illustrare nel suo complesso quanto sta avvenendo in Maghreb e nel Medio Oriente, mostrando i sottili fili rossi che stanno dietro le trame degli eventi di queste settimane. Una lettura imperdibile, per cogliere le dinamiche più profonde dei fatti che stanno cambiando la storia di quelle regioni, e non solo. Dopo una breve panoramica generale, partiamo oggi dalla Tunisia

GENERALITA' – La rivolta del Maghreb, sia “Piccolo Maghreb” (Marocco, Algeria e Tunisia) sia “Grande Maghreb” (i tre Paesi già citati, più Mauritania e Libia), iniziata in Tunisia ed Egitto a dicembre-gennaio scorso, si è propagata con velocità considerevole in Libia ed in altre aree del mondo arabo: la Valle del Nilo (già citato l’Egitto), il Corno d’Africa (Gibuti), il Mashreq (Libano, Giordania), la Penisola arabica (Bahrein, Yemen); si ricorda che Maghreb e Mashreq sono due termini arabi che indicano rispettivamente occidente e oriente; in questo caso, rispetto alla centrale Valle del Nilo.

Come per altre operazioni che coinvolgono la popolazione o un settore di questa, sembra opportuno connotare la rivolta (partecipanti, scopo, mezzi ecc.) e, per un’agevole comprensione e individuazione, anche un’etichettatura: per quanto si è visto finora, a proposito di Tunisia ed Egitto, si parla rispettivamente della “rivolta dei gelsomini” (una pianta che fiorisce d’inverno) e di “rivolta del web” (per il fondamentale ruolo avuto, nella fase organizzativa e nella condotta, dai social network – Twitter, Facebook ecc.); entrambe: una rivolta generazionale, con elemento predominante i giovani – uomini e donne alfabetizzati – contro un regime autocratico, in un contesto caratterizzato da “stato di polizia”, ingiustizia sociale, sistema di privilegi e povertà; regimi durati lunghi anni, le cui cause sono da valutare caso per caso. Tuttavia alcuni quotidiani (“La Repubblica” del 14 febbraio u.s., in particolare) riportano a tale proposito quanto evidenziato dallo storico e demografo francese, Emmanuel Todd, a proposito della longevità dei regimi del mondo musulmano, nel saggio “L’incontro delle civiltà”.

DEMOGRAFIA E ALFABETIZZAZIONE – Secondo lo studioso Todd, nel processo di modernizzazione, lo scoppio delle rivolte segue nel tempo l’alto tasso di alfabetizzazione e il calo delle nascite (è capitato con la Rivoluzione Francese, con il rovesciamento del regime zarista, con la Rivoluzione Cinese). In pratica, superata la soglia di alfabetizzazione del 50% per uomini e donne, è probabile il calo del numero medio dei figli per ciascuna donna. A questo punto, dietro l’angolo c’è la rivolta, perché, spiega Todd, «in una società in cui i figli sanno leggere e scrivere e i padri no, cambiano i rapporti tra uomini e donne; tale società è disorientata!»

Il mondo arabo non fa eccezione, tanto più che in quest’ultimo sussiste un altro fattore demografico importante, l’endogamia, ovvero la quota di matrimoni tra cugini: l’individuo è preso da forti legami familiari che ingenerano una sorta di “blocco politico”: è questa la causa del ritardo nella reazione al regime.

IL RUOLO DELL'OCCIDENTE – L’aspetto demografico non è tutto nel contesto maghrebino; è necessario prendere in considerazione anche gli interessi dei Paesi occidentali sia per l’acquisizione delle risorse energetiche nei Paesi maghrebini (Algeria, Libia ecc.), sia per il controllo e il blocco di fenomeni negativi “in espansione” come l’estremismo islamico, il terrorismo, la criminalità organizzata, il narcotraffico ecc., nel senso che, come contropartita per il loro impegno contro tali fenomeni, si ricorre a stanziamenti di fondi, anche sostanziosi (vedasi l’Egitto da parte degli Stati Uniti), sotto la voce del miglioramento del dispositivo militare e/o della polizia locale.

A questi stanziamenti si aggiungono una certa larghezza di vedute e, per certi aspetti, la tolleranza ai fini del comportamento dei regimi in questione nel settore dei Diritti Umani, come sarà possibile riscontrare, attraverso l’esame della situazione di ciascun Paese.

A tale ultimo proposito, dopo l’esame dei due Paesi maghrebini che hanno già conseguito un risultato tangibile, come avvenuto in Tunisia ed in Egitto (allontanamento dal Paese del “Capo” del regime), saranno presi in considerazione i Paesi che ancora sono alla fase precedente, nel contesto di una possibile schematizzazione delle fasi di una “rivolta” e cioè:

  • la “piazza”, quale luogo di manifestazioni e/o di scontro tra popolazione e forze militari e di polizia, in difesa del regime;

  • il rovesciamento o l’allontanamento spontaneo dal Paese del “dittatore”;

  • il processo di transizione e di normalizzazione.

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1.LA TUNISIA E LA RIVOLTA DEI GELSOMINI

CAUSE E CONTESTO – Nel Paese, ritenuto il più stabile dell’area maghrebina, la scintilla parte dal gesto estremo di un giovane ventiseienne che, il 17 dicembre 2010, si cosparge di benzina e si dà fuoco per protesta; Mohamed Bouazizi (così si chiamava), diplomato senza lavoro, sopravviveva vendendo frutta e verdura, sprovvisto di licenza; la polizia gli aveva sequestrato la merce a Sidi Bouzid, una cittadina della Tunisia centrale. L’agonia è durata fino al 4 gennaio 2011; gli amici di Mohamed Bouazizi sono scesi in piazza, dando inizio a una ribellione che si è estesa ad altre località, fino alla Capitale.

La Tunisia, 10 milioni di abitanti a maggioranza sunniti (99%), stando ai parametri demografici dello studioso Emmanuel Todd, presenta un alto tasso di alfabetizzazione (94%) e un tasso di endogamia (matrimonio tra cugini), anche questo elevato (36%), che rendendo molto forti i legami familiari hanno determinato un blocco della situazione politica e ritardato il processo di modernizzazione del Paese, già condizionato dall’autoritarismo del regime tunisino.

In economia, la Tunisia che fruisce del sostegno dei Paesi occidentali, ha realizzato una crescita, nel periodo precedente alla “crisi globale”, di cui non hanno beneficiato i ceti più deboli; da considerare che la Tunisia non sfrutta appieno le proprie capacità, specie nel settore turistico, con un flusso di circa 8 milioni di turisti l’anno.

Con la crisi globale, si sono verificate la contrazione della domanda sui mercati europei che costituivano sbocco principale delle esportazioni tunisine (frumento, orzo, olio di oliva, datteri e agrumi), la riduzione sia del flusso turistico sia delle rimesse dei lavoratori tunisini all’estero.

La crisi economica ha portato all’attenzione anche altri aspetti negativi della gestione del potere:

  • l’assenza di competizione politica nell’apparato statale ( il Raggruppamento Costituzionale Democratico – RCD – costuisce in effetti “partito unico”, data l’inconsistenza degli altri partiti);

  • l’autoritarismo del regime non disgiunto dal controllo di polizia che, insieme alla censura, rendono la Tunisia alquanto simile all’Iran.

Come anticipato, è bastata la scintilla di Sidi Bouzid per portare la Tunisia in piazza, con manifestazioni di proteste e scioperi; la rivolta si connota come rivolta politica, in quanto la piazza chiede il cambio di regime che ha messo in discussione la legittimità del governo.

VIA BEN ALI, COSA RIMANE? – Nonostante la forte repressione, il Presidente Zine el-Abidine Ben Ali è stato costretto il 14 gennaio scorso ad abbandonare il Paese e, rifiutato dalla Francia, ha trovato scampo in Arabia Saudita. Le condizioni di salute dell’ex Presidente tunisino sono attualmente preoccupanti.

Il corso del periodo post-“rivolta dei gelsomini” non sembra privo di ostacoli: un primo governo ad interim non ha ottenuto consenso, in quanto gli esponenti di tre ministeri fondamentali (Difesa, Esteri e Finanze) erano stati assegnati ad esponenti compromessi con il regime di Ben Ali.

La formazione governativa successiva, affidata alla guida di Mohamed Gannouchi (da non confondere con il leader storico dell’opposizione, Rachid: non sono parenti), concede poco spazio agli esponenti del vecchio regime; alleggeriti i rigori del coprifuoco, in vigore dal 12 gennaio e avviata la ripresa di alcune attività commerciali, il processo di democratizzazione sembra avviato attraverso il dialogo tra la compagine governativa e l’Union General Travaglieurs Tunisiens (UGTT). In questa fase di transizione, un ruolo significativo spetta ai militari che negli ultimi anni hanno visto crescere gli organici della Polizia (120 mila effettivi), a scapito delle F.A. (35 mila effettivi), e per di più tenuti “lontani” dai centri di potere.

(1. continua)

Gen. Saverio Cascone (testo raccolto da Chiara Maria Leveque) [email protected]

L’ombra carioca sul Sol Levante

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Dopo l’alleanza con la Turchia per il nucleare in Iran e la formazione del G20 in accordo con il Sud Africa, il Brasile punta all’estremo Oriente, rinsaldando i rapporti con il Giappone e la Corea del Sud: un consorzio composto da affaristi di questi ultimi due paesi starebbe pianificando di acquistare il 15% dei giacimenti minerari della CBMM in Brasile, in un luogo in cui tuttavia le risorse stanno per finire

COME L’ORO NERO – Il Giappone non rinuncia alla scalata per la riconquista del secondo posto tra le economie mondiali. Dopo il duro colpo inferto la scorsa estate da parte della Cina, che ha superato il paese del Sol Levante per la corsa al primato economico mondiale accorciando la distanza con gli Stati Uniti, il Giappone cerca di mettersi in pari. Ma per fare questo ha bisogno di risorse minerarie. È così che un consorzio delle tre aziende leader nel settore siderurgico del Giappone e della Corea del Sud, ossia la Nippon Steel Corporation, la JFE Steel e la South Korea’s Posco, hanno annunciato la joint venture nata con la Companhia Brasileira de Metalurgia Mineracao (CBMM), per un investimento del valore di 150 miliardi di yen. L’accordo dovrebbe solo essere formalizzato, ma di fatto è già stato chiarito che si farà. Le altre compagnie che parteciperanno all’unione economica sono le giapponesi Sojitz Corporation e la Oil, Gas and Metals National Corporation, un’agenzia amministrativa indipendente, e la sud coreana National Pension Service. Nella suddivisione degli utili, al Giappone spetterebbe il 10% delle riserve di carburanti, mentre per la Corea del Sud rimarrebbe il 5%. Ciò dipenderebbe ovviamente dall’impegno posto da parte dei due Stati nelle trattative, ma anche dal fatto che il Giappone investe nel progetto 100 miliardi di yen, contro i 50 della Corea del Sud. Il Brasile possiede l’80% del niobio disponibile al mondo, un metallo raro e necessario per la produzione di acciaio di alta qualità, considerato una specialità per i mercati giapponesi. In particolare, la CBMM possiede diverse miniere di niobio. Il niobio è anche utile per aumentare la resistenza al calore e la durevolezza del metallo.

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IL GIOCO DELLE POTENZE“– Il riposizionamento del Giappone in primis, e della Corea del Sud solo successivamente, è indicativo del tentativo da parte delle potenze internazionali della necessità di acquisire strumenti per mantenere il proprio potere in un’ottica geopolitica e geostrategica, oltre che geoeconomica. La domanda di risorse energetiche per le economie sviluppate e in crescita continua come la Cina e l’India è preponderante per la gestione dei propri mercati.

Il campo dell’acciaio è molto importante per un paese come il Giappone, il quale ha già attuato altri passi molto significativi in questo settore: è notizia del 3 febbraio di quest’anno l’annuncio lanciato dai due colossi giapponesi dell’acciaio Nippon Steel e Sumitomo Metal Industries, in base al quale il primo ed il terzo produttore nazionale di acciaio starebbero per fondersi attraverso una procedura che si completerà ad ottobre del 2012. La joint venture sarebbe utile in questo caso a fondare un’azienda leader nel settore in Asia, in coda solo alla lussemburghese ArcelorMittal, che ne è invece la guida mondiale. Una cordata che consentirebbe di fatto di contrastare gli altri produttori di acciaio, come la cinese Baostell e la coreana Posco. Il trust tra le due compagnie servirebbe anche a combattere la perdita di utili nel mercato interno.

Alessia Chiriatti

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Dal terremoto al successo

Il 2010 per il Cile è stato un anno molto intenso caratterizzato da grandi cambiamenti a livello politico, con il passaggio da Michele Bachelet a Sebastian Piñera, ma soprattutto a livello economico e sociale a causa del tragico terremoto di febbraio e della crisi economica. Tuttavia il Paese continua a progredire, con numerosi progetti e sfide che attendono il suo Presidente.

VINCENTE O NO? – La popolarità del Presidente Sebastian Piñera, insediatosi nel marzo dello scorso anno, ha subito un drastico calo fino al 41%, secondo un recente sondaggio. I risultati mostrano una forte diminuzione rispetto al massimo del 63% di approvazione ottenuta in ottobre, momento in cui rafforzò la sua popolarità in conseguenza al salvataggio dei 33 minatori rimasti bloccati nella miniera di San José. Nonostante i numerosi provvedimenti nei settori della sanità, dell’occupazione, dell’energia e dell’ambiente, Piñera dovrà rafforzare le proprie alleanze politiche per portare a compimento gli impegni inclusi nell’agenda legislativa.

RIFORME – Nonostante le difficoltà dell’esecutivo, il pacchetto di riforme presentate dal Governo al Congresso per aumentare la liquidità monetaria, la trasparenza e per garantire la solvibilità dei mercati finanziari, sembra rimanere senza modifiche decisive. L’obiettivo delle riforme è la semplificazione del sistema tributario, maggiori sussidi statali alle piccole e medie imprese per accedere al finanziamento, e la creazione di un nuovo mercato con strumenti ad alto rendimento, in conformità con l’aspirazione cilena di divenire il centro di investimenti dell’intera regione.

A UN ANNO DAL TERREMOTO –  Il sisma del 27 febbraio 2010, avvertito in sei regioni del centro e del sud del paese, ha colpito 12,8 milioni di persone, pari a circa il 75% della popolazione totale, provocando 524 morti e 31 scomparsi. È stato stimato che la nazione ha subito danni per un valore di 30 miliardi di dollari, che equivale al 18% del PIL. Dopo un anno dai tragici eventi, il governo cileno è stato in grado di ripristinare quasi tutte le infrastrutture pubbliche e sanitarie colpite dal sisma. Tuttavia, sono ancora molti i programmi da realizzare entro l’11 marzo del 2014, scadenza imposta dal governo per il completamento dei lavori. Il sisma, il quarto più forte mai registrato nella storia, ha danneggiato circa 1.554 chilometri di strade, 212 ponti, 9 aereoporti e 748 sistemi di acqua potabile. Nell’anno trascorso più del 50% di queste strutture di queste infrastrutture sono state riparate in modo parziale o totale, in base all’entità del danno. Altri dati incoraggianti riguardano il settore sanitario, 73 strutture ospedaliere, pari al 75% della rete di tutto il paese, erano state colpite. Un anno dopo, le 4.250 stanze distrutte sono state ripristinate, così come il 90% dell’equipagiamento medico e industriale è già operativo e il 94% dei 17 ospedali, allora ritenuti inutilizzabili, stanno già operando.

ECONOMIA – Secondo un rapporto del ProChile (Direzione per la promozione delle esportazioni), nel 2010 le esportazioni cilene hanno subito un incremento del 30%, raggiungendo la cifra record di 69.621 milioni di dollari. Tale aumento è stato possibile grazie all’aumento del prezzo del rame e per effetto del recupero della crisi economica mondiale, secondo gli studi compiuti dall’agenzia statale El Mercurio. Riguardo il rame, è stato rilevato che rispetto al 2009, l’esportazione è aumentata del 43,1% raggiungendo 11.836 milioni di dollari. Questo è un dato di grande rilevanza per il Cile se si tiene in considerazione il fatto che le esportazioni di questo metallo coprono il 56% delle entrate statali pari a 39.290 milioni di dollari. Questi trend particolarmente positivi sono stati il risultato dell’aumento del prezzo medio del rame che ha raggiunto i 3,42 dollari per libbra di fronte ai 2,34 del 2009, secondo i dati della Sociedad Nacional de la Mineria (Sonami). Nonostante i danni provocati dal terremoto alle piantagioni, la cellulosa è stata il secondo prodotto più esportato nel 2010, che, secondo i dati del ProChile, ha raggiunto i 5.466 milioni di dollari, il 19% in più rispetto al 2009. Infine, il terzo prodotto più esportato è la fauna ittica per un valore di 2.004 milioni di dollari, in grande ripresa dopo la riduzione dell’1,3% durante il 2010 a causa del virus ISA che ha colpito il salmone atlantico. Guardando all’esterno, il Cile è proiettato verso il mercato cinese, divenuto il principale partner commerciale, per esportazioni pari a 16.457 milioni di dollari, al quale si affianca il Giappone, che ha superato gli Stati Uniti con un volume di scambi di 7.110 milioni di dollari.

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LA LEGGE DEL COBRE – “Più trasparenza nelle Forze Armate”: è con questo slogan che il presidente Piñera ha annunciato di voler sostituire la tanto criticata legge sul rame, la quale stabilisce che il 10% degli introiti ottenuti dalla vendita del rame gestita dall’impresa pubblica Codelco (maggiore produttrice al mondo di rame), sia destinata alle Forze Armate. La legge, approvata nel 1976, durante la dittatura di Augusto Pinochet (1973 – 1990) convertirebbe l’attuale presidente, primo rappresentante di destra al potere dopo il ritorno della democrazia in Cile,  come il primo a consolidare il ruolo dell’autorità civile sulle Forze Armate. L’intenzione dell’esecutivo è sostituire la legge con un bilancio pluriennale approvato dal Congresso. L’annuncio del presidente si aggiunge ai cambiamenti che negli ultimi mesi si sono verificati negli organismi di difesa, che hanno visto la rinuncia di Jaime Ravinet come Ministro e Cristian Le Dantec come Capo di Stato Maggiore dell’Esercito, entrambi accusati per la gestione delle risorse delle FF AA.

ASPIRAZIONI CILENE– secondo il presidente Piñera ci sono buoni presupposti affinché il paese diventi a pieno titolo un Paese sviluppato (è da poco entrato nell'OCSE). I dati economici riportano una crescita del 6%, che permetterebbe alla nazione cilena di raggiungere i livelli dei paesi sviluppati, a fronte dell’alto livello di competitività e del basso indice di corruzione. Il Cile “potrebbe trasformarsi nel primo paese latinoamericano democratico e senza povertà”.

Valeria Risuglia

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Il gigante economico e il nano politico

Il Giro del mondo in 30 Caffè – Facciamo in breve il punto sul precario stato di salute dell'Unione Europa. Il 2010 europeo ha evidenziato le fragilità di gestione della crisi economica e le evidenti difficoltà di coordinamento emerse tra le diverse anime dell’Ue. L'Europa “gigante economico” sembra mostrare segni di fragilità, e l'Europa “nano politico”, come in preda a una sindrome di Peter Pan, sembra non voler crescere mai.

2010, TUTTO IN SALITA – Le difficoltà economiche delle cosiddette “piccole d’Europa” hanno pesantemente contribuito nel conferire un segno negativo al 2010 dell’Unione.

Circa un anno fa, infatti, abbiamo assistito al collasso economico della Grecia (tuttavia ampiamente annunciato) e all’innescarsi di un acceso dibattito sulle modalità d’intervento e di sostegno che ha visto Germania, Francia e Gran Bretagna contendersi il ruolo di paese guida all’interno del processo di decision making relativo alla crisi.

Bce e FMI attingendo lautamente alle rispettive risorse hanno erogato una cifra pari a circa 110 milioni di euro, un airbag finanziario necessario per agevolare la ripresa dei conti ellenici ed infondere nuova linfa vitale nei mercati pesantemente sfiduciati.

Successivamente, questo pacchetto di aiuti è stato riproposto, seppur con cifre sensibilmente inferiori, in favore dell’Irlanda,  secondo paese membro a farne ufficialmente richiesta.

Il vento della crisi finanziaria ha portato sul continente europeo anche una certa dose d’instabilità politica, con alcune debacle elettorali di un certo rilievo.

La Gran Bretagna dopo anni di egemonia laburista, fatto raro in una democrazia maggioritaria che dovrebbe prevedere facilità di alternanza tra maggioranza ed opposizione, ha visto in faccia prima lo spettro dell’ingovernabilità e poi la nascita di una coalizione governativa inedita tra conservatori e liberaldemocratici.

Nella Germania federale, la coalizione di governo guidata da Angela Merkel, in forte calo di consensi, ha perso una regione chiave come il Nord Reno – Westfalia.

E parlando di calo di consensi è facile rifarsi a  Sarkozy per la Francia e Zapatero per la Spagna; i due, infatti, oltre ad aver perso le rispettive tornate elettorali regionali sono accomunati anche da un crollo di appeal politico senza precedenti che mette in forte discussione le reciproche chance di rielezione.

A questo panorama, già abbastanza desolato, bisogna tuttavia aggiungere gli alti e bassi dell’euro sui mercati internazionali e soprattutto la flessione della moneta unica europea nei confronti del cambio con il dollaro statunitense.

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2011, IMMIGRAZIONI E CRISI DA ARGINARE – Potrebbero rappresentare le principali sfide per l’Unione nel 2011, anno che non è di certo iniziato sotto i migliori auspici.

Si è riaperta, infatti, in tutta la sua gravità, la questione inerente alla gestione delle politiche migratorie europee, da sempre un problema caldissimo e puntualmente sottovalutato.

Spagna e Italia, i due paesi maggiormente coinvolti nelle tratte dei clandestini nordafricani, più volte in passato hanno richiamato l’attenzione dei paesi membri dell’Unione nella speranza di attivare un processo che porti ad una cooperazione più stretta e quindi all’adozione di politiche univoche più efficaci .

La risoluzione però è sempre rimasta latente, come latenti sono stati gli appelli dei ministri dell’interno italiano e spagnolo nel non sottovalutare la gravità e la portata dellepotenziali immigrazioni.

Le rivoluzioni in corso in Tunisia, Egitto e Libia hanno prodotto un elevatissimo numero di profughi pronti a tutto pur di abbandonare il paese d’appartenenza; alla ricerca in primis di un approdo sicuro sulle coste dei due paesi più vicini, per poi, nella maggior parte dei casi, spostarsi verso Francia, Germania e Regno Unito.

L’auspicio è dunque che, svolgendo un ruolo decisivo nell’azione umanitaria di soccorso delle popolazioni nordafricane, l’Ue possa avviare anche una discussione sulla ridefinizione delle competenze e degli ausili in materia di immigrazione.

Per quel che riguarda invece la gestione della crisi economica si segue con una certa preoccupazione la situazione del Portogallo, che, secondo fonti autorevoli, potrebbe essere il prossimo paese membro a richiedere il fondo salva-stati messo a punto dall’Unione Europea.

Il rischio principale, in tal senso, riguarda la possibilità che Lisbona non riesca a far fronte autonomamente al proprio finanziamento sui mercati e che quindi possa, non accettando per tempo gli aiuti, contagiare alcuni dei paesi della zona Euro al momento meno solidi economicamente: Belgio e Spagna su tutti.

E’ evidente dunque, come anche nell’analisi economico/politica valga il detto: prevenire è meglio che curare.  

Andrea Ambrosino [email protected]

Il momento del ‘Caracazo’

Sembra una brutta parola, ma è solo un termine spagnolo per designare la ribellione popolare che si svolse nel 1989 nella capitale venezuelana e che segnò l'ascesa della Sinistra nella nazione sudamericana. Alla luce dei disordini in Medio Oriente e Nordafrica, c'è chi sostiene che un nuovo “Caracazo” potrebbe avvenire in Venezuela, stavolta però ai danni del leader Chávez. C'è qualcosa di vero in tutto questo?

VENT'ANNI DOPO, UN NUOVO “CARACAZO”? – Il 27 febbraio del 1989 è celebrato dalla retorica bolivariana – per intenderci, quella istituita dall'attuale presidente del Venezuela Hugo Chávez – come l'inizio della rivoluzione socialista nella nazione sudamericana. Quel giorno, infatti, si scatenò nella capitale Caracas una ribellione popolare, il cosiddetto “Caracazo” appunto, in seguito alla richiesta da parte del Fondo Monetario Internazionale di alzare prezzi e tariffe, come misura necessaria per sistemare gli squilibri nelle finanze del Paese.

Più di vent'anni dopo, e dopo quasi nove anni di chavismo che hanno riportato il Venezuela ad essere governato da un regime formalmente democratico, ma sostanzialmente autoritario, nuove proteste si sono svolte nella capitale. Dal 31 gennaio al 22 febbraio 83 studenti hanno effettuato un “sit-in” e uno sciopero della fame dinanzi alla sede venezuelana dell'OSA (Organizzazione degli Stati Americani), per chiedere la liberazione di ventisette perseguitati politici, imprigionati senza ricevere un giusto processo. Il Governo ha dovuto scendere a patti con i manifestanti, accordando la liberazione di sette persone e l'istituzione di un tavolo di lavoro per il riesame della situazione giudiziaria degli altri prigionieri.

Alla luce delle ribellioni che stanno infiammando il Medio Oriente e il Nord Africa in queste settimane, c'è chi ha arditamente accostato questi fatti alle proteste in Venezuela sostenendo l'imminenza di un nuovo “Caracazo”, stavolta ai danni di Chávez. Le due situazioni sono davvero paragonabili?

 

CARACAS COME TRIPOLI? – Ci sembra davvero un azzardo accostare la rivolta del Cairo o quella di Tunisi alle proteste, tutto sommato ridotte, che si sono svolte nella capitale venezuelana. L'accostamento però è stato suggerito quando ad infiammarsi è stata la Libia di Gheddafi, con il quale Chávez intrattiene ottimi rapporti, dovuti essenzialmente alla condivisione ideologica dell'avversione al cosiddetto “imperialismo statunitense”. Addirittura, nei giorni immediatamente successivi allo scoppio dei disordini in Libia, era trapelata la notizia – poi rivelatasi infondata – di una fuga del “colonnello” in Venezuela. Nonostante il dittatore nordafricano non abbia ricevuto ospitalità ai Caraibi, ha però potuto godere dell'appoggio verbale del suo omologo sudamericano. Quest'ultimo ha infatti stigmatizzato i disordini popolari, accusando gli Stati Uniti di muovere le fila e di fomentare le proteste.

E' in effetti possibile riscontare qualche analogia tra la Libia di Gheddafi e il Venezuela di Hugo Chávez. Entrambi hanno isolato l'opposizione (l'Assemblea nazionale venezuelana era composta fino a pochi mesi fa esclusivamente da membri del PSUV, il partito del Presidente) e hanno basato il proprio potere piegando il diritto alla propria volontà e ponendo parte dell'esercito direttamente sotto la propria responsabilità. Si tratta, a ben pensarci, di tratti comuni alla maggior parte dei regimi autoritari moderni. In più, tuttavia, i due Paesi condividono lo sfruttamento delle risorse petrolifere che, tuttavia, più che diventare un motore decisivo per lo sviluppo economico e sociale, sono divenute un mezzo per creare assistenzialismo e spartire le rendite attraverso meccanismi corrotti.

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HUGO IN CRISI – Non è il caso di enfatizzare le analogie tra Tripoli e Caracas. Il Venezuela, oltre a trovarsi in un contesto geopolitico totalmente differente, può vantare una tradizione democratica (che in Libia non è mai esistita) e una società civile molto più sviluppata di quella del Paese nordafricano. Tuttavia, la contingenza attuale offre l'opportunità di evidenziare come il potere di Chávez sia indebolito, oltre che da alcune proteste interne, da una situazione economica che non fa altro che peggiorare.

Il Venezuela è l'unico Paese sudamericano in recessione: come è possibile, in un continente che sta conoscendo uno sviluppo economico senza precedenti? Nonostante Caracas sia il settimo produttore mondiale di petrolio, la risorsa viene gestita in maniera del tutto inefficiente. Oltre ad avere un sistema di vendita a prezzo sussidiato per i Paesi caraibici che gravitano nell'orbita geopolitica di Caracas, il governo socialista di Chávez ha provveduto a smantellare la maggior parte delle altre attività economiche che non fossero correlate con lo sfruttamento del petrolio, nazionalizzando centinaia di aziende. Il risultato è che ora il Venezuela è costretto ad importare tutto quello che non produce più, con effetti deleteri per la bilancia commerciale e dipendendo dall'estero (e dai prezzi altalenanti delle materie prime) per il soddisfacimento del proprio fabbisogno alimentare.

La spesa pubblica è fuori controllo: per far fronte alle crescenti spese il Governo ha prodotto in pochi anni un rapporto tra debito pubblico e Prodotto Interno Lordo non alto in termini assoluti, ma in crescita vertiginosa se si pensa che in un anno è passato dal 14% al 29%. Il rischio di “default”, ovvero di inadempienza rispetto al pagamento degli interessi sulle proprie obbligazioni emesse, si sta facendo concreto.

Dietro l'angolo, inoltre, ci sono le elezioni presidenziali. Nel 2012, infatti, Chávez si presenterà agli elettori per chiedere una terza rielezione. Probabilmente la frammentazione dell'opposizione potrebbero consentirgli di vincere nuovamente. Oppure i venezuelani potrebbero cominciare a fare sentire con più forza la loro voce.

 

Davide Tentori

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Un nuovo asse mediterraneo?

La destabilizzazione che sta colpendo in queste settimane il Medio Oriente e il Nord Africa offre lo spunto per andare più in profondità ed esaminare quale potenzialità può offrire una partnership più stretta tra Italia e Turchia. Il rapporto, già abbastanza stretto, è molto importante in termini energetici, economici e geopolitici

 

NATURALMENTE VICINI – Volendo verificare quali siano le compatibilità fra l’Italia e la Turchia, in termini di politica estera e di difesa e in termini economici e geostrategici, non si dovrebbe far altro che guardare una cartina geografica: con un fugace colpo d’occhio ci si renderebbe conto delle ottime possibilità di approfondire una partnership fra due importanti attori della fascia europea meridionale. Notevoli sono le affinità fra i due paesi. Innanzitutto dal punto di vista geografico entrambi godono di una invidiabile posizione strategica che li rende allo stesso tempo impegnati in diverse aree geopolitiche.

 

Secondo il Ministro degli esteri turco, Ahmet Davutoglu, la Turchia ha una dimensione mediterranea, balcanica, centro-asiatica, caucasica, si affaccia sul Mar Nero, e la vicinanza con la sponda meridionale del bacino mediterraneo le consente di avere una proiezione africana. Parafrasando Davutoglu, si può affermare che anche l’Italia non può essere ricondotta ad una sola dimensione geopolitica: essa è mediterranea, africana (Lampedusa, ad esempio, è molto più vicina alle coste tunisine che a quelle siciliane), europea, sia nel senso di Europa occidentale e centrale (con il nord Italia che costituisce un cuneo nel cuore stesso dell’Europa, in particolare attraverso il Brennero e gli altri passi alpini) ma è anche est-europea con le potenzialità attrattive di una città come Trieste nei confronti dell’Europa orientale, e infine balcanica, estendendosi come un arco che irradia i Balcani e che si estende dal Friuli alla Puglia.

 

LA POLITICA ESTERA TURCA Chiunque voglia analizzare la politica estera turca di questi anni deve essere conscio del fatto che si tratti non già della politica estera turca, ma della politica estera dell’AKP, il partito al governo dal 2001, ed in particolare del suo ideologo (e attuale Ministro degli esteri), Ahmet Davutoglu. Questa precisazione appare necessaria in quanto la politica estera turca del terzo millennio appare completamente rivoluzionata rispetto al passato. Rimangono alcuni tradizionali pilastri, come la partecipazione della Turchia alla NATO e l’importanza attribuita all’Europa ma, sia nello stile che nel contenuto, la nuova politica estera turca appare più decisa, sicura di sé e in ultima analisi spregiudicata.

 

Mentre nel cinquantennio precedente la politica estera turca è stata esercitata con un’ottica prettamente tesa a salvaguardare la sicurezza, frutto dell’approccio tipicamente militare delle élites al governo, con la vittoria dell’AKP, interprete degli interessi e dei bisogni della classe media e della cosiddetta borghesia religiosa, essa si è trasformata in un agile ed efficace strumento economico (al fine di aprire nuovi mercati alle imprese turche) e politico al fine di raggiungere una posizione di media potenza nello scacchiere mediorientale.

 

La politica estera turca può essere riassunta in alcuni capisaldi, definiti dallo stesso Ministro Davutoglu in alcuni scritti:

  1. Bilanciamento fra sicurezza e democrazia. Al riguardo Davutoglu spiega come la sicurezza non possa essere implementata a discapito della democrazia e dei diritti umani. Inoltre egli è convinto che senza tale equilibrio non si possa costituire un area di influenza turca nella regione, in quanto “Turkey’s most important soft power is its democracy”.
  2. La politica del “zero problem” con gli altri paesi della regione è il secondo caposaldo. Ciò sottintende che la Turchia ricerchi la soluzione dei problemi che affliggono i suoi rapporti con i vicini.
  3. Lo sviluppo di relazioni politiche ed economiche attuando una “pro-active and pre-emptive peace diplomacy” così da garantire pace e prosperità alla regione e garantire quell’area di influenza citata nel primo punto.
  4. Una concezione multipolare delle relazioni internazionali.
  5. Una continuità dello sforzo diplomatico (“rhythmic diplomacy”) teso a garantire la partecipazione della Turchia al maggior numero possibile di organizzazioni internazionali. La Turchia, ad esempio, ha acquisito il ruolo di osservatore nell’Unione Africana e partecipa alle riunioni della Lega Araba.

 

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COMPATIBILITA’ CON ROMA Riguardo le compatibilità fra le politiche estere dei due paesi si possono distinguere due piani: il piano dell’approccio e delle compatibilità fra diverse visioni delle relazioni internazionali, e il piano degli interessi strategici, politici ed economici. Riguardo il primo punto, entrambi i paesi enfatizzano la preferenza per una politica estera basata sul soft power e un approccio orientato ad un maggior multilateralismo delle relazioni internazionali. In quest’ottica tale comunanza rispecchia il peso politico e strategico di due medie potenze che mirano ad ampliare il loro ruolo internazionale valorizzando il loro potenziale economico, ed una comune visione dei rapporti internazionali che le affranchi dalla totale accondiscendenza verso le politiche statunitensi . La Turchia in parte lo ha già fatto e lo sta facendo, come testimoniano i rapporti con Russia, Siria, Iran, Israele, Kurdistan iracheno. Riguardo il piano degli interessi, si possono identificare diversi ambiti. Da un punto di vista economico, le economie di Italia e Turchia hanno una buona complementarietà: l’Italia è il quarto partner economico della Turchia, con circa 700 imprese italiane che operano in territorio turco. L’economia italiana ha interesse a delocalizzare alcune produzioni ormai fuori mercato in altri paesi nei quali i costi di produzione sono notevolmente inferiori. La Turchia, con un estensione territoriale che è quasi tre volte quella tedesca, e una popolazione di 67 milioni di persone si candida quale mercato di produzione per tali prodotti e di consumo per beni ad alto valore aggiunto prodotti in Italia.

 

Da un punto di vista economico e strategico, la Turchia rappresenta per l’Italia un importante corridoio per l’approvvigionamento energetico di idrocarburi dal Caucaso e dall’Asia Centrale, dove l’ENI ha ottenuto numerosi e importanti permessi di sfruttamento. Il progetto South Stream, con la costruzione di un gasdotto che attraverso il Caucaso e il Mar Nero, permetta di rifornire i mercati italiano ed europeo con il gas russo e kazako, aggirando il territorio ucraino, risponde in parte a queste necessità.

 

Riguardo gli aspetti strategici della partnership italo-turca, è necessario sottolineare come l’Italia veda nella Turchia un prezioso alleato per la risoluzione dell’annoso conflitto israelo-palestinese, anche dopo il congelamento dei rapporti politici fra Ankara e Israele in seguito all’operazione “Piombo Fuso”, con il bombardamento israeliano di Gaza, e l’incidente sulla Mavi Marmara, che è costato la vita ad otto cittadini turchi.

 

Il contenzioso sul nucleare iraniano rappresenta un ulteriore campo di collaborazione a livello internazionale fra Turchia ed Italia. Italia e Turchia sono due importanti partner economici dell’Iran, anche se entrambi si mostrano apertamente contrari all’acquisizione di un potenziale nucleare militare da parte dell’Iran. Entrambi i paesi nutrono profonde perplessità rispetto all’ipotesi di un attacco militare per distruggere i centri di arricchimento dell’uranio situati in territorio iraniano, anche se sono consci della pericolosità per gli equilibri regionali e globali che un Iran dotato di armamento nucleare rappresenterebbe. In un’ottica europea l’Italia appoggia l’ingresso di Ankara nell’Unione Europea, in particolare per controbilanciare l’asse franco-tedesco e riposizionare l’asse politico europeo dall’Europa centrale all’Europa mediterranea. Infine, Italia e Turchia condividono lo stesso obiettivo riguardo la ristrutturazione del Consiglio di Sicurezza dell’ONU, essendo apertamente contrarie alla proposta avanzata da Germania, Giappone, Brasile ed India, che mira ad attribuire dei seggi permanenti per questi paesi. Al contrario Italia e Turchia, che hanno costituito una minoranza di blocco che si è resa capace di impedire l’adozione di questo piano da parte dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite, portano avanti la proposta di costituire nuovi seggi non permanenti, assegnati su base regionale, così da assicurare una maggiore democraticità e rappresentatività alle decisioni del Consiglio di Sicurezza.

 

Antonio Cocco

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‘Drogati!’ Così parlò Gheddafi

Perchè Gheddafi ha apostrofato i ribelli con il termine “drogati”? Se la parola può apparire come una semplice invettiva da parte di un dittatore accerchiato che cerca di mostrare i muscoli, in realtà nel contesto arabo e islamico il vocabolo ha un'accezione molto chiara e che deriva da una lunga storia. Che vi spieghiamo in questo articolo

IL PESO DELLE PAROLE – Le parole sono importanti, importantissime. Nell’era della comunicazione la scelta lessicale adottata da un leader è tutto. Di fianco a tale considerazione, c’è quella che la storia tende a ripetersi. E che le radici di una determinata cultura spesso tornano. Perché tutto questo preambolo? Per portare all’attenzione un elemento della retorica di Gheddafi in questi giorni, che non è stato analizzato. Più di una volta il Colonnello ha accusato i manifestanti di essere, letteralmente, dei “drogati”, tra l’altro avendo attribuito la colpa di averli drogati, prima agli Stati Uniti e all’Italia e poi, addirittura ad al-Qaeda.

DALLA STORIA C’E’ SEMPRE DA IMPARARE – Torniamo un attimo indietro nella storia e scopriamo che, nel Medioevo, c’era una setta, tra le montagne della Persia e, successivamente, della Siria, che incuteva terrore contro i signorotti locali, arrivando ad attentare addirittura alla vita del Saladino e di molti crociati. Si potrebbe dire, facendo una correlazione con i tempi moderni, che si trattava di gruppi organizzati facenti capo ad un movimento di ribellione e sovversione sociale, che praticavano la strategia del terrore compiendo omicidi mirati contro l’ordine costituito, vale a dire quelli che oggi potrebbero essere i regimi locali. Gli arabi che governavano tali aree e che si sentivano in pericolo di fronte a una simile minaccia che avrebbe anche potuto espandersi e provocare vere e proprie rivoluzioni, hanno usato la lingua per delegittimare tale movimento. E la scelta fu quella di chiamarli hashishiyyun, letteralmente “consumatori di hashish”.

Con questo termine, è chiaro come si volesse relegare i soggetti ribelli a un gruppo di persone reiette, emarginate dalla società e deviate dall’uso di droghe, che un misterioso capo (il famoso “Vecchio della Montagna”)  avrebbe somministrato loro per renderli accondiscendenti a qualsiasi suo ordine. Risulterebbe chiaro come l’appellativo in questione, piuttosto che rappresentare una reale condizione dei ribelli, fosse teso a screditare queste persone, soprattutto se si pensa che si parla di un contesto culturale, quello musulmano, che condanna decisamente l’uso degli stupefacenti, come fattore che pone il buon credente al di fuori della comunità. Altra storia è come, per un altro paradosso della storica incomprensione tra la cultura occidentale e quella arabo-islamica, i crociati che sentivano parlare di questo terribile movimento, dedito all’omicidio politico e percepito come una minaccia anche da loro stessi, avessero importato tale termine in Europa, attribuendogli però, in maniera molto superficiale, solo il significato della loro azione politica: l’omicidio. E la parola che sempre sentivano sulla bocca di tutti con terrore, hashisshiyyun, cosa che in pochi sanno, è dunque alla base del nostro termine “assassino”.

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PERCHE’ GHEDDAFI PARLA COSI’ – La storia dunque si ripete e la scelta lessicale di Gheddafi nel condannare gli insorti, letta nella cornice della tradizione della lingua araba, da sempre ricca di vocaboli e soluzioni terminologiche per tutti i gusti, si inserisce a pieno titolo nella memoria della cultura araba e, in un certo senso, musulmana più in generale. Drogato in questo caso vuol dire negletto, dunque peccatore, dunque emarginato dalla società, dunque da evitare. E, come extrema ratio, da eliminare, anche fisicamente.

Peccato che, oggi, lo stratagemma sia stato smascherato.

Stefano Torelli

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Non solo Formula 1

Mentre Gheddafi continua nella sua resistenza a oltranza facendo sprofondare la Libia nella guerra civile, esistono anche altri focolai di rivolta in Nord Africa e Medio Oriente. Ne è un esempio il Bahrein, che però in Italia viene ricordato solo in seguito alla notizia dell’annullamento del primo GP di Formula 1 dell’anno. Il piccolo paese del Golfo Persico andrebbe osservato invece per motivi ben più rilevanti…

 

DITTATURA E MONARCHIA – Il Bahrein è una monarchia costituzionale e va detto che le proteste, almeno in questa prima fase, non sono rivolte verso un completo stravolgimento istituzionale. Le fondamenta della rivolta si basano sul fatto che il paese è governato praticamente da sempre dalla stessa coalizione, legata al sovrano. La situazione è dunque quella di un regime di fatto se non di nome, ove il potere viene conservato da decenni dalla stessa elite politica ed economica.

 

UNA QUESTIONE DI MINORANZE – In particolare è necessario osservare la divisione settaria del paese, cosa che, a differenza di altri casi, ne influenza fortemente le rivolte. Il Bahrein è guidato da una monarchia e una classe dirigente sunnita, mentre la maggioranza della popolazione (circa il 70%) è sciita e generalmente molto poco rappresentata nel governo e nelle istituzioni, date le notevoli limitazioni presenti per quanto riguarda il voto alle elezioni. Il partito sciita Al-Wifaq infatti viene messo in minoranza in parlamento e appare sfruttato per dare un’immagine di normalità alle istituzioni piuttosto che fornire una vera rappresentatività.

 

Il paese soffre inoltre di problemi legati alla disponibilità di lavoro e di alloggi per i meno abbienti, situazione acuita dalla modesta dimensione territoriale. Non deve sorprendere quindi che la rivolta sia guidata in gran parte proprio dagli sciiti, più poveri, per quanto come spiegato siano ancora una volta gli elementi politici quelli al centro della disputa, e non i disaccordi religiosi.

 

Il re Hamad bin Isa Al-Khalifa si è affrettato a promettere importanti modifiche istituzionali, mosso forse dalla paura che le proteste possano progressivamente espandersi fino a richiedere anche la fine della monarchia. La morte di due manifestanti sembra per opera delle forze di sicurezza non ha semplificato le cose: gli eventi recenti in Egitto e Libia hanno mostrato come tale condotta repressiva tenda ad accendere ulteriormente gli animi e non il contrario. Tuttavia i rivoltosi richiedono come prima mossa la destituzione del governo attuale, precondizione per ulteriori trattative, e la monarchia non appare – ancora – seriamente in discussione.

 

GEOPOLITICA – Le proteste a Manama possono apparire marginali rispetto ai ben più tragici eventi sulla sponda sud del Mediterraneo, ma il piccolo stato ricopre un’enorme importanza geopolitica nello scacchiere del Golfo Persico; la protesta è nata per motivazioni interne, ma data la sua posizione e rilevanza il paese può diventare oggetto di interferenze esterne, in particolare da parte dell’Iran.

 

Negli ultimi anni Teheran ha attivamente aiutato le rivolte sciite in paesi sunniti (Yemen, Iraq, alcune sommosse in Arabia Saudita…) nel tentativo di aumentare la propria influenza nella regione a scapito dei tradizionali rivali Sauditi; un’inversione degli equilibri di potere in Bahrein in caso di libere elezioni potrebbe aprire spiragli per una influenza iraniana su quello che sarebbe quasi sicuramente un governo ad ampia maggioranza sciita.

 

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LA QUINTA FLOTTA – Inoltre non va dimenticato che l’isola ospita una delle maggiori basi navali (e il quartier generale) della Quinta Flotta USA, principale apparato bellico occidentale nel Golfo in chiave anti-Teheran, oltre al Naval Support Activity Bahrein, comando responsabile delle operazioni aeronavali legate a Iraq e Afghanistan Al momento non si prevede alcuno stravolgimento degli accordi, tuttavia un Bahrein che navighi maggiormente nell’orbita dell’Iran potrebbe anche richiedere una rilocazione della base fuori dai propri confini, con conseguenti rilevanti problemi di natura logistica e organizzativa per l’intero apparato USA nello scacchiere Medio Oriente-Asia Centrale. Difficile tuttavia che gli Stati Uniti non pensino a contromosse (come forti incentivi economici o pressioni politiche) per sventare tale evenienza.

 

Lorenzo Nannetti

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Algeri può attendere

Dopo Tunisia, Egitto e (forse) Libia, quale sarà il prossimo regime a cadere? Nonostante le previsioni di molti media occidentali, in Algeria il potere di Bouteflika sembra ancora saldo e non pare destinato a crollare da un momento all’altro. Il Governo in carica può vantare infatti alcuni meriti in campo sociale, oltre al fatto di aver riportato la pace dopo anni di guerra civile.

FALSO ALLARME? – Sabato 12 febbraio si è tenuta ad Algeri una marcia di protesta contro il governo di Abdelaziz Bouteflika, presidente dell’Algeria dal 1999. La manifestazione è stata organizzata da un ampio numero di raggruppamenti sociali, tra cui l’influente Raggruppamento per la Cultura e la Democrazia guidato dal berbero Said Sadi, sono scesi in piazza per reclamare democrazia e libertà. Le rivendicazioni di questi gruppi riguardano in particolare l’abolizione dello stato di emergenza vigente dal 1992, cioè dall’inizio della guerra civile che ha insanguinato l’Algeria per circa 10 anni provocando più di 150.000 vittime. A ciò si accompagna la richiesta di un ricambio generazionale tra le fila del governo e di una maggiore inclusione dei partiti d’opposizione nella vita politica del paese.

Risulta impossibile fornire stime attendibili sull’adesione alla marcia sia perché è mancata una copertura mediatica degna di nota, sia perché la partecipazione della popolazione è stata del tutto contenuta. Ciò è stato riconosciuto non solo dai media algerini ufficiali, filo-presidenziali, ma anche da quelli potenzialmente ostili all’amministrazione di Bouteflika. Se è vero che da un lato la marcia era stata già annunciata da diverse settimane e che ciò ha consentito al governo di prendere tutte le contromisure del caso, dall’altro effettivamente gli algerini hanno reagito tiepidamente all’invito a manifestare. Certo il blocco di molti treni che portano alla capitale, la chiusura di diversi quartieri e il dispiegamento di circa 25.000 unità pronte a sedare sul nascere ogni tentativo di destabilizzazione non hanno agevolato la manifestazione. Ma al di là di queste contromisure resta l’impressione che il popolo algerino abbia voluto consapevolmente fare un passo indietro: in altre parole gli algerini, a differenza di tunisini ed egiziani, hanno volontariamente evitato che si creassero contrasti irreversibili con l’élite al potere.

MOLTO RUMORE PER NULLA – Al di là della manifestazione in sé vale la pena di commentare la copertura che le è stata offerta da parte dei principali mezzi di comunicazione. E’ interessante notare che, nonostante il suo parziale fallimento, la marcia è stata descritta con toni sensazionalistici da buona parte dei media italiani e internazionali. Questo non può che stupire se si considera che in Algeria non sta accadendo niente di paragonabile a quanto verificatosi di recente in Tunisia ed Egitto. 

L’impressione è che si sia cercato di cavalcare l’onda del clamore destato dalle vicende egiziane – il giorno prima Mubarak aveva annunciato le sue dimissioni – per allargare l’attenzione, dunque la richiesta di informazioni da parte degli utenti, anche ad altri teatri, tra cui quello algerino.

Gli esempi a suffragio di questa ipotesi sono numerosi: citiamo i lavori svolti da una celebre società radiotelevisiva e da un noto settimanale, entrambi britannici.  Essi si sono prodigati nell’elaborazione di modelli la cui pretesa è quella di indicare quali saranno i prossimi paesi del mondo arabo a vivere rivoluzioni simili a quella tunisina ed egiziana.

Questi prodotti giornalistici rappresentano solo alcuni dei sintomi della patologia che sta affliggendo l’approccio dell’opinione pubblica occidentale rispetto alle rivoluzioni in atto nel mondo arabo: pare di assistere al diffondersi di una rara specie di isteria mediatica, a un’epidemia di ansia da notizia. Giornali e canali televisivi – denotando tra l’altro una certa insensibilità rispetto al fatto che le rivolte comportano inevitabilmente un alto spargimento di sangue – sembrano provare un certo piacere nel prodursi in elucubrazioni su quali saranno i prossimi regimi a cadere sotto la scure dell’effetto domino.

EFFETTO DOMINO? – Nell’analizzare le rivolte che si stanno registrando in alcuni paesi arabi si è ricorso abbondantemente al concetto di effetto domino, che indica una reazione a catena lineare che si verifica quando un piccolo cambiamento è in grado di produrre a sua volta un altro cambiamento analogo, dando origine ad una sequenza lineare. Perché questo meccanismo si scateni, è indispensabile che vi sia un concatenamento tra le varie tessere del domino: effettivamente esiste un forte legame tra la Rivoluzione del gelsomino tunisina, l’insurrezione di piazza Tahrir al Cairo e le manifestazioni tenutesi ad Amman, Tripoli ed Algeri. I paesi del mondo arabo condividono lingua, religione, tessuto culturale e mezzi di comunicazione: di conseguenza le idee circolano fluidamente da un paese all’altro. Analizzando le statistiche, si osserva che gran parte del mondo arabo si contraddistingue per un’età media molto bassa, alti tassi di disoccupazione e la presenza di élite devote all’autoritarismo.

Per quanto riguarda l’Algeria, essa ha giocato un ruolo fondamentale nel contesto delle rivolte che stanno scuotendo il mondo arabo: ricorrendo alla metafora dell’effetto domino, si può affermare che questa repubblica nordafricana ha rappresentato la prima tessera. Infatti a cavallo tra gli ultimi giorni di dicembre e i primi di gennaio Algeri ed altre città sono state teatro di violente proteste: un gran numero di algerini è sceso in piazza per denunciare la disoccupazione dilagante, la mancanza di alloggi, l’improvviso e doloroso aumento del prezzo dei beni di prima necessità e le restrizioni nella libertà di parola. Questa sfida aperta all’autorità del governo è stata poi imitata in vari altri paesi.

Ciò non deve portare all’erronea e frettolosa conclusione che in Algeria si stiano producendo cambiamenti simili a quelli verificatisi in Tunisia ed Egitto. Il ricorso alla metafora dell’effetto domino può essere utile fintantoché si mira a descrivere quella serie di caratteristiche comuni ai vari teatri delle rivolte, ma non deve portare a generalizzazioni: si deve tener conto della specificità di ogni paese. La formulazione di previsioni cui si assiste quotidianamente seguendo i maggiori media pare avere il fine strumentale di fomentare il desiderio di informazione da parte dell’utente: pur di alimentare questo bisogno, non ci si fa scrupolo della veridicità delle notizie emesse.

I processi politici non operano meccanicamente. Se per l’analisi politica fosse sufficiente la lettura dei dati demografici ed anagrafici, Bouteflika dovrebbe essere già in esilio e storici e studiosi di scienze politiche farebbero bene a cambiare lavoro. Certamente in Algeria non mancano i fattori di tensione: dalla carenza di abitazioni all’alta disoccupazione giovanile, dalle limitazioni alla libertà di espressione all’alto costo dei generi alimentari, dalla corruzione alla mancanza di rinnovamento politico.

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BOUTEFLIKA RESISTE – Ma d’altra parte il governo di Bouteflika pare mantenere un certo consenso nell’opinione pubblica algerina. Ciò avviene per una serie di ragioni. Innanzitutto, per quanto riguarda l’emergenza abitativa, gli algerini riconoscono che negli ultimi anni il governo è ricorso a una rilevante spesa pubblica volta alla costruzione di migliaia di nuovi alloggi. Inoltre è sotto gli occhi di tutti che l’approvvigionamento di acqua potabile e di gas raggiunge tutte le case, ciò che non avviene in altri paesi della regione.

In seconda istanza anche l’edilizia pubblica è stata sovvenzionata dal governo. Attualmente gli algerini possono usufruire di un gran numero di scuole, università e centri culturali, ciò che era inimmaginabile fino a qualche anno fa. Anche la rete dei trasporti sta subendo un importante potenziamento.

A differenza di altri paesi del mondo arabo, l’Algeria presenta uno stato sociale molto solido. Gli studenti ad esempio godono di molte agevolazioni: per loro i mezzi di trasporto pubblici sono gratuiti e le case dello studente forniscono posti letto a prezzi molto contenuti.

Per quanto riguarda il conflitto latente tra berberi ed arabi, esso è stato in buona parte risolto allorché, nel 2002, si è concessa la possibilità dell’insegnamento scolastico della lingua berbera, riconosciuta come seconda lingua ufficiale.

Ma il merito maggiore che l’opinione pubblica algerina riconosce al regime di Bouteflika, è, molto semplicemente, quello di aver portato la pace. Come già ricordato, l’Algeria è stata teatro di una sanguinosa guerra civile per più di dieci anni. In seguito alla vittoria elettorale riportata dal Fronte Islamico di Salvezza Nazionale nel 1991, il paese è stato dilaniato da un lancinante conflitto in cui si sono fronteggiati fondamentalisti islamici da una parte e movimenti politici di ispirazione nazionalista e laicista dall’altra. L’elezione di Bouteflika nel 1999 ha rappresentato l’ascesa di una figura politica capace di mettere fine nel giro di pochi mesi alle atrocità.

Quello che l’opinione pubblica tributa al suo presidente è un risultato enorme. Il popolo algerino non si esime certo dal reclamare un miglioramento delle condizioni economiche e una maggiore democratizzazione della vita politica del paese. Ma d’altra parte, memore del grande traguardo raggiunto da Bouteflika, la pace, si guarda bene dal voltare le spalle al suo presidente. Un’analisi politica lucida e onesta del contesto algerino non può prescindere dal valutare questo elemento psicologico.

Mattia Corbetta

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Come stanno i Balcani

Il giro del mondo in 30 caffè – Mentre il progetto di Unione Europea vive uno dei momenti più difficili, scontando le difficoltà derivanti dalla crisi economica e un’empasse del cammino di integrazione delle istituzioni, c’è ancora una parte del vecchio continente in cui il percorso d’avvicinamento a Bruxelles rappresenta la via maestra. I Balcani occidentali sono ancora oggi in bilico tra un passato recente drammatico, le cui conseguenze si fanno ancora sentire, e un futuro, ancora incerto, determinato dall’ingresso nella comunità che riunisce gli Stati europei. In maniera ovviamente sintetica, cerchiamo di tracciare lo stato di salute della regione

I BALCANI CHIAMANO L'UE – La politica, interna ed estera, degli stati dell’area balcanica è influenzata in maniera determinante dalle posizioni relative in quello che è chiamato il processo di allargamento dell’Unione. Praticamente tutti i governi dell’area guardano a Bruxelles nella speranza che il Parlamento Europeo giudichi favorevolmente le iniziative intraprese per favorire la stabilità economica e delle istituzioni, lotta alla criminalità e alla corruzione e tutela dei diritti umani. Da diversi anni gli organi comunitari hanno richiesto ai governi locali importanti passi avanti in queste materie, come condizione per l’avviamento ufficiale dei processi di adesione alla comunità. Gli esecutivi nazionali hanno quindi intrapreso importanti processi di riforma il cui cammino è spesso ostacolato da dinamiche che rimandano alla recente e drammatica storia della regione.

SERBIA: TRA MOSCA E BRUXELLES – Belgrado, ad esempio, sotto la guida del premier Boris Tadic ha imboccato convintamente la strada che porta a Bruxelles, ma la via è ancora oggi incerta e piena di ostacoli. Uno degli ostacoli più difficili da superare, riguarda la questione dei criminali di guerra da consegnare al tribunale internazionale dell’Aja. Grandi passi in avanti in questo senso sono stati fatti con la consegna alla Corte Internazionale di Milosevic e Karadzic, ma ancora oggi il generale Ratko Mladic, ricercato anch’esso per crimini di guerra, risulta latitante. Quando anche il generale verrà catturato Belgrado potrà lasciarsi alle spalle la difficile eredità degli oscuri anni ’90.

Oltre a questo caso internazionale, il premier serbo deve ora affrontare anche le conseguenze della crisi dell’economia mondiale e il conseguente malcontento diffuso nella popolazione. La destra nazionalista potrebbe approfittare della situazione e di conseguenza allontanare ancora una volta il paese da Bruxelles. Un importante voce in capitolo nella situazione interna serba avercela anche Mosca, storico alleato (basti citare le antiche idee di panslavismo e la comune religione cristiano ortodossa) che utilizza tutti i suoi mezzi di pressione a disposizione, soprattutto economici, per convincere Belgrado a rinunciare all’idea di entrare della comunità europea. A fronte delle rigorose richieste europee, la Russia mette sul piatto il progetto di un’unità doganale, gas e petrolio a prezzi di favore, e ingenti investimenti diretti. L’offerta appare allettante; bisognerà vedere se il progetto europeistico di Tadic reggerà di fronte a queste lusinghe dei fratelli ortodossi in un momento in cui l’Europa non appare solidissima sotto il profilo economico.

GLI SFORZI PER UN NUOVO MONTENEGRO – Anche Podgorica è in attesa di un invito ufficiale ad entrare nel club degli stati europei che contano. Il percorso della piccola repubblica verrà presumibilmente influenzato anche da quello della Serbia, con cui era unificata fino a pochi anni fa e con cui ha importanti legami culturali, politici ed economici. Il paese vive un momento difficile: dopo vent’anni, il premier Milo Ðukanović ha rassegnato le dimissioni, in maniera apparentemente indolore e in seguito a probabili pressioni internazionali. Il politico, storicamente da vent'anni padre-padrone indiscusso della regione dalla dissoluzione della Repubblica Federale Yugoslava, era considerato impresentabile a livello internazionale a causa dei discussi rapporti con la criminalità organizzata, che hanno portato anche a un’iscrizione dell’ex premier nel registro degli indagati in un processo a Bari sul contrabbando di sigarette. Quello del crimine organizzato, e dei suoi legami con le istituzioni, è il principale problema di cui Bruxelles pretende la soluzione, e le dimissioni di Ðukanović sono in questo senso un segnale positivo. Nei prossimi mesi bisognerà tuttavia valutare la portata di questo cambio al vertice, Ðukanović è infatti ancora il leader del più forte partito nazionale il Partito Socialista Democratico, e le capacità del nuovo primo ministro, il 34enne Igor Lukšić. Quest’ultimo appare legato al suo predecessore, che potrebbe limitarne i margini di manovra, e deve affrontare un’opera improba per soddisfare l’Europa: la riforma delle istituzioni, soprattutto della magistratura, la lotta ai gruppi criminali locali e alla corruzione. Chi conosce la recente storia di questo paese può ben valutare le proporzioni dell’impegno che vengono richieste al giovane e intraprendente nuovo premier.

DALL'ALBANIA ALLA MACEDONIAL’Albania è teatro di imponenti proteste popolari e affronta da un anno e mezzo (ovvero dalle ultime elezioni) una situazione di stallo istituzionale. Il dibattito pubblico è monopolizzato dallo scontro, senza esclusione di colpi, tra il primo ministro Sali Berisha e il sindaco di Tirana e leader dell’opposizione Edi Rama. Il Parlamento è bloccato, le manifestazioni sono recentemente sfociate in scontri violenti, mentre la fragile economia del paese soffre per le difficoltà politiche interne e il difficile momento economico globale.

Una situazione analoga la vive anche la Macedonia, dove il Parlamento è boicottato dal principale partito d’opposizione l’SDSM di Branko Crvenkovski, per protestare contro il comportamento illiberale del premier Gruevski. Al momento in Parlamento siedono unicamente i partiti che fanno parte della coalizione governativa. In questo caso, come con l’Albania, l’Europa si limita al ruolo di osservatrice e a invocare una generica pacificazione. Sul processo di avvicinamento del paese all’Europa, grava inoltre il problema surreale del nome della Repubblica. La Grecia continua a porre veti all’ingresso in Europa della Macedonia, finchè quest’ultima non cambierà il proprio nome, che è lo stesso di una regione ellenica.

IL CASO KOSOVO – La repubblica del Kosovo, a maggioranza albanese, nasce in una cornice politico economica a dir poco complicata. La regione è una delle più povere e depresse dell’Europa, è stata teatro fino a poco tempo fa di scontri etnici (e in parte lo è ancora) e deve fare i conti con la presenza di un ingombrante vicino, la Serbia, che la considera parte integrante del suo Stato. Sotto la guida di Tadic, la posizione serba si è ammorbidita, soprattutto su pressione di Bruxelles e Washington, ma ancora oggi Belgrado si guarda bene dal riconoscere l’indipendenza di Pristina (insieme ad altri 41 paesi membri dell’ONU). Il Kosovo si regge sostanzialmente sull’appoggio politico ed economico della Ue e degli Stati Uniti. In questa situazione si sono svolte le prime elezioni politiche vinte da Hashim Thaci, leader del PDK. Dopo un primo momento di euforia, si sono presto diffuse notizie di brogli e gli organi internazionali, compresi quelli comunitari, sostengono ora la necessità di nuove consultazioni più trasparenti. Il premier in pectore è stato inoltre accusato dal parlamentare svizzero Dick Marty di essere responsabile di crimini di guerra. Il politico elvetico ha presentato al Consiglio d’Europa un memorandum per provare il coinvolgimento di Thaci, addirittura nel traffico di organi umani. Intanto, proprio pochi giorni fa Behgjet Pacolli è stato eletto Presidente. Pacolli (conosciuto in Italia soprattutto per essere stato il marito di Anna Oxa) è un imprenditore considerato l’uomo più ricco del paese e il leader del partito Alleanza per il nuovo Kosovo (AKR). Il parlamento lo ha eletto con 62 voti su 120.

Il Kosovo a pochi anni della sua nascita appare dunque una creatura instabile e incerta, priva di quegli elementi minimi di stabilità tipici di uno Stato nazionale. Anche la comunità europea se ne è resa conto e infatti il paese rimane l’unico dell’area a non esser stato interessato dal processo di liberalizzazione dei visti operato dall’Unione. Si può certamente affermare che attualmente le due repubbliche a maggioranza albanese sono quelle che vivono la situazione più difficile dal punto di vista economico e politico.  

BOSNIA E CROAZIA – Anche la Bosnia rimane un’entità statuale fragile. La sua composizione come repubblica multietnica non appare ancora una soluzione efficace e il Paese rimane ancora suddiviso su linee etniche: i bosgnacchi (musulmani) da una parte e serbo-bosniaci e croato-bosniaci dall’altra. Gli equilibri istituzionali appaiono ancora incerti e in particolar modo la situazione della Repubblica Srprska risulta ambigua. La diffidenza tra bosniaci di origine e serba e musulmana rimane alta e il rischio di una secessione violenta non sembra del tutto allontanato.

Chiudiamo invece con una nota positiva: la Croazia, che assieme alla Slovenia da tempo entrata nella Ue è la nazione più prosperosa e stabile della regione, e la più vicina a diventare il ventottesimo Stato membro dell’Unione. Anche la questione del confine con la Slovenia, che aveva rallentato il cammino d’integrazione di Zagabria, si sta avviando a conclusione con un arbitrato internazionale. Alcuni scandali finanziari hanno coinvolto importanti politici, compreso l’ex primo ministro Sanader, e portato alla luce un giro di corruzione che coinvolgeva importanti figure politiche e istituzioni pubbliche; tuttavia, la Croazia vive una situazione molto più rosea di quelle degli altri stati fin qui nominati. La vicenda di Sanader inoltre può essere come un segnale dei progressi fatti nella lotta alla corruzione. Il Parlamento Europeo ha infatti votato con una larga maggioranza una risoluzione in cui si esprimono apprezzamenti per il progresso delle riforme nel Paese e si auspica la conclusione dei negozianti di adesione entro il 2012.

Jacopo Marazia [email protected]

Giù la maschera, Colonnello Gheddafi

Quello che accade in Libia è sotto gli occhi di tutti. Al di là dei drammatici eventi di queste ore, proviamo ad analizzare alcuni aspetti fondamentali. Il significato delle parole di Gheddafi, il carattere prettamente politico della rivolta, i rischi dei possibili scenari futuri. In ogni caso, comunque vada a finire, la strada del Colonnello – passato negli anni da leader di uno Stato canaglia a interlocutore ottimale di diversi Stati – è ormai segnata, soprattutto dal punto di vista dei rapporti internazionali

NON SONO IL PRESIDENTE – Durante la trasmissione della BBC in cui si mandava in diretta il delirante messaggio alla nazione del Colonnello Gheddafi, il presentatore legge un comunicato appena arrivato da parte dell’ambasciata libica a Londra, che dice più o meno così: “non chiamatelo Presidente. Gheddafi non è il Presidente ma un Colonnello”. Frase ripetuta dallo stesso Gheddafi nel suo messaggio. E in effetti qui sta tutto il senso della resistenza di Gheddafi nel suo fortino a Tripoli. Forse in pochi lo sanno, ma ufficialmente la Libia non ha un capo di Stato o, appunto, un Presidente e Gheddafi stesso non ha nessuna carica ufficiale. Ciò fa parte della retorica della Jamahiriyya, neologismo che in arabo vuol dire “governo delle masse”, inventato di sana pianta dallo stesso Gheddafi parafrasando la parola Jumhurriyya, che è il termine arabo per “Repubblica”. Gheddafi capo della rivoluzione e, in quanto tale, a suo dire, con il diritto di restare al potere per tutta la vita.

LA RETORICA DI GHEDDAFI – Nel messaggio c’è tutto: lo spauracchio dell’islamismo radicale di stampo qaedista, le minacce ai ribelli di repressione brutale delle proteste, le accuse agli stessi ribelli di essere degli ubriachi e drogati, “ratti” e “scarafaggi”, con tanto di inviti alla popolazione ad andare in piazza e sterminarli, le accuse agli Stati Uniti e all’Italia di aver armato gli oppositori nella città di Bengasi. Di fatto, volendo analizzare il discorso di Gheddafi, si può riassumere in una maniera: ha incitato alla guerra civile. Ha detto ai cittadini di andare a massacrare altri cittadini. Come già fatto altre volte, poi, si è vantato di varie imprese, una su tutte quella di aver portato l’Italia a chiedere scusa per gli anni della colonizzazione e a pagare per quanto fatto patire alla popolazione libica. Fiore all’occhiello della sua retorica piena di fierezza e frasi per il popolo. Un popolo che ora, evidentemente, non ce la fa più.

LA NATURA POLITICA DELLA RIVOLTA – Era già accaduto per la Tunisia e per l’Egitto un fatto simile, vale a dire il carattere non già sociale o economico della rivolta, ma prettamente politico. Le persone sotto la soglia di povertà in Libia sono pochissime, una percentuale non paragonabile agli altri Paesi dell’area; il Pil pro capite libico è paragonabile, a parità di potere di acquisto, a quello di economie come l’Argentina, il Cile o la Russia e superiore a quello della Turchia: tutte medie potenze economiche in via di espansione. Tutto ciò grazie alle rendite petrolifere, che hanno sempre permesso al regime di Gheddafi (non chiamatela presidenza!) di negoziare con la popolazione una sorta di convivenza tranquilla. Invece l’effetto domino tanto millantato è consistito, da Tunisi a Tripoli, nella natura politica e nella volontà, al di là di tutto, di cambiare regime e voltare pagina. Ma tutto ciò ha un costo, e sembra averlo sempre maggiore.

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COME IN UN VIDEOGAME – Parlando con un mio collega questa sera, durante il discorso, è venuta fuori una metafora geniale: è come i mostri dei videogiochi, più vai avanti di livello, più il mostro è cattivo ed è difficile da sconfiggere. Prima Ben Ali che scappa, poi Mubarak che resiste un po’ di più, fa prove generali di guerra civile, ma poi cede (o lo fanno cedere), adesso siamo all’apocalisse. Gheddafi non ha usato mezzi termini, con una calma inquietante ha detto che gli insorti saranno tutti giustiziati, ha evocato una nuova Piazza Tienanmen e, forse per chiarire meglio il concetto agli arabi, una nuova Falluja, riferendosi allo scempio effettuato dagli statunitensi nella città irachena nel 2004. Sarà questo, dunque il “quadro” finale del videogioco, l’ultimo “mostro” da uccidere per salvare la principessa? Dopo di che tutto finito? Difficile immaginarsi uno scenario peggiore di quello libico, non tanto per la paura di una guerra civile (che forse, si auspica, non arriverà davvero, perché non vi sono le profonde divisioni che caratterizzavano l’Iraq nel 2003 o l’Algeria negli anni Novanta), ma per la brutalità di un dittatore che, nonostante abbia già ordinato di fatto l’uccisione di centinaia di persone, si dice addirittura bombardate, con tranquillità dice: “Non ho mai usato la violenza, ancora. Ma presto ho intenzione di farlo”.

LA PARABOLA DISCENDENTE – Solo un paio di considerazioni e di scenari: prima di tutto, a quanto pare, in Libia l’esercito non è del tutto passato dalla parte degli insorti, determinando una situazione di spaccamento che, di fatto, potrebbe portare questo conflitto interno ad allungarsi. Allo stesso tempo, la parte orientale della Libia, quella che storicamente sarebbe la Cirenaica, dovrebbe essere nelle mani degli insorti e delle opposizioni e Gheddafi, trincerato nella sua Tripoli, potrebbe già essersi rassegnato a mantenere il potere solo su parte del Paese. Quel Gheddafi che, altra considerazione, ha soldi e armi abbastanza per scatenare un inferno sui manifestanti. Una seconda considerazione è che il Colonnello, comunque vada a finire, ha compiuto la sua parabola discendente, dopo un momento di assoluta gloria. Da regime ufficialmente accusato di appoggiare e finanziare il terrorismo internazionale, quello di Gheddafi ha saputo trasformarsi in regime amico dell’Occidente. Ciò è stato in parte dovuto all’esigenza di combattere quell’opposizione di stampo islamista al proprio interno, che lo ha portato a dare il proprio sostegno agli Stati Uniti nella loro guerra al terrorismo dopo gli attentati del settembre 2001. In ogni caso, da quel momento Gheddafi ha sospeso il programma nucleare e ha abbandonato lo sviluppo di armi di distruzione di massa. Ha chiesto scusa e risarcito le vittime dell’attentato di Lockerbie. Ha stretto le mani dei maggiori leader occidentali e ricevuto perfino la visita di Condoleeza Rice, allora Segretario di Stato statunitense. Ha portato l’Italia alla firma di un trattato storico ed è stato più volte accolto con tutti gli onori a Roma. Ha stretto accordi con la Gran Bretagna ed è diventato un modello di Stato che, da canaglia, passa a diventare interlocutore ottimale. Anche a suon di gas e petrolio, chiaramente, così come di finanza liquida iniettata nelle traballanti economie europee in piena crisi. Tutti amici. E adesso, la discesa della parabola. Dittatore spietato, accusatore di Washington e Roma, sterminatore della propria gente. Perché? Evidentemente nelle sue condizioni non ha nulla da perdere ancora e vuole tentare il tutto per tutto. Ma dopo? Dopo, ammesso e non concesso che rimanga, non troverà più nessuno disposto a stringergli la mano, accoglierlo in casa propria, elogiarlo e baciargli le mani. Neanche quel Primo Ministro italiano che, fino a due giorni fa, aveva dichiarato di “non volerlo disturbare”, mentre il suo Ministro degli Esteri da Roma incalzava la dose, dichiarando che l’Unione Europea non avrebbe dovuto intromettersi. Adesso anche a Roma il vento è cambiato.

Stefano Torelli [email protected]

Sulla rivolta in Libia, leggi anche: L'ora di Tripoli

Uno a zero per Dilma

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A due mesi dal passaggio del testimone, la prima Presidente donna del Brasile sembra aver cominciato con il piede giusto, nonostante la pesante eredità raccolta dopo l'uscita di scena di Lula. L'atteggiamento con cui la Rousseff sembra voler improntare il suo Governo è dettato dal pragmatismo e dalla fermezza, in politica interna così come in quella estera.

BUONA LA PRIMA – Due mesi non sono sufficienti per valutare l'operato di un Governo, che per essere giudicato nel suo complesso ha bisogno di un intero mandato. Tuttavia, i primi mesi (i famosi “primi cento giorni”) possono essere importanti per trasmettere l'impostazione, l'impronta che un esecutivo vuole imprimere alla propria azione politica. In questo periodo, in America Latina i riflettori sono puntati maggiormente sul Brasile e su Dilma Rousseff, prima Presidente donna nella storia del Paese, che il 1 gennaio scorso ha preso il posto di Lula Da Silva. Un'eredità ingombrante con cui fare i conti: otto anni di successi in campo politico ed economico, che hanno portato il Brasile ad essere una delle principali potenze mondiali, non sono certo un fardello semplice da portare.

Nei confronti della Rousseff, economista che per la prima volta è stata eletta in una consultazione politica e che aveva ricoperto il ruolo di Ministro della Casa Civil nel precedente governo Lula, si era sollevato parecchio scetticismo. I detrattori ne hanno messo in luce da una parte il presunto deficit di carisma e dall'altra la sua appartenenza, in gioventù, alla guerriglia dell'estrema sinistra, che tra gli anni '60 e '70 contrastò la dittatura militare allora al potere in Brasile.

I primi provvedimenti presi dal Capo di Stato brasiliano sembrano essere invece promettenti, nonostante nei mesi a venire si presenteranno importanti sfide da affrontare.

 

SU GLI STIPENDI…MA NON TROPPO – Il primo successo ottenuto dalla Rousseff è stata l'approvazione, da parte del Congresso brasiliano, dell'aumento del salario minimo. Per legge, è stato alzato da 510 reais (305 $) a 545 reais (un incremento del 6,5%, perfettamente in linea con l'inflazione), rifiutando la proposta del Partito della Social Democrazia Brasiliana (PSDB) di aumentarlo a 600 R$. Il Governo, che è per buona parte composto da esponenti del Partito dei Lavoratori (PT), forza di sinistra, avrebbe potuto decidere per un aumento superiore e godere così dell'approvazione popolare: ha però resistito con fermezza alle “sirene” populiste, che in America Latina sono sempre pericolose. L'inflazione è infatti uno dei principali problemi che sta colpendo l'economia brasiliana: sintomo di “surriscaldamento” dell'economia, tende infatti ad aumentare nei periodi di grande e rapida crescita. Insieme all'eccessivo apprezzamento della valuta locale, che potrebbe danneggiare le esportazioni, e alla spesa pubblica da ridurre, costituisce le principali sfide interne che il nuovo esecutivo deve fronteggiare. Per quanto riguarda l'ultimo punto, il Governo ha intenzione di approvare tagli alla budget federale per un totale di 50 miliardi di R$: cosa tutt'altro che facile se non si vogliono andare a toccare i grandi progetti di sviluppo economico e sociale come “Bolsa Familia” (che ha fatto emergere venti milioni di brasiliani dalla situazione di povertà estrema) e si vogliono sostenere i grandi progetti di investimento necessari per l'organizzazione dei Mondiali di Calcio 2014 e delle Olimpiadi 2016.

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BARACK, QUA LA MANO – La politica estera è ovviamente l'altra questione fondamentale su cui valutare l'operato della “Presidenta” sulla scena internazionale. Il Brasile di Lula era riuscito a imporsi come protagonista globale trascurando per contro le relazioni regionali, in primo luogo all'interno del Mercosur (l'unione doganale che riunisce anche Argentina, Paraguay e Uruguay). Le prime mosse della Rousseff sembrano andare nella direzione di recuperare questo rapporto: la prima visita ufficiale all'estero, non a caso, è stata effettuata in Argentina alla fine di gennaio. Buenos Aires è il primo partner commerciale del Brasile: lì affluisce gran parte dell'export e con l'Argentina sorgono i principali contrasti in materia di commercio internazionale (negli ultimi anni si sono infatti ripresentate nuove forme di protezionismo). Il Brasile ha bisogno di esercitare un ruolo guida in Sudamerica, un continente che sta crescendo sempre più a livello di singoli attori (Cile e Perù sono attualmente i più dinamici), ma che potrebbe esercitare un'influenza globale ancora maggiore se agisse realmente di concerto, a dispetto delle numerose iniziative di integrazione regionale che però, in buona parte dei casi, non producono grandi risultati concreti.

La seconda relazione strategica è quella con gli Stati Uniti: finora, il Presidente Obama non si è occupato a sufficienza delle relazioni emisferiche, dimostrando persino minore attenzione del predecessore, George W. Bush, che aveva invece dato vita negli ultimi anni del suo mandato ad una relazione proficua con Lula. Obama viaggerà tra pochi giorni in America Latina, toccando El Salvador, Cile e ovviamente il Brasile, con promesse di investimenti in vista dei grandi eventi che il colosso sudamericano ospiterà nei prossimi anni. Una rinnovata intesa economica, oltre che geopolitica per la sicurezza dell'intero continente (narcotraffico e criminalità organizzata sono le principali minacce), sembra imprescindibile per il futuro di questi due Paesi: gli USA non sono più nella condizione di agire da soli, il Brasile ha bisogno di Washington per accrescere ulteriormente il suo peso internazionale.

 

Davide Tentori

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