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Terra di mezzo

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La Birmania, terra assolata, ricca di fascino e tradizione, attraente soprattutto per la sua posizione strategica di accesso all’oceano Indiano e la sua ricchezza in risorse minerarie e naturali, da qualche tempo non solo si trova al centro di polemiche e tensioni nel gioco tra Oriente e Occidente per l’egemonia nel Sudest Asiatico, ma sta diventando anche teatro di confronto politico tra le due signore della zona: Cina e India. L’embargo dei paesi occidentali e l’iniziale disappunto Indiano nei confronti della giunta militare Birmana, avrebbero spianato la strada a Pechino per intensificare la sua influenza nella zona.

RAPPORTI CON LA CINA – Nel 1989 il generale Than Shwe affiancato dalla Giunta militare si impose come leader assoluto in Birmania ri-nominandola Myanmar. Fu proprio allora che la Cina, all’epoca sotto la guida di Deng Xiao Ping, iniziò a considerare la possibilità di una liaison di mutua assistenza con Yangoon anche in vista di un futuro ampliamento della propria egemonia sul versante meridionale dell’Asia. I benefici di questo sodalizio sono evidenti: per Pechino risorse a basso costo per lo sviluppo delle regioni meridionali dello Yunnan e del Sichuan e accesso diretto al Mar Indiano; ingenti forniture di armi, investimenti in infrastrutture e fiumi di finanziamenti per Yangon. Grazie ai prestiti cinesi – l’ultimo di 30 milioni di euro senza interesse lo scorso settembre – il governo ha potuto scandalosamente arricchirsi e costruire la capitale nuova di zecca Naypyidaw, mentre la grande maggioranza della popolazione rimane in zone rurali, ridotta alla fame e dissanguata dai conflitti etnici, che non si arrestano in molte aree del paese.

L’incontro di Pechino lo scorso autunno tra Than Shwe e le alte rappresentanze Cinesi testimonia l’importanza del vincolo tra i due paesi, legati ormai a doppio filo da un rapporto che più volte ha imbarazzato la Cina sul piano internazionale, costringendola a prendere delle posizioni poco definite sia nei confronti di una giunta colpevole di violazione dei diritti umani, che in occasione della liberazione di Ang San Suu Kyi lo scorso novembre.

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L’INDIA – In questo scenario emerge l’India, seconda dama d’Asia, attenta alle mosse di Yangon sin da quando la Birmania si trovava sotto il dominio inglese e sotto gestione dell’esercito indiano. In Myanmar la comunità indiana è ormai ben radicata, in particolare nelle attività commerciali, e ha spesso agito da tramite nel dialogo tra i due paesi. Quando la Birmania fu investita dagli sconvolgimenti politici degli anni ’80, l’India non nascose le sue simpatie per il movimento democratico di Aung San Suu Kyi, alla quale fornì mezzi, finanziamenti e le conferì il premio Jawaharlal Nehru. Questo portò ad un notevole deterioramento nei rapporti con la giunta, anche a seguito dei conflitti etnici nelle regioni di confine. Nel 1993 New Delhi iniziò ad ammorbidire il suo atteggiamento nei confronti del governo militare di Than Shwe, favorendo il dialogo e la mutua assistenza. I conflitti etnici nelle regioni nord-occidentali si erano placati, l’India vedeva nel Myanmar la via d’accesso verso un’espansione commerciale nei mercati emergenti dell’est a seguito della liberalizzazione economica del 1992 e inoltre si preoccupava della crescente influenza cinese nel Golfo del Bengala.  In particolare il governo indiano era spaventato dalla presenza di navi militari cinesi e avamposti meteorologici nel Mare delle Andamane. Nel 1998 la collaborazione tra New Delhi e Yangon prese definitivamente il via: crescita dei flussi commerciali, finanziamenti per infrastrutture, progetti di sviluppo nelle regioni nord-occidentali e cooperazione in campo militare.

L’interesse costante di queste due potenze in ascesa ha permesso al governo militare di Than Shwe di rimanere in piedi e di arricchirsi costantemente. Secondo i dati di World Bank e IMF la situazione è costantemente peggiorata rispetto agli altri paesi dell’area, quadro ancora più agghiacciante se si pensa che ai tempi del dominio inglese la Birmania era la punta di diamante del Sudest Asiatico per la sua ricchezza di risorse e per avanzamento culturale. Se da una parte le elezioni e la liberazione di Aung San Su Kyi possono essere viste come segnali positivi, dall’altra si capisce quanto oggi Than Shwe si senta forte e legittimato. Cina e India ne sono indirettamente responsabili, nonostante forse non ne siano del tutto consapevoli: governi di paesi dove la povertà e la violazione dei diritti umani sono abitudine e fino a pochi decenni fa erano regola, non possono porre gli stessi come freno al proprio interesse e subordinarvi la propria ricchezza.

Valeria Giacomin

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Le difficoltà del Sol Levante

Il Giro del Mondo in 30 Caffè – Tra cambi di rotta nel panorama politico, incidenti diplomatici con la Cina e il declassamento della sua economia, Tokyo conclude il 2010 con un bilancio non del tutto positivo. Sono ancora aperte le sfide nel sud-est asiatico, dopo l’attacco sferrato dalla Corea del Nord contro Seoul, mentre il Giappone cerca ancora di ritagliarsi il proprio spazio nella geopolitica regionale a fronte dei cambiamenti internazionali.

L’ORIZZONTE POLITICO – Il 2010 per il Giappone è stato un anno caratterizzato da importanti stravolgimenti politici. Lo Jimto, il Partito Liberal Democratico (LDP) capeggiato da Taro Aso, perde la maggioranza nelle elezioni alla camera bassa il 30 agosto 2009, lasciando così spazio al Partito Democratico (JDP) e a Yukio Hatoyama. Ma i mesi successivi conservano comunque delle difficoltà per i Democratici, che non si vedevano al governo dal 1995, a parte una breve pausa tra il 1994 e il 1996. Il JDP, fautore di una politica social-liberale e progressista, subisce una battuta d’arresto nel giugno del 2010 a causa di uno scandalo sulla corruzione nel quale Hatoyama pare essere coinvolto, e diviene impopolare anche a seguito della manovra fiscale da quasi mille miliardi di dollari, duramente attaccata dalla stampa locale. Le dimissioni di Hatoyama arrivano il 2 giugno 2010, e a farsi largo nella rosa di nomi è Naoto Kan, poi divenuto il 94esimo premier giapponese. A dare il colpo di grazia ad Hatoyama erano state le promesse disattese sulla base di Okinawa: il premier uscente aveva infatti dichiarato che la base americana sarebbe stata smantellata in seguito alla sua elezione, ma gli impegni internazionali non avevano concesso grande possibilità di manovra. Kan, già attivista politico per i diritti civili negli anni ’70, diviene così il sesto premier degli ultimi sei anni in Giappone. Il suo governo ha dovuto scontrarsi, in particolare nell’ambito della politica interna, con la questione della pena di morte ancora vigente nel paese. Con le dimissioni dell’ultimo Ministro della Giustizia, difensore dei diritti umani e civili, a seguito di alcune dichiarazioni scomode sul proprio operato, si è succeduto un altro Ministro fautore della pena capitale. Nel corso dell’estate 2010 sono state eseguite due condanne a morte in Giappone e il Ministro ha voluto partecipare ad entrambe le esecuzioni, coinvolgendo anche i mass media, nell’ottica di sensibilizzare maggiormente l’opinione pubblica giapponese. Con la sostituzione del Ministro, sembra dunque nuovamente lontana la possibilità dell’abolizione di questa pratica giudiziaria. Un’altra della battaglie che l’esecutivo sta combattendo è contro il cronico invecchiamento della popolazione, che non rende il paese competitivo a livello internaziona

TEMPI DI MAGRA – In economia non va di certo meglio: il Giappone, infatti, ha perso la seconda posizione come più grande economia mondiale ed è stato scavalcato dalla Cina. È questa forse una delle più grandi sconfitte per l’economia giapponese, che si vede dunque distanziare da Stati Uniti e Cina. Problemi come la deflazione ed il debito pubblico costituiscono gli anelli deboli dell’economia del paese, risultato che è venuto allo scoperto ad aprile del 2010, quando ci si è resi conto che Tokyo non ha effettivamente superato la crisi economica. Non solo la Cina è riuscita a superare economicamente il Giappone, ma se la prima può essere considerata come un laboratorio di idee, Tokyo è decisamente molto più tradizionalista e meno innovativa. Il Giappone continua a esportare in Cina materiali plastici, beni non-metallici, macchinari da costruzione, macchinari tessili, parti di veicoli e strumenti scientifici. Tutti beni che esercitano sull’economia mondiale un basso appeal. Eppure il Giappone ha resistito più di altri all’ultima crisi finanziaria. Ciò che ha colpito e gettato nello sconforto il Partito Liberale, che ha governato il paese per 55 anni in maniera indisturbata, è stato proprio il collasso del sistema delle esportazioni. JPMorgan ha calcolato che la ripercussione sul GDP giapponese dell’ultimo anno corrisponde solo a un quarto di ciò che il Giappone ha perso nei primi 12 mesi della crisi. Ciò significa che c’è ancora molta strada da fare. È importante chiedersi quale sia la strada della ripresa per Tokyo, anche alla luce di ciò che l’esecutivo del paese ed il Partito Democratico ha attuato per fronteggiare un nuovo ritorno della bolla finanziaria. Così come c’è da chiedersi come la risalita economica possa essere sostenuta. E per rispondere bisogna tener conto della deflazione, del pesante debito pubblico, della difficile crescita demografica nonché dell’effettiva mancanza di pronto intervento da parte della classe politica per affrontare la situazione. Ciò che ha decisamente aiutato il Giappone è stata la sua moneta forte, lo yen, la cui stabilità è stata presa d’esempio da istituzioni come il Fondo Monetario Internazionale, che si sono appellati proprio a Tokyo per alcune manovre finanziarie internazionali. E mentre le monete delle altre potenze mondiali perdono terreno, lo yen rimane in lizza. A marzo, il quarto mese consecutivo di crescita, le esportazioni giapponesi sono aumentate notevolmente, mentre diminuisce la disoccupazione e cresce il consumo interno. A trainare la crescita e le altre imprese nazionali è la Mitsubishi Electric Corp. Che la Cina abbia superato il vicino giapponese, dipende dalla forza di Pechino nel sapersi imporre a livello mondiale. In India e Taiwan, Tokyo ha installato impianti industriali a seconda della maggiore richiesta. La ripresa è stata anche dovuta ai robusti prestiti erogati dalle banche, stimati per un valore di 20mila miliardi di yen tra marzo ed aprile del 2010.

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IL QUADRO INTERNAZIONALE – E’ a settembre che il Giappone si invischia nella questione delle Isole Senkaku. Un incidente diplomatico che ha di molto incrinato i rapporti tra la Cina e il Giappone, tra i quali è ancora aperto il conflitto per le acque territoriali. Ma cosa è successo realmente? Il 7 settembre un peschereccio cinese ha cercato di speronare un’imbarcazione della Guardia Costiera giapponese, mentre quest’ultima lo stava inseguendo. La Guardia Costiera era infatti in ricognizione nell’area circostante le isole Senkaku, nell’operazione che riguardava i traffici illeciti a quindici chilometri da Kubajima, un’isola dell’arcipelago Senkaku, geograficamente situata all’interno della giurisdizione di Okinawa. A seguito della collisione, il capitano e gli altri membri dell’equipaggio sono stati arrestati dalla Guardia Costiera giapponese per interferenza con le indagini. Al momento dell’episodio, altre 100 imbarcazioni cinesi stavano pescando nella zona. Tuttavia, ciò che è avvenuto al largo delle coste giapponesi è solo l’emblema di un dissidio sulle acque territoriali tra Cina e Giappone che dura da molto più tempo. Questo incidente diplomatico ha generato un clima affatto semplice per la risoluzione del contenzioso: oltre alle manifestazioni dei cittadini cinesi per la liberazione del capitano del peschereccio, Pechino ha chiuso i rubinetti delle esportazioni verso il Giappone (in particolare di materiali fondamentali all’industria tecnologica giapponese) e ha arrestato quattro operatori cinematografici giapponesi accusati di spionaggio. Il test è stato difficile, tale da mettere sotto torchio la Cina e la sua resistenza a possibili urti esterni. Alla fine sono intervenuti anche Stati Uniti e Corea del Sud, attraverso delle manovre navali congiunte. Pechino ha poi chiesto delle scuse ufficiali a Tokyo ed un risarcimento, mentre quest’ultima chiedeva a sua volta un risarcimento per il danneggiamento dei pattugliatori. È una battaglia che si combatte anche dal lato economico, tra dollaro e yuan, con i probabili avventori che sperano che la moneta cinese si apprezzi rispetto al dollaro e sperano in un nuovo “attacco” da parte di Pechino.

Ma le preoccupazioni del Giappone non finiscono qui: è la Corea del Nord ad aprire la breccia verso il conflitto questa volta. Il Giappone si riarma, proprio quando la questione Okinawa sembrava essersi chiusa. Quella stessa questione che aveva fatto scivolare governi ed esecutivi, e che aveva creato dissensi tra una popolazione più che disciplinata come quella giapponese, torna alla ribalta proprio per via del recalcitrante vicino, Pyongyang. Il Mar Giallo torna dunque ad essere una delle aree più insidiose del mondo per la politica internazionale. L’attacco della Corea del Nord contro l’isola del sud di Yeonpyeng, che aveva portato alla distruzione di 70 case il 23 novembre 2010, aveva dunque preoccupato anche il Giappone, che fino a quel momento era rimasto ai margini della crisi diplomatica. Le prime settimane di dicembre sono poi state decisive: Pechino è intervenuta per cercare di far recedere dalle proprie istanze e dai propositi bellicosi Kim Jong-II. Ma la Corea del Nord ha poi rialzato la voce attraverso gli organi di stampa. Il problema è che Seoul continua nelle sue esercitazioni militari, alle quali parteciperebbero anche alcuni osservatori americani. La ferita aperta è molto profonda, l’opinione pubblica è stanca degli attacchi della Corea del Nord, ma tutti gli stati facenti parte della regione si rendono conto della pericolosità di una singola mossa di un singolo stato che causerebbe un’escalation degli scontri.

Alessia Chiriatti [email protected]

Distensione: tra palco e realtà

Il Giro del Mondo in 30 Caffè – Il 2010 è stato un anno importante per la politica estera russa che, dopo due anni di difficili relazioni con i partner occidentali, ha sperimentato un riavvicinamento all’Occidente e alla NATO, e nuovi piani di influenza sul cosiddetto “estero vicino”, che porteranno grandi vantaggi economici a Mosca e nuove prospettive sulle relazioni future della Federazione.

RUSSIA, NATO, OCCIDENTE – La politica estera della Federazione Russa ha sperimentato due fasi essenziali dal 1991: un primo momento di “atlantismo”, segnato da dichiarazioni di comunità di interessi con l’Occidente e da grandi sforzi per compiacere Stati Uniti e Unione Europea, è terminato alla fine degli anni novanta con la nuova amministrazione Putin, che portò avanti poi una politica di multivettorialismo, contraria a relazioni preferenziali con alcuni paesi e più libera e disinvolta nelle relazioni internazionali. Gli attacchi dell’11 settembre hanno poi avvicinato Stati Uniti e Russia nella lotta al terrorismo e avviato una sorta di collaborazione tra i due paesi. I rapporti tra le parti, però, hanno cominciato ad incrinarsi nel 2006, con l’opposizione americana all’ingresso russo nel WTO e la polemica statunitense sulla democraticità russa, per degenerare completamente nel 2008. I contrasti sul riconoscimento del Kosovo in febbraio, e la guerra in Georgia ad agosto hanno inasprito le relazioni tra le parti fino alla distensione che ha avuto luogo nel corso del 2010, che ha reso Russia e Occidente più vicini che mai.

I rapporti russo-americani hanno ritrovato un nuovo dinamismo grazie agli sforzi di entrambe le parti. In aprile le trattative tra Mosca e Washington hanno portato all'accordo su un nuovo trattato START per la riduzione degli arsenali nucleari. L’amministrazione Obama ha mostrato una certa apertura e la decisione di non allargare lo scudo antimissilistico a Polonia e Repubblica Ceca (inizialmente voluto dal presidente Bush) è stata molto apprezzata da Mosca e ha segnato un passo importante per relazioni più distese.

Inoltre, il vertice di Lisbona dello scorso novembre ha inaugurato un nuovo capitolo nei rapporti fra Nato e Russia, sancendo la ripresa delle relazioni interrotte dopo la guerra in Georgia e una nuova collaborazione nell’ambito della sicurezza e della gestione della missione in Afghanistan.

Aspettative per il 2011: Le premesse per il mantenimento di buoni rapporti tra Russia e Occidente sembrano buone. Tutti gli attori sulla scena condividono i medesimi interessi di sicurezza e lotta al terrorismo e le nuove collaborazioni sono basate su vantaggi concreti e obiettivi pragmatici connessi alla cooperazione, e non su dichiarazioni magnificenti di intenzioni pacifiche fondate su valori astratti. Infine, la Russia ha interesse nell’espandere la propria integrazione commerciale con i Paesi occidentali e ad accedere al WTO, e per raggiungere questi obiettivi necessita dell’appoggio occidentale. Tanti sono dunque gli elementi che lasciano presagire il mantenimento di buoni rapporti.

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RUSSIA – ESTERO VICINO – La Russia mantiene da sempre delle grandi ambizioni sul cosiddetto “Estero Vicino”, ossia lo spazio post-sovietico dell’Asia Centrale e del Caucaso, caratterizzato in generale da instabilità e problemi legati alla sicurezza. Oltre allo storico desiderio russo di mantenere un certo peso sulla regione, molti sono gli interessi economici ed energetici che stanno spingendo la Russia a cercare di mantenere un forte controllo sull'area.

La politica russa nella regione durante il 2010 è stata estremamente assertiva, determinata nel mantenimento degli interessi economici ed energetici. In luglio è diventata operativa un’unione doganale tra Russia, Bielorussia e Kazakistan che apre la strada ad un nuovo rapporto tra Mosca e i propri partner, in cui il Cremlino smette di accontentarsi delle rendite derivanti da gas e petrolio e comincia a promuovere una politica d’integrazione economica nella regione. Inoltre, in novembre la Russia ha firmato un accordo con Ankara che affida a compagnie russe la costruzione di centrali nucleari in Turchia, garantendo a Mosca grandi benefici e condizioni estremamente vantaggiose.

Aspettative per il 2011: Dalla dissoluzione dell’URSS, l’estero vicino ha sempre rappresentato uno degli interessi esteri principali di Mosca e le politiche di controllo portate avanti dalla Russia nel corso degli anni passati saranno probabilmente portate avanti in futuro con lo stesso slancio. Il Cremlino non si è lasciato intimorire dai tentativi occidentali di penetrazione nella regione e la stessa guerra in Georgia ha dimostrato che la determinazione russa nel mantenere la propria influenza nell’area è estremamente forte.

PROSPETTIVE FUTURE – Guardando alla politica estera portata avanti da Mosca nel 2010 si può concludere che il 2011 sarà un anno interessante sotto il profilo della collaborazione tra Occidente e Russia. Le basi poste quest’anno sono in linea con le sfide poste alle grandi potenze, che necessitano sempre di più una stretta collaborazione per provvedere alla propria sicurezza e sola tutela dei propri interessi economici. Per quando riguarda l’estero vicino, sarà interessante seguire il gioco energetico dei gasdotti, e le politiche di controllo ed influenza a cui il Cremlino di certo non rinuncerà.

 

Tania Marocchi

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Gli alti e bassi di Delhi

Il Giro del Mondo in 30 Caffè – Se per l’India il 2010 si è chiuso con importanti successi a livello internazionale,  in politica interna i recenti scandali per corruzione stanno mettendo a dura prova il governo di Manmohan Singh. Negli ultimi mesi, l’India ha firmato con Stati Uniti, Francia e Cina accordi commerciali per un valore pari a 50 miliardi di dollari. New Delhi ha visto passare in veste ufficiale in meno di due mesi Barack Obama, Nicolas Sarkozy, il Primo Ministro cinese Wen Jiabao e il leader russo Dmitry Medvedev. Se tali visite non possono che indicare un crescente riconoscimento del ruolo dell’India a livello internazionale, gli scandali potrebbero avere delle serie conseguenze sulla stabilità politica e sull’immagine del paese nei prossimi mesi.

PROSPETTIVE ECONOMICHE – La crescita economica di cui l’India è stata protagonista  negli ultimi anni sembra destinata a continuare anche nel 2011. Secondo le previsioni del Fondo Monetario Internazionale, infatti, la crescita del PIL, che nel 2010 si attesta intorno al 9,7%, nel 2011 dovrebbe essere dell’8,4%. Una delle grandi attese per il prossimo anno riguarda il commercio, in particolare quello con i paesi dell’Unione Europea. Negli ultimi anni, le difficoltà in seno ai negoziati del Doha Round hanno spinto l’UE e l’India ad avviare delle discussioni separate che nel 2011 potrebbero terminare con la firma di un Accordo di Libero Scambio. Nonostante alcune questioni legate alla proprietà intellettuale, al rispetto dell’ambiente e dei diritti umani, entrambe le parti sembrano aspettarsi la firma nei primi mesi del 2011. Un accordo, questo, che farebbe crescere velocemente il commercio tra i due paesi, che passerebbe dagli attuali 90 miliardi di dollari a 130 miliardi.

Se tale patto rappresenta un ulteriore passo in avanti per l’economia indiana, la sua corsa resta ancora frenata da strade, porti, linee ferroviarie e altre infrastrutture inefficenti e trascurate. I Giochi del Commonwealth organizzati in India lo scorso ottobre, che avrebbero dovuto permettere al paese di mostrare al mondo la propria forza, ne hanno invece rivelato le debolezze: inefficenza degli stadi e delle strade, sprechi e corruzione. Proprio lo sviluppo delle infrastrutture, quindi, tra le sfide più importanti per il prossimo anno. Le risorse dedicate a questo settore continuano ad aumentare: si parla di un 9% del PIL investito nel settore, con l’obiettivo di raggiungere 500 miliardi di dollari nel periodo 2008-2012.

Gli scandali legati alla preparazione dei Giochi sono solo uno degli episodi di corruzione venuti a galla nel 2010. Se il mondo politico indiano è stato sempre caratterizzato da eventi di questo genere (l’India si trova all’87° posto nella classifica stilata da Transparency International), il susseguirsi di scandali è stato particolarmente grave negli ultimi mesi, danneggiando l’immagine dello stesso Primo Ministro. L’opposizione chiede l’apertura di inchieste a livello parlamentare e accusa il capo del Governo di aver chiuso gli occhi, soprattutto in relazione al comportamento del suo Ministro delle Telecomunicazioni Andimuthu Raja, sospettato di avere svenduto alcune licenze di telefonia mobile provocando enormi danni alle casse dello Stato.

PAKISTAN – Il 2011 sarà un anno importante anche per capire quale direzione prenderanno i rapporti tra l’India e il suo vicino più difficile, il Pakistan. Se durante la prima metà del 2010 sembrava che i leader politici dei due paesi si volessero impegnare per riaprire il dialogo, durante gli ultimi mesi tali speranze sono state deluse. Lo scorso aprile Singh e il Primo Ministro pachistano Gilani si sono incontrati in Bhutan a margine del 16° vertice della South Asian Association for Regional Cooperation (SAARC), e in questa occasione aveano dichiarato la propria volontà di riaprire il dialogo congelato dopo gli attacchi di Mumbai del 2008. Questo incontro non è rimasto un episodio isolato: in giugno si sono riuniti i Ministri dell’Interno, e tra il 14 e il 17 luglio il Ministro degli Esteri indiano Krishna si è recato in visita ufficiale a Islamabad per discutere con il suo omologo pachistano Qureshi. Se il susseguirsi dei vertici sembrava indicare la possibilità di trovare un nuovo terreno di incontro, il bilancio della riunione di luglio è stato tutt’altro che positivo. La questione degli attacchi di Mumbai, che continua ad aumentare la diffidenza tra le due parti, resta l’ostacolo più serio allo sviluppo dei negoziati.

Nonostante ques’ultimo fallimento, i due Ministri si sono impegnati ad incontrarsi di nuovo per continuare le discussioni. Qureshi, infatti, è atteso a New Delhi nei primi mesi del 2011. Nel frattempo, un incontro tra i Segretari di Stato Nirupama Rao e Salman Bashir è già previsto per la prima settimana di febbraio a Thimphu durante il vertice della SAARC.

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CORTEGGIATA DALLE GRANDI? –  Due delle visite più importanti del 2010 a New Delhi sono state quelle del Presidente degli Stati Uniti Barack Obama e del Primo Ministro cinese Wen Jiabao. Le parole di Obama e i numerosi accordi firmati in ambito economico e militare sembrano indicare la volontà da parte di Washington di riportare in primo piano la relazione strategica con New Delhi. Oltre alle ripercussioni sulla cooperazione economica e militare tra i due paesi, la visita ha avuto un significato importante soprattutto in relazione al riconoscimento del ruolo dell’India a livello internazionale. Obama, infatti, oltre ad aver espresso il proprio apprezzamento per l’impegno dell’India nella ricostruzione e nello sviluppo dell’Afghanistan, ha annunciato il proprio sostegno alle sue aspirazioni in seno al Consiglio di Sicurezza dell’ONU (UNSC). Tale dichiarazione assume un significato ancora più rilevante se si pensa che nel 2011 l’India siederà nel Consiglio come membro non-permanente, a fianco di altri grandi paesi emergenti come il Brasile e il Sud Africa.

Anche Wen Jiabao ha espresso un generale riconosimento della volontà di New Delhi di giocare un ruolo più rilevante in seno al UNSC, senza però esprimere il proprio completo sostegno. Durante la visita, la prima di un Primo Ministro cinese degli ultimi cinque anni, i due paesi hanno dichiarato di  voler promuovere gli scambi commerciali per raggiungere un valore di 100 miliardi dollari entro il 2015 (è passato da 3 miliardi nel 2001 a 60 miliardi nel 2010). Nonostante tale boom, le relazioni rimangono tese soprattutto a causa della vicinanza tra la Cina e il Pakistan, delle ambizioni regionali di entrambi i paesi e delle dispute territoriali.

Valentina Origoni

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“Tunisizzazione” ed effetto domino: il significato delle parole

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La crisi in Tunisia e i possibili risvolti nella regione: troppo spesso e con troppa faciloneria si tende a trattare la regione mediorientale e maghrebina come un tutt’uno. Ma non è detto che ciò che accade in un Paese abbia inevitabilmente ripercussioni sugli altri. Prima, bisognerebbe approfondire la natura di ogni attore regionale

TUNISIZZAZIONE”… – La Tunisia è nel caos a seguito della fuga dell’ormai ex Presidente Ben Ali, dopo le rivolte di piazza delle scorse settimane che hanno causato decine di morti e, come effetto più immediato, appunto la caduta del regime. Cosa accade adesso? Alcuni editoriali arabi si affrettano a coniare il nuovo termine “tunisizzazione”, dopo che per anni non si è fatto altro che parlare di “libanesizzazione”, “irachizzazione”, somalizzazione” di vari teatri mediorientali, sottintendendo sempre dei risvolti negativi. La “tunisizzazione” sarebbe invece un qualcosa, agli occhi di chi ha coniato il termine, molto positiva. Si tratterebbe di un propagarsi indisturbato dell’onda di democratizzazione che sta travolgendo la Tunisia agli altri teatri regionali, arabi, maghrebini e mediorientali in genere. Affinché si possa parlare di tunisizzazione, però, ci vorrebbero almeno due presupposti ed una conseguenza che, al momento, a ben vedere non ci sono.

DAVVERO VERSO LA DEMOCRAZIA? – Il primo dei due presupposti è che la Tunisia sia davvero incanalata verso un cammino di democratizzazione, cosa che al momento non è data per scontata, vista la fluidità degli avvenimenti e la natura del nuovo governo di unità nazionale, composto per un terzo da rappresentanti del vecchio esecutivo, di cui almeno 4 in posti chiave: Ministero dell’Interno, della Difesa, degli Esteri e della Finanza. Per non parlare del Primo Ministro Ghannouchi, che ricopre tale carica dal 1999. Beninteso, ciò non vuol dire che i tentativi di riforme per un’apertura politica interna non prendano avvio, e potrebbe essere che il presente esecutivo serva solo da transizione verso una nuova stagione della politica tunisina. Ma per adesso nulla è scontato, dunque gli stessi tunisini, prima di gridare vittoria, stanno aspettando i risvolti di tale situazione, peraltro non nascondendo un certo dissenso verso le scelte dei nuovi ministri.

ATTORI DIFFERENTI – Il secondo presupposto che dovrebbe verificarsi per assistere alla tunisizzazione del mondo arabo in generale, è che strutturalmente vi siano Paesi uguali tra di loro, con caratteristiche simili e dinamiche interne socio-politiche ed economiche identiche. Dal Marocco allo Yemen, dall’Algeria alla Giordania. E anche questo non è assolutamente vero. A ben guardare, le stesse proteste tunisine, inizialmente descritte come collegate a quelle di inizio anno in Algeria, erano in realtà ben altro, e questo perché ben altri erano i presupposti di partenza. Dunque non tutti gli attori arabi e mediorientali presentano le stesse caratteristiche di base. La Tunisia ha rappresentato un caso diverso dall’Egitto e dall’Algeria, perché partiva da situazioni differenti.

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L’EFFETTO DOMINO E’ FUORI MODA – Infine, la conseguenza che si dà per scontata quando si parla preventivamente di tunisizzazione, è quello che i fatti tunisini debbano in qualche modo creare un irrefrenabile effetto domino. Espressione ormai inflazionata e usata anche stavolta. Espressione obsoleta, appartenente alla Guerra Fredda e alla fobia che il blocco sovietico potesse conquistare pian piano, Stato dopo Stato, ampie aree geopolitiche a partire dal cedimento di una tesserina del mosaico (che fosse la Corea, il Vietnam o il Mozambico), il tanto temuto effetto domino non sembra essere ancora attuale. Non in questo caso. Come già detto, ogni Paese ha caratteristiche proprie, che fanno sì che non basti la “semplice” dimostrazione di un uomo che si dà fuoco ad incendiare anche tutto il resto del Paese e creare rivoluzioni politiche. In Egitto e Mauritania abbiamo assistito a manifestazioni simili, al momento interpretabili come emulazioni del più famoso caso tunisino, ma ciò non ha prodotto gli stessi sconvolgimenti che si sono manifestati a Tunisi. La Giordania e lo Yemen hanno visto manifestanti per strada solidarizzare con il popolo tunisino e lamentarsi del caro-vita, ma la monarchia hashemita per il momento dorme sonni tranquilli ad Amman. Semmai dovessero verificarsi disordini in Egitto o in Algeria o in qualsiasi altro paese dello scacchiere arabo e mediorientale, ciò sarà soltanto per motivazioni da ricondurre a condizioni strutturali interne, già latenti da troppo tempo. E’ il caso della crisi della società algerina e dello spaccamento all’interno dell’Egitto per esempio, cui ultimamente si è aggiunto anche il tentativo di seminare odio interreligioso tra copti e musulmani da parte di qualche mano esterna impaziente di sconvolgere gli equilibri interni di quel Paese.

Niente effetto domino, dunque. Il Medio Oriente, compresa l’area del Maghreb, è una regione che da anni è caratterizzata da instabilità. Sia a livello regionale che interno a molti Stati, nonostante vi sia in alcuni casi una facciata di solidità politico-istituzionale, pronta però a sgretolarsi alla prima occasione. Come è stato per l’Iran nel 2009 e come è stato a Tunisi nelle ultime 4 settimane. Ebbene, se ciò accade non è perché tali situazioni siano talmente contagiose da propagarsi lungo le sponde del Mediterraneo e fin dentro al cuore del Medio Oriente, ma perché già di per sé potrebbero esservi sono i presupposti per rivolte di questo tipo. Presupposti del tutto diversi da paese a paese. E comunque, a voler rimanere con i piedi per terra, la tunisizzazione è ancora da verificarsi in Tunisia stessa, figuriamoci altrove.

Stefano Torelli

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Nuovi governi, vecchi potenti. Un anno di elezioni in Africa

Il Giro del Mondo in 30 Caffè – Nel 2010 più di una dozzina di paesi africani sono andati incontro ad elezioni, e più del doppio se ne preparano per il 2011. Le elezioni sono in genere salutate come segno di democrazia e sviluppo politico, pietra miliare nel ricovero di paesi in guerra, e strumento principale per dar voce a tutti i cittadini. Tuttavia quali sono i risultati concreti di quest’anno di elezioni in Africa? Qual è l’identità politica dei nuovi leader, ed in quali circostanze sono saliti al potere?

QUALI ELEZIONI – Nei sedici paesi dove si è votato, alcuni, come Kenya e Madagascar, hanno avuto referendum costituzionali, ma per la maggior parte si è assistito al rinnovo di parlamento, presidenza e consigli regionali. Si tratta in genere di paesi più o meno instabili e violenti, come il Sudan, il Burundi, la Costa d’Avorio, dove la competizione politica è spesso attesa e temuta allo stesso tempo. Bisogna infatti evidenziare che, a parte qualche isola felice, la maggior parte dei paesi del continente nero si trova propriamente in transizione democratica, un processo delicato in cui le elezioni non sono un punto di arrivo ma piuttosto uno di partenza per l’instaurarsi della democrazia. Andando al di là dei meri risultati numerici e dei classici giudizi di libertà e legittimità del processo di voto espressi dagli osservatori internazionali, analizziamo le elezioni dell’anno appena concluso in termini di risultati concreti, guardando alle figure politiche che sono salite al potere ed agli episodi di repressione o violenza che li hanno accompagnati in questo percorso.

I NUOVI ELETTI – In generale, le elezioni di quest’anno hanno riconfermato al potere la classe politica uscente. Ad aprile in Sudan, El-Bashir, alla guida del paese sin dal colpo di stato del 1989, viene rieletto Presidente, unico capo di stato in carica accusato di genocidio dalla Corte Penale Internazionale, e Salva Kiir viene riconfermato come leader della regione semi-autonoma del Sud Sudan. A maggio parte la tornata elettorale burundese con il voto ai consigli comunali, dove il partito del presidente Nkurunziza trionfa in quasi tutto il paese. Lo stesso Nkurunziza, viene riconfermato Presidente del Burundi a giugno ed il suo partito ottiene la maggioranza assoluta alle legislative di luglio. Dall’altro lato della frontiera, Paul Kagame viene riconfermato Presidente del Ruanda. Intanto a giugno si chiude il primo turno delle presidenziali in Guinea, a seguito dell’assassinio del putschista Moussa Dadis Camara, che apre la sfida tra Cellou Dalein Diallo e Alpha Condé, con un colpo di scena al secondo turno che capovolge i risultati del primo. Novembre è anche il mese delle elezioni in Costa d’Avorio, dove l’uscente Laurent Gbagbo, presidente dal 2000, si rifiuta di cedere il posto al rivale Alassane Ouattara, nonostante il verdetto iniziale della Commissione Elettorale (poi rivisto dal Consiglio Costituzionale) e l’insistenza della comunità internazionale. Riconfermati i leader uscenti anche in Togo, Etiopia e Tanzania. Nessun nuovo elemento di rilievo, dunque. A parte una certa recrudescenza degli atteggiamenti autoritari di alcuni leader politici, per esempio in Ruanda, Burundi, Guinea, che, forti della loro supremazia, la rinsaldano con la forza. 

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LOTTA PER IL POTERE – Vi sono politici, infatti, che affrontano la competizione elettorale usando le armi oltre alla propaganda e al denaro; la corsa alla presidenza, che nella maggior parte degli stati africani avviene per elezione diretta come negli Stati Uniti, assume le tinte di una lotta a somma zero tra i candidati. Perdere significa essere completamente estromessi dal potere e dai benefici ad esso legati, per sé ed il gruppo di sostenitori. Questo spiega la ferocia con cui chi è al potere non lo vuole lasciare. Basti pensare alla Costa d’Avorio, dove Gbabo si rifiuta di cedere il posto occupato da un decennio al rivale democraticamente eletto, causando in pochi mesi più di 200 morti e 20.000 rifugiati. Alla Guinea, dove le contestazioni violente tra i sostenitori dei due candidati hanno causato un lungo rinvio del secondo turno. O al Burundi, dove insieme con i voti per il presidente si contavano le granate notturne.

Ma se è evidente che il voto non sia ancora sinonimo di stabilità in buona parte d’Africa, la relazione tra elezioni e violenza è ancora tutta da chiarire. La violenza emerge prima, durante o dopo le elezioni, e può essere diretta a scoraggiare, minacciare, o punire gli elettori, ma anche come extrema ratio per far sentire la propria voce in caso di brogli e irregolarità diffuse. Le stesse Nazioni Unite, in uno studio recente, hanno espresso preoccupazione per gli spargimenti di sangue in concomitanza delle elezioni e lamentato il numero esiguo di accurati studi in proposito. Assenza di norme democratiche, impunità, campagne elettorali basate sulla politicizzazione di sentimenti etnici, politici che sino a poco tempo prima erano ribelli, pressioni internazionali insufficienti, sono tutti elementi che associano alle elezioni un contesto violento o autoritario. Certo, non tutte le elezioni sono precursori di conflitti, e la Guinea costituisce un successo nell'aver evitato una tragica escalation, ma se è vero che negli ultimi anni solo un’elezione africana su quattro è stata violenta, tra quelle "pacifiche" del 2010 spiccano casi come il Ruanda, dove la vittoria pacifica di Kagame è stata pagata con l’assenza completa di opposizione e libertà di espressione.

RIPERCUSSIONI TRANSFRONTALIERE – A parte le ripercussioni interne delle elezioni, è importante poi considerare quelle nei paesi limitrofi. Così come in tempi di guerra, quando gruppi di opposizione armati spesso trovano rifugio e sostegno al di là della frontiera, capita che forze di opposizione politica che ricorrono alle armi per contestare il risultato elettorale trovino appoggio all’estero, tra i rifugiati o tra membri della stessa etnia, destabilizzando le relazioni tra stati limitrofi o la stessa sicurezza interna dei vicini. Per esempio, si teme che la reazione violenta dell’opposizione in Burundi possa avere ripercussioni nella regione orientale del Congo ed in Ruanda. Allo stesso modo, poveri e mercenari liberiani hanno attraversato la frontiera per impegnarsi in Costa d’Avorio, fomentando nuove violenze interne con il pericolo aggiuntivo che il conflitto tra Gbabo e Ouattara possa riaccendere le tensioni etniche i Liberia.

QUALI PROSPETTIVE PER L'ANNO NUOVO? – Di certo bisognerà tenere sotto controllo il conflitto in Costa d’Avorio che ad oggi non è stato risolto ed il referendum per la separazione del sud Sudan, che si svolge in questi giorni ed il cui impatto dipenderà dall’organizzazione e dal rispetto dell’esito del voto. È importante considerare anche le sue possibili ripercussioni nella regione, in particolare in concomitanza con le elezioni nei due paesi limitrofi: Repubblica Centrafricana e Ciad. Non caso a gennaio 2010, un anno prima delle elezioni, i governi sudanese e centrafricano si sono riavvicinati, al fine di combattere congiuntamente il flusso transfrontaliero di ribelli contro i rispettivi governi. Questi paesi, insieme alla Repubblica Democratica del Congo, sono anche accomunati da una storia di conflitti interni e leader autoritari (Bozizé, Déby, Kabila), che, come ha dimostrato il 2010, spesso rendono il processo elettorale profondamente instabile. Infine, in Nigeria, le elezioni attese per Aprile si svolgeranno in un clima reso teso dall’instabilità degli anni scorsi e dalle tensioni regionali ed etniche tra il nord a maggioranza musulmana ed il sud a maggioranza cristiana.

Nuove sfide per queste democrazie in potenza africane: se da un lato per molti stati la stagione delle guerre si è conclusa, l’eredità di instabilità e carenza di norme democratiche si fa ancora sentire, con elezioni che vogliono dare l’immagine del cambiamento ma che in realtà spesso servono a legittimare i vecchi potenti.

Manuela Travaglianti

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Cristina concede il bis?

Il Giro del Mondo in 30 Caffè – Con quali prospettive l’Argentina entra nel nuovo anno? Quali le possibilità future del paese alla luce delle elezioni presidenziali e degli effetti della crisi economica mondiale? L’attuale presidente, Cristina Kirchner, sembra intenzionata a ricandidarsi: i sondaggi le danno attualmente ragione, in seguito ad una ritrovata popolarità ottenuta dopo l’improvvisa morte del marito. L’economia, intanto, ha ripreso a decollare, ma inflazione e forte intervento dello Stato sono i due principali punti critici.

 

ECONOMIA – Uno degli argomenti più dibattuti riguarda lo stato dell’economia del paese attualmente sotto i riflettori in seguito all’arrivo della delegazione del Fondo Monetario Internazionale (FMI) che significa la ripresa dei rapporti con l’Argentina dal 2005, anno in cui l’allora presidente Néstor Kirchner aveva annunciato la cancellazione del debito con il FMI per interromperne la dipendenza.

 

A seguito della richiesta del Presidente Cristina Fernández, il direttore del FMI per le Americhe, Robert Renhack, e 5 funzionari si sono recati in Argentina per fornire assistenza nell’elaborazione di un Indice dei Prezzi al Consumo (IPC) che rappresenti il più possibile la reale condizione del paese.

 

A partire dal 2007, l’Argentina ha sottostimato l’IPC di Buenos Aires, usato come campione  per l’intero paese, presentando dati ufficiali sull’inflazione molto più bassi di quelli reali, oscillanti invece tra il 15% e il 25% annuo.

 

Cos’è cambiato? Il mese scorso il  Ministro dell’Economia, Amado Boudou, ha chiesto aiuto al FMI per elaborare un nuovo IPC, richiesta giunta dopo anni di critiche contro le statistiche pubbliche, di minacce del Fondo di sanzionare l’anno prossimo Buenos Aires per l’incapacità di elaborare indici corretti e per non aver intrapreso misure idonee di fronte all’aumento dell’inflazione. L’istanza del Ministro è arrivata qualche giorno dopo l’annuncio del Presidente di voler negoziare una dei rimanenti debiti che il governo continua a non pagare, quello del Club di Parigi, stimato a circa 6.700 milioni di dollari.

 

VERSO LE ELEZIONI PRESIDENZIALI – In vista delle elezioni dell’ottobre 2011, si sta assistendo a continui cambiamenti delle compagini politiche e all’emergere di nuovi candidati per la presidenza.

 

Per quanto riguarda il Peronismo, incarnato dal Partido Justicialista (PJ) attualmente al governo, sembra che abbia assunto nuove sembianze assumendo le vesti di una coalizione composta da tre componenti: il peronismo puro, rappresentato da governatori e sindaci; il sindacalismo, il cui leader è Hugo Moyano; e, infine, il Kirchnerismo, che vede come protagonisti i settori di sinistra, organizzazioni dei diritti umani e movimenti sociali.

 

Tra l’opposizione spicca la deputata Elisa Carrió, candidata del partito Coalizione Civica, forza politica di centro. È la terza volta che compete per la presidenza, infatti, già candidata per le elezioni del 2003 e 2007, l’ultima delle quali aveva conseguito il secondo posto con il 23% dei voti contro i 45,29% dell’attuale presidente. Accettando la candidatura, la deputata ha sostenuto che non stringerà alleanze con i partiti dell’opposizione.

 

Al momento, gli altri due candidati per la presidenza sono Fernando “Pino” Solana, del partito di centro sinistra Progetto Sud (Proyecto Sur) e Ricardo Alfonsín, figlio dell’ex presidente Raul Alfonsín (1983 – 1989) che dovrà disputare la propria candidatura alle primarie dell’Unione Civica Radicale (Unión Civica Radical), la maggior forza di opposizione argentina, contro il vicepresidente Julio Cobos.  Quest’ultimo, nonostante non abbia formalmente lanciato la sua candidatura presidenziale, ha presentato il team di tecnici che eventualmente farebbero parte della compagine governativa.

 

In tale contesto l’Oficialismo, ovvero la fazione all’interno del PJ facente capo al Governo, non ha ancora reso noto chi sarà il loro candidato, anche se tutti gli indizi concorrono a favore della rielezione di Cristina Kirchner.

 

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L’EREDITA’ DI CRISTINA KIRCHNER – Sono passati tre anni dal giuramento di Cristina al governo, momento in cui aveva promesso di migliorare il modello politico ed economico del paese elaborato dal predecessore e marito Néstor Kirchner (foto), scomparso improvvisamente due mesi fa in seguito ad un attacco cardiaco.

 

Cristina Kirchner è stata la prima donna eletta presidente in Argentina, supportata dal 52% della popolazione del paese. Nonostante tutto la sua presidenza è stata costantemente oggetto di critiche: dall’essere una marionetta nelle mani del marito al non avere alcun interesse per il benessere del paese.

 

Non tutto è vero e non tutto è falso: alcune delle promesse fatte in campagna elettorale sono state mantenute, anche se a un costo politico altissimo, quale la legge sui mezzi di comunicazione e la nazionalizzazione dei fondi pensione, che hanno provocato gravi conflitti sociali. Uno dei successi maggiori è stato il mantenimento del ritmo di crescita economica, a dispetto della crisi mondiale del 2008. L’economia argentina è aumentata del 7% del 2008, dello 0,9% nel 2009, ed è tornata a crescere con slancio nel 2010 (le stime parlano di un +8,5 %), grazie alle esportazioni di prodotti agricoli competitivi, ristrutturazione dell’industria, stimolo al consumo interno, all’avanzo primario e alla diminuzione della tassazione.

 

Tra gli aspetti più controversi, vi è l’inflazione che non riesce a essere contenuta e che soprattutto soffre di una stima imperfetta che ancora una volta non permette di avere una percezione corretta del reale andamento economico della nazione. A ciò si aggiunga la “disputa del campo” (riforma agraria) che ha causato nel 2008 un conflitto senza precedenti in tale settore quando il governo tentò di imporre tasse mobili alle esportazioni di grano.

 

A dispetto di tutto ciò, si rileva l’assenza di un vero leader che possa contendere con l’attuale presidente nelle prossime elezioni, perché il problema dell’opposizione è la frammentazione: una circostanza che gioca indubbiamente a favore del PJ.

 

L’Argentina è quindi attesa da un anno cruciale per il proprio futuro: l’esito delle elezioni presidenziali determinerà in gran parte anche le nuove linee di politica economica ed estera. Se il kirchnerismo dovesse confermarsi al potere, Buenos Aires proseguirà su una condotta improntata ad un ruolo forte dello Stato in economia e ad alleanze “discusse” a livello regionale come quella con il Venezuela di Hugo Chávez. Questo appare ad oggi lo scenario più probabile e la partita sarà comunque giocata all’interno del PJ dalle varie correnti che appartengono al partito.

 

Valeria Risuglia

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Il futuro dell’alleanza

Il Giro del Mondo in 30 Caffè – La NATO, creata durante l’epoca della Guerra Fredda per costituire un blocco militare da opporre all’Unione Sovietica, ha da tempo cambiato obiettivi e strategie, e la minaccia principale che è chiamata ad affrontare in questi anni è il terrorismo. Sul tappeto rimangono comunque alcuni nodi problematici con attori rilevanti come Russia, Iran e Cina. Le sfide che si pongono dinanzi all’Alleanza Atlantica nel prossimo decennio potranno essere cruciali.

 

QUALI OBIETTIVI? – Gran parte del 2010 è stato impiegato a definire il nuovo concetto strategico della NATO, processo culminato con la conferenza di Lisbona di Novembre 2010.

 

Indipendentemente dai termini tecnici e dalla formulazione degli accordi, l’intera questione gira attorno a una semplice domanda: a cosa serve la NATO oggi? L’Alleanza Atlantica è nata per contrastare il Blocco Sovietico durante la Guerra Fredda, ma tale minaccia è cessata da tempo. La NATO rimane un’alleanza difensiva che offre una mutua protezione contro paesi o entità ostili, ma quali?

 

Dal 2001 contrastare il terrorismo internazionale costituisce l’obiettivo principale della NATO, così come arginare le nazioni che lo finanziano e lo supportano, e tale situazione è destinata a continuare nel prossimo futuro. La conferma dei principi di mutuo soccorso, lo scudo antimissile, le relazioni con la Russia, la missione in Afghanistan, il rallentamento dell’espansione a est – tutti elementi trattati a Lisbona – contribuiscono a confermare le linee d’azione sulle questioni conosciute, ma esistono altri aspetti da considerare.

 

NATO E RUSSIA – L’importanza dell’avvicinamento alla Russia apre la strada a collaborazioni strategiche di ampio respiro. La rinuncia al programma antimissile in Europa dell’Est ha infatti portato a un accordo per il mantenimento delle lunghe vie di rifornimento NATO dalle repubbliche ex-sovietiche all’Afghanistan, un contributo all’addestramento delle forze di polizia di Kabul, lo stop definitivo alla vendita del sistema antiaereo S-300 all’Iran, e un maggior dialogo sui trattati START di riduzione dell’arsenale atomico. Ma questo non implica che le relazioni NATO-Russia da ora in poi siano prive di contrasti: rimangono i contrasti riguardo alle repubbliche georgiane indipendenti di Abkhazia e Ossezia del Sud, e i timori di pressioni economiche ed energetiche verso i paesi est europei.

 

L’allargamento all’Europa dell’Est permetterebbe alle nazioni lì presenti di affrancarsi definitivamente dal controllo russo, tuttavia proprio le tensioni che ne derivano possono contribuire a rendere caldo un fronte particolarmente delicato per le questioni non solo politiche ma anche e soprattutto energetiche ed economiche che vi sono coinvolte. Del resto questo non significa lasciare le nazioni coinvolte al loro destino, come evidenziato dai piani per l’operazione militare recentemente rivelata che punta a difendere i Paesi Baltici e la Polonia da eventuali invasioni russe (come avvenuto in Georgia). Significa però cercare di spegnere alla base i possibili focolai di contrasto così da costruire un ambito diplomatico più rilassato che consenta di costruire elementi di sicurezza economica e politica altrettanto importanti di quelli militari.

 

ALLARGAMENTO: OPPORTUNITA’ O TRAPPOLA? – In generale, la mancanza di un blocco avversario e la natura globale della minaccia terroristica potrebbero indurre a credere che l’allargamento dell’alleanza a quanti più stati sia possibile costituisca una naturale ed auspicabile evoluzione della situazione. In effetti questa è stata la tendenza dell’ultimo decennio, ma recentemente alcuni eventi portano a pensare come essa possa essere anche controproducente se non valutata con attenzione.

 

Basti pensare alla richiesta della Turchia di escludere Iran e Siria dalla lista degli stati considerati ostili, in cambio dell’impiego del proprio territorio per lo scudo antimissile; appare evidente come attualmente possano esistere importanti differenze di vedute su quali siano le minacce e come affrontarle. La lealtà della Turchia alla NATO non appare ancora in discussione, eppure non va dimenticato come l’integrazione delle economie e delle diplomazie renda più difficile ottenere chiari consensi in caso di dispute con paesi terzi. Per questo motivo, l’inclusione di paesi che possiedono interessi regionali differenti da quelli USA ed Europei può contribuire a paralizzare il processo decisionale interno, così come accade per l’ONU in alcune occasioni.

 

La NATO dovrebbe dunque evitare la trappola di puntare a un’espansione incontrollata, poiché essa può ridurre invece che aumentare la sua forza. Lungi dal creare maggiore sicurezza, il rischio è proprio che i principi di mutuo soccorso vengano meno alla prova dei fatti a causa di tanti particolarismi regionali, di fatto indebolendo lo scopo stesso dell’Alleanza. La sfida per il futuro sarà dunque quella di costruire una serie di accordi e cooperazioni regionali che permettano alla NATO di mantenere la propria efficacia e influenza senza la necessità di mantenere una presenza diretta in tutto il mondo che potrebbe creare fratture indesiderate all’interno.

 

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ORGANIZZAZIONE MILITARE – L’Alleanza rimane comunque principalmente militare e per questo è presumibile continui a curare con attenzione la propria organizzazione. Attualmente buona parte dell’impegno dei comandi NATO al di fuori delle operazioni sul campo è rivolto all’integrazione delle forze armate dei diversi paesi membri europei. La formazione di brigate miste e di task force nazionali ed internazionali a risposta rapida, capaci dunque di partire e schierarsi in un nuovo teatro operativo col minimo di preavviso, costituisce uno dei punti primari di sviluppo. L’integrazione operativa è generalmente positiva, ma rimangono problemi di finanziamento, mentre la riluttanza dei paesi membri di mettere in situazioni di combattimento le proprie truppe continua a porre seri limiti all’impiego reale.

 

Inoltre, ogni paese continua a pianificare in maniera autonoma lo sviluppo delle proprie forze armate e manca dunque una visione comune e complementare.  E’ evidente che la struttura militare USA rimane l’asse portante e lo sarà ancora a lungo, tuttavia proprio l’Afghanistan ha mostrato la necessità dell’impiego delle truppe alleate per dividere il peso delle operazioni.

 

QUALE COMPETIZIONE? – L’apparato NATO al momento non deve più affrontare una forte competizione, per quanto il carattere asimmetrico della guerra al terrorismo costituisca una sfida non ancora risolta. Se il riarmo militare russo tende a rallentare per mancanza di fondi, desta invece preoccupazione il progressivo sviluppo tecnologico delle forze armate cinesi, in particolare marina (portaerei), aviazione (il primo velivolo stealth cinese) e apparato missilistico. Esso rimane comunque inferiore alla sua controparte USA e occidentale in genere per qualità e quantità di finanziamenti, ma viene tenuto sotto costante osservazione perché capace, sul lungo termine, di modificare gli equilibri regionali. Il Pacifico Occidentale è lontano dalle tradizionali aree operative della NATO, e l’interconnessione delle economie USA e cinese sembra scongiurare contrasti troppo forti sul breve-medio periodo, eppure più di un analista indica quello come possibile futuro nuovo teatro operativo. In ogni caso, la NATO si prepara ad affrontare un futuro che, per quanto meno definito, appare pieno di sfide forse più che in passato.

 

Cedri Amari

Proprio mentre il Presidente Hariri è a Wahington (tutt'altro che un caso), cade il governo in Libano: il Paese dei cedri torna nel caos. Cosa c'è dietro? Cerchiamo di comprendere quali motivazioni stanno dietro alla scelta e quali prospettive potrebbero esserci, tra un livello di stabilità sempre minore e un rischio di nuove violenze tornato concreto

LE DIMISSIONI – La crisi governativa libanese, certamente attesa ma forse prematura, pone il Libano in una situazione di estrema difficoltà. Ieri 11 ministri del governo (10 vicini alla coalizione dell'8 marzo ed uno leale al Presidente della Repubblica Michel Suleiman) hanno rassegnato le proprie dimissioni aprendo una nuova e inquietante pagina nella storia politica libanese. La coalizione dell'8 marzo è composta da Hezbollah ed Amal (sciiti), Partito socialista progressita (Drusi fedeli a Walid Jumblatt), Movimento Patriottico  (cristiani fedeli a Michel Aoun).

La prima domanda da porsi riguarda le motivazioni di quanto accaduto. Significativo il fatto che le dimissioni siano state rassegnate proprio mentre il premier Hariri era in visita a Washington. Significativo inoltre che siano giunte proprio immediatamente a ridosso della sentenza del Tribunale Speciale dell'ONU che indaga sulla morte del premier Rafiq Hariri. Una manovra di pressione sul premier e sui lavori del Tribunale per impedire di accusare uomini vicini ad Hezbollah o alla Siria.

Del resto gli stessi ministri dimissionari lo hanno affermato: la crisi è stata innescata a causa della debolezza governativa in merito alla risoluzione delle problematiche interne relative al Tribunale Speciale. Ignorando le richieste siriane e saudite, le quali proponevano una sorta di accordo interno alle forze politiche libanesi, il premier Hariri avrebbe inevitabilmente portato il paese sull'orlo del baratro. L'8 marzo presenta la sua azione dunque come una manovra di responsabilità nazionale, per far uscire il paese dallo stato comatoso di questi ultimi mesi. Hezbollah, Amal, i drusi di Jumblatt ed i cristiani fedeli a Michel Aoun chiedono la formazione di un governo di unità nazionale che, nelle parole del dimissionario Adnan Sayyed Hussein, salvaguardi l'unità nazionale e la stabilità del paese.

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IN ATTESA DI NUOVI EQUILIBRI – Ma cosa accadrà mentre il paese è alla ricerca della sua stabilità interna? Sembra che già oggi lo stato maggiore israeliano abbia messo in allerta le proprie truppe di stanza al confine con il sud del paese. Le forze dell'8 marzo hanno annunciato che l'opposizione non ha affatto concluso le proprie manovre di pressione sull'esecutivo e che nei prossimi giorni si svolgeranno manifestazioni e dimostrazioni di piazza. L'unico dato certo finora è che gran parte della volontà di far cadere il governo Hariri sia ascrivibile ad Hezbollah ed al suo Segretario Hassan Nasrallah, il quale avrebbe personalmente chiesto al Ministro  Adnan Sayyed Hussein (l'unico esterno alla coalizione dell'8 marzo) di rassegnare le proprie dimissioni. Una dimostrazione di forza, l'ennesima da parte del Partito di Dio, per dimostrare il reale peso della compagine sciita nel paese. Un segnale forte e durissimo anche per gli Stati Uniti, che tanto avevano sostenuto, insieme ad altre forze europee, il Tribunale Hariri.

NO EASY WAY OUT – Così molti quotidiani commentano la nuova crisi, l'ennesima, del governo libanese. Non sarà facile mantenere unito un paese che tende quasi quotidianamente a dividersi e sfilacciarsi seguendo le proprie specificità confessionali. Forse però la multi-confessionale formazione dell'8 marzo (drusi, sciiti e cristiani) potrebbe, almeno in queste prime fasi, porre un freno ad un escalation di violenza sul piano interno, pur ricordando quanto labile sia il concetto di alleanze nel paese. In ultimo bisognerà osservare quali le saranno manovre israeliane. Lo stato di allerta delle truppe di confine è un segnale che dimostra quanto da vicino Tel Aviv intenda seguire questa crisi. E' proprio vero: no easy way out.

Marco Di Donato [email protected]

La geopolitica della lungimiranza

Il Giro del Mondo in 30 Caffè – Un Paese piccolissimo, in una regione tormentata e dagli equilibri difficili, come lo è il Medio Oriente. Stiamo parlando del Qatar, piccola perla in mezzo al mare desertico di un Golfo Persico che, a tratti, sembra stentare a sopravvivere alle contraddizioni dell’area che lo caratterizza. Il Qatar oggi appare come l’attore più dinamico non solo del Golfo, ma probabilmente di tutta la regione mediorientale, ambendo a diventare un vero e proprio punto di riferimento anche al di fuori dei confini regionali.

 

IL SECONDO MONDO CHE AVANZA – Come accade per la maggior parte di quei Paesi che, secondo una categorizzazione in voga negli ultimi tempi, rientrano nel cosiddetto secondo mondo (ancora  non pronti ad entrare nell’esclusivo club dei Paesi di prima fascia, il primo mondo, ma sicuramente una spanna sopra i Paesi facenti parte del terzo mondo), le fortune del piccolo emirato arabo poggiano prima di tutto su un’immensa ricchezza naturale: in questo caso il gas. Vi è anche il petrolio, di cui il Qatar continua ad essere un gran produttore ed esportatore, per circa 1,3 milioni di barili al giorno. Ma la vera fortuna è nel gas e nel modo in cui sfrutta tale risorsa. Il Qatar è ad oggi il terzo Paese al mondo, dietro i due colossi Russia e Iran, per riserve di gas naturale e uno dei primi produttori mondiali. Ma, proprio come dimostra l’Iran stesso, solo per fare un esempio, o altre realtà non solo mediorientali (si pensi al Venezuela di Chávez che naviga nel petrolio), non basta solo il semplice elemento naturale per fare di un Paese un attore in grado di crescere e svilupparsi. Vi è piuttosto bisogno di una struttura -economica, politica e sociale, tramite cui si costruisce la propria dimensione geopolitica- in grado di sapere valorizzare tali ricchezze e di sfruttarle al massimo, in maniera funzionale al proprio sviluppo in modo armonioso, sia a livello interno, che con l’ambiente circostante. E qui il Qatar sta dimostrando di essere una realtà vincente. Talmente vincente che sta ormai uscendo dal proprio contesto, per affacciarsi con convinzione (e convincendo) sulla regione mediorientale, a tal punto che già si parla di un nuovo asse geopolitico in Medio Oriente, che passa dalla Turchia all’Iran attraverso la Siria, fino a toccare proprio il Qatar. Unico attore in crescita, anche di immagine e influenza, in quella stessa Penisola araba che, solo fino a dieci anni fa, sembrava appannaggio esclusivamente dell’Arabia Saudita e della sua dinastia regnante.

 

A TUTTO GAS – Il fattore che più di tutti contribuisce a fare di questo piccolo Paese una prima donna del panorama mediorientale, sembra essere la lungimiranza politica, che sfrutta la potenza economica. Il Qatar ha 25.000 miliardi di metri cubi di riserve provate di gas naturale, circa il 13,5% di tutte le riserve mondiali; a differenza di Russia e Iran, o di altri Paesi produttori di gas come l’Algeria, non si intestardisce sulle pipeline da costruire per trasportare il suo gas, ingarbugliandosi in territori e questioni che creano da sempre instabilità in vaste aree del pianeta. Piuttosto, il Qatar già da tempo ha investito nella tecnologia del gas to liquid, prendendo ad esportare gas naturale liquefatto (GNL). Si tratta di una tecnologia sicuramente più costosa, che comporta la trasformazione del gas in liquido, da poter trasportare via nave come il petrolio e, in seguito, riconvertire in gas per l’uso. In tal modo, non solo si evita di dipendere dai tubi, ma il trasporto diventa più semplice e, nel caso del Qatar, la scelta strategica è quella di rivolgersi ai mercati asiatici. E l’Asia è al centro della geopolitica di domani. Doha è diventata in poco tempo il primo esportatore mondiale di GNL, scalzando l’Indonesia e la Malaysia. Attualmente, dei circa 70 miliardi di metri cubi di gas naturale che il Qatar esporta, quasi 50 miliardi sono sotto forma di gas liquefatto. E tramite tale risorsa si rivolge al Regno Unito, alla Spagna e al Belgio, ma soprattutto ai colossi asiatici: Giappone, India e Corea del Sud. E’ anche e soprattutto in questo modo che il Qatar sta diventando così importante, stravolgendo gli schemi classici della geopolitica e investendo sul futuro e sulle novità.

 

GEOPOLITICA DEL RETAIL E DEL CALCIO – Ma il gas è solo un esempio, per quanto forse il più esemplificativo, della lungimiranza e del dinamismo del piccolo emirato qatarino. Con i petrodollari e i “gasdollari” ottenuti dalle rendite delle esportazioni di idrocarburi, il Qatar non punta solo ad arricchire il proprio sistema, ma diversifica in maniera esemplare i propri investimenti. E’ in questo modo e tramite il proprio fondo sovrano, la Qatar Investment Authority, che il Qatar è presente nel mondo degli affari, nei settori e nei posti più impensabili, quanto redditizi. Il fondo sovrano qatarino è il maggior azionista, con il 26% delle quote, della catena di supermercati inglese Sainsbury’s e, allo stesso tempo, ha da poco acquistato il grande magazzino di lusso Harrods a Londra. Come dire: vende il pane quotidiano a ricchi e poveri nel Regno Unito. Non solo: nel 2009 ha acquisito circa il 20% della Porsche, che a sua volta controlla anche la Volkswagen. Questa è la strategia dell’impero degli al-Thani, la famiglia reale del Qatar. E poi c’è lo sport, lo sport che conta. C’è il Barcellona, squadra simbolo del calcio moderno mondiale, esempio per tutte le squadre del mondo per innovazione del settore manageriale e per risultati ottenuti sul campo, oltre ad essere famosa perché, nei suoi 110 anni di esistenza, non ha mai avuto uno sponsor e ha sempre resistito a guadagnare soldi dalle pubblicità degli sponsor sulle magliette, caso più unico che raro nel miliardario mondo della calcio moderno. La squadra leader della geopolitica del calcio mondiale, insomma. Il Qatar è riuscito a rompere anche questo tabù: nel dicembre del 2010 la Qatar Foundation, ente no-profit per la promozione dell’educazione e della cultura guidato dalla moglie del re qatarino, Sheikha Mozah bint Nasser al-Missned (una delle donne più influenti e potenti al mondo), ha firmato un contratto con il Barcellona calcio: 170 milioni di euro per i prossimi cinque anni per vedere il proprio nome sulle magliette blaugrana. E, per andare sempre più in alto, c’è il calcio che conta ancora di più: i Mondiali di calcio. Il 2010 è stato l’anno storico in cui il primo Paese arabo nella storia ha ottenuto l’appalto per l’organizzazione dei Mondiali: e così dopo essere stati abituati a Italia ’90, Usa ’94 e Sudafrica 2010, sarà Qatar 2022. E, tanto per scaldarsi, quest’anno il Paese ospiterà i Giochi Asiatici di calcio, il corrispettivo dei nostri Europei o della Coppa d’Africa. Un successo, soprattutto per un Paese così piccolo, ma evidentemente così all’avanguardia. E mentre gli altri Paesi dell’area e di tutto il mondo arrancavano, il Qatar nel 2009 ha avuto una crescita del PIL di quasi il 10% e, secondo le stime dell’Economist, tra il 2010 e il 2011 la crescita sarà del 15%. Non male, se si considera che “c’è la crisi”.

 

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AL CENTRO DELLA DIPLOMAZIA – E ancora, il Qatar, nonostante le aperture politiche siano ancora insoddisfacenti per raggiungere un livello tale da poter definirsi una sistema in via di democratizzazione, ha avuto già nel 1996, subito dopo la salita al potere dell’attuale re e vero artefice del sogno qatarino Hamad bin Khalifa al-Thani, l’ardire di creare una tv satellitare. Un’emittente che appena creata era una perfetta sconosciuta, ma in grado di parlare a tutto il mondo arabo e a diventare un punto di riferimento per i cittadini di tutto il Medio Oriente e non solo: Al-Jazeera. Quella che oggi è considerata una delle emittenti più influenti e importanti di tutto il mondo, una sorta di BBC araba, con un sito internet e sedi sparse ormai in tutto il mondo e che comunica in tutte le lingue. Doha è inoltre al primo posto in Medio Oriente per ciò che concerne l’indice di corruzione percepita, al 22° posto mondiale in questa speciale classifica. E poi c’è la politica regionale: il Qatar è oggi al centro di tutte le dispute regionali e, a differenza dei vecchi centri di negoziazione del mondo arabo, Giordania, Egitto e Arabia Saudita, quando le questioni passano sul tavolo di Doha sembrano magicamente risolversi. Con l’aiuto della Turchia, il Qatar ha ospitato il più importante vertice del mondo istituzionale libanese dalla fine della guerra civile del Libano, quando nel maggio del 2008 il cosiddetto vertice di Doha ha posto fine allo stallo istituzionale che rischiava di far risprofondare Beirut in un teatro di una guerra intestina. Non solo: il Qatar ha mediato e sta mediando in conflitti latenti che si trascinano da anni, anche oltre la regione propriamente mediorientale, come è il caso delle controversie tra Gibuti e l’Etiopia (vale a dire, guarda caso, nel Corno d’Africa: una delle aree geopoliticamente e strategicamente più importanti per gli equilibri mondiali attuali). E laddove un Paese come lo Yemen rappresenta una delle possibili nuove fonti di instabilità regionale, il Qatar sta tentando di aiutare i negoziati tra il governo di Sana’a e i ribelli sciiti dal 2004, mentre gli Stati Uniti sembrano essersi resi conto della potenziale minaccia proveniente dal fallimento dello Yemen in quanto stato, solo a Natale del 2009. Per non parlare degli sforzi che il governo di Doha sta facendo per portare anche l’Iran al tavolo dei negoziati con la Comunità Internazionale.

 

UN CONFRONTO REGIONALE – E il resto del Golfo? Non sembra al momento riuscire a stare dietro alla corsa del Qatar, eccezion fatta per gli Emirati Arabi Uniti, altro attore dinamico che investe sul lungo termine, ma ancora impegnato a capire se il proprio sistema finanziario sia così solido come sembra (dopo la crisi di Dubai) e a dirimere le controversie interne tra le due “prime donne” Abu Dhabi e Dubai. Per il resto, l’Arabia Saudita sembra essere sprofondata in una crisi di identità e di panico che la porta a concentrarsi solo sul nemico iraniano, dimenticando lo sviluppo interno e la diversificazione economica. Il Bahrain è alle prese con le rivendicazioni della maggioranza sciita e lo sarà ancora per molto tempo, finché l’Iran porterà avanti il bracco di ferro con gli arabi. Il Kuwait oscilla tra crisi di governo che portano lo stallo e l’Oman non ha le potenzialità degli altri attori del Golfo per poter contare qualcosa negli equilibri regionali, né per poter arricchirsi con il petrolio e il gas che non ha. E lo Yemen è destinato a diventare sempre di più uno Stato di nessuno, a rischio trasformazione in un nuovo Afghanistan, con forze estremiste che trovano rifugio e possibili ingerenze esterne che non farebbero altro che alimentarne l’instabilità. Il 2011, insomma, ma probabilmente tutti gli anni ’10, sono del Qatar, incredibile ma vero. E c’è chi comincia a guardare a Doha come un vero e proprio modello per i Paesi in via di sviluppo che cercano di emergere. E probabilmente sarebbe il caso che anche molti attori del (vecchio) primo mondo prendano esempio dall’emirato qatarino, che pianifica politiche volte a coprire non una crisi di governo contingente, ma uno o due decenni. Il Qatar incarna in Medio Oriente, e non solo, la geopolitica della lungimiranza.

 

Sull’orlo del baratro?

Il Giro del Mondo in 30 Caffè – In un clima da guerra civile, il Messico si appresta a vivere l’ennesima campagna elettorale per il prossimo presidente, corsa che, nonostante si concluderà nel luglio 2012, è già cominciata. Il 2011 sarà l’anno della sfida: il rischio è quello di far assistere al Paese una sterile disputa, mentre una delle priorità dei candidati sarà quella di cercare un accordo con i vari cartelli della droga e far terminare la spirale di violenza in cui è caduto il Messico. Intanto l’economia stenta a crescere, la gente si impoverisce e il narcotraffico si sta facendo Stato.

MANIFESTAZIONI PER IL NARCO – In questi ultimi scampoli del 2010 il popolo messicano ha cominciato a sostenere i cartelli del narcotraffico, come è successo, lo scorso 12 dicembre a Apatzingán, un piccolo paesino del Michoacan, stato a 300 km dalla capitale, dove per giorni i militari mandati dal presidente Calderón si erano scontrati con i membri della Familia Michoacana, uno dei grandi cartelli messicani, mettendo a ferro e a fuoco varie città, fino a uccidere, probabilmente, Nazario Moreno González, il cervello ed ideologo della Familia Michoacana. Il giorno dopo l’annuncio della sua morte, il sindaco della cittadina,esponente del PRI, già arrestato l’anno passato per vincoli con il narcotraffico, ha convocato una manifestazione per protestare contro la violenza e i suoi concittadini scendono in piazza inneggiando a Nazario e la sua Familia. La manifestazione si è ripetuta qualche ora dopo nella città di Morelia, la capitale del Michoacan, per chiedere nuovamente pace. Dopotutto non c’è da stupirsi: il cartello dà cibo, lavoro, protezione, onore e riconoscimento, aspetti importanti e che fanno presa nelle fasce medio basse della popolazione. E pace: dove il narcotraffico amministra ci sono giustizia e regole. Il governo federale invece ha spesso abbandonato il territorio, tagliando i fondi per le politiche educative, sociali e lavorative, per destinare le risorse economiche allo spiegamento di migliaia di militari e poliziotti federali che, purtroppo, mentre combattono le forze armate criminali,  frequentemente violano i diritti dei civili.

L’ECONOMIA A ROTOLI – L’esecutivo guidato da Felipe Calderón ha trascurato l’importanza di dover strutturare una politica economica di lungo termine per poter uscire dalla crisi: attualmente la disoccupazione è ancora elevata, mentre l'economia sommersa è aumentata rispetto all'inizio della crisi. È cresciuta l’apertura di imprese individuali, spesso però da parte di persone che avevano perso il lavoro, quindi più per disperazione che per reali esigenze di mercato, fattore che inevitabilmente porterà al fallimento. A tutto ciò si aggiunge la grave situazione di insicurezza causata dalla militarizzazione del territorio per la guerra al narcotraffico dichiarata dal governo di Calderón, che negli ultimi 4 anni ha provocato 35 mila morti ufficiali, migliaia di “desaparecidos”, oltre che innumerevoli vittime di violenze. Il ritrovamento, avvenuto l’8 gennaio ad Acapulco, di quindici cadaveri decapitati, è solo l’ultimo episodio di una lunga serie di omicidi, prodotto della guerra tra i vari cartelli della droga. Negli ultimi mesi, la sicurezza nel paese è andata sempre peggiorando, con rapimenti, omicidi di sindaci, poliziotti e membri del cartello della droga, e la violenza si sta espandendo dalle aree centro – settentrionali, come Nuevo León, a quelle più centrali, come Michoacán e addirittura Monterrey e la stessa Città del Messico, causando un clima di terrore diffuso in cui la gente tende a rimanere in casa. Nelle città del Nord, vicino alla frontiera con gli Stati Uniti, la maggior parte delle imprese segnala cali nelle vendite (solo a Tijuana sono l'81%) e moltissimi negozi sono costretti a chiudere a causa della violenza (solo a Ciudad Juárez più della metà degli esercenti ha chiuso nell’ultimo anno). Quindi non sorprende come nel 2011 si preveda che la crescita economica continuerà ad essere inferiore agli altri paesi latinoamericani,  anche a causa della grande dipendenza dell’economia messicana da quella degli Stati Uniti grazie al NAFTA; inoltre in questi giorni è aumentato del 50% il prezzo della tortilla, l’alimento basico di tutti i messicani, mettendo un ulteriore freno alle loro possibilità di spesa di quasi 100 milioni di cittadini. Infine, secondo alcuni analisti economici, il prossimo anno, il Messico potrà essere un altro paese oggetto di speculazione internazionale dato che il debito esterno delle società private nel 2010 ha raggiunto un livello record, pari a US$ 68.106 milioni, soprattutto in caso di ulteriore deprezzamento del peso.

CEVALLOS CANDIDATO? – Offuscati da questa guerra, gli iscritti al PAN (Partido de Acción Nacional), attualmente al Governo,  sembrano aver scelto di non combattere per riottenere la presidenza, dedicandosi alla lotta di successione interna e alla spartizione dei guadagni: i principali successori di Calderón, Fernando Francisco Gómez Mont Urueta, l’ex ministro per l’attuazione del programma, e César Nava, ex presidente del partito, sono stati estromessi dalle loro cariche dallo stesso Calderón, che sembra volersi ritagliare un posto nel partito, una volta dimessi i panni del Presidente della Repubblica. L’unico che può mettere ordine e ricompattare il partito è Diego Fernando de Cevallos, vecchio patriarca panista che, appena liberato dopo 4 mesi di sequestro da un gruppo narcotrafficante non identificato, ha cominciato a parlare alla nazione, lodando il suo presidente e ricordando che la guerra al narcotraffico continuerà.

IL VECCHIO PRI – Per ora invece,  la battaglia presidenziale ha sicuramente due contendenti. Da una parte Peña Nieto, giovane e bel governatore del PRI (Partido Revolucionario Institucional) del popoloso Estado de México, la enorme periferia urbana di Città del Messico, che ha basato la sua esperienza come amministratore sulla costruzione di infrastrutture, come aeroporti e autostrade, dimostrando uno scarso rispetto dei diritti umani e delle effettive volontà della gente, permettendo, per esempio, la repressione dei contadini di San Salvador Atenco che protestavano contro la costruzione del nuovo aeroporto sulle loro terre. Discendente di politici di professione, sembra essere ben consapevole del fatto che il suo mandato dura solo 6 anni e deve farlo fruttare, rimanendo inerte con i gruppi industriali più influenti del paese. Nella sua regione ha concesso ai grandi costruttori appalti redditizi, anche se alcuni inutili, per la costruzione di centinaia di km di autostrade, attraverso uno schema di finanziamento pubblico e privato per il quale se l’edile non riesce a concludere l’opera nei tempi stabiliti nel contratto, lo Stato gli paga la mora: non è un caso che nel 2011 l’evento per costruttori di autostrade più importante del mondo si svolga in Messico. Durante gli scorsi anni si è accordato con Televisa, la principale catena televisiva messicana, per ottenere quello spazio mediatico che gli ha permesso di essere tra i politici più conosciuti del paese. Ultimamente si è fatto notare per avere ufficialmente aperto la campagna elettorale per il 2012, con la “Ley Peña” che appunto porta il suo nome, con la quale ha legalmente proibito, con la legittimazione della Suprema Corte di Giustizia, le alleanze tra partiti prima delle elezioni, per poter mettere un freno, alla strategia PAN – PRD che ha portato nel luglio scorso a battere il PRI in varie roccaforti.

LA NUOVA SINISTRA – Dall’altra parte, c’è il campione della sinistra, Marcelo Ebrard, che se vincerà le resistenze di López Obrador, il candidato del PRD nel 2006 che fu probabilmente scippato della vittoria elettorale dal Presidente in carica, potrà presentarsi agli elettori come un liberale di sinistra che ha amministrato la più grande città al mondo. Anche lui amante delle infrastrutture costruite senza consultare nessuno, si è distinto per fare di Città del Messico la capitale più progressista di tutta l’America Latina: ha fatto approvare il diritto ad abortire per le donne nei primi 3 mesi di gravidanza e il diritto a sposarsi ed a adottare figli per le coppie omosessuali, inimicandosi la Chiesa cattolica; sta rivoluzionando la viabilità della città, costruendo strade preferenziali per filobus elettrici e biciclette, che sul modello delle città europee possono essere affittate per un modico prezzo, meritandosi il premio come “miglior sindaco verde” nel mondo; ha continuato la pulizia del centro storico, scacciando gli ambulanti che affollavano le sue strade, in appoggio a Carlos Slim, l’uomo più ricco del mondo nel 2009, che ha comprato diversi palazzi del centro. Per ultimo, ha riabilitato il vecchio motto romano “panem et circenses”, offrendo spettacoli gratuiti a tutte le ore in diverse parti della città, con i simboli del PRD che campeggiano fluorescenti, e mandando i suoi “angel”, assistenti sociali a gettone, nelle zone più arretrate.

LA CONTESA ELETTORALE – Basteranno queste azioni per farlo vincere a livello nazionale? I commentatori più esperti, puntano indubbiamente su Peña: troppo forte la macchina di Televisa per scalzare il suo campione, che intelligentemente ha messo le mani avanti aprendo la strada al divieto di raccogliere sotto il nome di Ebrard tutto l’arco costituzionale partitocratrico messicano. Probabilmente però il principale attore in questa campagna elettorale lunghissima saranno i cartelli mafiosi: accetteranno un presidente che pare esterno alle dinamiche criminali? Oppure opteranno per il candidato più malleabile? Forse li lasceranno sfiancarsi mentre cercano di allargare il loro potere sul territorio, inasprendo la guerra e facendo proseliti, sempre utili nella negoziazione politica, in attesa di poter presentare un loro uomo.

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COLOMBIZZAZIONE? –Nel 2011 il cartello di Sinaloa, alleandosi con gli Zetas, il gruppo narco mercenario, sparso in tutto il paese che accetterà la migliore offerta economica, consoliderà il proprio dominio nel nord ovest del paese, lanciandosi all’offensiva della Familia Michoacana, detentrice del centro ovest, e del Cartello del Golfo, che ha il primato nel nord est, i quali non potranno che aumentare la loro potenza di fuoco, cercando quel sostegno istituzionale che per ora sembra prerogativa del Chapo. La efferatezza di questa lotta attirerà sempre più gli occhi internazionali, Stati Uniti in primis, che non possono permettersi un vicino tanto rissoso e che cercheranno di spingere Calderón ad accettare aiuti militari ed economici per mettere fine alla supremazia mafiosa, sperando di non causare una ulteriore recrudescenza della situazione, che ricorda terribilmente il baratro in cui finì la Colombia negli anni ‘90. Arriveranno le bombe nei centri commerciali e le mattanze nei quartieri turistici, per dettare le condizioni dell’accordo politico? La potenza di fuoco mafiosa ha già fatto vedere di cosa è capace durante quest’anno, quando ha cominciato a far esplodere autobombe, sparare granate e lanciare molotov.

Andrea Cerami (da Città del Messico)

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Cosa riserva l’anno della lepre?

Il Giro del Mondo in 30 Caffè – Nelle spiagge assolate di Phiphi Island, nella giungla cambogiana tra i templi di Angkor Watt, sul Delta del Mekong o sugli altipiani laotiani, tutti si preparano ai grandi festeggiamenti che sanciranno il passaggio dall’anno della tigre a quello della lepre, secondo l’oroscopo cinese. Oggi vi portiamo nel Sud-est asiatico, dove dopo un anno turbolento per l’economia ci si aspetta un 2011 di stabilizzazione. Sempre sotto l’ala protettrice di Pechino.

Arriva il momento di tirare le somme di questo 2010, anno turbolento ma in generale positivo per i paesi della vecchia Indocina. Un buon tasso di crescita per tutta l’area, nuovi passi avanti per l’integrazione ASEAN, progetti importanti come i corridoi nell’area del Grande Mekong (tra Cina, Laos, Vietnam e Cambogia fino alla Birmania) e soddisfazioni politiche come il rilascio di Aung San Suu Kyi (foto sotto) aprono scenari interessanti per il 2011. Secondo la tradizione la lepre porta nel suo anno saggezza, pace e tranquillità, permette di cogliere i frutti del duro lavoro passato, riposarsi e trarre beneficio dalla negoziazione. Ecco le prospettive 2011 per i paesi dell’area.

VIETNAM – Il governo si riunirà nell’undicesimo Congresso Nazionale con i rappresentati del partito, per riprogettare la sua strategia in base ai risultati sinora raggiunti e alle nuove istanze provenienti dall’arena internazionale; inoltre verranno definiti gli obiettivi socio economici per il prossimo quinquennio. Il 2011 darà l’avvio ai nuovi piani economici strategici grazie ai quali il governo spera di realizzare importanti progetti nelle infrastrutture e raggiungere ambiziosi traguardi per la sanità, l’istruzione e la lotta alla corruzione, migliorando ulteriormente la posizione competitiva del paese nei mercati esteri.  Se Hanoi riuscirà a mantenere i volumi commerciali odierni e contenere l’inflazione, sarà possibile ridurre il deficit di bilancio e consolidare la crescita.

THAILANDIA – Tra i paesi della zona, la penisola del Siam è quello che presenta la situazione più preoccupante. Dopo le violente proteste di maggio, le relazioni tra il primo ministro Abhisit Vejjajiva e l’opposizione si sono normalizzate, ma la scena politica rimane imprevedibile e le elezioni del 2011 sembrano sempre più un miraggio. Le continue tensioni hanno avuto un forte impatto negativo sulla crescita del paese, in declino ormai dal 2005. Mentre i flussi commerciali si sono rafforzati in alcuni settori (automobilistico ed elettronico), gli investimenti diretti sono diminuiti a fronte di un aumento del rischio del paese, i progetti pubblici su larga scala ristagnano e il turismo mostra solo una tiepida ripresa. Ci sono invece buone notizie sia sul confine birmano, che su quello cambogiano. Lo scorso novembre la Thailandia ha inviato un acconto di 30.000 US$ a seguito dell’incidente sul ponte Koh Pich a Phnom Penh. Il 2011 dovrebbe vedere l’apertura ufficiale del confine con la Cambogia a seguito dello sminamento dei territori circostanti. Sul fronte Birmano le relazioni sono migliorate, ma il dibattito sui diritti umani si è ammorbidito per favorire sostanziosi accordi commerciali tra la giunta e le imprese Thai, sempre più dipendenti dalla manodopera immigrata birmana.

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LAOS, CAMBOGIA E BIRMANIA – Sebbene Cambogia e Laos siano considerate le nuove promesse del Sudest Asiatico è ancora molto rischioso investire in loco. Nel 2011 ci si aspetta una consistente contrazione del settore bancario soprattutto in Cambogia, che subirà un duro colpo a seguito del crollo del mercato immobiliare. Secondo l’EIU (Economist Intelligence Unit) il 2011 vedrà solo una modesta espansione in entrambi i paesi rispetto ai tassi degli ultimi anni, nonostante la situazione politica sia abbastanza stabile. In realtà c’è ancora molta strada da fare: il 35% della popolazione dell’area vive ancora sotto la soglia di povertà (calcolata sul reddito medio del paese), sopravvivendo con $0.45 al giorno e la corruzione rimane dilagante. Nonostante l’accesso al WTO nel 2004, il cammino cambogiano verso la crescita è stato molto faticoso; dopo alcuni anni al 6%, con un picco al 13% nel 2007, l’economia non ha retto ed è collassata a seguito della crisi registrando un -1.5% nel 2010. Per il Laos invece l’entrata nel WTO (prevista tra il 2012-2013) potrebbe rappresentare una vera svolta: il paese ha ottenuto buoni risultati negli ultimi 10 anni, mantenendo un tasso di crescita stabile attorno al 6.5% e si è concentrato nell’intensificazione dei rapporti commerciali con Vietnam e Thalandia, nello sviluppo del turismo, nell’estrazione mineraria e  nella produzione di energia idroelettrica.

Infine in Birmania, dopo il rilascio di Ang San Suu Kyi lo scorso novembre, un’ondata di ottimismo ed euforia ha travolto il paese. Molti sostengono che la mossa del governo sia solo uno specchietto per allodole, un modo per proporsi all’opinione pubblica con una nuova immagine, senza cambiare la sostanza dittatoriale e repressiva del governo. Altri invece ritengono che il rilascio della leader democratica possa aprire la strada per un dialogo tra il generale Than Shwe e  Obama nel 2011. La Casa Bianca infatti sembra sempre più preoccupata per l’intensificarsi dei rapporti tra Yangoon e Beijing.

 

Valeria Giacomin

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