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"L'imparzialità è un sogno, la probità è un dovere"

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Se Downing Street si affaccia sul mondo…

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Si avvicina il momento delle elezioni in Gran Bretagna. Quella che in passato era sempre una sfida a due tra Conservatori e Laburisti, quest’anno potrebbe avere un esito meno scontato per il crescente successo di Nick Clegg, candidato del Partito Liberaldemocratico, importante terza forza partitica in UK ma da sempre penalizzata dal sistema elettorale maggioritario. Che visione hanno i tre candidati della politica estera britannica?

TRA PASSATO E FUTURO – Mai pienamente inseritosi nell’Europa comunitaria, il Regno Unito ha sempre goduto dell’appoggio quasi incondizionato degli Stati Uniti. Al momento però sembra essere lontano sia da Washington che da Bruxelles, per motivazioni differenti. Sul versante dell’Atlantico il sostegno sembra erodersi parallelamente all’interesse degli Stati Uniti per le questioni europee. Interessati più alla regione asiatica che al Vecchio Continente, alla Casa Bianca preferiscono dialogare direttamente e vis-a-vis con i maggiori leader europei piuttosto che utilizzare la sponda britannica per far giungere al resto del continente critiche o considerazioni sui vari temi internazionali. Sul versante europeo, Londra sembra essere ancora relegata ai margini dell’Unione e l’impatto della crisi sull’economia del paese ha fortemente ridimensionato il ruolo del paese anche in ambito economico. Quello che sembra essere un segnale, che molto lascia riflettere, è l’atteggiamento particolarmente remissivo dei tre candidati ad occupare il 10 di Downing Street, che non sono stati capaci, nel secondo confronto diretto davanti agli elettori, di tratteggiare quelle che saranno le linee guida per la politica estera britannica nel prossimo futuro. Nessuna prospettiva convincente, tanto meno indicazioni chiare su quello che dovrebbe essere il ruolo di un paese sempre più ai margini della politica internazionale.

POCHE IDEE E CONFUSE – Il candidato meno convincente sui temi di politica estera è stato Nick Clegg, il nuovo “golden boy” della politica britannica e inaspettata sorpresa degli ultimi incontri televisivi. Profondamente filoeuropeista e su posizioni che riecheggiano un antiamericanismo un po’ troppo semplicista, Clegg sembra aver dimenticato che l’opinione pubblica potrebbe dimostrarsi particolarmente insofferente ai vincoli di una maggiore integrazione comunitaria. Non ha saputo fare molto di meglio David Cameron, capace di richiamare alla memoria degli elettori il conservatorismo di stampo thatcheriano fortemente antieuropeista senza però chiarire adeguatamente quali potrebbero essere le linee guida della politica estera di un futuro governo Tory. Probabilmente Cameron è consapevole di avere la vittoria a portata di mano, i maggiori quotidiani lo appoggiano e i sondaggi lo danno per vincente ormai da tempo. Continuare a mantenere un atteggiamento così poco deciso potrebbe nuocergli non poco, soprattutto se negli ultimi giorni di campagna Clegg deciderà di alzare il livello dello scontro nel tentativo di rastrellare il voto degli indecisi o degli ex elettori del Labour. L’attuale premier Gordon Brown ha scelto invece una tattica attendista, giocando sulla difensiva e confermando di voler proseguire con una linea strategica che sia europeista ma al contempo pragmatica, così da mantenere il Regno Unito e l’Unione Europea ad una giusta distanza, conservando quindi un buon grado di libertà rispetto alle decisioni prese a Bruxelles. Il leader dei laburisti ha poi confermato di voler continuare la lotta al terrorismo fondamentalista in patria e all’estero al fianco degli Stati Uniti. Le parole di Brown, titolare della politica estera britannica in quanto capo di governo, sono parse però inadeguate se calate nell’attuale momento di difficoltà del Regno Unito in campo internazionale.

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CHIUSURA DI UN CICLO? – La sensazione è che nel Regno Unito si sia chiuso un ciclo: dalla Thatcher fino a Blair gli inquilini di Downing Street hanno sempre considerato la politica estera uno dei punti fondamentali dell’agenda governativa, con linee guida delineate e precise. Amate od odiate, ma pur sempre indicatrici della volontà di non veder ulteriormente ridimensionato il ruolo britannico sulla scena internazionale. Questa dovrebbe essere la prima preoccupazione dei candidati in corsa per il premierato: decidere quale sarà il futuro del paese sullo scacchiere internazionale. Sempre più in una situazione ambigua, il Regno Unito rischia infatti di trovarsi al centro di una pericolosa equidistanza tra Europa e Stati Uniti. E’ ancora presto per sapere se sarà il prossimo premier a metter fine a quella special relationship che ha finora legato Downing Street alla Casa Bianca, di certo da Londra non provengono segnali incoraggianti. Sul fronte opposto Bruxelles appare lontana, come improbabile dovrebbe essere un ulteriore avvicinamento britannico all’Unione Europea. In questa situazione il Regno Unito sembra essere, e lo sarà sempre di più nel prossimo futuro se non ci sarà un premier forte a guidare il paese, l’opaca fotografia di quell’impero capace di decidere del destino di circa un quarto della popolazione mondiale.

Simone Comi

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Mare Nero

Dopo il fallito attentato al centro di New York, si è in attesa di capire chi abbia realmente organizzato il tentativo di attacco e la guardia resta alta per timore di un secondo tentativo. Intanto, il controverso leader iraniano Ahmadinejad parlerà di nucleare alle Nazioni Unite, mentre Obama è impegnato a capire come affrontare il disastro ambientale causato dall'incidente ad una piattaforma petrolifera nel Golfo del Messico.

L'attentato fallito a New York, a Times Square, ha fatto tornare l'incubo degli attacchi terroristici sul suolo americano. Le autorità sono impegnate a capire chi abbia organizzato questo attacco che, sebbene fallito e sebbene, fortunatamente, malamente condotto, fa crescere i timori di azioni condotte da gruppi autoctoni, come guà successo in Gran Bretagna. Rimane intanto il timore che un secondo tentativo possa esser condotto per “rimediare” al primo errore.

Il Presidente iraniano Mahmoud Ahmadinejad è negli Stati Uniti, dove parteciperà a degli incontri alle Nazioni Unite; si parlerà del Trattato di Non Proliferazione Nucleare e molta è l'attesa per il suo discorso, dopo che lo stesso Ahmadinejad ha da poco rilasciato dichiarazioni poco concilianti nei confronti dell'Occidente. Non sono inoltre previsti incontri tra membri dell'Amministrazione iraniana e di quella statunitense, ma sarà interessante verificare se ci saranno comunque dei colloqui, anche di basso profilo.

La crisi energetica in Venezuela sembra complicarsi. Il mese passato non ha portato le precipitazioni attese, che potevano consentire al sistema di produzione idroelettrico di tornare a regime. Sebbene la situazione sembri gestibile, non si sono del tutto placate le proteste che avevano animato le settiamane passate: già da questa settimana si potrà avere un quadro più chiaro circa la reale portata dell'emergenza energetica nel Paese sud americano.

La marea nera che ha colpito il Golfo del Messico, a seguito dell'incidente ad una grande piattaforma petrolifera off shore, sembra oramai assumere la portata di un enorme disastro naturale. Il Presidente Obama ha già sospeso le attività di altre piattaforme in attesa di verifiche circa la sicurezza di tali attività. Nei prossimi giorni potrebbero giungere dichiarazioni importanti da parte dell'Amministrazione americana circa la volontà di proseguire con le attività di estrazione petrolifera in mare. Un eventuale passo indietro in tal senso potrebbe avere un importante impatto sulle grandi aziende petrolifere americane e sulle politiche legate alle loro attività.

Continua il veloce riavvicinamento tra Russia e Ucraina. Dopo l'audace proposta del Primo Ministro russo Putin di avviare una strettissima cooperazione nel settore dell'industria energetica dei due Paesi, seguita da un rifiuto da parte del Primo Ministro Ucraino Yulia Timoshenko, sono comunque attesi dei passi avanti in tal senso. Dopo l'accordo per la permanenza della flotta russa nel Mar Nero, accordi economici stringenti come quelli promossi da Putin sarebbero un chiaro indicatore del previsto rientro dell'Ucraina nella sfera di influenza russa.

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Ecco quali sono gli altri eventi di rilievo attesi per questa settimana nel resto del mondo.

  • Il 3 maggio la Banca Centrale Europea e la Commissione Europea dovranno approvare il piano di finanziamento alla Grecia, che prevede aiuti sia dal Fondo Monetario Internazionale che dall'Unione Europea. Anche il Governo tedesco, sinora il maggior critico sugli aiuti al paese ellenico, dovrebbe finalmente concordare con il piano.

  • A Bruxelles rappresentanti NATO incontrano rappresentanti della Georgia per discutere delle future modalità di cooperazione e di riforme nel settore difesa georgiano.

  • A Gerusalemme, la District Planning and Construction Committee si riunirà per la prima volta dopo la visita del Vice Presidente americano Joe Biden, e dopo il duro confronto con gli Americani circa le politiche edilizie nelle zone contese di Gerusalemme.

  • Kenya, settimana importante dal punto di vista della tutela dei diritti: il Procuratore Generale Amos Wako renderà pubblica la bozza per una nuova Costituzione; sarà inoltre presentato il rapporto sui diritti umani, in vista di un Forum delle Nazioni Unite.

La Redazione

3 maggio 2010

Il fanalino di coda

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Il Caffè si occupa per la prima volta di un piccolo Stato sudamericano, “schiacciato” tra Argentina e Brasile e quasi mai agli onori delle cronache. In Paraguay, “cugino” sfortunato dei due giganti latini, lo sviluppo economico tarda ad arrivare, cosa che comporta anche instabilità politica e sociale. Nonostante le speranze riposte nel Presidente Fernando Lugo, ex vescovo che ha abbracciato idee politiche di sinistra, il cambiamento nel Paese stenta ad arrivare, stretto da una struttura economica e produttiva obsoleta e afflitto da criminalità e mancanza di sicurezza.

EMERGENZA – È delle ultime settimane la notizia che Il parlamento di Asunción ha dichiarato lo stato di emergenza in cinque province situate a nord del paese dopo un attacco armato attribuito all’Esercito del Popolo Paraguaiano (Ejército Paraguayo del Pueblo – EPP) in cui un poliziotto e tre civili hanno perso la vita dopo un’imboscata nei pressi di Horqueta, a 380 chilometri dalla capitale.

Di fronte a tale contesto il Presidente Fernando Lugo ha presentato al Congresso un progetto di legge per proclamare lo stato di emergenza richiedendo un’approvazione immediata. La misura, ha ribadito il Capo di Stato, è stata necessaria considerando l’alto indice di violenza che si riscontra nella zona in cui vivono 800.000 persone.

Secondo quanto approvato dal decreto, lo stato di emergenza verrà mantenuto per 30 giorni durante i quali le Forze Armate paraguaiane si occuperanno di mantenere la sicurezza nelle cinque province (Concepción, San Pedro, Amambay, Presidente Hayes e Alto Paraguay). Il Presidente avrà la facoltà di ordinare la detenzione e il trasporto di persone senza un ordine giudiziario, nonchè di proibire o ridurre le manifestazioni politiche.

La dichiarazione dello stato di emergenza, strumento cui si è fatto frequente ricorso durante i 35 anni di dittatura del generale Alfredo Stroessner (1954-1989), secondo la Costituzione paraguaiana può essere dichiarato “in caso di conflitto armato internazionale o di grave agitazione interna che metta in pericolo il rispetto della Costituzione o il funzionamento regolare degli organi da questa disciplinati”.

CHE COS’E’ L’EPP? –l’Esercito del Popolo Paraguaiano è un gruppo guerrigliero composto da un centinaio di militanti che utilizzano lo strumento della lotta armata al fine di cambiare il sistema economico e sociale vigente in Paraguay e che avrebbe dei legami con le Forze Armate rivoluzionarie colombiane (FARC), che ne avrebbero addestrato i leader.

All’EPP, che al momento è nascosto in aree boschive di difficile accesso ai confini con il Brasile e la Bolivia, dove si trovano coltivazioni illecite di marijuana, sono stati attribuiti numerosi casi di sequestro dal 2001, l’ultimo dei quali si è verificato nell’ottobre 2009 ai danni di uno degli esponenti più importanti del settore agricolo del paese, Fidel Zavala, liberato a gennaio. L’agricoltura è infatti ancora una delle principali attività economiche dello Stato sudamericano, dove domina ancora una struttura proprietaria fortemente concentrata caratterizzata dal latifondo.

CRITICHE – La scelta del presidente Lugo non è stata scevra da critiche, soprattutto perché la dichiarazione dello stato di emergenza, in un paese come il Paraguay già soggetto a problemi sociali, potrebbe peggiorare ulteriormente la situazione. Come ha sottolineato il politologo Marcial Cantero Gaona “lo stato di emergenza non può essere in alcun modo giustificato perché nessuna delle ipotesi previste dalla Costituzione si è verificata”.

E ancora. A seguito dello stato di emergenza il governo avrà dei poteri eccezionali per combattere l’insurrezione avendo anche la possibilità di effettuare detenzioni, proibire manifestazioni pubbliche e, aspetto più controverso, aumentare la militarizzazione della zona.

Diametralmente opposta è l’opinione della Polizia Nazionale, di alcuni quotidiani, reti televisive e radiofoniche locali, secondo cui lo spiegamento delle Forze Armate da parte del governo è una misura per “evitare abusi e ulteriori pericoli”. Anche i partiti di opposizione e i principali sindacati hanno contestato la decisione del Governo.

EQUILIBRIO PRECARIO – Dopo le contestazioni politiche per le elezioni presidenziali del 2008, a seguito dell’accusa di incostituzionalità della candidatura di Lugo (ex vescovo cattolico aderente alla Teologia della Liberazione), il Paraguay appare un paese in attesa del cambiamento, ancora in attesa di riforme economiche (su tutte quella agraria), che sembrano non arrivare mai.

La lentezza a concretizzare le promesse elettorali, unita alle accuse rivolte al Governo di inerzia ed incapacità ad arginare gli effetti negativi della crisi internazionale, sta deludendo le aspettative di cambiamento legate all’elezione di Fernando Lugo. Il clima di conflitti sociali, l’aumento della criminalità, l’aspro scontro politico stanno mettendo a dura prova la governabilità del Paese indebolendo ulteriormente la posizione del Presidente.

A ciò si aggiunga la disuguaglianza nella distribuzione delle attività economiche: la maggior parte di queste si trovano nella zona centrale del paese, attorno alla capitale e nella regione sudorientale confinante con il Brasile, che grazie a questa vicinanza ha permesso lo sviluppo economico nei pressi di Ciudad del Este.

La disuguaglianza si estende anche al campo sociale, a una piccola élite della capitale che detiene il potere economico, si contrappone una popolazione la cui maggioranza si trova in uno stato di estrema povertà, soprattutto nelle aree rurali. Le difficoltà economiche e l’instabilità sociale pongono un serio punto interrogativo sullo sviluppo del Paese, in controtendenza rispetto a fulgidi esempi di crescita presenti nel panorama latinoamericano.

Valeria Risuglia

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Settimana dal 19 al 25 aprile

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La ventesima puntata: "Il Forum dei BRICs: quale ruolo per i Paesi emergenti?"

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Settimana dal 26 aprile al 2 maggio

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La ventunesima puntata: "Le riforme di Obama: dopo la sanità, tocca alla finanza?"

La ventiduesima puntata: "Oltre l'Iraq. Al Qaeda nel mondo"

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Il segreto dei suoi occhi

È stato la rivelazione dell’ultima notte degli Oscar: il film argentino ha infatti vinto la statuetta come miglior film straniero. Una storia avvincente, a metà strada tra vari generi cinematografici, ai quali fa da sfondo il periodo della dittatura militare argentina

PIU’ FILM IN UNO – Un po’commedia, un po’thriller, e anche un po’sentimentale. Diversi generi cinematografici si intrecciano in “El secreto de sus ojos”, pellicola argentina che si è imposta come rivelazione del 2010 per aver trionfato all’ultima edizione degli Oscar vincendo la categoria riservata ai film stranieri. Un premio meritato quanto inatteso, che apre però una breccia su una realtà poco conosciuta dell’America Latina, ovvero quella del cinema, capace di raggiungere altissimi livelli anche a livello internazionale.

La trama del film sembra abbastanza semplice: un assistente pubblico ministero in pensione, interpretato da Ricardo Darín (uno dei più famosi attori argentini), decide di riprendere individualmente le indagini sull’omicidio di una ragazza avvenuto trent’anni prima. L’assassino della donna, arrestato in collaborazione con una collega di cui è da sempre innamorato (Soledad Villamil), venne infatti liberato dopo poco tempo e assoldato negli squadroni che si occupavano di arrestare i perseguitati politici durante il buio periodo della dittatura militare (foto a destra).

Il protagonista chiede aiuto alla collega, con la quale ha anche un riavvicinamento personale, e ripercorre l’intera storia di trent’anni prima per cercare finalmente di giungere alla verità e scoprire che fine abbia fatto, a distanza di tanto tempo, il colpevole di quel terribile delitto.

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L’ARGENTINA SULLO SFONDO – “El secreto de sus ojos” (che in Italia uscirà nelle sale solo a partire dal prossimo 4 giugno) è prima di tutto un ottimo noir, girato in maniera esemplare dal regista Juan José Campanella e interpretato con grande intensità dai protagonisti, davvero bravi nel conferire intensità ai personaggi. L’abilità del regista sta però anche nel parlare della storia argentina senza praticamente mai nominarla, ma lasciandola sullo sfondo (l’unico richiamo esplicito è la scena in cui alla televisione viene mostrata la destituzione di Isabelita Perón, Presidente per un breve arco di tempo dopo la morte del marito Domingo). Uno sfondo terribile, che è quello della dittatura della Giunta Militare guidata da Jorge Videla e che caratterizzò l’Argentina dal 1976 al 1983, con pagine tristemente famose come quella dei desaparecidos, i prigionieri politici arrestati e uccisi senza lasciare traccia. Il film è dunque anche un’interessante occasione di riflessione sulla storia e sulla società argentina, anche in relazione al funzionamento del suo sistema giudiziario.

Insomma, in due ore non c’è veramente modo di annoiarsi. E c’è pure un finale a sorpresa…

 

Davide Tentori

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Le due facce della medaglia

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Il Brasile sta vivendo una crescita economica senza precedenti. Tuttavia rimane irrisolto il problema della criminalità e della violenza. Due film affrontano la questione

I SUCCESSI DI LULA – I motivi di soddisfazione per il governo Lula sono stati molti negli ultimi anni, e gli indicatori statistici della salute del paese autorizzano un deciso ottimismo per il futuro: il Pil è cresciuto nell’ultimo decennio a un ritmo stabile intorno al 4%, la popolazione è in costante crescita, l’inflazione è rimasta negli ultimi 5 anni al di sotto del 10%. Sotto il governo dell’ex sindacalista di San Paolo questa grande democrazia di 186 milioni di abitanti ha trovato in particolare anche una certa stabilità politica e economica, condizione che storicamente è sempre mancata al paese e ha costituito un costante ostacolo al pieno sviluppo del suo enorme potenziale. Tutti questi indicatori positivi, sanciti anche dal passaggio del paese dal gruppo di paesi a medio sviluppo a quello dei paesi ad alto sviluppo nella classifica di sviluppo umano stilata dall’ONU con un indice dello 0,8 (su una scala da 0 a 1) hanno fatto sì che anche il profilo internazionale di Brasilia crescesse parallelamente al suo sviluppo economico. Come già successo per la Cina, il nuovo status internazionale è stato suggellato a livello mediatico dalla vittoria di Rio de Janeiro nella competizione per l’organizzazione dell’olimpiadi del 2016. Non solo, dopo il Sud Africa i mondiali di calcio del 2014 si terranno proprio nella patria della seleçao. 

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… E I PROBLEMI – In una situazione apparentemente rosea c’è però un problema endemico che allontana Brasilia dai paesi più sviluppati e preoccupa non poco gli organizzatori delle due importanti manifestazioni sportive mondiali: gli alti tassi di violenza e criminalità del paese, particolarmente nelle enormi favelas intorno ai grandi centri urbani. E’ cronaca di questi giorni la battaglia tra polizia e gruppi criminali svoltasi nel Morros dos Macacos, una delle favelas di Rio nelle quali vivono 2 milioni di persone, che ha lasciato 12 morti sul terreno, tra cui due poliziotti che sono precipitati con il loro elicottero su un campo da calcio, abbattuti dal fuoco delle armi pesanti delle gangs. La violenza tra i gruppi criminali dediti al traffico di droga, di cui il Brasile è uno snodo fondamentale come paese di transito, è un problema endemico, unito a una massiccia diffusione della corruzione tra le forze di polizia e alla diffusione massiccia di armi da fuoco. Purtroppo i dati in questo caso non sono confortanti, ma indicano che le uccisioni da arma da fuoco, soprattutto tra la popolazione giovane (15-24 anni), sono in forte aumento: +31% tra il 1996 e il 2006. I FILM – Quello della violenza diffusa è sicuramente uno dei problemi principali che Brasilia deve affrontare nel suo cammino verso il benessere. Fino ad ora i politici si sono limitati alle dichiarazioni, ma i progressi non sono stati tangibili. La questione è evidentemente sentita anche dall’opinione pubblica, come dimostra l’esempio di due opere cinematografiche di grande successo in patria e all’estero che hanno affrontato proprio questo argomento: “Cidade de deus” di Fernando Meirelles e “Tropa de elite” di José Padilha. Queste due notevoli opere cinematografiche (il film di Padilha ha vinto l’orso d’oro a Berlino) affrontano il problema da due prospettive differenti e giungono a conclusioni altrettanto diverse, riproponendo così diverse letture della situazione interne all’opinione pubblica brasiliana. Mentre il primo adotta lo sguardo di un giovane abitante delle favelas e ne racconta la fuga dall’incubo, dove suo malgrado deve fare i conti con la violenza delle gangs e della polizia corrotta, il secondo segue le vicissitudini di una squadra del famigerato corpo d’elitè della polizia di Rio, il Bope (Batalhão de Operações Policiais Especiais). I due film offrono una lettura alquanto diversa della situazione. Il primo, nella sua crudezza, lascia spazio alla speranza nella storia edificante del protagonista che nel finale riesce a raggiungere una via di uscita dalla situazione disperata delle favelas, grazie alla sua intraprendenza e al fatto di essere riuscito a salvare la sua innocenza in un ambiente corrotto. Nel secondo film non c’è assolutamente spazio per l’innocenza, né per la speranza. Se “Cidade de deus” è un film crudo, “Tropa de elite” è invece angosciante, un pugno allo stomaco ai benpensanti. Tutto è molto semplice nel film di Padillha: la forza è l’unica legge, tutto è marcio, nessuno può permettersi il lusso dell’innocenza. A partire dai protagonisti, teste di cuoio, macchine da guerra, costantemente in lotta contro tutti: membri delle gangs, poliziotti corrotti, l’opinione pubblica borghese. Quest’ultimo film nella sua semplice brutalità ha avuto un accoglienza in patria e all’estero assai controversa, soprattutto perché è stato accusato di dipingere come eroi i superpoliziotti del “Bope”, i cui modi d’intervento sono per lo meno discutibili.   Questi due film rappresentano due modi di vedere i problemi della società brasiliana, a loro modo efficaci. Ognuno si farà la propria idea, ma la visione di queste opere e il confronto tra le due tesi esposte aiuterà sicuramente la formazione di un’opinione più meditata. A meno che uno non voglia farsi un giro per le favelas.  

Jacopo Marazia [email protected]

L’Iran, Neda e la libert�

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La morte della giovane Neda negli scontri in Iran a seguito delle contestate elezioni, è stata ripresa online sotto forma della graphic novel che ha reso celebre il film Persepolis, un modo come un altro per raccontare le sofferenze e gli scontri del post-elezioni

IL FILM – Persepolis non è soltanto un film sulla storia dell'Iran a partire dal 1978 sino agli anni novanta filtrato attraverso lo sguardo di una bambina e poi di una giovane donna, Marjane. E' soprattutto un film sulla libertà, e su come la mancanza di libertà possa incidere profondamente sulla vita di ogni singolo individuo intaccandone e modificandone irreparabilmente l'esistenza. Ambientato a Teheran, poi a Vienna, e dopo ancora Teheran, Persepolis è innanzitutto un film d'animazione, anche se guardandolo ci si dimentica quasi completamente di avere davanti agli occhi un cartone animato in bianco e nero. I suoi personaggi sono forse più vivi e reali di attori veri, ogni singola espressione ne rende la complessità e ne disegna il carattere. Centrali sono le figure femminili, non soltanto la protagonista ma anche, ad esempio, la figura della nonna, che non smette in tutto il film di dispensare consigli di vera e propria sopravvivenza nei confronti dei rapporti con l'altro sesso alla nipote. La nonna di Marjane e Marjane stessa, come anche sua madre, incarnano l'esempio di femminismo e rivendicazione dei propri diritti a dispetto della condizione femminile dettata dal regime iraniano che vuole la donna coperta dal velo, in nome di una morale religiosa imposta dall'autorità politica. La ribellione della piccola Marjane è incarnata dalla sua passione per le scarpe da ginnastica, le patite con il ketchup, e  la musica punk. La scelta di raccontare l'Iran attraverso gli occhi di una ragazza non appare causale, dato che è la donna a soffrire della condizione di maggiore vessazione e di privazioni della libertà in questo Paese 30 anni fa come oggi. Una libertà a cui però Marjane e la sua famiglia non vogliono rinunciare, ma questa lotta non è né indolore né scontata: la quotidianità è li ogni attimo a ricordare quanto sia difficile non avere paura del regime e mantenere la propria dignità in Università quanto al supermercato.

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PREMIO A CANNES – Tratto dalla graphic novel di Marjane Satrapi, autrice di fumetti iraniana che attualmente vive a Parigi, Persepolis, vincitore del Premio della Giuria a Cannes 2007, è dotato della rara capacità di raccontare intricate e complesse vicende storiche dell'Iran – a partire dalla rivoluzione del 1979 che ha portato alla cacciata del regime oppressivo e connivente con l'Occidente dello Shah – attraverso lo sguardo della sua protagonista la cui vita viene indirettamente plasmata e travolta dalle vicende del suo Paese. La libertà forzatamente cercata all'estero (a Vienna) negli anni della guerra tra Iran e Iraq (tra il 1979 e il 1989), non è mai totale: Persepolis racconta la difficile condizione di esule impotente nei confronti della storia, che tutt'oggi la sua autrice condivide. Come affermato in un articolo comparso su Internazionale a metà luglio “per me l'Iran è casa mia, perchè anche se ho vissuto e vivo in Francia, e anche se dopo tanti anni mi sento in parte francese, per me la parola casa significa una cosa sola: Iran.”

Anna Longhini

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Lemon tree

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Israeliani e Palestinesi: due popoli apparentemente inconciliabili. La storia di due donne, messa sullo schermo dal regista Eran Riklis, spiega la difficoltà di comunicare.

Il conflitto israelo palestinese passa anche per un giardino di limoni. Soprattutto se sul confine con la Cisgiordania va ad abitare il Ministro della Difesa israeliano, Israel Navon, e se il giardino di Salma Zidane (interpretata dall'attrice Hiam Abbass) con i suoi alberi di limone da abbattere diventa una minaccia per la sicurezza nazionale in quanto potenziale covo di terroristi. Il film, una storia semplice, racconta di due mondi che sostanzialmente non si parlano se non attraverso i pochi sguardi, quelli di due donne, la moglie del ministro e la proprietaria del giardino. Il resto del dialogo avverrà in tribunale.  Una critica forte dell'autore alla questione mediorientale passa proprio sul piano dell'incomunicabilità quotidiana (resa anche dal fatto che nella versione originale gli ebrei parlano in ebraico e gli arabi parlano arabo) che contraddistingue le due fazioni in lotta. La solidarietà tra le due donne protagoniste, Salma e Mira, moglie del ministro, è percepita dallo spettatore, ma non si spinge mai davvero oltre questo livello.

Il conflitto israelo palestinese passa anche per un giardino di limoni. Soprattutto se sul confine con la Cisgiordania va ad abitare il Ministro della Difesa israeliano, Israel Navon, e se il giardino di Salma Zidane (interpretata dall'attrice Hiam Abbass) con i suoi alberi di limone da abbattere diventa una minaccia per la sicurezza nazionale in quanto potenziale covo di terroristi. Il film, una storia semplice, racconta di due mondi che sostanzialmente non si parlano se non attraverso i pochi sguardi, quelli di due donne, la moglie del ministro e la proprietaria del giardino. Il resto del dialogo avverrà in tribunale.  Una critica forte dell'autore alla questione mediorientale passa proprio sul piano dell'incomunicabilità quotidiana (resa anche dal fatto che nella versione originale gli ebrei parlano in ebraico e gli arabi parlano arabo) che contraddistingue le due fazioni in lotta. La solidarietà tra le due donne protagoniste, Salma e Mira, moglie del ministro, è percepita dallo spettatore, ma non si spinge mai davvero oltre questo livello.

Anna Longhini

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La Cina in vetrina: la sfida dell’Expo

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Sta per prendere il via a Shanghai l’Esposizione Universale cinese, che precede di cinque anni l’attesa edizione milanese. I retroscena di questa grande manifestazione da una nostra collaboratrice che vive nella megalopoli cinese: città dal volto umano, in controtendenza rispetto all’immagine di una Cina inquinata e poco attenta alle tematiche ambientali. Con un occhio di riguardo per l’Africa, principale partner economico del dragone asiatico.

I NUMERI DI UN GRANDE SPETTACOLO – Il countdown è ufficialmente iniziato. Shanghai è più sfavillante che mai, pronta ad accogliere i milioni di visitatori giunti a Pudong da ogni angolo del mondo per partecipare a quello che è stato definito “il più grande Expo della storia”.

Presentato come l’evento del secolo (sia dal governo cinese che dai media), l’Expo vuole assumere un significato ben più ampio di quello di semplice fiera internazionale.

A giudicare dai preparativi e dall’attenzione mondiale, si capisce subito che stavolta non si tratta dell’ennesimo appuntamento con le Esposizioni Universali. Chiaramente, Shanghai 2010 è il trampolino di lancio della nuova Cina. Una Cina che si riscopre e si reinventa, che prova a lasciarsi alle spalle il passato di “fabbrica del mondo” e il cliché di paese troppo lontano, troppo diverso, a volte misterioso e a volte spaventoso.

La performance economica della RPC resta impressionante nonostante la crisi. Come se non bastasse, sviluppo e benessere si stanno rapidamente estendendo dalle aree costiere all’interno del paese. Dopo la vertiginosa ascesa di megalopoli del calibro di Beijing, Nanjing, Shanghai e Guangzhou, il motore del progresso si sta spostando verso ovest, portando alla ribalta zone che fino a pochi anni fa erano scarsamente sviluppate. È il caso della municipalità di Chongqing, che conta oggi quasi 32 milioni di abitanti e che può vantare un aumento del PIL locale del 14,9% nel 2009 (un risultato che fa impallidire l’8,7% nazionale).

La Cina è ansiosa di mostrare i suoi numeri, mettersi in vetrina e farsi ammirare dai visitatori. E per farlo ha scelto Shanghai, la sua punta di diamante, la città-provincia dove il progresso corre veloce e la crescita sembra inarrestabile. Shanghai è il volto umano del gigante asiatico, la città candidata a diventare un modello per tutte le metropoli del XIX secolo: immensa, modernissima, dinamica, quasi futuristica, ma allo stesso tempo vivibile e attenta alla delicata tematica dello sviluppo sostenibile.

Nell’area urbana della Perla d’Oriente è stato ritagliato uno spazio di 5,3 km2, suggestivamente diviso tra le due sponde del fiume Huangpu (sezione Pudong su una riva e sezione Puxi sull’altra). Le zone espositive sono cinque, suddivise a loro volta in microzone e clusters, il tutto in grado di ospitare 191 paesi, 48 organizzazioni internazionali, un parco divertimenti, una zona dedicata alle Urban Best Practices e diverse strutture che proporranno un totale di 20.000 spettacoli ed eventi culturali nel corso dell’intero semestre espositivo.

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BETTER CITY, BETTER LIFE – Il tema dell’Expo è “Better city, better life”, ovvero tutte le tecnologie rilevanti ai fini di incrementare la qualità della vita in un contesto urbano. Il fulcro dell’esposizione è la ricerca di una pianificazione sostenibile nelle nuove aree cittadine, ma anche lo studio di metodi di riqualificazione del tessuto urbano già esistente. Al centro del dibattito anche temi quali il multiculturalismo come caratteristica peculiare delle metropoli moderne, l’interazione tra aree urbane e aree rurali e l’impatto dell’alta tecnologia nella quotidianità dei cittadini del XIX secolo.

In tutto questo Shanghai si rivela città leader: dal 2000 in poi il governo locale ha varato piani triennali per ridurre l’inquinamento atmosferico e ha destinato ogni anno circa il 3% del PIL al finanziamento di progetti eco-friendly, per un totale di 225 miliardi di yuan (32.90 miliardi di dollari) nel decennio 2000-2010. Atti esemplificativi di questa linea d’azione sono stati la chiusura di 3.000 fabbriche considerate altamente inquinanti, il potenziamento dei mezzi di trasporto pubblico (oltre 7.000 autobus e 32.000 taxi) e la limitazione dei veicoli privati autorizzati a circolare nello spazio delimitato dall’Inner Ring Road (il cuore della città).

Hong Hao, direttore del Bureau of Shanghai World Expo Coordination, ha orgogliosamente descritto gli standard di Shanghai come i più alti della Cina, paragonandoli alle performance delle città europee più green. Zhang Quan, direttore dello Shanghai Environmental Protection Bureau, ha affermato che la quantità di polveri sottili inquinanti è drasticamente diminuita negli ultimi dieci anni.

 

CINAFRICA ALL’EXPO – Pur restando protagonista indiscussa dell’evento, la Cina ha voluto sfruttare l’occasione dell’Expo 2010 per dividere il palcoscenico con il continente africano, che è ormai il principale partner commerciale del colosso asiatico. Essendo questa la prima Esposizione Universale tenuta in un paese in via di sviluppo, le autorità cinesi e gli organizzatori hanno voluto coinvolgere il più possibile i paesi africani. Questi ultimi non si sono fatti sfuggire l’occasione, ben coscienti di quanto sia raro per l’Africa essere al centro di un evento economico di portata mondiale. Chen Jintian, direttore del padiglione africano, ha sottolineato come l’Africa sia il continente con il più alto numero di paesi partecipanti, e ha ricordato l’entusiasmo con cui ben 49 paesi africani (su un totale di 53) avevano reagito all’invito formale all’Expo, pronunciato dal premier cinese Wen Jiabao nell’ormai lontano 2006 (ovvero, ben prima che molti paesi europei aderissero all’iniziativa!)

Il padiglione Joint-Africa è il più grande dell’intera fiera ed è quello che ha ricevuto più finanziamenti: gli organizzatori hanno stanziato un fondo apposito di 100 milioni di dollari per aiutare i partecipanti nel processo di design e realizzazione del proprio spazio espositivo. Un simile gesto non può passare inosservato, e ribadisce quanto sia importante per la Cina costruire e mantenere ottime relazioni diplomatiche ed economiche con l’Africa.

In un certo senso l’Expo, oltre ad essere il banco di prova per la nuova Cina (più ricca e capace di un progresso ecosostenibile) sarà anche un’occasione per “Cinafrica” per approfondire un cammino di cooperazione che sembra destinato a segnare i prossimi decenni.

 

Anna Bulzomi

30 aprile 2010

Il riavvicinamento russo-polacco dopo la seconda Katyn

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Si apre una nuova era nei rapporti russo-polacchi? Dopo la strage di tre settimane fa, che ha decapitato i vertici politici della Polonia, Mosca e Varsavia sembrano essere più vicine. Motivazioni geopolitiche e ispirate dal realismo sono alla base di tali manovre diplomatiche.

Da "Lo Spazio della Politica"

Cracovia, 18 Aprile 2010. Atterra l’aereo del presidente russo Dimitri Medvedev, unico leader di un grande paese ad aver partecipato ai funerali di Stato del presidente polacco Lech Kaczynski e la moglie Maria. Medvedev è stato l’unico ad aver sfidato la nube di cenere vulcanica proveniente dall’Islanda, raggiungendo il luogo della cerimonia malgrado la chiusura dello spazio aereo polacco. Inizialmente, avrebbero dovuto partecipare ai funerali le delegazioni provenienti da 69 paesi e gli ambasciatori di altri 29, ma molti – compreso il presidente americano Barack Obama – sono stati costretti a rinunciare, rendendo ancora più forte e carica di simbolismo, la presenza del presidente della Federazione Russa.

Durante la funzione per Kaczyinski, Medvedev (nella foto in basso) ha scelto un atteggiamento molto compassato; ha voluto rispettosamente evitare un intervento commemorativo, è apparso visibilmente turbato e addolorato per il triste destino toccato all’ex-presidente polacco. Questo atteggiamento è stato ripreso dai media polacchi ed è stato recepito da gran parte della popolazione come un sincero gesto di vicinanza, volto alla riappacificazione di due popoli che per lungo tempo sono stati in contrapposizione. Nella diplomazia i simboli contano e contano molto. Katyn è stata la metafora centrale nei rapporti fra i due paesi slavi. La strage di Katyn da parte dei servizi russi fu ammessa dall’Unione Sovietica solo da Gorbacev e finora gran parte dei politici russi – pur ammettendo le responsabilità sovietiche – hanno rinunciato a scusarsi. . . Come mai, ancora oggi, la quasi totalità dell’elite russa non riesce a scusarsi per i crimini commessi durante il Stalinismo?

Katyn per la Russia, come il Patto Molotov-Ribbentrop, ricorda il ruolo ambiguo giocato dall’Unione Sovietica durante la Seconda Guerra Mondiale. Ma la “Grande Guerra Patriottica” è diventata dal 2005 in poi – soprattutto sotto la guida di Putin – il pilastro centrale della storiografia russa. In questa prospettiva, la Russia ha combattuto dalla “parte giusta”, sconfiggendo il fascismo, e liberando l’Europa. Il ricordo di Katyn disturba questa prospettiva ed attribuisce alla Russia una colpa in un contesto dove preferirebbe vedersi priva di macchie. In più il riferimento alla Grande Guerra Patriottica implica anche un approccio de facto apologetico verso Stalin.

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Qui il discorso ufficiale russo si trova in una situazione assai difficile. Da un lato ha bisogno di presentarsi come uno stato moderno e democratico (sia all’esterno ma in parte anche all’interno) che ha rotto col passato totalitario. D’altro canto propone una visione unitaria della storia russa e proietta la Seconda Guerra Mondiale come base dell’identità russa – ciò comporterebbe però anche digerire senza eccessivi scrupoli i crimini commessi da parte sovietica sotto la guida di Stalin.

L’ultimo ravvicinamento russo-polacco è intrecciato con questo dilemma russo. Inosservato dai media italiani, due giorni prima della tragedia di Kaczyinski, Putin e il premier polacco Tusk si erano incontrati, il 7 Aprile a Katyn, ufficialmente per concordare la commemorazione della “prima strage” avvenuta nella “maledetta Katyn”. Putin, riconobbe la colpa russa (pur non scusandosi esplicitamente in nome della Russia) parlando delle “menzogne ciniche” del passato e sottolineando che non ci possa essere “giustificazione per questi crimini”. In questo modo, il premier russo ha fatto un altro passo verso una moderata “Destalinizzazione conservatrice”, che mantiene i pilastri dell’identità storica della Russia ma che cerca di disfarsi delle implicazioni politiche più scomode. Per molti versi questo approccio somiglia alle politiche di Krushcev: non fu, l’Unione Sovietica a sbagliare – chi ha sbagliato è Stalin e solo Stalin.

Naturalmente il ravvicinamento non è stato solo simbolico, anzi, è fatto anche di questioni ben più materiali, come la partita sul gas e sulla politica di sicurezza. Nell’incontro del 7 Aprile, Putin e Tusk si erano –tra l’altro- incontrati per suggellare compromessi economici, e avevano raggiunto un importante accordo sulla fornitura di gas russo alla Polonia – fino al 2037 – accordo che aveva posto fine a mesi di dissapori e incomprensioni tra Mosca e Varsavia e aveva dato nuovo, inaspettato slancio alle relazioni bilaterali. Questo slancio è stato possibile anche grazie alla nuova politica estera targata Obama e alla rinuncia, da parte degli Stati Uniti, allo scudo ABM in Polonia (voluto fortemente da Kaczyinski).

Alla base del riavvicinamento dunque ci sono sia questioni economiche e politiche che simboliche. La disponibilità della televisione statale russa a mandare in onda il film del regista polacco Andrzej Wajda sulla strage “staliniana” a Katyn (prima nel canale tematico Kultura il 2 aprile e in seguito, il 20 aprile, anche sulla rete nazionale RTR) è forse l’emblema di un diverso approccio della Russia contemporanea alla storia del secolo scorso, che comunque rimane ambiguo e pieno di intrecci.

Philipp Casula e Fabio Mineo

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Bipolarismo all’italiana, l’implosione di un’idea

Il PdL si sfalda sotto i colpi di un inedito dissenso interno e il PD continua a essere impegnato in una tutt’altro che inedita ricerca della propria identità politica e sociale; nel frattempo, la Lega si rafforza e quasi dilaga, Di Pietro e Vendola sono percepiti come le uniche alternative valide al berlusconismo, l’UdC si riconferma ago della bilancia, specialmente a livello locale, e i movimenti a cinque stelle di Beppe Grillo erodono voti fondamentali alla sinistra.

MA IL BIPOLARISMO IN ITALIA STA FUNZIONANDO? – Il tentativo  di trasformare il frastagliato panorama politico/partitico italiano in un sistema bipolare iniziò in tempi ormai remoti, con la fusione tra DS e Margherita e la fondazione del PD, e già in quell’occasione fu pianto e stridor di denti; seguirono poi la scelta veltroniana di “correre da soli” e l’allineamento berlusconiano con la creazione del PdL, anche in questo caso frutto di una fusione non del tutto indolore. Gli auspici e le intenzioni, a onor del vero, erano i migliori: dopo l’ennesimo governo di coalizione caduto prima del tempo (il Prodi bis) si sentiva l’esigenza di plasmare un sistema che permettesse una maggiore governabilità, con il sistema britannico come modello neanche troppo nascosto (indimenticabile il governo-ombra di Veltroni). Ora, come mai questi bei propositi sono naufragati? Cosa ha affossato il progetto più ambizioso della politica italiana degli ultimi quindici anni?

THE ITALIAN WAY – Il problema principale sta proprio nella dinamica, ossia nel modo in cui si è scelto di introdurre nel Bel Paese una consuetudine politica aliena; i sistemi politici e le strutture partitiche, così come le leggi elettorali, non possono essere considerati solo degli schemi, delle tracce, delle regole matematiche che, se applicate nel modo giusto, modificano senza sforzi un ambiente pre-esistente. Sono, invece, il prodotto del contesto politico e sociale; una relazione, se così si può dire, di struttura e sovrastruttura, il cui ordine non si può sovvertire senza rischiare una crisi di rigetto. In Italia le spaccature, o, come dicono i professionisti, i cleavages, attorno a cui si è andata plasmando la competizione politica dal dopoguerra ad oggi, sono tali e tanti che anche solo pensare di semplificarli, di ricomporli, attraverso una rappresentanza partitica di orientamento bipolare, appare un progetto irrealistico, tanto più se tale semplificazione deve avvenire per mezzo di un’imposizione dall’alto, attraverso l’applicazione quasi forzata di un sistema ideato e disegnato da élites politiche evidentemente non in contatto con la base elettorale.

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LE CONSEGUENZE – La tentata introduzione del sistema bipolare in Italia ha causato, dunque, proprio una crisi di rigetto. In un paese come il nostro, i cui abitanti, come diceva Gaber, sono storicamente “troppo appassionati di ogni discussione”, e in cui il campanilismo è spesso assunto a stile di vita, ha portato gli elettori italiani a non sentirsi rappresentati, a non riconoscersi più nel sistema partitico che dovrebbe rappresentarli. La disillusione nei confronti dei singoli partiti, dunque, che in termini pratici si traduce in una costante emorragia di voti (discorso che vale tanto per il PD quanto per il PdL) e in una crescita esponenziale dell’astensione, è in un certo qual modo un effetto della distanza tra la struttura politico-partitica e l’elettorato. I problemi scaturiscono anche dalle declinazioni del concetto di bipolarismo che hanno prodotto i due principali partiti Italiani, che di questo inedito sistema sarebbero dovuti essere i protagonisti assoluti. A destra, la corsa verso il bipolarismo ha prodotto un partito che basa la sua stessa esistenza sul cesarismo mediatico e sul carisma del leader, in cui il dissenso interno, come si è visto, è considerato come una metastasi, come qualcosa da asportare; a sinistra, si è assistito a una fusione che, oltre ad aver lasciato scontenti molti militanti, non ha portato alla creazione di un partito unito, ma alla coabitazione sotto il medesimo tetto tra due anime differenti ed insofferenti, che non sembrano in grado di restare nel solco delle tradizioni a cui fanno capo, quella democratico-cristiana e quella socialista-comunista, specie per quanto riguarda il radicamento nel territorio e l’individuazione di una proposta politica organica e autonoma. Tanto il PdL quanto il PD, inoltre, sono dipendenti da alleati politicamente e numericamente fondamentali (la Lega da una parte e l’IdV dall’altra), che sono in una posizione tale da condizionarne la linea e il comportamento.

IL BUON GOVERNO – Se poi si guarda all’obiettivo principale di questo ambizioso progetto politico, ossia la maggiore governabilità, si deve registrare un altro fallimento: la governabilità, infatti, non si esaurisce nel completare i cinque anni di legislatura senza crisi interne, ma significa soprattutto (cosa ben più complicata) creare un clima stabile perché si faccia politica in maniera seria, realizzando le riforme necessarie e facendo lavorare le Camere, senza che l’attività di governo venga minacciata da crisi, giochi di potere, ed antipatie. Sta accadendo questo, ora, in Italia? Evidentemente no. L’attuale governo Berlusconi è più impegnato a negoziare le riforme con la Lega e, d’ora in poi, a evitare i bastoni tra le ruote dei Finiani, piuttosto che a proporre politiche utili per il Paese. E la situazione, nel caso in cui il PD vincesse le elezioni, non cambierebbe, col partito impegnato a mettere d’accordo le sue mille anime e, allo stesso tempo, a concordare la linea con gli indispensabili alleati dell’IdV ed, eventualmente, dell’UdC.

COSA FARE, DUNQUE? – I militanti, a sinistra soprattutto, ma anche a destra, rumoreggiano contro un sistema partitico in cui non si riconoscono più; gli elettori puniscono i partiti che hanno dato il via a questo tormentato processo attraverso il voto, astenendosi o dando fiducia a partiti e progetti diametralmente opposti alla vocazione maggioritaria del PD e del PdL (basti pensare alle conquiste della Lega al nord, o al successo del “metodo Vendola” in Puglia). All’interno dei partiti stessi le voci dissonanti sono in aumento: Mussi esorta i suoi ex compagni di partito a riconsiderare le loro decisioni dalle colonne dell’Unità, Fini dà il colpo di grazia al PdL rifacendosi alla morale e alle posizioni dell’ormai sepolta Alleanza Nazionale, Vendola vince facendo politica in maniera antitetica rispetto al PD, mentre Prodi da parte sua spinge per un partito a direzione federale. Il rischio, nel caso in cui i partiti continuino ad appiattirsi sul mantra del bipolarismo, è che ci si allontani ancora di più dall’obiettivo originario, quella governabilità oggi minacciata da lotte intestine, astensionismo e derive populiste.

Lorenzo Piras

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