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Il cancro e le sue metastasi


Non è più solo la figura di Bin Laden a rappresentare oggi l’immagine dell’organizzazione terroristica più famosa e temuta del mondo. Non è più solo il turbante del miliardario saudita a turbare i sonni dei servizi d’intelligence mondiali. Sono ormai tantissimi i Bin Laden in erba pronti a colpire in ogni parte del mondo, a seminare terrore e spargere sangue.

DOV’E’ OSAMA? – Alcuni si chiedono se oggi al-Qaeda sia più forte oggi rispetto al 2001. Altri si domandano, giustamente, che fine abbia fatto il fantomatico Osama Bin Laden. Forse però non vale la pena di rispondere a nessuna delle due domande per comprendere cosa sia e cosa voglia al-Qaeda oggi. Quella che era un’organizzazione relativamente semplice ed almeno teoricamente riconducibile ad uno o due scenari nazionali, nel corso degli anni ha completamente mutato forma nonché sostanza. Ammesso e non concesso che al-Qaeda sia realmente esistita nelle forme e nei tempi che ci sono stati presentati, oggi appare esser comunque divenuta tutt’altro di ciò che era. O che hanno voluto farci credere che fosse.

Se prima era un cancro estirpabile con la cattura di Bin Laden o con l’uccisione dei suoi luogotenenti, nel 2010 ci si trova ad affrontare le metastasi di quel cancro che sembrano essersi diffuse in gran parte dei paesi medio orientali e non solo. Oggi al-Qaeda è divenuta una sorta di marchio di fabbrica, una sigla a cui i più disparati gruppi fanno riferimento. Una sigla che racchiude in se anime diverse che perseguono obiettivi eterogenei e che soprattutto operano in nazioni differenti. Ci troviamo di fronte ad un’organizzazione con un tronco centrale decisamente infiacchito ma che può contare su rami forti e sostanzialmente ormai indipendenti dall’origine di partenza. Proviamo a spiegarci meglio. 

 

LE ULTIME DIMOSTRAZIONI – Il 26 aprile un uomo bomba si è lasciato esplodere nel tentativo di assassinare l’ambasciatore britannico in Yemen, Timothy Torlot. Il 22 aprile un turista francese è stato rapito in Niger da un gruppo armato denominato al-Qaeda nel Maghreb Islamico e capeggiato da un tuareg. Nemmeno una settimana prima i coniugi Cicala avevano ritrovato la libertà dopo 4 mesi nelle mani di uomini che si professavano seguaci di Bin Laden in Mauritania. Il 13 aprile almeno 15 persone sono rimaste uccise in due attentati compiuti da miliziani vicini ad al Qaeda nel sud delle Filippine.

In Iraq si è ormai perso il conto dei morti provocati dalle milizie sunnite vicine che provano a far sprofondare il paese nel caos più totale. Il 23 aprile due autobomba sono esplose nei pressi di Sadr City, quartiere a maggioranza sciita, uccidendo 39 persone e causando 45 feriti. Il giorno successivo Baghdad è stata scossa da 13 esplosioni che hanno causato circa 60 vittime e quasi 200 feriti. Tutto questo nonostante la settimana prima gli Usa avessero trionfalisticamente comunicato di aver ucciso i due leader di al-Qaeda in Iraq: Abu Ayyub al-Masri e Abu Omar al-Baghdadi. In quest’ottica sembra quasi di essere di fronte ad una mitologica idra con decine di teste che si duplicano ogni volta che ne viene tagliata una.

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UNA LOTTA SEMPRE PIU’ DURA – Ed allora, per tornare alla domanda di prima: a quasi dieci anni dall’11 settembre 2001 al Qaeda è più o meno forte di prima? Sicuramente la sua ramificazione a livello internazionale è indice di un consenso che va radicandosi nelle più disparate aree: un consenso crescente in vari angoli del mondo. Parimenti la diversificazione di piccole cellule che operano praticamente a livello nazionale, se non in alcuni casi addirittura regionale, dimostra come il ruolo di Bin Laden sia ormai secondario visto che la maggior parte di queste cellule vivono, molto presumibilmente, una vita indipendente dalla casa madre. Per questo motivo combattere oggi al Qaeda diviene forse più difficile: più scenari su cui agire, più forze da mettere in campo, molti più stati da coinvolgere nella “guerra al terrore” e conseguentemente decisamente più città da monitorare in previsione di possibili attentati. Chi pensava che l’invasione dell’Afghanistan  avrebbe rappresentato da sola la panacea per ogni male si è sbagliato di grosso.

 

Marco Di Donato

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Educazione siberiana

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 Seconda puntata con la nostra rubrica letteraria Il mondo dei mondi. In questa rubrica trattiamo di mondi “diversi”, con il filo conduttore del tema della migrazione. Una rubrica che ci aprirà gli occhi sull'”Altro” e ci darà nuovi punti di vista. La seconda opera recensita è ambientata nella Transnistria, territorio emblema della disgregazione etnica, sociale e politica seguita alla caduta dell'Unione Sovietica.

Bender, Transnistria, una regione dell’ex URSS collocata nell’attuale Moldavia, ai confini con l’Ucraina, proclamatasi indipendente ma tuttora non riconosciuta dalla comunità internazionale. Qui vivono gli Urka, i “briganti della Taiga”, i “criminali onesti”, da quando negli anni ’20 del Novecento Josif Stalin e il comunismo sovietico ve li deportarono. La vita non la godono, non la soffrono, ma la combattono, come recita l’esergo in apertura d’opera, secondo un preciso modus vivendi. Tutto fa pensare a un’epopea dal respiro quasi medievale, per la distanza e l’ignoranza che l’ovest Europa coltiva nei confronti di un mondo scomparso e per decenni combattuto. Non fosse per il nome dell’autore: lo stesso del protagonista narrante delle pagine, che palesa da subito il sottotesto non-fiction del libro. Nicolai Lilin è nato lì, nel 1980. Ci accoglie nel suo Mondo immergendo la testa in un bidone pieno d’acqua, mentre sta combattendo insieme a un plotone che scopriremo alla fine essere un’unità di sabotatori impegnati nella guerra che il regime democratico sovietico conduce contro la Cecenia. Comincia dalla fine Nicolai, anche se “sa che non andrebbe fatto”, da quando vede “ballare sull’acqua il riflesso della sua faccia e della sua vita fino a quel momento”. Con “Educazione siberiana”- didascalia che all’origine il modo identifica i ragazzi del suo quartiere, quello di Fiume Basso, da tutti gli altri, per via della fedeltà dei siberiani alle tradizioni criminali e per il loro spirito conservatore- rievoca la sua storia. La narrazione perfettamente orchestrata della sua crescita; della comunità che lo ha educato a seguire un preciso codice comportamentale, scandito da formalismi e da principi morali superiori ai propri bisogni; di tradizioni rievocate continuamente dalle incantevoli figure degli anziani. E di atti criminali. Un preciso rituale precede al loro rapporto con le armi, per cui Kolima -questo il soprannome del bambino Nicolai– nutre un’incredibile e normalissima attrazione. Pistole protette da sacre icone –gli urka sono religiosissimi cristiani ortodossi-, quelle che puoi usare per compiere crimini e mai in casa tua. E coltelli, primo tra tutti la picca, la storica arma dei criminali siberiani che “si deve meritare da un criminale adulto, purchè non sia un parente(…) che ha poteri magici:moltissimi(…) Possederne una significa essere premiati dagli adulti, avere qualcosa che ti lega per sempre al loro mondo”. Che nessuno riceve di solito prima dei dodici-tredici anni, ma che a Kolima viene data a sei. Ed è la sua picca che sembra intagliare la narrazione;che ci intarsia antiche leggende e favole siberiane, digressioni che preparano agli eventi; incide i profili dei vari personaggi che Kolima incontra, che ama e stima e le loro storie personali.

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Disegni che sembrano preludere a quelli incisi sulla pelle, i tatuaggi con cui ogni Urka imprime se stesso sul corpo:”Quando li guardavi non ti sembrava di vedere un corpo con sopra un tatuaggio, ma era il tatuaggio stesso a essere una cosa viva, con sotto un corpo”. Il tatuaggio siberiano si “soffre”, nel senso che dietro c’è un particolare significato e una vita difficile. Per Kolima, introdotto all’unica attività non criminale ammessa per la sua Famiglia nella prima adolescenza, un corpo senza tatuaggi è “fuori dal mio modo di comprendere la vita”. L’adolescenza scorre tra giornate di pesca al fiume e pomeriggi nella foresta con gli amici (indimenticabile il ritratto di Mel); in incessanti dialoghi con i “nonni” siberiani- su tutti il “maestro” di Kolima, nonno Kuzja- che gli inculcano il loro modo di capire il mondo. Un universo, quello criminale, in cui “il diritto alla parola ce l’avevano tutti, anche le donne, i minorenni, i disabili”, che sono i “Voluti da Dio”:indimenticabile Boris il macchinista, rimasto mentalmente all’età di sei anni, vittima della guerra del 1992, condotta tra la Russia e la Moldavia per il possesso della Transnistria stessa. “Bisognava rispettare tutti gli esseri viventi, categoria in cui non rientravano i poliziotti, la gente legata al governo, i bancari, gli usurai e tutti coloro che avevano tra le mani il potere del denaro e sfruttavano le persone semplici”. Il contesto storico dell’Unione sovietica e della successiva Russia democratica affiora tra i caratteri stampati, ma non prorompe. Perché Lilin racconta e non denuncia- a differenza di Roberto Saviano, la cui recensione su “Repubblica” lo ha lasciato scoprire al grande pubblico, che ancora tende a confonderli come figure intellettuali. Il contrasto tra un codice etico che difende le minoranze e i metodi della polizia e dei militari sovietici lascia intendere il punto di vista dell’Altro, senza porlo come assioma. Lascia capire come la lotta per la libertà di un gruppo emarginato sia superiore all’uniformazione comunista e al particolarismo feticista statunitense, senza nessuna presa di posizione e con la volontà, anzi, di far fuggire un’eventuale scelta tra le conifere dei boschi siberiani. Al termine di questa incredibile storia picaresca, dell’epopea che potremmo definire dickensiana (autore non a caso citato dallo stesso Nicolai, che ha coltivato colte letture nel suo cammino), di scelte inspiegabili a noi che viviamo fuori, ci accorgiamo che l’orrore insostenibile si annida in quelle pagine dove in scena non ci sono gli Urka, ma i loro “nemici”: formidabili quelle ambientate nel carcere minorile, tappa imprescindibile per qualsiasi siberiano. Eppure gli Urka non esistono più. L’ultimo scorcio che vediamo è la loro disgregazione sotto i colpi della postdemocrazia russa e del capitalismo selvaggio, oltre a quelli della lotta interna che vedrà i giovani scagliarsi contro i vecchi criminali e, con la tradizione cancellata, cancellare la stessa comunità. L’epilogo di ogni storia è fornito dal giovane Nicolai, che si appresta a iniziare una nuova vita, senza sapere che lo aspetta una “Caduta libera”, meccanismo innescato dalla chiamata al servizio militare e conclusosi con due anni da cecchino in Cecenia. Letta l’ultima pagina l’identificazione è tale che sembro riemergere dal bidone d’acqua fredda e guardarmi riflessa in questa grande Famiglia che ora conosco nel dettaglio. E’ un’identificazione che lo stesso Lilin ha voluto, perché ha scelto di scrivere nella mia lingua, usandola come solo chi se ne impossessa per amalgama sa fare: parole aspre, secche, talvolta recalcitranti nel tradurre concetti e tradizioni della Transnistria. Una scrittura che scivola senza orpelli barocchi e che scolpisce figure nitide e groppi in gola reali. Attrae, rapisce e ti riconsegna al tuo sociale in una veste quasi purificata dal contrasto che sorge non con il crimine “epico”, ma con il disprezzo per le diverse Alterità triplicato dall’incrociarsi degli sguardi: il tuo, quello della società civile, quello di Kolima. ”Non riuscivo a capire i meccanismi che mandavano avanti il mondo normale, dove le persone alla fine rimanevano divise, senza avere niente in comune”:lo scrive Nicolai al termine della sua scrittura, lo penso io che ho beneficiato del suo Mondo. E non posso non pensare, soprattutto dopo aver letto la storia di Ksiusa: “più vado avanti più mi convinco che la giustizia è sbagliata come concetto, almeno quella umana”.

Saùda De Volta

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Sudan: i risultati delle urne

L’attesa è finita. Lunedì 26 aprile sono stati resi ufficiali i risultati delle elezioni che si sono svolte dall’11 al 15 aprile scorso. Come previsto, Omar El-Bashir ha ottenuto una pesante vittoria, raccogliendo il 68% delle preferenze. Il giudizio sul risultato elettorale rimane al momento sospeso, sebbene l'alta partecipazione popolare rappresenti un elemento di grande importanza.

Da Khartoum, Sudan

Oltre alla vittoria netta di El-Bashir (in foto) sono da evidenziare altri risultati rilevanti.

Anche il leader della regione semi-autonoma del Sud Sudan, Salva Kiir, presidente dal 2005, dopo la scomparsa del carismatico John Garang, è stato riconfermato, grazie ad un consenso ancora più marcato: 93% dei voti. C’è poi da registrare il 22% raccolto alle presidenziali dal Movimento Popolare per la Liberazione del Sudan, nonostante il ritiro a pochi giorni dal voto del candidato Yasir Arman, deciso a boicottare le elezioni a causa di irregolarità.

Al momento non sono disponibili i risultati riguardanti i governatori dei 25 stati, né quelli delle assemblee parlamentari.

Luci e ombre. In questi 11 giorni i commenti degli osservatori internazionali si sono rivelati contrastanti: l’ex presidente USA Jimmy Carter, in qualità di rappresentante dell’omonima fondazione, impegnata nella promozione nei diritti umani, aveva in un primo momento valutato positivamente l’andamento delle consultazioni, per poi ricredersi e affermare, congiuntamente alla delegazione di osservatori dell’Unione Europea, che gli standard internazionali non sono stati rispettati.

Un video, circolato su Youtube e sulla BBC (vedi Un Chicco in più), mostrava un uomo, all’interno di un seggio, impegnato nel riempire frettolosamente alcune schede elettorali, mentre altri le infilavano nelle urne (foto sotto). Questo, e altri episodi, hanno reso le prime elezioni multipartitiche del Sudan un evento non certamente caratterizzato dalla correttezza e dalla trasparenza. Diventa quindi un caso l’impossibilità di accedere, in quasi tutto il territorio sudanese, al sito di Youtube, da più di tre giorni.

Si è parlato, inoltre, della possibilità di ripetere le elezioni negli stati dove si sono registrati i maggiori disagi: ritardi nell’apertura dei seggi, mancanza di materiale e totale disinformazione. Finora, tali voci non hanno trovato conferme ufficiali.

Gli undici giorni di attesa, tra la fine delle consultazioni e la dichiarazione dei risultati, sono stati anche teatro di violenze in diverse zone del paese. Appena concluse le elezioni, il partito di governo, il National Congress Party, ha denunciato l’uccisione di 9 dei suoi membri da parte dell’esercito del Sud, mentre sono giunte notizie di gravi scontri avvenuti al confine del paese, tra l’esercito del Sud e le tribù arabe del nord, in cui sono rimaste uccise 58 persone.

Inoltre, subito dopo la presentazione dei risultati, è cresciuta la tensione nel Sudan meridionale. A Juba, le tribù in conflitto, Mundari e Bari, hanno dato vita a violenti scontri, accusandosi reciprocamente di brogli.

Il coordinatore degli aiuti umanitari delle Nazioni Unite ha denunciato il fatto che nella regione montuosa del Jebel Marra, in Darfur, gli atti violenti di questi giorni hanno impedito il normale svolgimento delle operazioni, privando l’accesso alle risorse di prima necessità a circa 100.000 persone.

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Da valutare in senso positivo la percentuale dei votanti: il 60% degli aventi diritto. Per molti sudanesi si è trattato del primo (e unico) esercizio democratico, in una nazione profondamente divisa, segnata da guerre civili, minacciata costantemente dalle carestie e isolata, per un lungo periodo, dalla comunità internazione.

Referendum a gennaio per l’autodeterminazione e pace in Darfur: sono stati questi i temi toccati dal presidente El-Bashir, intervistato poco dopo la proclamazione dei risultati. Sembrerebbe un’assunzione di responsabilità importante verso regioni e popoli in aperto contrasto con il potere centrale e islamista rappresentato dal neo-eletto presidente.

Darfur. L’incontro tra El-Bashir e il presidente del Chad, Idriss Deby, dello scorso febbraio, ha colto di sorpresa gli osservatori politici della regione. I due leader si sono trovati a Khartoum per dimostrare, alla comunità internazionale (e al rispettivo elettorato) la loro intenzione di porre fine alle controverse vicende in Darfur, dove le due parti sostengono le diverse fazioni di ribelli, violando i confini altrui. In questo senso è chiara l’intenzione del governo sudanese di impegnarsi per una reale stabilità nella stessa regione in cui le forze filo-governative sono state accusate di aver ucciso circa 300.000 persone. I recenti accordi di pace di Doha, nonostante le varie difficoltà, confermano questa ipotesi.

Sud Sudan. Nel Sud si guarda con grande speranza al referendum del gennaio 2011. Non saranno mesi facili, ma caratterizzati, come negli ultimi anni, da povertà, divisioni tribali, corruzione e rotture interne al Movimento Popolare di Liberazione del Sudan, forte ora del successo elettorale. Lo scenario non è certamente confortante, sarà necessaria una reale presa di coscienza della situazione da parte dei leader e della gente, gli abitanti del Sud Sudan, ma anche delle migliaia di profughi interni costretti a vivere nelle periferie del nord, se si vorrà realizzare il sogno di un Sud Sudan libero e indipendente. Il riscatto politico e sociale passa anche da qui.

Mirko Tricoli

Khartoum

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Raschiare il fondo del barile

La Nigeria e il petrolio: un caso perfetto che dimostra come, senza una strategia adeguata, lo sfruttamento delle risorse energetiche possa sfociare in un clamoroso fallimento, rendendo vano qualsiasi tentativo di sviluppo e diversificazione dell'economia. Il ruolo della guerriglia, e i tentativi di riforma in atto

GREAT GAME, GREAT FLOP - Il Grande Gioco energetico aperto dal nuovo interesse per le risorse dell’Africa, e l’entrata in scena di nuovi competitori asiatici e brasiliani in possesso di vasti capitali da investire, avevano generato grandi speranze - in particolare con la politica di oil for infrastructure (la concessione di licenze estrattive variamente legata a investimenti infrastrutturali a condizioni favorevoli) – nei confronti di una nuova via per lo sviluppo e la diversificazione dell’economia dei Paesi produttori africani (e, in prospettiva, dell’intero continente). Eppure solo alcuni di essi hanno saputo intercettare i vantaggi di questa corsa all’energia fossile, in termini di maggior potere contrattuale e più efficaci politiche di sviluppo.

La vicenda nigeriana in questo senso è particolarmente tormentata, un fallimento perfetto: si apre nel 2005 con il secondo round di aste petrolifere indetto dal presidente Obasanjo (il primo, nel 2000, era andato completamente deserto dalle compagnie asiatiche), con le licenze assegnate ai Coreani, e si chiude nell’ottobre 2008 con la richiesta da parte dell’Ad Hoc Committee - la commissione d’inchiesta parlamentare sulla gestione dell’azienda petrolifera di stato (NNPC), voluta dal nuovo presidente - di revocare le licenze assegnate alle compagnie asiatiche. Nel mezzo c’è il vuoto: anche le licenze della tornata 2007 si sono risolte in un nulla di fatto. I progetti infrastrutturali nel trasporto ferroviario, la rete elettrica, la raffinazione, sono stati revocati, o comunque non sono mai stati avviati.

LE CAUSE DEL FALLIMENTO - La visione del presidente Obasanjo è insieme opaca e di alto profilo, con notevoli annessi geopolitici. Da un lato, si vuole mettere in competizione le Ioc (le compagnie petrolifere internazionali, un tempo dette “le sette sorelle”) con le nuove agguerrite compagnie asiatiche, abbattendone lo storico monopolio per ricavare il massimo dallo sfruttamento delle risorse energetiche, con investimenti infrastrutturali in grado di innescare diversificazione dell’economia e sviluppo autonomo. Dall'altro lato, si punta a controllare un flusso di risorse finanziarie tali da sostenere la campagna per la riforma costituzionale (rieleggibilità anche oltre il secondo mandato) e la stessa rielezione alla presidenza. Nella trattativa rientra anche la partita per la riforma del Consiglio di Sicurezza Onu. La Nigeria ha infatti appoggiato la richiesta dell’India per un seggio permanente, e si aspetta pertanto un sostegno alle proprie rivendicazioni; nel frattempo, è sempre attuale il tentativo di costituire un fronte amico con le potenze dell'Asia Orientale.

Le cause del naufragio sono assai diverse, e non tutte imputabili alla parte nigeriana. Gli accordi strategici per lo sviluppo di infrastrutture sono minati da vari fattori: piani di finanziamento approssimativi; termini contrattuali estremamente vaghi e/o laschi; carenza totale di meccanismi di monitoraggio e coattivi per l’esecuzione; burocrazia locale caotica, corrotta, labirintica; costi previsti ampiamente fuori mercato (a favore dei contraenti asiatici). In pratica, i termini contrattuali erano tali che spesso agli investitori orientali non si poteva imputare alcuna inadempienza, essendo essi tenuti ad avviare i progetti solo in una fase molto avanzata dello sfruttamento dei giacimenti.

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IL RUOLO DELLA GUERRIGLIA - Il bilancio è dunque rovinoso, e alla fine del ciclo non solo non è stato realizzato alcun progetto di investimento, ma le riserve note del Paese non sono aumentate di un solo barile. La produzione petrolifera rimane stagnante e si trova molto al di sotto del suo potenziale (mentre diverso è il caso del gas), mentre la posizione dominante delle Compagnie Internazionali storiche rimane intatta. Oltre a tali considerazioni, al bilancio del decennio perduto si deve aggiungere un ulteriore forte deterioramento del territorio e delle condizioni di vita nelle regioni ad alto sfruttamento petrolifero, a causa dell'inquinamento. E soprattutto, occorre segnalare lo sviluppo di una forte guerriglia di disturbo alle società petrolifere nel delta del Niger (in particolare il Mend, che ha aperto trattative con il governo nello scorso autunno, fino ad arrivare alla proclamazione di una tregua, purtroppo interrotta con le azioni di metà marzo). Le conseguenze di tale guerriglia sono decisamente rilevanti: incrementano significativamente i costi dell’upstream (esplorazione, sviluppo, estrazione), deteriorano ulteriormente la posizione del governo nelle trattative con le compagnie stesse, e gettano un’ombra di incertezza su altri grandi progetti energetici che dovrebbero interessare la regione.

In ultima analisi, il fallimento viene da una profonda incapacità gestionale, insita nella carente burocrazia e nella inconsistenza industriale della compagnia petrolifera nazionale, ma anche dall’opacità stessa del progetto, che - oltre a dover finanziare le campagne personali del presidente - incorporava le molteplici pretese dei vari clientes e vassalli presidenziali, ciascuno rappresentato da una piccola società petrolifera di facciata pronta a partecipare alla spartizione.

VERSO UNA RIFORMA - Pur in una tale situazione, i giochi sono tutt’altro che chiusi. Le risorse energetiche del Paese sono troppo vaste, e la sete dell’industria asiatica è troppo intensa perché le compagnie cinesi e indiane non tornino a mostrare interesse per le concessioni. Così, la nuova amministrazione lavora a una riforma complessiva del settore (con il Petroleum Industry Bill), che riequilibri i rapporti tra governo e società petrolifere e ristrutturi l’azienda petrolifera nazionale, per aumentarne efficienza e capacità industriali e farne un’agenzia tecnocratica capace di migliorare il controllo nazionale sulle risorse, come avviene ad esempio per Petrobras in Brasile, per Sonangol in Angola e per Sonatrach in Algeria. In tutto questo, oltre alla selva di società-parassite create per lucrare sui contratti con le compagnìe internazionali, e al carrozzone statale del NNPC, nel panorama estrattivo nigeriano, c’è anche posto per la success story di Oando, società indipendente e progressivamente integrata dall’upstream al downstream (raffinazione e distribuzione), capace di aggiudicarsi contratti anche all’estero, e in buona posizione per trarre vantaggio dal Petroleum Industry Bill.

Andrea Caternolo [email protected]

Link utili: leggi qui l'articolo del Caffè “Rinascimento petrolifero”, sul tema della ricerca di risorse energetiche nel continente africano

Che fai, mi cacci?

L’Europa non sembra ancora trovare accordo sulle misure da adottare nei confronti della Grecia, in relazione alla sua grave crisi economica. La Germania si mostra dura, e la strada per la soluzione del problema si complica. Le situazioni di crisi segnano però questa settimana: dal Kirghizistan al Venezuela, passando per la Thailandia e per le delicate elezioni in Sudan.

Non sembrano appianarsi le divergenze sulle modalità di aiuto da parte dell’Unione Europea alla Grecia. Nelle scorse settimane i Paesi dell’Eurozona sembravano aver trovato accordo su diverse possibili soluzioni, che avrebbero consentito alla Grecia di avvalersi di cospicue agevolazioni economiche a spese degli altri Paesi Membri. La Germania però sembra adesso tornare su posizioni più intransigenti, accennando addirittura ad una possibile uscita della Grecia dalla moneta unica. Sebbene tale ipotesi sia estremamente remota, questa settimana potrebbe comunque essere fondamentale nel delineare i contorni di una trattativa che procede troppo lentamente rispetto alle necessità. Sarà anzitutto importante osservare se si riuscirà ad individuare soluzioni politiche, che potranno forse contribuire a definire meglio una leadership all’interno dell’Europa.

La crisi politica in Kirghizistan comincia a preoccupare i Paesi vicini, su tutti Uzbekistan e Kazakhstan che guardano con preoccupazione alle precarie condizioni di sicurezza del turbolento vicino. Intanto la Russia si muove con circospezione e, dopo gli accordi più o meno conclusi con la nuova leadership kirgiza, sarà importante capire se Mosca cercherà di adottare una strategia ampia per “riconquistare” il Paese o se continuerà ad adottare soluzioni opportunistiche e di attesa, soprattutto con riguardo al “gioco” con gli Americani per accrescere l’influenza sull’area.

Il Venezuela è duramente colpito da una crisi degli approvvigionamenti di energia elettrica: oramai da mesi Chavez si trova ad affrontare una situazione per la quale non sembra avere soluzioni efficaci. Sebbene la leadership del Presidente non sia in discussione, le serie difficoltà economiche causate dal problema energetico rischiano di rendere gli equilibri interni meno stabili.

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 Altri spunti della settimana.

  • Omar al-Bashir è stato dichiarato vincitore delle elezioni in Sudan: nel sud del Paese sono però in corso delle violenze e, qualora i risultati dovessero essere contestati, il Sudan potrebbe trovarsi in una nuova spirale di violenza interna.

  • Vladimir Putin in visita in Austria ed in Italia dove incontrerà il Premier Silvio Berlusconi presso la sua nuova villa a Lesmo, in un incontro a metà tra l'ufficiale ed il privato che potrebbe scatenare ancora polemiche tra le parti politiche italiane.

  • Possibili tensioni in Ucraina, dove è sorta una forte contrapposizione politica rispetto alla ratifica degli accordi con la Russia per la permanenza della flotta russa nel Mar Nero.

  • In Thailandia non si placano le proteste delle “Camicie Rosse”: poichè nessun accordo tra le parti pare essere in vista, l'esercito, sinora cauto nell'affrontare le folle, potrebbe intervenire per disperdere i manifestanti che oramai paralizzano il Paese. Intanto la Corte Costituzionale sarà chiamata a deliberare sulla legittimità dello scioglimento del Partito Democratico da parte della Commissione Elettorale. Anche questa decisione inciderà sulla crisi attuale.

  • Inizia l'1 maggio il World Expo di Shanghai, Cina.

 

La Redazione

 

26 Aprile 2010

Amichevole conclusione dei problemi di vicinato

Come era facile aspettarsi, in seguito alle recenti elezioni presidenziali che hanno visto trionfare il candidato filorusso Yanukovich, Ucraina e Russia hanno trovato una soluzione alle questioni che agitavano i rapporti tra i due paesi.

Con una visita nella città dell’est ucraina Kharkiv, a soli 3 mesi dal cambio della leadership a Kiev, il presidente russo Medvedev ha siglato mercoledì 21 aprile col suo omologo ucraino un accordo sul prezzo del gas e sul rinnovo dell’affitto della base navale della flotta russa del Mar Nero a Sebastopoli.

L’ACCORDO – Con i nuovi interlocutori di Kiev, Mosca ha sistemato in una mossa sola i due spinosi casi: Kiev avrà un prezzo del gas scontato del 30%, mentre le navi da guerra russe potranno restare alla fonda in Crimea per altri 25 anni. La natura dell’accordo raggiunto sembrerebbe confermare come Mosca intenda utilizzare le enormi riserve di gas come l’arma decisiva della propria politica estera, più che come semplice risorsa economica. Medvedev ha infatti espresso esplicitamente come lo sconto sul prezzo sia da intendersi come “parte del pagamento per il rinnovo della base navale”. Un prezzo concordato quindi non su basi commerciali, ma in base a necessità prettamente politiche. L’opposizione in Ucraina ha gridato allo scandalo e accusato Yanukovich di svendere la sovranità del paese, in cambio del gas russo.

La questione del gas e della base navale sono state al centro della campagna elettorale. Il presidente eletto non ha mai fatto mistero della sua posizione sui due temi, come più in generale sui rapporti con Mosca. La maggioranza degli Ucraini (per quanto relativa: Yanukovich ha vinto con il 48% circa dei voti, contro il 45% della candidata dell’opposizione Tymoshenko, confermando la spaccatura del paese tra est e ovest) ha scelto quindi esplicitamente questo tipo di soluzione.

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IL RETROSCENA – Bisogna aggiungere che l’Ucraina si trova in una situazione economica assai precaria: solo un prestito del Fondo Monetario ha salvato il paese dalla bancarotta nello scorso autunno. Lo sconto di Mosca rappresenta così una notevole boccata d’ossigeno (sarebbe meglio dire di gas) per le esauste finanze ucraine. Risulta altresì molto importante dal punto di vista economico per Kiev il cambiamento dell’atteggiamento di Gazprom, che da gennaio ha ripreso a comportarsi amichevolmente e contemporaneamente a consolidare le sue posizioni nel paese, stringendo importanti accordi per l’acquisto di quote nel mercato energetico ucraino.

Oggettivamente una presenza militare così importante costituisce un segno del potere e dell’influenza di Mosca nella regione.

L’Europa d’altronde sembra abbastanza indifferente alle sorti politiche dell’Ucraina e appare unicamente preoccupata di mantenere rapporti amichevoli con il fornitore di energia di Mosca e di avere sicurezza sulle vie energetiche che attraverso le pianure ucraine portano il gas russo ai fornelli delle case dell’Europa continentale. L’alternativa alla partnership con Mosca è al momento particolarmente debole anche in considerazione del fatto che l’amministrazione Usa attuale, a differenza di quella di Bush che aveva supportato apertamente le cosiddette “rivoluzioni colorate”, è concentrata su altri scenari geopolitici e interessata a recuperare il dialogo con Mosca.

Jacopo Marazia

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Il segreto dei suoi occhi

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È stato la rivelazione dell’ultima notte degli Oscar: il film argentino ha infatti vinto la statuetta come miglior film straniero. Una storia avvincente, a metà strada tra vari generi cinematografici, ai quali fa da sfondo il periodo della dittatura militare argentina

PIU’ FILM IN UNO – Un po’commedia, un po’thriller, e anche un po’sentimentale. Diversi generi cinematografici si intrecciano in “El secreto de sus ojos”, pellicola argentina che si è imposta come rivelazione del 2010 per aver trionfato all’ultima edizione degli Oscar vincendo la categoria riservata ai film stranieri. Un premio meritato quanto inatteso, che apre però una breccia su una realtà poco conosciuta dell’America Latina, ovvero quella del cinema, capace di raggiungere altissimi livelli anche a livello internazionale.

La trama del film sembra abbastanza semplice: un assistente pubblico ministero in pensione, interpretato da Ricardo Darín (uno dei più famosi attori argentini), decide di riprendere individualmente le indagini sull’omicidio di una ragazza avvenuto trent’anni prima. L’assassino della donna, arrestato in collaborazione con una collega di cui è da sempre innamorato (Soledad Villamil), venne infatti liberato dopo poco tempo e assoldato negli squadroni che si occupavano di arrestare i perseguitati politici durante il buio periodo della dittatura militare (foto a destra).

Il protagonista chiede aiuto alla collega, con la quale ha anche un riavvicinamento personale, e ripercorre l’intera storia di trent’anni prima per cercare finalmente di giungere alla verità e scoprire che fine abbia fatto, a distanza di tanto tempo, il colpevole di quel terribile delitto.

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L’ARGENTINA SULLO SFONDO – “El secreto de sus ojos” (che in Italia uscirà nelle sale solo a partire dal prossimo 4 giugno) è prima di tutto un ottimo noir, girato in maniera esemplare dal regista Juan José Campanella e interpretato con grande intensità dai protagonisti, davvero bravi nel conferire intensità ai personaggi. L’abilità del regista sta però anche nel parlare della storia argentina senza praticamente mai nominarla, ma lasciandola sullo sfondo (l’unico richiamo esplicito è la scena in cui alla televisione viene mostrata la destituzione di Isabelita Perón, Presidente per un breve arco di tempo dopo la morte del marito Domingo). Uno sfondo terribile, che è quello della dittatura della Giunta Militare guidata da Jorge Videla e che caratterizzò l’Argentina dal 1976 al 1983, con pagine tristemente famose come quella dei desaparecidos, i prigionieri politici arrestati e uccisi senza lasciare traccia. Il film è dunque anche un’interessante occasione di riflessione sulla storia e sulla società argentina, anche in relazione al funzionamento del suo sistema giudiziario.

Insomma, in due ore non c’è veramente modo di annoiarsi. E c’è pure un finale a sorpresa…

 

Davide Tentori

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Il clima difeso dai popoli

A Cochabamba, in Bolivia, si è svolta la Conferencia Mundial de los Pueblos sobre el cambio climático y los derechos de la Madre Tierra (CMPCC), fortemente voluta dal presidente boliviano Evo Morales, in seguito al fallimento della Conferenza di Copenaghen dello scorso dicembre. Con un approccio completamente nuovo, che prende spunto dalle richieste delle popolazioni indigene e delle organizzazioni non governative, i paesi hanno affrontato la questione della crisi climatica.

NON SOLO STRANEZZE – Il pollo? Non va mangiato perché gli ormoni femminili con cui i pennuti vengono fatti ingrassare “fa diventare gay”. La Coca Cola? “Buona solo per sturare lavandini”. Che dire insomma dell’alimentazione occidentale, che “nel giro di cinquant’anni farà diventare tutti gli uomini calvi?” Le dichiarazioni “folkloristiche” del presidente indio della Bolivia Evo Morales, in occasione della Conferenza Mondiale dei Popoli sul cambio climatico e i Diritti della Madre Terra, sono senz’altro gli elementi che hanno avuto maggiore risonanza a livello internazionale. Ma l’evento, del quale non si è praticamente parlato nel nostro Paese, non si è per fortuna ridotto a queste discutibili esternazioni.

Nel corso dei tre giorni del vertice, organizzata in risposta al sostanziale fallimento del vertice intergovernativo di Copenaghen, che si è svolto a dicembre 2009, diciassette gruppi di lavoro sulle differenti tematiche hanno elaborato  documenti di analisi che sono stati poi presentanti nella conferenza finale. Dall’insieme delle proposte è stata realizzata un’agenda di azione comune e un calendario di priorità per arrivare al prossimo appuntamento sul clima che si terrà a Cancún, in Messico, a fine anno.

Tra i temi discussi nel corso della Conferenza si annoverano la creazione di un Tribunale Internazionale di Giustizia climatica e ambientale, una corte in grado di giudicare paesi, entità o persone che danneggiano l’ambiente a cui potranno fare appello Stati, popoli, persone; la possibilità per i Paesi in via di sviluppo di ricevere un indennizzo per le conseguenze che subiscono a causa del riscaldamento globale; e, infine,  l’indizione di un Referendum Mondiale sul cambiamento climatico e sull'ambiente in coincidenza della prossima Giornata della Terra il 22 aprile 2011.

La consultazione, già proposta dal presidente boliviano durante la Conferenza di Copenaghen per ovviare alla mancanza di consenso tra i governi per concludere un accordo globale, si articolerebbe in cinque quesiti che riguarderanno vari temi: dall’abbandono delle modalità di sovrapproduzione e sovraconsumo al trasferimento delle spese militari alla difesa del pianeta. Nelle intenzioni dei promotori, al referendum potrebbero partecipare due miliardi di persone, ovvero la metà degli abitanti del pianeta in età elettorale.

Debito climatico, identificazione dei creditori, definizione delle forme di risarcimento e condanna dei paesi che non rispettano gli impegni per ridurre le emissioni di gas a effetto serra sono altri temi che sono stati trattati dai gruppi di lavoro.

RISULTATI- La conferenza ha riunito circa 20.000 persone tra attivisti, studiosi, esperti, rappresentanti delle popolazioni indigene, delle organizzazioni non governative e novanta delegazioni in rappresentanza dei governi provenienti dai cinque continenti.

Il vertice si è concluso con la Declaración Universal de Derechos de la Madre Tierra, che ha ottenuto grande approvazione tra i partecipanti, i quali si sono espressi a favore di ulteriori sforzi sottolineando la necessità di un maggiore dialogo tra i paesi per risolvere il problema del riscaldamento climatico.

Nella dichiarazione è stato stabilito che il riscaldamento globale non potrà eccedere l’1% fino al 2020, le emissioni di CO2 dovranno essere inferiori al 50% rispetto a quelle del 1990,  la creazione di un Consiglio per la Difesa dei Popoli, più coordinamento affinchè si possa parlare con una sola voce e maggiore tutela dei diritti della Madre Terra.

Per risolvere la crisi climatica, conclude il leader boliviano, bisogna riconoscere la Madre Tierra come fonte di vita e adottare un modello di sviluppo basato sul benessere collettivo, sul rispetto dei diritti umani e sull’eliminazione di tutte le forme di capitalismo e imperialismo.

Il consenso sulla necessità di muoversi secondo un’azione cooperativa di lungo periodo deve andare, nelle intenzioni dei partecipanti, oltre la semplice negoziazione sul limite dell’incremento della temperatura e sull’emissione di CO2.

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CONTRADDIZIONI – Va sottolineato innanzitutto che le dichiarazioni prese hanno un valore meramente propositivo e non hanno nulla di vincolante. Se i Governi difficilmente sono in grado di assumere impegni stringenti sulle tematiche ambientali, a maggior ragione una conferenza dei Popoli, per quanto lodevole sia il proposito, non potrà ottenere almeno nell’immediato importanti risultati concreti.

Inoltre, nonostante ci sia un accordo generale sul fatto che la Conferenza sia stata un evento riuscito e che il presidente boliviano, da sempre grande sostenitore dei diritti della madre tierra, abbia fatto un ottimo lavoro non sono mancate le critiche soprattutto in relazione alla decisione del governo boliviano di non interrompere l’esplorazione e lo sfruttamento di idrocarburi presenti nel paese.

Rafael Quispe, dirigente del Consiglio Nazionale di Ayllus e Markas de Qullasuyo, un’organizzazione boliviana indigena, ha sempre criticato i piani di estrazione mineraria del governo, e per questo motivo aveva chiesto di affrontare durante il summit la questione relativa ai conflitti ambientali portando all’attenzione dei partecipanti un caso di sospetta contaminazione di una miniera di rame di proprietà del governo boliviano.

Di fronte a una simile ipotesi è intervenuto il viceministro per la Biodiversità e l’Ambiente Juan Pablo Ramos, il quale ha sottolineato che l’obiettivo principale del Vertice è quello di porre le basi per la Conferenza Mondiale sul clima che si terrà a Cancún a dicembre, evitando che ciascun paese partecipante colga l’occasione per esporre problemi climatici che li riguardino direttamente.

 

 

DIMMI COME MANGI E TI DIRO’ CHI SEI – Il capo di Stato boliviano, leader del movimento mondiale per la lotta contro il cambiamento climatico, ha anche invitato la popolazione mondiale alla produzione e al consumo di alimenti ecologici, in linea con la cultura alimentare delle popolazioni indigene e in contrapposizione con l’industria alimentaria transgenica.

Mangiare quinua, grano andino di alto valore proteico e vitaminico, così come confermato dalla FAO, è ciò che è stato consigliato dal leader boliviano come miglior modo di alimentarsi. E ancora, l’utilizzo di sostanze naturali, secondo la tradizione delle popolazioni indigene, andrebbe fatto anche per i prodotti medicinali. Ma le maggiori critiche sono state rivolte verso gli alimenti transgenici prodotti in America Latina con sovvenzioni europee e statunitensi.

Il nemico mortale della terra, ha sottolineato il presidente Morales, sarebbe il capitalismo, basato su una crescita illimitata e insostenibile, causa di asimmetrie e ingiustizia nel mondo: “Senza un cambio nel sistema sarà impossibile ritrovare un equilibrio tra la natura e gli esseri umani” ha ricordato Morales.

 

NUOVA DIPENDENZA? – Anche in America Latina sono arrivate le colture transgeniche. Esiste un enorme dibattito a livello mondiale tra coloro che sostengono l’importanza della produzione transgenica per poter combattere in maniera più efficace la fame e al tempo stesso provocare un miglioramento della prosperità economica degli agricoltori e coloro che mettono l’accento sul fatto che questo tipo di culture non solo non apporta alcun tipo di beneficio, arrecando effetti nocivi sulla salute, ma al contrario genera nuove forme di dipendenza economica.

In tale contesto risalta il caso della Bolivia. Infatti, nonostante la nuova Costituzione, approvata con  referendum nel dicembre 2009, prescriva il divieto di produrre e importare prodotti transgenici, è stato calcolato che più di 50 alimenti, che vengono regolarmente consumati dalla popolazione, contiene elementi modificati geneticamente.

Ciò si verifica perché non esiste nessuna autorità statale capace di controllare in quali condizioni vengono prodotti gli alimenti e la qualità dei prodotti utilizzati, ma soprattutto perché non esite una regolamentazione normativa che imponga l’etichettatura per i prodotti transgenici nazionali e importati.

La battaglia di Evo Morales, condivisa anche dall’alleato Hugo Chávez, che tuttavia continua a fare dell’estrazione petrolifera la principale fonte di sostentamento dell’economia venezuelana, è insomma caratterizzata da spunti interessanti ma anche di contraddizioni profonde. Merita tuttavia di essere sottolineata l’innovazione apportata a livello giuridico dall’inserimento, nelle carte costituzionali, di una nuova categoria di diritti che si riferiscono ai “popoli indigeni” e alla “Madre Terra”, o in senso più universale alla natura. Le nuove Costituzioni di Ecuador e Bolivia sono le prime a contemplarli.

 

Valeria Risuglia

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Giocare alla Guerra Fredda?


Israele pronto a considerare Hezbollah come una divisione dell’esercito siriano, fatto che renderebbe possibile una risposta militare a seguito di qualsiasi azione di Hezbollah. Tensioni dunque in aumento, nonostante le continue indicazioni americane volte a stabilizzare i rapporti con la Siria, e con il rischio di minare lo stesso impegno di Damasco sul difficile percorso della  normalizzazione sul piano internazionale

HEZBOLLAH=SIRIA – Le rivelazioni rilasciate da una fonte anonima al Sunday Times di Londra lasciano davvero pochissimo spazio alle interpretazioni. In base alla testata giornalistica inglese, Israele avrebbe comunicato alla Siria che Hezbollah sarà s’ora in poi considerato alla stregua di una divisione dell’esercito siriano. Conseguentemente qualsiasi attacco da parte del partito di Dio libanese sarà interpretato come una precisadichiarazione di guerra nei confronti di Israele  il quale si arrogherà il diritto di rispondere militarmente. La fonte anonima ha inoltre precisato che qualora scoppi effettivamente un conflitto fra le parti, l’esercito israeliano distruggerà centrali elettriche, porti ed aeroporti, devastando tutte le infrastrutture sotto il controllo di Damasco.

La domanda che ora sorge spontanea è principalmente una: come poter rendere effettive tali affermazioni, o per meglio dire minacce, quando il governo Obama ha avviato una campagna di stabilizzazione della regione vicino orientale prevedendo come primo passo per la riuscita della stessa proprio la normalizzazione dei rapporti con Damasco? Date queste premesse appare quanto meno difficile che Israele si lasci coinvolgere in un nuovo conflitto regionale, con tutte le difficoltà che ne deriverebbero, entrando altresì in aperta e palese opposizione alle politiche di Washington nella regione. Tuttavia le rivelazioni del Sunday Times hanno uno scopo ed un obiettivo preciso e non possono, ne devono, essere semplicemente liquidate come indiscrezioni giornalistiche.

 

 

IL PARTITO DI DIO NEGA.. OVVIAMENTE – È infatti da alcuni mesi che Israele prova a screditare la già debilitata reputazione internazionale di Damasco. Ultima accusa in ordine di cronaca di un confronto che difficilmente si tradurrà in vera e propria lotta armata, è stata quella di puntare il dito contro Damasco per una presunta fornitura di missili Scud ad Hezbollah. Secondo fonti israeliane il partito di Dio sarebbe attualmente in possesso di 40mila razzi di questo tipo.

Nonostante le secche ed immediate smentite del ministero degli affari esteri di Damasco, la notizia ha immediatamente fatto il giro del mondo attraverso le agenzie di stampa, provocando le preoccupate reazioni della Casa bianca e le sdegnate condanne di altri stati. Anche Hezbollah ha negato, ovviamente verrebbe da dire, le accuse israeliane facendo anzi anche pesanti insinuazioni. Secondo uno dei maggiori leader del movimento, lo shaykh Naim Qassem (foto a destra), accusando la Siria si vorrebbe sviare l’attenzione dall’arsenale nucleare israeliano.

Sebbene la tempistica delle dichiarazioni possa risultare quanto meno sospetta (basti ricordare il recentissimo summit mondiale per il disarmo nucleare cui Israele ha partecipato inviando delegati di basso profilo), si può fornire anche un’altra chiave di lettura alle bellicose indiscrezioni provenienti da Londra.

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GLI SCENARI – Oltre che a sviare l’attenzione dai propri affari interni Israele prova ad acuire la stessa su specifiche tematiche al fine di ricavare un tornaconto personale. In uno scenario internazionale dove ben presto il governo di Bibi Netanyahu potrebbe essere messo sotto pressione dagli U.S.A. per dare il via alle trattative riguardanti le Alture del Golan, una delle principali tattiche attuate è quella di ritardare il più possibile il momento del confronto: in buona sostanza prendere tempo spostando l’attenzione mediatica internazionale su altro.

Millantare inoltre lo scoppio di una guerra alza inevitabilmente la posta in gioco facendo grossa pressione sugli Stati Uniti d’America affinché rimangano i solidi e soliti (si permetta il gioco di parole) alleati di sempre.

 

Marco Di Donato

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Ehi, ci siamo anche noi!

Si è svolto a Brasilia il secondo vertice dei BRICs, acronimo che raggruppa Brasile, Russia, India e Cina. Sono i principali Paesi in via di sviluppo, i possibili protagonisti dei prossimi anni sulla scena globale. Ambiziosi, ma forse anche un po’sopravvalutati.

DIAMO I NUMERIQuattordici per cento del Prodotto Interno Lordo mondiale. Quaranta per cento della popolazione globale. Quarantuno per cento delle riserve monetarie internazionali totali. Settantatre per cento della crescita economica attesa a livello mondiale per il prossimo quindicennio. Tutto questo in soli quattro Stati: sono i BRICs, ovvero Brasile, Russia, India e Cina. L’acronimo, nato nel 2003 da un analista della banca d’affari Goldman Sachs, rappresenta in maniera molto sintetica ed affascinante il ruolo che questi quattro Paesi hanno attualmente sulla scena geopolitica globale e che potrebbero avere in futuro. Ma è tutto oro ciò che luccica?

 

LE PROPOSTE SUL TAPPETO – Lo scorso 15 aprile si è tenuto a Brasilia il secondo vertice dei BRICs, dopo che l’anno scorso i quattro Capi di Stato (Lula,  Dimitrij Medvedev, Manmohan Singh e Hu Jintao) si erano incontrati in Russia. Al termine del summit, non è stata presa nessuna decisione concreta, come era del resto prevedibile, dato che il BRICs non è una organizzazione internazionale né tantomeno un forum istituzionalizzato come i vari “G-8,14,20 eccetera. Tuttavia, sono state abbozzate tre proposte, non del tutto nuove ma interessanti soprattutto per il loro valore simbolico. I quattro chiedono una riforma del Fondo Monetario e delle Nazioni Unite, in maniera da rendere più “pesante” la partecipazione delle nazioni emergenti all’interno dei processi decisionali: concretamente, questo potrebbe avvenire rispettivamente con una ridefinizione delle quote sottoscritte nel FMI (i cosiddetti “diritti speciali di prelievo”) e con un ampliamento della membership del Consiglio di Sicurezza dell’ONU. Inoltre, i BRICs auspicano che progressivamente il dollaro possa essere rimpiazzato come unità di scambio universalmente accettata sui mercati internazionali. Tra il dire e il fare, però, c’è di mezzo il mare: Cina e Brasile sono tra i principali detentori di dollari al mondo come riserva monetaria straniera. Sostituire il dollaro non si può fare dall’oggi al domani, perché se il valore della valuta statunitense crollasse i “verdoni” posseduti dalla Bank of China e dalla Banca Centrale brasiliana rischierebbero di diventare carta straccia.

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E ALLORA?I BRICs non sono un bluff, tutt’altro. Rappresentano davvero il gruppo più significativo degli Stati in grado di essere protagonisti nei prossimi anni. Tuttavia, insieme possono al momento fare poco o nulla di concreto: i loro rapporti politici ed economici si svolgono per lo più a livello bilaterale (e in alcuni casi gli attriti sono abbastanza marcati, come tra India e Cina) e le loro caratteristiche divergono profondamente. La Russia, per esempio, basa la propria forza esclusivamente sugli idrocarburi e sull’industria della difesa, e sta subendo da un quindicennio a questa parte un preoccupante crollo demografico: in ottica di medio-lungo periodo, appare quindi indietro rispetto agli altri tre. Il Brasile, invece, è all’apice del dinamismo, sia a livello economico che sociale. Insieme all’India è una democrazia sostanzialmente matura, mentre la Cina non ha nulla di democratico e in Russia sono evidenti caratteristiche di leadership personalistica e autocratica. Tutti insieme, tuttavia, i BRICs vogliono lanciare un messaggio al mondo e in primis agli Stati Uniti: ci siamo anche noi. Nei prossimi anni il potere globale sarà presumibilmente sempre più frammentato e condiviso da questi attori.

 

Davide Tentori

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Il mondiale dei generali

Storie di sport. Storie vere, intense, vissute, in cui lo sport si intreccia con le storie e con la storia del mondo, e ne è protagonista. Questo il senso della rubrica “È solo un gioco?”, che oggi racconta il mondiale di calcio in Argentina, nel 1978. Un mondiale vinto dai padroni di casa, in cui la commistione con il potere e la dittatura di Videla ancora stride nelle parole e nelle memorie di protagonisti e spettatori di quei drammatici eventi

Stavamo disputando la finale nello stadio del River Plate, e a tre-quattrocento metri c’era la scuola della di meccanica navale. Solo dopo abbiamo scoperto che era il principale centro di tortura della marina. E penso, quando segnavamo, tutti ci potevano sentire. Le guardie magari dicevano ai prigionieri “stiamo vincendo”, è così che probabilmente glielo riferivano. Non dicevano “L’Argentina sta vincendo” ma “noi stiamo vincendo”. Uno è l’aguzzino, l’altro la sua vittima. E poi penso: coloro che erano imprigionati come si sentivano, felici o tristi? In un certo senso erano felici perché erano argentini, e stavamo vincendo la Coppa del Mondo per la prima volta nella nostra storia. Meraviglioso. Ma sapevano che quella vittoria significava che la dittatura militare sarebbe durata ancora a lungo. Che non sarebbero stati rilasciati. Cosa hanno provato in quei momenti?”

Osvaldo Ardiles

Basta leggere queste righe tratte dalla biografia di Osvaldo Ardiles – uno dei migliori calciatori argentini di sempre – per capire cosa abbia significato per la storia del Paese sudamercano la vittoria ai Campionati mondiali del 1978. Jorge Rafael Videla aveva preso il potere due anni prima, nel 1976, dopo aver rovesciato il traballante governo di Isabela Martinez Peron, vedova di Juan Domingo Peron, dando così il via al “processo di riorganizzazione nazionale”. Squadre formate da militari senza divise ufficiali piombavano in casa di dissidenti politici, o presunti tali, sottraendoli alle loro famiglie, per poi sparire nel nulla. Gli obiettivi di questa strategia definita Guerra Sporca erano due: da un lato evitare il clamore che alcuni anni prima avevano suscitato, agli occhi della comunità internazionale, gli arresti di massa compiuti da Augusto Pinochet in Cile; dall’altro, diffondere il terrore tra gli oppositori, al fine di soffocare così ogni possibile dissenso. Il totale mistero della sorte dei desaparecidos fecero sì che le stesse famiglie delle vittime tacessero per paura. Solo dopo alcuni anni il Paese seppe la verità: le persone arrestate vennero sottoposte a indicibili torture e, per la maggior parte, uccisi con i voli della morte.

Per distrarre l’attenzione del paese dalle aberrazioni della guerra sporca Videla rispolverò la formula romana panem et circenses, spostando interamente l’attenzione dell’opinione pubblica verso gli imminenti Campionati del mondo di calcio. L’organizzazione venne affidata ad una società di pubbliche relazioni americana, che si impegnò da subito per mostrare al mondo il lato migliore dell’Argentina. Interi quartieri considerati malfamati vennero rasi al suolo, e gli striscioni che invitavano il paese a stringersi intorno ai propri campioni invasero le città. La Selecion – una squadra solida costruita intorno ai due fuoriclasse Kempes e Ardiles, e guidata da Luis Cesar Menotti – divenne, suo malgrado, il principale strumento della propaganda governativa. Menotti e la maggior parte dei giocatori avevano idee politiche lontane da quelle del regime, ma amavano il loro Paese, e sapevano che sul campo da gioco rappresentavano tutti gli argentini, non solo i generali.

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Dopo un primo girone piuttosto stentato, a causa dell’enorme pressione che gravava sulla squadra, l’Argentina si gioca l’accesso alla finale (secondo il regolamento che prevedeva due gironi) nel girone con Polonia, Brasile e Perù. Kempes, che ancora non si era sbloccato, realizza una doppietta contro la Polonia; mentre nella seconda partita l’Argentina soffre, ma resiste contro il Brasile. La qualificazione si deciderà quindi contro il Perù, che l’Argentina deve battere con tre gol di scarto per superare in classifica il Brasile. La partita passerà alla storia con il nome di marmelada peruana. Il Perù schiera tra i pali Ramon Quiroga, nato e cresciuto in Argentina, cittadino peruviano solo da pochi mesi. La federazione brasiliana segnala la cosa, ma tutto viene messo a tacere. Quiroga va in porta e la partita finisce 6-0 per l’albiceleste. Anni dopo il peruviano Josè Velazquez ammetterà la combine, e racconterà addirittura di una visita di Videla e del Segretario di Stato americano Kissinger prima della partita con l’Argentina.

In finale l’Argentina affronterà l’Olanda, l’arbitro designato è l’israeliano Abraham Klein. La Selecion è carica, convinta di portare a casa il risultato, ma evidentemente a Videla non basta. Facendo pressioni sulla Fifa ottiene la sostituzione dell’arbitro Klein con l’italiano Sergio Gonella, arrivato allo stadio accompagnato da Licio Gelli, capo della loggia P2, di cui fa parte anche Emilio Edoardo Massera, uno dei più stretti collaboratori di Videla. I giocatori non sono contenti, vogliono vincere con le loro forze, ma ormai la designazione è stata ufficializzata. Prima di uscire dagli spogliatoi Kempes Ardiles e Menotti radunano la squadra. E’ Kempes a parlare: chiede ai compagni di scendere in campo voltando le spalle alla giunta militare, e promette che in caso di vittoria rifiuterà di dare la mano a Videla. L’Estadio Monumental di Buenos Aires è stipato oltre l’inverosimile. Il tifo è assordante, ma per qualche secondo tutti si zittiscono nel vedere la squadra che dà le spalle alla tribuna d’onore. Inizia la partita ed è subito evidente l’arbitraggio “casalingo” di Gonella. L’Argentina trascinata dal suo pubblico passa in vantaggio al 37′ con Kempes, cui risponde a 9′ dalla fine Poortvliet, l’Olanda sfiora addirittura la vittoria a pochi secondi dalla fine quando il tiro di Rensenbrink trova il palo. Nei tempi supplementari la maggiore fisicità degli argentini si fa sentire: al minuto 105 Kempes porta in vantaggio l’albiceleste, al minuto 116 Bertoni segna il 3-1 e chiude i giochi. L’Argentina ha vinto il Mondiale. Le urla degli ottantamila del Monumental si odono per chilometri, presumibilmente giungono chiare anche alla Escuela de mecanica de la Amada, il principale centro di tortura del regime cui fa riferimento Ardiles nel pensiero riportato sopra. Non si può che citare nuovamente le sue parole: “Cosa avranno provato in quei momenti? Erano felici? Erano tristi?“. Nessuno può saperlo, quello che sappiamo è che sul palco delle premiazioni la mano di Videla non ha trovato quella di Kempes.

 

Simone Bellasio

Eppur si muove

Finalmente un passo concreto di Washington in ottica di cooperazione strategico-difensiva con l’America del Sud. L’accordo siglato pochi giorni fa con il Brasile non rappresenta un cambiamento epocale, ma è comunque un primo passo verso la definizione di nuovi rapporti.

UN ACCORDO DISCUSSO – In occasione del Vertice Nucleare tenutosi a Washington, il ministro della Difesa brasiliano, Nelson Jobim, ha siglato con il Segretario alla Difesa statunitense Robert Gates il primo accordo militare USA – Brasile da trent’anni a questa parte. Molte sono state le critiche rivolte al presidente brasiliano dai Paesi latinoamericani, soprattutto in merito alla querelle che si è avuta nell’ottobre del 2009 per l’installazione di basi militari statunitensi in territorio colombiano e che è stata duramente criticata dal Venezuela e dai Paesi che gravitano nella sua orbita.

Tra le critiche che sono state mosse, in particolare l’accento è stato posto sulla mancanza di informazioni circa il reale contenuto dell’accordo. Il governo brasiliano, infatti, si è limitato a divulgare solo alcuni dettagli tra cui la collaborazione tra i due eserciti, soprattutto nella lotta contro il narcotraffico, e la cooperazione in progetti volti al miglioramento della tecnologia nel settore della difesa.

 

COSA C’E’ DENTRO? – L’accordo siglato dovrebbe permettere da un lato un miglior posizionamento dell’azienda brasiliana Embraer (tra i principali produttori mondiali di aeromobili) nel bando di gara indetto dal Pentagono per l’acquisizione di 200 aerei da guerra (nella foto un Supertucano), e dall’altro gli Stati Uniti dovrebbero ottenere maggiori opportunità nella vendita di forniture militari, rispetto al principale fornitore francese Rafale, con il quale il Brasile nell’ottobre del 2009 ha firmato una importante commessa di armi. Nonostante il Brasile abbia tentato di evitare le polemiche che si sono verificate nel 2009, quando la Colombia sottoscrisse un accordo militare con Washington che dà a quest’ultima la possibilità di usare sette basi militari colombiane, le critiche non sono mancate.

Ciò nonostante bisogna sottolineare che numerose sono le differenze tra i due trattati, sintetizzabili in tre punti principali. I militari statunitensi non avranno accesso alle basi brasiliane, fatto che conferma il rifiuto brasiliano di installare basi militari statunitensi nella base di Recife manifestato in occasione della chiusura della base militare statunitense di Manta in Ecuador lo scorso anno. Una clausola specifica dell’accordo vieta sia lo stabilimento permanente di soldati statunitensi in territorio brasiliano sia l’immunità giuridica ai soldati stranieri, a differenza di quanto accade in altri Paesi latinoamericani, quali la Colombia e il Paraguay.

Infine, un’importante differenza con l’accordo colombiano riguarda il preventivo annuncio fatto dal presidente Lula, nel corso di un vertice dell’UNASUR (Unión de Naciones Sudamericanas), in cui manifestava le sue intenzioni nel firmare un accordo difensivo con Washington, evitando in questo modo che i Paesi della regione ricevessero la notizia dalla stampa, come accadde nell’altro caso.

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IMPLICAZIONI – Da parte statunitense è stata data una certa importanza a questo accordo. Roger Noriega, ex sottosegretario di Stato per l’America Latina durante la prima Presidenza Bush, ha affermato che la cooperazione militare ha l’obiettivo di stabilire migliori relazioni tra i due paesi.

Arturo Valenzuela, l’attuale sottosegretario, ha sottolineato che l’accordo tra Washington e Brasilia per certi aspetti è simile a quello colombiano, perchè in entrambi i casi l’obiettivo è modernizzare la capacità militare dei paesi in questione. Ha aggiunto, inoltre, che nell’ambito delle minacce che il Brasile deve affrontare, e in particolare la lotta contro il narcotraffico, gli Stati Unti sono disposti a fornire tutto l’aiuto necessario.

Sono state proprio queste le affermazioni che hanno aumentato ancor di più i sospetti sull’accordo concluso, infatti, il timore è che il reale contenuto dell’accordo vada oltre rispetto a ciò che è stato annunciato dal governo brasiliano, nonostante in questo caso è evidente una minore ingerenza statunitense di quella che invece si prospetta in Colombia.

Certo è che il Brasile è molto deciso a non subire alcuna influenza esterna e sta cercando di perseguire una propria autonoma politica estera. Lo dimostra anche il disaccordo in merito alla questione iraniana: se gli USA hanno una posizione molto più netta nei confronti del programma nucleare di Teheran, Brasilia sta sviluppando una partnership molto cordiale con il regime di Ahmadi-nejad e propende per la via del dialogo.

Attualmente, dunque, l’accordo non rappresenta un cambiamento negli orizzonti strategici dei due Paesi ma è soprattutto uno strumento per modernizzare le rispettive Forze Armate. Si tratta però di un primo importante passo compiuto da Washington in America Latina, dove una potenza esterna come la Russia si sta riproponendo militarmente, sia a livello economico che strategico (soprattutto con la vendita di armi e le esercitazioni congiunte in Venezuela). Sarà comunque fondamentale per gli USA elaborare un disegno strategico di medio periodo per quanto riguarda le relazioni emisferiche al fine di conservare la sua presenza geopolitica nell’area.

 

Valeria Risuglia – Davide Tentori

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