La venticinquesima puntata: "Le vie del gas sono infinite"
Quo vadis, Iraq?
Prove di “cold diplomacy” tra Stati Uniti ed Iran? Sembrerebbe l’unica certezza fino ad ora in Iraq, dove il clima politico si sta infiammando a seguito delle elezioni nazionali del 7 marzo scorso che non sono riuscite a determinare un governo di unità nazionale e dove emergono sempre più le realtà politiche “autonome” del paese, come il Kurdistan e le regioni meridionali a maggioranza sciita. Le posizioni raggiunte sinora, in grado cioè di formare una coalizione forte all’interno del Parlamento di Baghdad, danno in vantaggio il blocco sciita guidato indirettamente da Teheran.
IL NUOVO GOVERNO – Se avessero immaginato di doversi affidare agli americani per mantenere un ruolo all’interno del complesso mondo politico iracheno, il blocco che si identifica con Allawi, premier uscente dalle ultime elezioni, non avrebbero di certo sostenuto la strategia di distaccamento dagli altri attori nazionali. La situazione post-elettorale irachena evidenzia come le influenze politiche degli “ospiti” americani ed iraniani siano ormai preponderanti, in un paese diviso da fazioni confessionali ed etniche. A distanza di due mesi dal responso delle urne, il partito Iraqiya guidato da Allawi non è riuscito a raggiungere la maggioranza necessaria in parlamento e si ritrova costretto a dialogare con le altre formazioni antagoniste. L’attuale contesto politico sta favorendo perciò il blocco sciita rappresentato dall’ex premier Nuri al Maliki e dalla coalizione Iraqi National Alliance (INA); nelle settimane scorse l’ex premier e alcuni rappresentanti dell’INA si sono recati a Teheran per delineare un’eventuale alleanza tra i due blocchi. Ma dal summit sono emerse posizioni ancora troppo distanti per determinare un’alleanza tra i due schieramenti, e in questo caso la supervisione iraniana è risultata quanto mai fondamentale nel tentativo di ricucire parzialmente i rapporti tra Maliki ed una parte consistente del gruppo islamico, rappresentato dal leader ultra conservatore Moqtada al Sadr (nella foto in basso) che ha ottenuto circa un quarantina di seggi, sui 70 in totale della coalizione.
SCIITI E SUNNITI – In un recente sondaggio, condotto dalla Pechter Middle East Polls di Princeton su un campione di 3000 persone di confessione sciita, il 18% degli intervistati risulta favorevole ad un’influenza iraniana nella politica del paese, mentre il 43% vede in maniera negativa un inclusione di Teheran negli affari interni iracheni. Ma l’influenza iraniana in Iraq rimane indiscussa, grazie anche ai legami economici per la ricostruzione del paese che le conferiscono un ruolo di prim’ordine nel sistema politico iracheno. C’è chi parla poi di una crescente disillusione tra le fila dei sunniti che, grazie alla vittoria mutilata di Allawi e alle promesse fatte dagli americani, speravano di ottenere posti chiave nel prossimo governo. I “gruppi del risveglio” sunniti in passato hanno collaborato con l’ex premier Maliki e con gli americani per la stabilità e la sicurezza di alcune regioni tra le più violente del paese, contribuendo in maniera determinante al declino di al Qaeda in provincie come al Anbar. Ma ora, alla luce delle nuove alleanze tra gli sciiti, considerando le posizioni attendiste del blocco curdo, sembra essere rimasto davvero poco spazio per la componente sunnita. Qui, secondo diversi analisti, dovrebbe uscire allo scoperto il ruolo degli Usa, incentrato nel cercare un compromesso tra le parti, con un atteggiamento di basso profilo per evitare accuse di influenze esterne nel processo politico necessario a formare il nuovo governo.

LE POSIZIONI DEI CURDI – Tra i due litiganti, il terzo gode. Il ruolo strategico del Kurdistan è un dato di fatto. La regione autonoma in questo periodo è riuscita ad ottenere diversi successi in ambito diplomatico ed economico, che le conferiscono un ruolo di primo piano nel paese ed un riconoscimento internazionale molto importante. Il governo regionale del Kurdistan (Krg), in virtù delle conquiste fatte di recente, ha concluso un accordo sulla questione petrolifera; questo prevede che tutti i proventi petroliferi vengano consegnati alla Iraq's State Oil Marketing Organisation (SOMO), mentre il governo iracheno sarà responsabile del pagamento delle spese di estrazione nella regione autonoma. Sul piano diplomatico, il Kurdistan iracheno sta stringendo diverse partnership con gli altri attori regionali, Turchia ed Iran in primis, seguendo quella politica autonomista, rispetto al governo centrale di Baghdad, che la contraddistingue già da diversi anni. L’attuale situazione di incertezza politica sta incrementando il potere del Krg e molti esperti già parlano di futura indipendenza, ipotesi non del tutto lontana considerando il valore strategico che detiene la regione autonoma.
IL “BIG GAME” REGIONALE – Sul piano macro-regionale, molti paesi dell’area hanno interessi politici ed economici nell’influenzare il processo politico interno in Iraq. La Turchia è il primo partner commerciale del nord curdo, l’Iran grazie al suo “vincolo confessionale” ha un rilevante peso politico e la Siria, con la sua comunità di esuli iracheni, difende gli interessi della minoranza sunnita. Queste componenti possono dare un parziale quadro del contesto geopolitico, ma dal “gruppetto” non si possono tralasciare gli Usa che hanno un mandato in scadenza, per quanto riguarda l’accordo SOFA, e dovranno necessariamente rivedere la loro politica di influenza in Iraq nel tentativo di contrastare il predomino iraniano nella regione, spina nel fianco dei paesi del Golfo, storicamente alleati americani. Rebus geopolitico.
Luca Bellusci
Il Giano bifronte del nucleare
Si è aperta lunedì 3 maggio a New York la Conferenza per la revisione quinquennale del Trattato di Non Proliferazione Nucleare (NPT): dopo il discorso al vetriolo del Presidente iraniano Ahmadinejad, è stato il turno del Segretario di Stato agli Affari Esteri giapponese, Tetsuro Fukuyama. Tra le denunce contro la Corea del Nord, ed un atteggiamento propositivo, Tokyo cerca di schierarsi tra i paesi fautori di una politica pacifista e antinucleare. Intanto, l’Iran firma un interessante accordo con Brasile e Turchia.
UNA QUESTIONE STORICA – Il Giappone, si sa, è affetto dalla cosiddetta allergia atomica. È infatti difficile pensare che uno Stato vittima di un attacco nucleare sia favorevole ad un rifornimento di materiale fissile. Se la teoria dei giochi e la Mutual assured destruction sembrano un retaggio della guerra fredda, potrebbero esserlo altrettanto i sondaggi condotti nel 1995 dal Nikkei, che guardavano al Giappone come a una delle potenze nucleari del nuovo millennio. Questo è quanto risulta anche dal discorso tenuto in occasione della Conferenza newyorchese da Tetsuro Fukuyama (foto a destra), il quale ha affermato che “le numerosi attività condotte da parte della Repubblica nord coreana, inclusi i test nucleari, rappresentano una grave minaccia al regime internazionale di non-proliferazione, e sono assolutamente inaccettabili”. Ha inoltre dichiarato: “Il Giappone esorta caldamente l’Iran a riprendere i negoziati con la comunità internazionale, per cooperare con la IAEA”. Fukuyama si fa portavoce della volontà di giocare un ruolo preminente nell’eliminazione delle armi nucleari dal mondo e dalla risoluzione dei conflitti, così come dei tre principi fondamentali di non possedere, non produrre e non concedere l’utilizzo di armi nucleari sul territorio giapponese. Allo stesso modo non bisogna però dimenticare la crescente instabilità politico-militare nell’area nordorientale dell’Asia, che spinge Tokyo a non fidarsi più della sola protezione statunitense e a muoversi consapevolmente verso la nuclearizzazione.

IL NUCLEARE TRA SUCCESSI E SCONFITTE – “Rivedere il Trattato sembra più difficile che cambiare la costituzione statunitense”, è quanto ha affermato Gary Samore, consigliere del presidente Barack Obama. Una dichiarazione che arriva dopo la notizia svelata dal Pentagono, in base alla quale gli Stati Uniti avrebbero avuto attive, nel non lontano settembre 2009, 5113 testate nucleari. Un’affermazione che spezza un silenzio e una reticenza durata 50 anni. Gary Samore sottolinea l’altro volto del Giano bifronte del nucleare: chi grida al successo del Trattato per via della rinuncia di alcuni Stati all’atomica o per la pace sottesa durata 40 anni, deve fare i conti con il fatto che il Trattato scricchiola, che non è riuscito a prevenire in maniera radicale, né tanto meno a risolvere successivamente, la crisi con l’Iran e la Corea del Nord. E mentre Giordania, Libano, Turchia, Egitto e Arabia Saudita progettano di costruire centrali nucleari, il Trattato non prevede delle limitazioni alla produzione di combustibile. Questione che riguarda molti paesi, tra cui il Giappone, dove sono installati 55 reattori nucleari in 12 siti differenti, sparsi su un territorio ad alto rischio sismico. Il Giappone è dunque un paese che ha rinunciato all’arma nucleare, ma che decide comunque di arricchire il suo uranio, disponendo di una tecnologia di alto livello. Memento: la protesta svoltasi ad Okinawa il 4 maggio scorso, durante la quale diverse migliaia di persone hanno manifestato in occasione della visita del premier Hatoyama, chiedendo di liberare l’isola dalla presenza delle truppe americane stanziate nella base di Futenma, diventa la metafora di un’indipendenza scomoda per il Grande Fratello. Un’allergia atomica, quella giapponese, non così tanto patologica.
Alessia Chiriatti
Incontri e scontri
L'Iran muove una importante pedina nello scacchiere della partita nucleare: l'accordo con Turchia e Brasile sullo scambio di combustibile nucleare è molto significativo e la reazione della comunità internazionale non potrà farsi attendere. Sull'orlo della guerra civile, Kyrghizstan e Thailandia cercano soluzioni alle loro rispettive crisi interne, ma le prospettive non sono del tutto incoraggianti. Intanto continua la nuova complicata liaison tra Mosca e Kiev.
Accordo di enorme importanza potrebbe rivelarsi quello annunciato oggi tra Iran, Turchia e Brasile, grazie al quale si instaura una cooperazione per l'arricchimento e lo scambio di combustibile nucleare. In base a questo accordo l'Iran depositerà a breve in Turchia 1200kg di uranio a basso arricchimento per aver dell'uranio arricchito dalla Turchia entro un anno. L'accordo prevede comunque il coinvolgimento dell'AIEA (International Atomic Energy Agency), che dovrà avallarlo. Ovviamente sarà decisiva la reazione del Gruppo di Vienna, che comprende, oltra all'AIEA, anche Russia, Stati Uniti e Francia. Se da una parte l'accordo è un segno di buona volontà da parte iraniana, rimangono in seno alla comunità internazionale i dubbi circa gli scopi del programma nucleare di Teheran.
Kyrghizstan di nuovo, ancora, in rivolta. Il rischio che gli scontri tra i sostenitori del Presidente deposto Kurmanbek Bakiyev ed il nuovo Governo insediatosi da poco più di un mese, si trasformino in qualcosa di vicino ad una guerra civile è alto. Dopo i tentativi dei sostenitori di Bakiyev di prendere il controllo di alcune infrastrutture (ad esempio l'aeroporto di Osh, importante città del Paese) potrebbe ripetersi e la reazione dei governativi potrebbe essere più aspra rispetto alle settimane passate, soprattutto se dovesse entrare in gioco l'esercito. Intanto è attesa per giorno 20 la prima bozza di una nuova Costituzione che poi dovrebbe essere votata in Giugno. Sarà importante capire quale reazione questa nuova Carta Costituzionale potrà suscitare nella popolazione.
In situazione più grave versa già la Thailandia, dove gli scontri tra le Camicie Rosse (a sostegno dello storico, potente, ex Presidente Thaksin Shinawatra) e le forze del Governo in carica sono oramai giunti a livelli critici. L'esercito è schierato contro i manifestanti ed il numero di morti negli scontri è in lenta ma costante crescita. Anche alcuni leader delle Camicie Rosse sono già caduti. Una importante novità è però emersa in giornata: il Governo, dopo un periodo di parziale chiusura verso i negoziati, si è nuovamente dichiarato disponibile a trattare con i rivoltosi. Intanto, gli effetti sull'economia thailandese cominciano ad essere pesanti: Stock Exchange of Thailand (SET) è in forte calo ed alcune importanti operazioni finanziarie previste per questi giorni sono state congelate (ad esempio la sottoscrizione di una consistente quantità di bond): il protrarsi delle lotte interne potrebbe peggiorare la già delicata condizione economica del Paese, rischiando di acuire il conflitto tra la parte rurale del Paese e quella urbana, contrasto che è il vero tallone d'Achille thailandese.
Nuovi sviluppi nell'infinito gioco delle parti tra Ucraina e Russia. Dopo segnali molto concreti del riavvicinamento di Kiev a Mosca, c'è la brusca frenata sulla proposta di Putin di integrare tra loro i sistemi di trasporto del gas naturale. L'Ucraina sembra voler difendere, come sempre in passato, l'unico asset nazionale davvero intoccabile: Naftogaz, la compagnia che praticamente sostiene l'intera economia nazionale. In questi giorni il Presidente russo Dmitri Medvedev farà visita al Presidente ucraino Viktor Yanukovich e probabilmente si avranno dei segnali chiari su quale strada imboccherà questa nuova fase dei rapporti tra i due Paesi.
Nel mondo questa settimana
-
18 maggio: si terrà a Madrid il VI Summit Unione Europea-America Latina e Caraibi. Ospite di riguardo sarà anche il Primo Ministro turco Recep Tayyip Erdogan. Sono attesi incontri di rilievo tra i leader sudamericani, e potrebbero prendere vita accordi commerciali di alto profilo tra alcuni Paesi e la UE.
-
Il Presidente Egiziano Hosni Mubarak sarà in visita in Italia per un incontro strategico tra i due Paesi.
-
Incontro di alto profilo anche tra NATO e Russia, per discutere del progetto di difesa missilistica che tanti contrasti ha sinora sollevato.
-
Nuova puntata, e forse nuove tensioni, nel rapporto tra le due Coree: è infatti atteso il rapporto finale della Corea del Sud sulle indagini relative all'affondamento della nave militare Chon An, che potrebbe tirare ufficialmente in ballo le Forze Armate della Corea del Nord.
-
Si torna a parlare di Somalia in un consesso internazionale: dal 21 al 23 maggio infatti si terrà la conferenza ONU di Istanbul sulla Somalia. La Conferenza, ospitata congiuntamente da Nazioni Unite e Turchia, dovrebbe vedere anche l'intervento del Segretario Generale delle Nazioni Unite, Ban Ki Moon.
La Redazione
17 maggio 2010
Donne al potere
Aria di cambiamento è quella che si respira da due settimane a questa parte dopo il giuramento del Presidente Laura Chinchilla, prima donna ad assumere il potere nella storia del Costa Rica. Dopo le affermazioni degli ultimi anni di Cristina Kirchner in Argentina e di Michelle Bachelet in Cile, l’insediamento della Chinchilla conferma un trend positivo dell’aumento della partecipazione femminile in politica. Le sfide per la nuova guida del Costa Rica, però, sono molte.
NOVITA’ E CONTINUITA’ – Laura Chinchilla, che durante le elezioni dello scorso febbraio ha battuto con il 47% dei voti Otton Solis del Partito dell’azione civica (Pac) e Otto Guevara del Movimento Libertario (MI), si aggiunge ad altre quattro donne, tra queste l’argentina Cristina Fernandez de Kirchner e la cilena Michelle Bachelet (Foto sotto) (in passato era toccato ad Isabelita Perón, sempre in Argentina, e a Violeta Barrios de Chamorro in Nicaragua), che sono riuscite a imporsi nel panorama politico latinoamericano, tradizionalmente dominato dagli uomini.
Un approccio moderato e aperto al dialogo con le altre forze politiche è l’elemento principale della linea scelta dal nuovo Presidente, che intende mantenere una linea di azione politica coerente con quella del predecessore il premio Nobel per la pace Óscar Arias, il quale ha deciso di ritirarsi dalla politica.
Con la Presidente Laura Chinchilla e i suoi vicepresidenti, Luis Liberman e Alfio Piva, il Partito di Liberazione Nazionale (PLN, di tradizione socialdemocratica) continuerà a rimanere al potere, con un gabinetto che si presenta come la naturale continuazione dei quattro anni di governo di Arias.
RIFORME E ANCORA RIFORME – Il Costa Rica, caratterizzato storicamente da una lunga stabilità politica in una regione come quella latinoamericana conosciuta invece per l’instabilità politica ed economica che si presentano ciclicamente, è uno dei paesi più prosperi dell’America centrale, con un’economia basata sul turismo, sui prodotti manifattueri e sulle esportazioni di prodotti agricoli quali ananas e banane.
Riforma fiscale e dell’apparato burocratico e accelerazione della ripresa economica dopo la crisi globale sono alcune delle questioni di cui si occuperà al più presto la Presidente. Il suo scopo è anche quello di superare le tensioni scaturite a seguito della firma del Trattato sul Libero Commercio (TLC) siglato con gli Stati Uniti nel 2007, durante il governo di Arias, e mostrato come simbolo dell’apertura economica.
Laura Chinchilla ha affermato di voler seguire la linea politica tracciata dal suo mentore Arias che ha permesso a un piccolo paese come il Costa Rica di 4,5 milioni di abitanti di essere il meno povero dell’America Centrale avendo assunto sempre maggiore importanza in politica estera.
La nuova amministrazione si concentrerà anche sul miglioramento del sistema sanitario nazionale e ha promesso di creare una rete di assistenza per anziani e bambini. Riguardo all'economia i punti principali su cui punterà il nuovo esecutivo sono lo sviluppo delle infrastrutture, l'istituzione di un'imposta progressiva sui redditi e soprattutto la creazione di nuovi posti di lavoro in campo ambientale con l'iniziativa "empleos verdes".
Al centro del suo programma vi è l’impegno per una maggiore sostenibilità ambientale: difesa del patrimonio naturale e riduzione dei gas a effetto serra per rendere il Costa Rica la prima nazione a carbon neutral nel mondo entro il 2030. Questo obiettivo ambizioso significa che il Paese centramericano dovrebbe diventare il primo Stato “ad emissioni zero”, obiettivo da raggiungere non solo tramite una drastica riduzione delle emissioni di CO2 ma anche acquistando “certificati di emissione”, ovvero contribuendo a finanziare progetti per ridurre l’impatto ambientale in altre zone del mondo.

COSA BOLLE IN PENTOLA – Criminalità, violenza e narcotraffico, è la sfida più grande che il Costa Rica, piccolo Stato che separa il Nord dal Sud America, dovrà affrontare perché, come ha sostenuto il Presidente “il Centro America potrebbe essere l'ultimo campo di battaglia della guerra in corso tra Colombia e Messico”.
Cento giorni è il periodo proposto dal nuovo governo per affrontare il problema che preoccupa di più la popolazione: la sicurezza. Durante questo lasso di tempo la nuova amministrazione guidata dalla Chinchilla analizzerà la questione elaborando una strategia, soprattutto per far fronte all’alto tasso di omicidi, aumentato in maniera sensibile tra il 2007 e il 2009, basata su quattro punti: rafforzamento delle istituzioni, lotta contro le impunità e la criminalità organizzata e, infine, prevenzione dei delitti.
Nonostante l’apertura al pluralismo di idee e la grande sensibilità verso le questioni sociali e ambientali da sempre proclamate, la Presidente è stata definita fondamentalista e omofoba per alcuni atteggiamenti conservatori, quali l’opposizione alla legalizzazione della pillola del giorno dopo, considerata una liberalizzazione dell’aborto, e l’unione coniugale tra individui dello stesso sesso.
In ogni caso l’elezione di un Presidente pacifista e ambientalista come la Chinchilla può essere definito come un segno positivo di grande cambiamento e apertura per tutta la regione, dove i recenti fatti dell’Honduras oppure il governo sandinista del Nicaragua hanno sollevato alcuni dubbi sulla stabilità democratica in America Centrale.
Valeria Risuglia
Pechino:segnali in codice?
Il 15 aprile Wen Jiabao ha scritto una lunga lettera di elogio al defunto e controverso leader Hu Yaobang. Le ipotesi fatte sul perché di questa iniziativa sono molte, e due -la riabilitazione di Hu e il lancio di una riforma politica- sembrano le più realistiche. Tuttavia, al di là delle supposizioni, il significato del messaggio resta criptico.
UN NOME CHE RITORNA – Hu Yaobang è un nome scomodo a Pechino. Lo era ventitré anni fa, quando dovette lasciare la guida del Partito, e lo è ancora oggi. Fu un promotore delle riforme economiche degli anni Ottanta, uno degli uomini che hanno portato avanti la rivoluzione di Deng Xiaoping. Ma fu anche un politico vicino a Zhao Ziyang, il reietto, il leader sul quale sono state scaricate le responsabilità della crisi del 1989. Hu Yaobang morì proprio nella primavera di quell’anno, e il suo trapasso fu una delle ragioni che spinsero migliaia di studenti a scendere per le strade di Pechino. Pochi anni prima era stato allontanato dall’incarico di Segretario del Partito Comunista Cinese a causa delle sue idee eccessivamente liberali. Pagò solo con la propria leadership, non fu mai epurato. Eppure, la sua figura ancora trasuda di ricordi, il suo nome è legato alla tragedia, alle paure recondite del governo cinese. A oltre vent’anni dalla sua morte è arrivata una notizia che ha fatto discutere tutti gli osservatori della politica cinese: il 15 aprile Wen Jiabao, attuale premier, ha scritto una lunga lettera pubblicata sul People’s Daily, nella quale ha elogiato la figura del defunto leader. Un colpo a sorpresa, che ha sollevato un mare di ipotesi. Non si è giunti ad un punto di vista condiviso, ad ogni modo. L’Economist ha pubblicato un articolo nel quale si sostiene che la “lettura dei fondi di tè della politica cinese” è tornata di moda.

CHE VUOL DIRE? – Difficile comprendere il significato di un messaggio così inaspettato. La prima ipotesi è che la lettera costituisca un principio di riabilitazione. Tienanmen è ormai lontana, e riabilitare del tutto il popolare leader non sembra un problema. Un’ipotesi che però non regge il confronto con ciò che si legge nel testo in questione. Nella lettera, infatti, non c’è nemmeno un accenno all’attività politica di Hu, non si parla delle sue idee, né si prende in considerazione la parte che ha giocato nella crisi di due decenni fa. Si preferisce invece parlare dell’uomo, delle sue doti personali. Troppo generico, per una riabilitazione. Una seconda ipotesi è che la lettera del primo ministro sia una prima, tenue apertura verso una riforma politica. Wen Jiabao, giunto al termine del suo mandato, potrebbe voler lasciare un’ultima traccia del suo passaggio. Troppe riforme economiche e troppo poche in politica, potrebbe essere il pensiero del premier e degli altri dirigenti del Partito (tutti gli analisti, infatti, concordano sul fatto che la lettera non sia stata una boutade individuale). Anche in questo caso, tuttavia, l’assenza di riferimenti alle posizioni politiche di Hu Yaobang dovrebbe far riflettere. Se davvero il problema fosse stato introdurre una nuova liberalizzazione politica, perché non accennare nulla in proposito nella lettera pubblicata? Secondo quanto riporta il New York Times, Yang Yisheng, (noto esperto di politica cinese) avrebbe affermato: “Non nutro molte speranze, non si tratta di una rivisitazione completa della carriera di Hu, che avrebbe potuto essere portatrice di un messaggio politico più pregnante”.
Michele Penna
Chiudete le valigie amici
“Siamo tutti consapevoli che è un onore immenso giocare la Coppa del mondo in casa, sulla nostra terra; non sono molti i giocatori che hanno goduto di un tale privilegio. Siamo anche consapevoli del compito che abbiamo davanti a noi. La Coppa del Mondo è la nostra priorità, il nostro più grande obiettivo. Dobbiamo rappresentare il nostro Paese con orgoglio”. Si vola in Sudafrica, con la terza puntata del “Caffè mondiale”. E le parole di Aaron Mokoena, capitano dei bafana bafana, descrivono bene lo stato d'animo di un Paese che si avvicina a un evento storico: il primo Mondiale africano. Ecco come
IL PAESE
Il segno di Z…uma. È passato un anno da quel 9 maggio 2009 in cui Jacob Zuma ha giurato come Capo di Stato in Sudafrica. Da Mandela in avanti, il Sudafrica ha visto garantita la propria stabilità politica dal continuo successo dell’African National Congress, il maggior partito politico del Paese. Zuma, dopo essere divenuto Presidente del partito a fine 2007, sostituendo l’ex Presidente della Repubblica Thabo Mbeki, è ora il leader di un Paese che, dopo il lungo periodo dell’Apartheid, si trova ad affrontare sfide e contraddizioni varie. Quasi il 40% della popolazione rimane al di sotto della soglia di povertà, il livello di criminalità violenta è elevatissimo, il livello di disoccupazione si aggira attorno al 24%, e più dell’11% della popolazione è positivo all’HIV. Tali criticità si registrano proprio tra quelle fasce di popolazione da cui l’ANC è maggiormente sostenuto. Il piano di spesa a medio termine di Zuma, pur nel mantenimento di un rigore fiscale e monetario, prevede un deciso sostegno alla crescita. Nel dettaglio, è previsto un'aumento degli investimenti in infrastrutture, con particolare attenzione ai settori dell’educazione, della sanità e dei trasporti, oltre ad uno sviluppo industriale e all’accelerazione del BEE (Black Economic Empowerment), iniziativa diretta ad una maggiore occupazione della popolazione nera: il divario del tenore di vita tra minoranza bianca e maggioranza nera è infatti ancora decisamente elevato, con una distribuzione di reddito interna tra le più squilibrate al mondo. Qualcosa si muove, seppur lentamente: la popolazione bianca controlla ancora la maggior parte delle risorse del Paese, ma sono in ascesa i posti di potere occupati da businessman neri, mentre sta crescendo una middle class nera.
IN PILLOLE:
-
Una delle grandi sfide del Sudafrica è rappresentata dal tema della sicurezza. Lo è anche in ottica Mondiale, un evento storico che potrà essere sfruttato anche come traino per l’economia, a beneficio del Pil del Paese (negativo nel 2009) in particolare grazie ai riscontri positivi attesi nel settore del turismo e dei servizi.
-
L’economia del Sudafrica è tradizionalmente legata all’agricoltura e all’estrazione di metalli preziosi. Il Paese è il maggior produttore mondiale di metalli del gruppo del platino e di cromo, manganese e vanadio, ed è tra i principali esportatori di oro (un terzo dell’export totale), carbone e diamanti. Negli ultimi anni l’economia si è comunque evoluta grazie all’industria manifatturiera ed i servizi finanziari, che contribuiscono per una quota sempre maggiore del Pil (20% solo per il manifatturiero). In crescita anche metallurgia e industria ingegneristica. Sono i servizi però a rappresentare la quota maggiore di Pil, grazie al settore finanziario e all’espansione del settore del turismo, sempre più fondamentale come bacino di occupazione.
-
Il Sudafrica occupi un ruolo sempre più rilevante negli affari continentali e internazionali, in particolare attraverso il G20, ed è sempre più segnalato come uno tra i Paese emergenti a cui prestare maggiore attenzione, anche se non ancora al livello dei cosiddetti BRICs (Brasile-Russia-India-Cina).

GEOPALLONE
"Il rugby è uno sport per selvaggi giocato da gentiluomini, il calcio uno sport per gentiluomini giocato da selvaggi". Si potrebbe racchiudere in questa frase del film “Invictus” di Clint Eastwood (ovviamente pronunciata da un bianco) lo snodo centrale della storia della nazionale sudafricana: il rapporto con l’apartheid. Nel 1962 la SAFA (South African Football Association) impone il primo standard razziale: in nazionale possono giocare solo i bianchi. La Fifa sospende la Safa per un anno. In seguito, dopo la decisione di formare una squadra di soli bianchi nel mondiale del 1966 e di soli neri per il mondiale del 1970, porterà prima ad una nuova sospensione (1974), poi all’espulsione definitiva dalla Fifa nel 1976.
Nel 1991, con la fine dell’apartheid, nasce una nuova Safa, formata sia da bianchi che da neri: così, il 7 luglio 1992 la nazionale sudafricana rivede la luce, dopo quasi vent’anni, battendo 1-0 il Camerun.
I BAFANA BAFANA
Appuntamento con la storia. Primo mondiale africano, da padroni di casa. I bafana bafana (“i nostri ragazzi” in lingua zulu) sanno perfettamente che la maglia della propria nazione in questo mondiale pesa più che in ogni altra occasione. Nella storia dei mondiali, la nazione ospitante ha sempre superato il primo turno, ed ha sempre goduto di qualche speciale occhio di riguardo (anche i profani del pallone ricorderanno la Corea in semifinale del 2002, Byron Moreno e compagnia… la lista, nella storia, è davvero lunga). Certo appare assai più difficile che in altre occasioni prospettare un cammino scintillante per i padroni di casa. Ammessi di diritto in quanto Paese organizzatore, il sorteggio ha delineato un gruppo tutt’altro che agevole: il Sudafrica, testa di serie, ha pescato la Francia, la più ostica delle squadre di seconda fascia. E tra le altre due squadre del girone, il Messico, ancor più dell’Uruguay, pare avere qualcosa in più dei bafana bafana, che non hanno giocatori di rilievo internazionale nelle loro fila. Conterà parecchio, probabilmente, anche il fatto di saper gestire bene emozioni e adrenalina, incanalandole positivamente, sfruttando l’onda dell’entusiasmo senza farsi travolgere. In questo, il ruolo del c.t. sarà probabilmente decisivo. Inoltre, attenzione ai ricorsi storici: nel 1966, l’Inghilterra padrona di casa vinse il mondiale, dopo aver disputato il girone eliminatorio (guarda caso, il gruppo A) con Francia, Messico ed Uruguay. Anche se sembra fantascienza, di sicuro il precedente è di buon auspicio…
-
STORIA: Nel palmares della nazionale spicca la vittoria nella Coppa d’Africa 1996, disputata in casa (2-0 in finale contro la Tunisia: era la prima partecipazione del Sudafrica alla manifestazione; nella seconda, nel 1998, perderà 2-0 in finale contro l’Egitto). Il Sudafrica ha disputato due mondiali, venendo in entrambe le occasioni eliminata nel girone eliminatorio. Solo due punti in Francia nel 1998 (pareggi con Danimarca e Arabia Saudita, netta sconfitta 3-0 con la Francia); una vera beffa, invece, nel 2002, in Corea-Giappone, dove il Sudafrica arriva secondo a pari punti con il Paraguay, e viene eliminato per aver segnato una sola rete in meno dei sudamericani (6 contro 5). La Confederation Cup della scorsa estate, ha visto i padroni di casa raggiungere un buon quarto posto, dopo aver disputato ottime prestazioni contro nazionali del calibro di Spagna e Brasile.
-
ALLENATORE: Carlos Alberto Parreira è al suo sesto mondiale con cinque nazionali differenti: con la prossima partecipazione, agguanterà il record di Bora Milutinovic, lo storico giramondo del pallone. Dopo Kuwait nel 1982, Emirati Arabi nel 1990, Brasile nel 1994 e nel 2006, l'Arabia Saudita nel 1998, tocca così ai bafana bafana. Vittorioso contro l’Italia nel 1994 con uno dei peggior Brasile della storia (con il famoso rigore di Baggio, mandato in alto dalla mano di Senna, morto tre mesi prima: ancora oggi i brasiliani si dicono convintissimi di quell’aiuto dal cielo), ha fallito nel 2006, quando il quadrato magico Kakà-Ronaldinho-Ronaldo-Adriano, spettacolare da un punta di vista mediatico, non riusciva però a garantire il benché minimo equilibrio tattico. Contro la Francia ai quarti di finale, Parreira mandò in panchina Adriano, ma la mossa si rivelò non sufficiente per superare i galletti, che vinsero uno a zero grazie ad un gran gol di Henry. L’esperienza darà una grande mano a Parreira nel guidare la nazionale sudafricana, tanto entusiasta quanto acerba: certo, passare il turno sarebbe già una grande vittoria.
Alberto Rossi [email protected]
(Dis)integrazione commerciale?
La prossima settimana a Madrid si svolge il VI Summit Unione Europea – America Latina. L’UE potrebbe siglare con il Mercosur un accordo di associazione volto a creare la più grande area di libero scambio del mondo. Tuttavia rimangono numerosi problemi, dovuti soprattutto all’atteggiamento protezionistico adottato negli ultimi anni dall’Argentina. Se l’integrazione sudamericana appare in crisi, difficilmente i due blocchi commerciali potranno giungere nel breve periodo ad un accordo efficiente.
LA “CUMBRE” SI AVVICINA – Negli ultimi anni sono fioriti numerosi progetti di integrazione regionale in America Latina, volti a creare aree di stretta cooperazione sui temi più diversi, dal commercio alla difesa passando per l’energia. Il più noto di questi esperimenti è il Mercosur (Mercado Común del Sur), nato nel 1991 dall’iniziativa di Argentina, Brasile, Paraguay e Uruguay finalizzata a seguire, almeno nelle intenzioni, il percorso compiuto dall’Unione Europea.
Facciamo un salto avanti di vent’anni e arriviamo ai giorni nostri: la prossima settimana (il 18 maggio) si terrà a Madrid la VI “Cumbre” (vertice) tra Unione Europea e America Latina, due anni dopo l’ultimo summit che si era tenuto nella capitale peruviana Lima (vedi foto in alto). A latere della sessione plenaria, con tutti i Paesi dell’area latinoamericana (ad eccezione dell’Honduras, nei confronti del quale la maggior parte degli Stati hanno posto il veto non avendo riconosciuto l’esito delle elezioni dello scorso novembre in seguito al golpe contro Manuel Zelaya), si svolgerà il 19 un importante incontro tra UE e Mercosur. Sul tappeto, la possibilità di firmare un importantissimo accordo di associazione commerciale, che porterebbe alla creazione della più grande area di libero scambio al mondo.
I VANTAGGI – Settecento milioni di cittadini – e quindi potenziali consumatori – per una cifra potenziale di cento miliardi di dollari: questo sarebbe il valore dello scambio commerciale annuale a cui si potrebbe dare vita se andasse in porto l’accordo di associazione tra Unione Europea e Mercosur. L’UE, storicamente caratterizzata da una forte integrazione al suo interno ma chiusa verso l’esterno per quanto riguarda settori “sensibili” quali soprattutto l’agricoltura (la PAC, Politica Agricola Comunitaria basata su sussidi ai produttori, “succhia” la maggior parte del bilancio dell’Unione), aveva in passato sottoscritto un altro accordo di associazione con i Paesi ACP, che comprendono una serie di Stati sottosviluppati dell’area africana, caraibica e pacifica allo scopo di favorire l’esportazione dei prodotti minerari e agricoli di questi Paesi senza l’imposizione di dazi doganali. In questo caso, però, si tratterebbe di numeri decisamente più pesanti: Brasile e Argentina sono grandissimi esportatori, in particolar modo di prodotti agricoli. Intorno ad essi si intreccia il nodo più spinoso, dal momento che per giungere alla firma di un accordo con l’UE bisognerà trovare un compromesso in grado di soddisfare le esigenze di entrambi i blocchi.

RIASSUNTO DELLE PUNTATE PRECEDENTI – Se ragionassimo considerando solo il punto di partenza (il 1991) e quello di arrivo (oggi) ci sarebbero pochi dubbi nell’applaudire all’accordo di associazione tra UE e Mercosur. Purtroppo, va tenuto in debito conto ciò che è avvenuto durante questi vent’anni: la strada verso l’integrazione compiuta dal blocco sudamericano è stata, ed è specialmente oggi, molto tortuosa. Attriti e tensioni tra i quattro Paesi che compongono l’area di libero scambio hanno fortemente rallentato il processo verso la creazione di un vero mercato comune che sarebbe l’obiettivo finale dei membri del Mercosur. In particolare, i problemi si sono verificati sull’asse principale dell’organizzazione regionale, ovvero tra Brasilia e Buenos Aires. Negli ultimi anni gli esecutivi dei coniugi Kirchner hanno ripreso ad adottare politiche commerciali di stampo protezionistico, ristabilendo barriere nei confronti dei prodotti brasiliani nel tentativo di colmare il deficit nella bilancia dei pagamenti accusato rispetto al più dinamico vicino. È degli ultimi giorni la notizia che l’Argentina potrebbe applicare a partire da giugno nuove restrizioni alle importazioni di prodotti alimentari in arrivo dal Brasile.
Ma non solo: l’atteggiamento di chiusura della “Presidenta” Kirchner non colpisce solo i partner più prossimi geograficamente, ma anche veri e propri giganti come la Cina. L’Argentina ha infatti aumentato le barriere all’entrata verso i prodotti manifatturieri provenienti da Pechino, causando come rappresaglia una misura analoga da parte delle autorità cinesi nei confronti dell’olio di soia, prodotto fondamentale per l’export argentino. In questi giorni il Ministro dell’Industria, Débora Giorgi, si recherà in Cina per cercare di ricucire lo strappo con un partner del quale Buenos Aires non può assolutamente fare a meno.
PROSPETTIVE – Alla luce di queste considerazioni, sorgono dunque diversi dubbi in merito alla possibilità che tra UE e Mercosur venga concluso un accordo davvero efficace e funzionante. Il free-riding (la tendenza a “fare da soli”) di attori come l’Argentina pone problemi al proseguimento dell’integrazione commerciale, non solo con Bruxelles ma prima ancora all’interno dello stesso Mercosur. Le politiche protezionistiche di Cristina Kirchner hanno provocato negli ultimi anni malcontento non solo all’esterno, ma anche all’interno del Paese, dove la tensione con la influente lobby degli agricoltori è sempre alta. Per l’Argentina inizia un periodo molto delicato, dato che all’inizio del 2011 si terranno le nuove elezioni presidenziali: un cambio di rotta in politica economica sembra necessario per i Kirchner, se vogliono sperare di conservare il potere (il marito Néstor potrebbe ricandidarsi). Un cambio di rotta si impone anche se si vuole preservare e proseguire il cammino dell’integrazione regionale; altrimenti, il prossimo Vertice con l’UE rischia di rimanere l’ennesima occasione per fare solo tante sorridenti foto di gruppo.
Davide Tentori
Gas d’Africa
Dopo aver analizzato la strategicità del settore petrolifero in Africa e particolarmente in Nigeria, è ora il momento di concentrarci sul gas. La corsa alle materie prime dell’Africa ha riportato questo continente al centro dell’attenzione politica e mediatica, ma nelle analisi più diffuse sembra si tratti soprattutto (o solamente) che la corsa all’accaparramento riguardi solo il petrolio e le arrembanti compagnie cinesi. C’è anche dell’altro.
L’IMPORTANZA DEL GAS – Non solo petrolio. È nel gas che l’Africa, e uno dei suoi più importanti paesi esportatori di energia fossile – la Nigeria, hanno probabilmente il più importante atout strategico. La superiore valenza strategica del gas deriva dal suo profilarsi sempre più chiaramente come la fonte energetica fondamentale, il ponte della lunga transizione dal petrolio alle rinnovabili: soprattutto le mature economie industriali dell’Occidente si stanno rapidamente convertendo al gas naturale, dal riscaldamento alla generazione elettrica e alla cogenerazione diffusa, fino – in prospettiva – alla mobilità (anche via elettrificazione del parco-macchine). Si tratta di una fonte relativamente poco inquinante, a più alto rendimento, e le cui risorse disponibili stanno attraversando una drammatica espansione, soprattutto in Nord America e Pacifico, grazie allo shale gas (gas degli strati scistosi) e in generale ai giacimenti non convenzionali resi accessibili dalle nuove tecnologie.
Considerato che gli Usa hanno già individuato, e in piccola parte iniziato a sfruttare immense risorse di shale gas sul territorio nazionale, l’interesse (concorrenziale al fabbisogno asiatico) per il gas africano è essenzialmente europeo.
IL DILEMMA DELL’ENERGIA: EXPORT O CONSUMO? – Per sviluppare la capacità di esportazione si è concepito da alcuni anni il progetto di un grande gasdotto trans-sahariano (TSGP) (foto a destra), dalle coste del Golfo di Guinea a quelle mediterranee dell’Algeria. In alternativa è pure in gestazione un massiccio ampliamento (di circa 35 mld m3, comparabile alla portata del gasdotto) nella capacità dello stabilimento di liquefazione. La questione dell’export ne importa anzitutto una di natura politica: le risorse energetiche della Nigeria devono essere prioritariamente destinate all’estero o alla domanda interna (prevista in fortissima crescita da qui ai prossimi anni)? Considerato che i flussi realisticamente disponibili sono determinati dalle limitate capacità tecniche e finanziarie degli operatori, prima che dalle riserve, di fatto molto probabilmente si dovrà scegliere. In altra forma il dilemma si ripropone al passo successivo, riguardo all’infrastruttura: costruire il Grande Gasdotto (o nuovi treni di liquefazione per il GNL), o sviluppare una rete interna di distribuzione?
Qui entra in scena la compagnia russa Gazprom, con il suo piano in due tempi: prima la costruzione della rete di generazione e distribuzione elettrica, per un investimento complessivo di 2.5 mld di dollari, e poi la realizzazione della pipeline transahariana. Gazprom del resto si muove a tutto campo, ha formato una joint venture con Oando – dinamica compagnia nigeriana – per sviluppare progetti negli idrocarburi su tutta l’Africa occidentale.

PROSPETTIVE AFRICANE, INTERESSE EUROPEO – Mentre le grandi compagnie storiche si mostrano relativamente sicure di fronte all’offensiva russa (e sul TSGP anche Total e Shell hanno mostrato interesse), esistono anche diverse controindicazioni sul terreno: il gas proverrebbe in gran parte dal Delta del Niger, e le condotte sarebbero soggette al rischio di attentati da parte dei gruppi di guerriglia come il MEND – soprattutto se percepite o presentate come un simbolo dello sfruttamento straniero delle risorse nazionali.
Il tracciato attraversa regioni desertiche del Niger, dove spadroneggia la rivolta tuareg. In generale esiste una minaccia endemica da parte di Al Qaeda, e il territorio del Niger è in gran parte deserto, di per sé difficilmente controllabile, nei fatti sotto la giurisdizione di uno stato quasi privo di infrastrutture della sicurezza e di intelligence. Per converso il gasdotto toccherebbe (e servirebbe) anche una importante regione gasiera in Algeria. Ma i costi possono rivelarsi investimenti – la questione deve essere letta su una mappa geopolitica, in controluce agli interessi europei.
Come europei (e mediterranei) abbiamo un interesse forte a garantire lo sviluppo autonomo della Nigeria e dell’Africa occidentale: i soli nigeriani alimentano circa metà del flusso migratorio che si snoda attraverso il Sahara, passando per il crocevia di Agadez, fino alle coste mediterranee. Le grandi dorsali energetiche come il TSGP, o il West African gas pipeline (WAGP) dalla Nigeria al Ghana, non servono (potenzialmente) solo all’export, possono ramificarsi in connessioni interne al continente, essere l’embrione di una possibile rete energetica panafricana. Per il WAGP, già operativo, già si parla di una estensione fino al Senegal, e al TSGP in futuro potrebbe connettersi l’Angola – altro grande produttore subsahriano – e in prospettiva il Sudafrica (che sta esplorando le sue risorse di shale gas). A sua volta l’integrazione energetica e i grandi progetti infrastrutturali possono operare come catalizzatori di una cooperazione panafricana (o interafricana) di più ampio respiro, creando interessanti interdipendenze (si pensi al quartetto Algeria, Niger, Mali, Nigeria formatosi attorno al progetto TSGP). Dopotutto l’Unione Europea nasce come comunità dell’energia. La conduttura vincola strutturalmente il produttore a un certo mercato di destinazione, in questo caso la Nigeria (o l’Africa occidentale: anche il Ghana si appresta a diventare un paese esportatore) al Mediterraneo e all’Unione Europea. Considerata la concorrenza asiatica non sarebbe un aspetto di poco conto.
Come euromediterranei il gasdotto ci servirebbe il metano praticamente alle porte di casa (attraverso il gasdotto Galsi tra Algeria e Sardegna), e contribuirebbe a dare respiro al progetto dell’Italia come hub europeo del gas. Viceversa l’export di GNL potrebbe essere agevolmente intercettato su una rotta atlantica, a favore dell’hub britannico e dei suoi molti terminali già in essere.
L’interconnessione gasifera e petrolifera può essere un precursore dell’integrazione euroafricana di lungo periodo nell’energia, considerati i progetti Desertec (rete euromediterranea per sviluppare su vasta scala la generazione elettrica da solare) e l’ancor più ambiziosa visione del Potsdam Institut (rete euroafricana integrata delle rinnovabili, dall’idroelettrico norvegese al solare ed eolico dell’Africa).
E’ interesse europeo prevenire l’espansione di Gazprom. Non solo per evitare che il nostro principale fornitore di gas estenda il controllo su altre fonti di approvvigionamento. L’influenza russa si può sviluppare su profili molto delicati per la sicurezza strategica, Gazprom facilmente porta con sé – soprattutto nei grandi paesi in via di sviluppo – Rosatom, la possibile cooperazione nell’energia atomica e il pericoloso miraggio di una via nucleare allo status di potenza regionale egemone. Se pure i nigeriani non coltivassero queste fantasie geopolitiche e la Russia non deve essere considerata così inaffidabile da avallarle (ma in Venezuela ha appena stipulato un accordo di altissimo profilo, comprendente un vasto progetto di collaborazione nel nucleare) rimarrebbe il rischio di nuclear leak, di “perdite” di materiale e competenze a favore di altri paesi o movimenti terroristici. E’ il caso di ricordare che il terrorista del fallito attentato di Detroit è nigeriano.
Andrea Caternolo
C’è chi sale e c’è chi scende
Arriva una settimana rovente per la politica europea: gli accordi relativi agli aiuti alla Grecia ed al supporto all'Euro assumono contorni definiti e la fase di implementazione è già oggetto di difficile discussione. Anche le elezioni turbano la serenità di uno scenario politico che sembra risvegliarsi dal torpore: il cambio di Governo nel Regno Unito e la sconfitta elettorale della Merkel ne sono un segnale. Intanto le Filippine vanno al voto, ed in Nigeria si cerca l'accordo politico dopo la morte del Presidente.
L'Eurozona, dopo aver fatto un deciso passo avanti nelle modalità di aiuto alla Grecia (approvati i principali dettagli per finanziare le misure di contrasto alla gravissima crisi economica greca), si trova ad affrontare il nodo della protezione della moneta unica. Sembra infatti essere in corso una forte speculazione internazionale sull'euro, soprattutto attraverso la compravendita di titoli di Stato (non solo greci): i ministri delle Finanze della Ue hanno appena varato un pacchetto di misure per garantire la stabilità finanziaria in Europa. Il Regno Unito ne è rimasto fuori. Inoltre, è stata riconosciuta la possibilità di rischi relativi ai conti pubblici per Spagna e Portogallo, sebbene in settimana sia atteso da parte dell'Istituto Nazionale di Statistica spagnolo un rapporto che dovrebbe confermare la crescita del PIL spagnolo per la prima volta dal 2008.
Poca chiarezza e misure convulse dunque, che, insieme alla mancanza di una leadership riconosciuta, hanno giocato a sfavore del Cancelliere tedesco Angela Merkel, che ha perso le importanti elezioni nel Land Reno-Westfalia e, di conseguenza, la maggioranza della sua coalizione nel Senato federale. In settimana si vedrà quali ripercussioni questa sconfitta possa avere sul Governo tedesco e sulle sue posizioni in Europa.
Intanto, in controtendenza rispetto alle generali difficoltà attuali, l'Estonia si presenta alla Commissione Europea ed alla Banca Centrale per valutare insieme i progressi economici in vista di un possibile ingresso nell'euro.
Ancora incertezza anche in Gran Bretagna, dove le elezioni di settimana scorsa hanno restituito un risultato che lascia tutti scontenti: sono in corso negoziati e trattative per costruire un'alleanza che consenta di formare il governo, poiché dal voto nessun partito ha ottenuto la maggioranza necessari a governare da solo (circostanza che per la Gran Bretagna non è usuale).
Negli Stati Uniti si indaga sul presunto legame tra il fallito attentato a Times Square ed i Talebani del Pakistan: adesso sarà (ancor più) difficile per Stati Uniti trovare il modo di stimolare il Pakistan al controllo dei problemi interni legati al terrorismo, poiché ulteriori pressioni e scontri interni potrebbero destabilizzare (ancor più) il Paese.
Di seguito, come sempre, riportiamo alcuni degli eventi di maggior rilievo attesi per questa settimana.
-
Il Presidente russo Medvedev incontrerà il suo omologo turco, Abdullah Gul, ed il Primo Ministro turco Recep Tayyip Erdogan: si discuterà di possibili accordi su questioni energetiche. Sempre in tema di accordi sulle risorse energetiche, Erdogan dovrebbe firmare un accordo sul gas con l'Azerbaijan.
-
Il Parlamento francese discuterà una proposta di legge sul divieto di indossare il velo integrale in pubblico.
-
Nelle Filippine si tiene una importantissima tornata elettorale: si voterà infatti per il nuovo Presidente, per il Parlamento e per gli organi locali.
-
Il Presidente afghano Karzai volerà negli Stati Uniti per un incontro con Barak Obama. Dopo le tensioni degli ultimi mesi, l'aumento di attacchi contro le truppe e le previste nuove ed intense attività militari nel sud dell'Afghanistan, è atteso un incontro che potrebbe dare importanti indicazioni sull'evoluzione della strategia americana.
-
In Perù si aprirà una gara internazionale per assegnare importantissimi contratti di esplorazione petrolifera.
-
Nigeria: dopo la morte del Presidente Umaru Yar'Adua, sono in corso intensi negoziati tra le parti politiche del Paese per la definizione dei nuovi equilibri interni. Il Presidente Goodluck Jonathan, ex vice-presidente subentrato a Yar'Adua, dovrebbe intanto inviare al Parlamento la proposta di nomina per la carica di nuovo vice-Presidente.
La Redazione
10 maggio 2010
Non solo samba…
Inizia oggi una nuova rubrica dedicata agli imminenti Mondiali di calcio, che si svolgeranno in Sudafrica a partire dal prossimo 11 giugno. Vi presenteremo ognuna delle 32 nazioni partecipanti con le loro squadre, ovviamente con lo stile che ci contraddistingue. Potevamo non cominciare dalla favorita? Ecco a voi la seleção.
…e nemmeno soltanto calcio. Il Brasile è un Paese che va preso sul serio e che nei prossimi anni dovrà essere tenuto sempre in maggiore considerazione. Il Paese più grande di tutta l’America Latina è infatti una delle principali potenze emergenti mondiali a livello economico e aspira ad essere un protagonista sulla scena globale già a partire da questo decennio. Anzi, a partire da quest’anno, perché ad ottobre si terranno le elezioni presidenziali, evento importantissimo perché circa 150 milioni di brasiliani dovranno recarsi alle urne per decidere il successore di Lula, che dopo otto anni e due mandati al potere dovrà passare la mano, come prevede la costituzione.
A contendersi la Presidenza ci sono Dilma Rousseff, candidata del centrosinistra designata proprio da Lula, e José Serra, esponente del centrodestra e governatore uscente dello Stato di San Paolo. Il vincitore si dovrà di fronte numerose sfide. Innanzitutto, mantenere alto il livello di crescita economica del Brasile, compatibilmente con l’aumento dell’uguaglianza sociale, puntando sui settori industriali forti (aeronautica e siderurgia) e sulla “manna” petrolifera scoperta di recente (al largo dell’Oceano Atlantico si nasconderebbero riserve stimate in un valore di 100 miliardi di barili equivalenti). Poi dovrà cercare di imporre il Brasile come attore di primo piano a livello politico globale: sul tappeto vi sono, per esempio, la riforma del Consiglio di Sicurezza dell’ONU e delle istituzioni finanziarie più importanti, Fondo Monetario Internazionale e Banca Mondiale. Last but not least, dovrà occuparsi di organizzare gli eventi più attesi dagli sportivi: i Mondiali di calcio del 2014 e le Olimpiadi di Rio del 2016. Mica poco…
-
Il Brasile potrebbe diventare la quarta potenza economica mondiale nel giro del prossimo quadriennio.
-
È il secondo produttore mondiale di biocarburanti, presto potrebbe diventare un esportatore netto di petrolio e Lula ha annunciato la costruzione di una nuova diga enorme sul Rio delle Amazzoni, seconda per dimensioni solo a quella di Itaipú (che peraltro è la più grande del mondo): un bel modo di diversificare le proprie fonti di approvvigionamento energetico.
-
È uno dei pochi Stati ad aver risentito in maniera molto marginale della crisi economica globale. La relativa chiusura rispetto alle transazioni economiche internazionali e la minore dipendenza dallo sfruttamento delle materie prime (i cui prezzi sui mercati finanziari sono crollati in concomitanza con lo scoppio della crisi) ha permesso al Brasile di uscirne indenne e di ripartire con slancio.

ECCO LA SELEÇÃO Ogni descrizione della squadra brasiliana potrebbe sembrare superflua: chi non conosce il calcio spettacolo di cui la formazione verdeoro è notoriamente la migliore esponente? Se il Brasile non è ancora una potenza globale di assoluta grandezza a livello politico ed economico, lo è invece, e da molto tempo, in ambito calcistico. Forte del “penta”, ovvero il record di cinque titoli mondiali vinti (l’ultimo nel 2002 in Giappone e Corea del Sud) e del primo posto nel ranking FIFA, la squadra sudamericana si presenta in Sudafrica con i favori del pronostico. E come potrebbe essere altrimenti con stelle di primo livello in ogni reparto, da Julio Cesar tra i pali a Kaká in attacco, passando per Lucio e Maicón in difesa e Dani Alves a centrocampo? L’allenatore Dunga, un’altra vecchia gloria, non avrà certo difficoltà a mettere in campo formazioni in grado di far paura a qualunque avversario.
Il Brasile è nel girone G e dovrà vedersela con il Portogallo per vedere chi si aggiudicherà il primo posto nel raggruppamento, oltre alla Costa D'Avorio del temibilissimo Drogba. Poche sembrano essere le chance per la Corea del Nord, destinata molto probabilmente a giocare il ruolo di “comparsa”.
GEOPALLONE E’ evidente l’importanza del calcio per la società e l’economia brasiliana. Per molti giocatori provenienti dalla povertà e dal degrado delle favelas il successo nello sport è stato il mezzo per ottenere un riscatto sociale, ma nella nazionale giocano anche stelle che vengono invece dal Brasile ricco e più sviluppato (come ad esempio Kaká).
Una partita di calcio, per la popolazione locale, non è soltanto una partita di calcio, soprattutto se l’avversario è un’altra nazionale sudamericana. Ovviamente il riferimento è all’Argentina, che viene regolarmente sfidata durante le qualificazioni in incontri che assumono un significato speciale e mettono in luce la rivalità latente tra le due più importanti nazioni del continente.
Mondiali di calcio, però, vogliono dire anche tanti, tanti soldi. Sono quelli che gireranno intorno all’organizzazione del prossimo torneo, che si svolgerà nel 2014 proprio in Brasile. Sarà la seconda volta che il colosso sudamericano ospiterà la manifestazione (la prima fu nel 1970), e accadrà a distanza ravvicinata con l’altro evento sportivo più importante a livello globale, le Olimpiadi, che si terranno a Rio de Janeiro nel 2016. La vittoria delle candidature brasiliane ha un’importanza notevole a livello politico, ed è il riconoscimento del ruolo sempre più di primo piano che lo Stato ricopre in ambito internazionale. L’organizzazione di Mondiali e Olimpiadi sarà anche un’importante occasione di sviluppo economico, perché sono già in cantiere importantissime opere infrastrutturali che attireranno investimenti e creeranno posti di lavoro.
Davide Tentori
Un viaggio per sopravvivere
In questi giorni il leader nord-coreano Kim Jong Il è in visita a Pechino per incontrare il Presidente della Repubblica popolare cinese Hu Jintao e i principali leader cinesi. La ragione di questo viaggio va ricercata nella speranza nordcoreana che Pechino conceda degli aiuti internazionali di tipo economico e politico che consentano alla Corea del Nord di sopravvivere alla drammatica crisi economica in cui si ritrova.
UN PAESE FUORI DAL TEMPO – La Corea del Nord è governata da una delle più rigide dittature al mondo. I quasi 23 milioni di abitanti vivono in una situazione di estrema povertà, chiusi in un mondo fermo agli anni ’50 e sono educati al culto del partito e di Kim Il Sung, fondatore della Repubblica democratica popolare di Corea (come viene ufficialmente chiamato il paese), padre dell’attuale leader e, secondo la Costituzione, “eterno Presidente”. Il paese sopravvive solo grazie agli aiuti internazionali, che però vengono in buona parte utilizzati per sostenere il lussuoso stile di vita di Kim Jong Il. Tali aiuti vengono ottenuti con la minaccia di utilizzare le armi nucleari di cui la Corea del Nord è in possesso.
IN PELLEGRINAGGIO DALL’UNICO ALLEATO – Per risolvere i problemi economici del Paese, Kim Jong Il, accompagnato dall’elite nazionale, si è recato a Pechino, per la prima volta dopo il primo test nucleare nel 2006, per chiedere a Hu Jintao di concedere nuovi finanziamenti che possano permettere ai nordcoreani di non morire di fame. Inoltre il “caro leader” (come viene soprannominato Kim) chiede all’alleato cinese di intercedere favorevolmente presso le Nazioni Unite e le grandi potenze mondiali con lo scopo di impedire che vengano adottate delle sanzioni economiche contro la Corea del Nord e che il Consiglio di Sicurezza dell’Onu si pronunci contro la politica di Pyongyang. Questo incontro segue quelli fra Hu Jintao e il Presidente della Corea del Sud Lee Myung-Bak e fra le autorità cinesi ed il numero due nordcoreano Kim Yong-Nam in occasione dell’inaugurazione dell’Expo di Shanghai.
UNA SITUAZIONE INSTABILE – I rapporti fra la Corea del Nord e i propri vicini sono instabili fin dal termine della guerra con il Sud nel 1953. Infatti lo scontro bellico fra le due Coree non si concluse con un trattato di pace, ma semplicemente con una tregua che non garantì alcuna stabilità. Nel corso degli anni la Corea del Nord ha più volta minacciato Seoul di riaprire le ostilità, ma nell’ultimo decennio la situazione si è inasprita. Dopo il 1989 Pyongyang smise di ricevere aiuti dalla Russia ed accusò una pesante crisi economica. Per assicurarsi nuovi finanziamenti la Corea del Nord adottò una politica di minaccia bellica, avviando la produzione di armi nucleari, testando missili a lunga gittata e provocando incidenti lungo il confine con la Corea del Sud. Proprio recentemente nelle acque territoriali del Nord si è verificata l’esplosione di una nave della guardia costiera sudcoreana, per la quale si suppongono responsabilità di Kim Jong Il. Pyongyang è così riuscita ciclicamente ad ottenere sostegno economico in cambio della rinuncia ai propri propositi militari, cosa che ha accentuato il clima di instabilità lungo la penisola coreana.
IL DILEMMA DI PECHINO – L’alleanza tra Cina e Corea del Nord risale alla guerra degli anni ’50 ed è sempre stata molto solida. Tuttavia l’atteggiamento sempre più imprevedibile del governo di Kim Jong Il e la crescita di peso e di responsabilità sullo scenario internazionale della Repubblica popolare cinese ha recentemente causato alcuni mutamenti. La Corea del Nord è diventato così un alleato scomodo che contrasta col proposito cinese di avere un’Asia nordorientale pacificata e concentrata solo su questioni commerciali. Anche a Pechino dunque si manifesta un senso di fastidio per l’atteggiamento dei vicini nordcoreani e si cerca di prendere le distanze dalle decisioni più imbarazzanti. Ad esempio nel 2009, in un periodo fortemente condizionato dalle minacce di test missilistici, i cinesi annullarono un incontro con le autorità nordcoreane, dimostrando così di non essere favorevoli a tale politica. Sebbene la Corea del Nord non sia il migliore degli alleati possibili, la Cina deve confrontarsi con quanto potrebbe accadere nel caso di dissoluzione del paese, un evento reso verosimile anche dalle precarie condizioni di salute di Kim Jong Il. Infatti vi sono alcuni rischi che Pechino preferisce non correre. Se il regime di Pyongyang crollasse, Il Sud potrebbe annettersi il Nord andando a costituire un forte concorrente regionale, oppure si potrebbe creare una situazione di instabilità che è proprio ciò che la Cina vuole evitare. Inoltre una eventuale dissoluzione nordcoreana potrebbe causare la fuga di milioni di rifugiati verso il confine cinese, destabilizzando l’economia della province nordorientali della Cina. Per scongiurare tali scenari Hu Jintao e gli altri leader cinesi hanno interesse che il regime di Kim non crolli; pertanto riconosceranno probabilmente alla Corea del Nord gli aiuti richiesti, anche se in cambio verranno pretese alcune concessioni di tipo politico.
La visita di Kim Jong Il a Pechino può essere vista come la prima azione di un nuovo atteggiamento più remissivo della Corea del Nord nei confronti della Cina in cambio di sostegno economico.
Filippo Fasulo


