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Un nuovo conflitto?

Uno scenario tutt’altro che improbabile o disfattista. Nell’ultimo mese, diverse dichiarazioni, da parte israeliana ma non solo, sembrano volte a preparare le opinioni pubbliche interne. E i negoziati sullo scambio di prigionieri e Gilad Shalit potrebbero svolgere un ruolo determinante

SCENARI DI GUERRA – Coma va a Gaza? Male. Molto male. Non solo perché la situazione umanitaria è ogni giorno più drammatica. Non solo perché la guerra di dicembre-gennaio con l’incursione israeliana nella Striscia (1400 morti) non ha risolto nulla, anzi. Non solo perché Hamas non accenna minimamente a cambiare strategia, sempre più decisa nella sua politica di riarmo. Questi elementi sono solo alcuni di quelli che contribuiscono a creare uno scenario decisamente cupo. Ma soprattutto, e qui sta la questione centrale, gli scenari prossimi potrebbero essere ancora più devastanti. Perché se è vero che non troverete nessuno disposto a metterci mani sul fuoco, è altrettanto vero che diversi fatti concorrono a rendere sempre più possibile lo scenario di un nuovo conflitto nella Striscia nel breve termine. Quasi nessuno ne sta parlando, ma un simile scenario non è affatto da escludere, soprattutto se, come vedremo poi, altre questioni tra le parti non riusciranno a sbloccarsi a breve.  

DAL RAZZO IN POI – Torniamo indietro di un mese. È il 3 novembre quando Amos Yadlin, direttore dell’Intelligence militare israeliana, annuncia il lancio di un razzo in mare compiuto da Hamas. Il lancio doveva rimanere segreto, ma è stato intercettato dai radar israeliani. Un esperimento con un particolare allarmante: la gittata del razzo, che può essere lanciato anche da una rampa sistemata su un semplice autocarro, è di 60 chilometri, e dunque, se lanciato dal punto più settentrionale della Striscia di Gaza, potrebbe arrivare a colpire Tel Aviv. E alla Knesset, il Parlamento israeliano, Yadlin ha riferito che l’arsenale militare di Hamas è di gran lunga più ricco rispetto a un anno fa, nell’imminenza dell’Operazione Piombo Fuso. Inoltre, egli ha affermato che tale riarmo indica un chiaro segnale di rinnovata volontà di un conflitto con Israele, e che quest’ultimo razzo voleva essere una sorta di “arma a sorpresa” da riutilizzare in un prossimo conflitto. Un razzo di tale gittata parrebbe dunque alterare il bilanciamento della deterrenza, che Israele dichiarò di aver ristabilito in gennaio, al termine dell’incursione nella Striscia. La questione centrale però non è tanto il fatto in sé, quanto il modo con cui Yadlin ha riferito del lancio. Parlare alla Knesset è equivalso di fatto a parlare all’opinione pubblica. La modalità di comunicazione ha infatti tolto un velo, iniziando a preparare il pubblico relativamente ad un nuovo conflitto a Gaza. Hamas, che sa bene come una nuova incursione israeliana risulterebbe per la già martoriata Gaza un disastro senza confini, ha smentito il lancio, denunciando la falsità della dichiarazione israeliana, volta a influenzare le discussioni Onu sul Rapporto Goldstone relativo al conflitto di dicembre-gennaio, e istigare l’opinione pubblica. 

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VOLANO ACCUSE – Una decina di giorni dopo, il Capo di Stato Maggiore dell’esercito, Gabi Ashkenazi, ha dichiarato: “Se i lanci continueranno, l’esercito non esiterà a rispondere contro questi”. La frase in sé potrebbe apparire quasi di circostanza, se il contesto non fosse stato quello di un dialogo con un gruppo di studenti delle superiori in una scuola di Beer Sheva. Un altro segnale indirizzato non tanto a politici e istituzioni, quanto all’opinione pubblica. Difendendo la giustizia dell’Operazione Piombo Fuso, Ashkenazi ha rilanciato così: “Quando arrivano razzi su Beer Sheva, dobbiamo difenderci, e così abbiamo fatto. Ed esiste la possibilità che saremo costretti a farlo di nuovo”. Da questa dichiarazione è partito il monito del leader di Hamas, Ismail Haniyeh, che alla televisione iraniana ha denunciato la volontà israeliana relativa ad una nuova offensiva nella Striscia, mentre Hamas, come dichiarato ad una delegazione della Croce Rossa, “non sta cercando nuova violenza. Ma se Israele attaccherà, ci faremo trovare preparati e combatteremo con tutti i mezzi a nostra disposizione”. Al di là delle schermaglie verbali, rimane l’obiettivo: preparare le opinioni pubbliche, affinchè un possibile nuovo conflitto non le colga di sorpresa. E da questo punto di vista, in Israele le parole di Yadlin e Ashkenazi hanno subito trovato riscontro sulla stampa.  Su Yediot Ahronot, uno dei giornali più diffusi in Israele, l’analista militare Alex Fishman ha scritto: “Nessuno ai vertici delle forze armate dubita della necessità di andare incontro ad un nuovo scontro militare con Hamas. È credibile affermare che lo scontro riprenderà su larga scala a dicembre, ad un anno esatto da Piombo Fuso”. Il lancio del razzo a lunga gittata avrebbe segnato dunque l’inizio del countdown. La tensione regionale (negoziati sul nucleare iraniano appesi a un filo, instabilità interna palestinese) potrebbero solo accelerare tutto questo. Come spiega un editoriale di Yisrael Hayom, “Per Israele è meglio essere un occupante ma in pieno controllo della situazione piuttosto che rimanere passivo lasciando ad Hamas la sua capacità strategica”. 

DIPENDE DA GILAD? – In realtà, Israele non ha nessun interesse o convenienza a occupare nuovamente la Striscia di Gaza. I benefici sarebbero incerti, e i costi altissimi. Tra l’altro, da una ventina di giorni su questo scenario è calato il silenzio, soprattutto perché i negoziati per lo scambio di prigionieri tra le parti – che porterebbero alla liberazione del soldato israeliano Gilad Shalit, da tre anni e mezzo nelle mani di Hamas, in cambio di 1000 detenuti palestinesi (tra cui probabilmente Marwan Barghouti, uno dei leader del braccio armato di Fatah durante la Seconda Intifada) – stanno per giungere ad un punto cruciale. Le due questioni sono collegate: se lo scambio andrà in porto, uno scenario conflittuale sembrerebbe meno possibile, o quanto meno rimandato nel tempo. Se tutto dovesse saltare improvvisamente, però, ecco che queste dichiarazioni volte a preparare l’opinione pubblica tornerebbero violentemente alla ribalta, e non potrebbero essere ignorate. 

Alberto Rossi [email protected]

Salta il banco?

Situazione sempre più intricata in Palestina: una frase di Hillary Clinton scatena il putiferio, con Abu Mazen che annuncia di non volersi ricandidare, minacciando le dimissioni. E le elezioni appena fissate per gennaio rischiano già di saltare

NON SI RICANDIDA – L’ultimo aggiornamento sulla situazione interna palestinese (Cfr. L’ora dell’appello) raccontava della mossa a sorpresa del Presidente palestinese Abu Mazen, leader di Fatah, che ha deciso di indire unilateralmente le elezioni parlamentari e presidenziali per il prossimo 24 Gennaio, senza attendere un accordo con la controparte Hamas. Sembrava che la mossa seguente toccasse proprio a questi ultimi, invece il nuovo colpo a sorpresa è stata ancora di Abu Mazen, che il 7 Novembre ha annunciato la sua volontà di non ricandidarsi alle elezioni di gennaio. Perché questa scelta? Il quadro si schiarisce un po’ andando a leggere le dichiarazioni rilasciate tre giorni prima A Gerusalemme da Hillary Clinton, Segretario di Stato Usa: “Il congelamento degli insediamenti israeliani in Cisgiordania non è una pre-condizione per il riavvio dei negoziati tra le parti”. 

HILLARY SHOCK – Per i Palestinesi, una simile frase ha l’effetto di un pugno in faccia, e di quelli forti. E poco importa che due giorni dopo la Clinton in Marocco provi a metterci una pezza, dichiarando che gli Usa continuano a opporsi alla politica israeliana in merito. Di fatto, in questi primi nove mesi di amministrazione Obama, gli Usa sono sempre rimasti fermi nel chiedere a Israele il congelamento totale degli insediamenti, come pre-condizione per ricominciare i negoziati, così come chiedevano i Palestinesi (e come previsto dalla Road Map siglata dal Quartetto Onu-Usa-Russia-Ue nel 2003). A settembre un accordo in merito sembrava imminente, poi il Governo Netanyahu ha tenuto duro, ottenendo che a Washington si parli ora di contenimento degli insediamenti, e non di congelamento. E nonostante l’incontro di questa settimana tra Netanyahu e Obama non sia stato certo tra i più positivi, è un dato di fatto che in Palestina tali dichiarazioni sono state viste come l’ennesimo appiattimento americano sulle politiche israeliane. Nessun nuovo corso, dunque, con Obama Presidente: tutte le speranze dei primi mesi sembrano svanite, e tra i Palestinesi vi è ora grande sfiducia sulla possibilità che Obama possa cambiare le cose. Anche l’appoggio a Israele contro il Rapporto Goldstone (che condanna come crimini di guerra le azioni israeliane compiute durante il conflitto a Gaza dello scorso inverno) ha stroncato sul nascere l’ipotesi ventilata di una sorta di scambio: mutare politica nei Territori palestinesi in cambio dell’insabbiamento del rapporto. 

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E LE ELEZIONI? – In tale situazione, Abu Mazen (nella foto) ha deciso di “metterci la faccia”, dicendo: a queste condizioni, non ci sto più. Il Presidente palestinese ha infatti detto di trovarsi in un vicolo cieco: o tornare alla resistenza e all’unità nazionale, in una sorta di nuova Intifada, sprecando qualsiasi spiraglio di pace (opzione che Abu Mazen certamente non predilige, oltre che essere di fatto impraticabile per mancanza di organizzazione e di una benchè minima coesione nazionale), oppure proseguire negoziati sterili e infruttuosi, accettando le condizioni israeliane e, in pratica, andando incontro ad un vero e proprio suicidio politico. In poche parole, Abu Mazen lancia il guanto di sfida, mettendo pressione soprattutto sugli Usa, affinchè non cedano alle condizioni israeliane e pongano le condizioni per superare lo stallo del processo di pace, ufficialmente sospeso nel gennaio scorso in seguito all’offensiva israeliana nella Striscia di Gaza. Difficilmente, però, questa mossa sarà sufficiente ad uscire da un’impasse che, intanto, cresce sempre più. Alla luce delle divisioni inter-palestinesi e del mancato raggiungimento di un accordo nazionale, appare difficile che le elezioni di gennaio possano svolgersi. E proprio oggi, la Commissione elettorale dell’Autorità Palestinese ha dichiarato che le elezioni devono essere rinviate, poiché non vi sono le condizioni per garantire un corretto svolgimento delle stesse. Sul voto di gennaio pesa infatti l’opposizione di Hamas, che ha già minacciato di vietare la consultazione all’interno della Striscia di Gaza. 

TUNNEL SENZA FINE? – La palla torna ora ad Abu Mazen, che deve decidere se rinviare o meno le elezioni. Comunque vada, il quadro è sempre più ingarbugliato. Se le elezioni saranno effettivamente rinviate, vi saranno altri mesi di stallo politico, a meno che Hamas decida di firmare l’accordo di unità nazionale. Se le elezioni si svolgeranno in questo clima di incertezza, è in ogni caso difficile prevedere una svolta politica in assenza di negoziati. Qualunque Presidente palestinese non potrebbe accettare le condizioni israeliane che Abu Mazen rifiuta. E nello stesso tempo, se quest’ultimo si rimangiasse la parola, ricandidandosi in assenza di sviluppi sui negoziati, perderebbe la faccia davanti ai suoi elettori. Difficile, in questo momento, vedere un po’ di luce in fondo a questo tunnel, ogni giorno più intricato. 

Alberto Rossi [email protected]

Stella del Sud

Il gigante sudamericano sembra avere tutte le carte in regola per essere un grande protagonista del 2010 sulla scena economica globale. Ecco come il governo di Lula è riuscito a compiere un vero e proprio successo

SETTE ANNI DOPO – Non era la prima volta che ci provava Luiz Inácio da Silva, soprannominato “Lula”, a diventare presidente del Brasile. Nel 1989, infatti, era stato sconfitto dal rivale di centrodestra Fernando Collor de Mello e nel 1994 e 1998 dovette cedere il passo a Fernando Cardoso, il primo a gettare le basi per l’attuale sviluppo del Paese. Nel 2002, però, il quarto tentativo fu quello giusto: contro José Serra, candidato del Partito Socialdemocratico, la coalizione di Lula, guidata dal suo Partido dos Trabalhadores (Partito dei Lavoratori), ebbe finalmente la meglio con il 62% dei voti. Il successo dell’ex operaio e sindacalista aveva allarmato un po’tutti, dentro e fuori il Brasile: innanzitutto per i dubbi in merito alla sua preparazione culturale (Lula possiede soltanto la licenza elementare e un diploma di istruzione tecnica), poi per i timori che l’orientamento di sinistra del nuovo Presidente provocasse una sterzata simile a quella avuta tre anni prima dal Venezuela, quando era salito al potere Hugo Chávez. Invece, non si verificò nulla di tutto questo e sette anni dopo il Brasile è l’ottava economia mondiale ed una potenza in continua crescita. 

LE RAGIONI DEL “BOOM” – Come è stato possibile un simile successo? La soluzione risiede nel pragmatismo utilizzato dall’amministrazione Lula nei suoi due mandati. Ben lungi dal farsi tentare dalle “sirene” del populismo di sinistra che ha preso piede in America Latina a partire dall’avvento del regime chavista, il leader brasiliano ha adottato politiche macroeconomiche sagge ed equilibrate, senza rinnegare gli assunti del capitalismo, affiancando ad esse politiche sociali volte a redistribuire il reddito e a combattere la povertà di cui soffriva ancora una percentuale vastissima della popolazione. Lula non ha fatto altro che sfruttare nel modo giusto le enormi potenzialità di cui è donato il Brasile: dal punto di vista delle materie prime e dello sviluppo industriale, dove al rafforzamento di veri e propri protagonisti globali come Embraer (aeronautica), Petrobras (idrocarburi) e Vale (estrazione mineraria) è stato affiancato un sistema di piccole e medie imprese sull’esempio di quanto già sperimentato in Europa. Lo Stato ha usato la crescente disponibilità di risorse per varare due importanti progetti, Bolsa Familia e Fome Zero, che hanno consentito a più di dieci milioni di famiglie di migliorare le loro condizioni economiche e sociali, potendo accedere con più facilità ai servizi sanitari ed educativi. Per la prima volta, dunque, la “forbice” tra ricchi e poveri si è ristretta anziché allargarsi e, anche se si attesta su livelli ancora molto alti di disuguaglianza, l’indice di GINI è sceso dallo 0,637 del 2001 allo 0,594 del 2008.Lula ha consentito al Brasile di crescere con moderazione ma continuità, a tassi di aumento del PIL del 3-4% annuo: niente a che vedere con il 10% del Venezuela o l’8% dell’Argentina, ma mentre questi ultimi termineranno il 2009 in recessione per effetto della crisi globale, il primo registrerà ugualmente una crescita superiore al 2%. Il segreto? Non aver fondato il proprio modello di sviluppo solo sullo sfruttamento delle materie prime, esposte alla volatilità dei prezzi internazionali, ma anche e soprattutto sulla diversificazione delle attività produttive e sull’ampliamento della domanda interna attraverso l’aumento del reddito di decine di milioni di cittadini. Non va infatti trascurato che il Brasile ha risentito solo in maniera marginale della crisi globale potendo vantare un mercato interno enorme (190 milioni di abitanti e potenziali consumatori) e in continua espansione proprio per il reddito pro capite in costante e reale aumento, nel senso che la bassa inflazione consente ai cittadini brasiliani di vedere aumentare concretamente il proprio potere d’acquisto (mentre a Caracas prezzi un aumento annuo dei prezzi del 30% vanifica totalmente il saggio di crescita del PIL avuto in questi anni).

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IL FUTURO – Sembra essere roseo per il Brasile, che dagli analisti viene riconosciuto pressoché all’unanimità come uno dei principali protagonisti del prossimo decennio sulla scena globale. Nel 2010 la macchina economica nazionale dovrebbe viaggiare col vento in poppa, in quanto la CEPAL (Commissione Economica per l’America Latina e i Caraibi, agenzia dell’ONU) prevede una crescita del PIL superiore al 5%. In più, l’assegnazione di mondiali di calcio (nel 2014) e di Olimpiadi (nel 2016) rappresenta un’occasione di sviluppo irripetibile in termini di infrastrutture e di creazione di nuovi posti di lavoro.Attenzione però ad alcune criticità in ambito economico e politico. Non va dimenticato che milioni di cittadini brasiliani vivono ancora in condizioni di povertà estrema, alla quale si collegano problemi di malessere sociale e di insicurezza dovuta alla forte criminalità. Inoltre, la persistenza di alti tassi di interesse (superiori da anni al 15%), che da una parte hanno potuto contenere l’inflazione attraverso politiche monetarie restrittive, potrebbero frenare gli investimenti necessari proprio per realizzare gli ambiziosi progetti di cui si è accennato sopra. Dal punto di vista politico, infine, il 2010 sarà un anno cruciale perché ad ottobre si svolgeranno le elezioni presidenziali. Secondo la Costituzione, Lula dovrà farsi da parte avendo esaurito i due mandati: in pole position c’è il redivivo José Serra, candidato dell’opposizione, che si vedrà con l’attuale ministro della Casa Civil Dilma Rousseff. Chiunque vincerà, non potrà uscire dal solco tracciato in questi dieci anni: un ritorno al liberismo estremo, così come una sterzata verso lo statalismo e il nazionalismo economico si rivelerebbero deleterie per un Paese che ha finalmente imboccato la strada giusta. 

Davide Tentori 30 dicembre 2009 [email protected]

La guerra di Hugo

Il leader venezuelano denuncia l’imminenza di un’aggressione da parte degli Stati Uniti proveniente dalle basi caraibiche. Cosa c’è di vero? Le priorità Usa sono ben altre; di sicuro, però, c'è la la necessità di Chavez di nascondere le difficoltà interne

NATO VS VENEZUELA?L’Olanda starebbe per invadere il Venezuela. Non è una partita a Risiko, bensì è lo scenario che è stato denunciato dal presidente della Repubblica Bolivariana, Hugo Chávez. Alcuni giorni fa, infatti, il leader sudamericano ha parlato pubblicamente dell’esistenza di un piano per aggredire il proprio Paese da parte degli Stati Uniti, con la complicità dell’Olanda e della Colombia. Cosa c’entra la nazione europea in tutto ciò? È presto detto: L’Aja possiede, al pari della Francia (che detiene l’isola di Guadalupe), ancora territori oltremare nei Caraibi, retaggio del suo impero coloniale. Nel caso specifico si tratta delle isole di Curazao e di Aruba, situate a poche miglia dalle coste venezuelane e sulle quali da pochi anni sono presenti delle basi statunitensi. Secondo il Ministero della Difesa venezuelano, nei primi giorni di dicembre dei “droni” (aerei senza pilota) avrebbero invaso lo spazio aereo nazionale allo scopo di effettuare azioni di spionaggio in vista di una fantomatica invasione volta a rovesciare il regime di Chávez. Un complotto che avverrebbe in combutta non solo con l’Olanda, dal cui territorio sarebbero partite le incursioni aeree, ma anche con la Colombia, acerrima nemica che sarebbe già pronta a fornire un finto “casus belli” inscenando la presenza di un accampamento di guerriglieri ostili a Bogotá situato in territorio venezuelano.  

RITORNO ALLA REALTA’ – Cerchiamo ora di tornare alla realtà degli eventi. È vero che le isole di Aruba e Curazao ospitano delle installazioni militari statunitensi e che da lì decollano aerei senza pilota allo scopo di monitorare le rotte del narcotraffico (Maracaibo è uno dei porti principali per lo smercio della cocaina, diretta soprattutto negli Stati Uniti ma anche in Europa), così come è vero che in un’occasione, ammessa da un portavoce del SOUTHCOM (il Comando del Dipartimento della Difesa Usa responsabile per l’America Latina), Stephen Lucas, un drone americano ha violato per errore lo spazio aereo venezuelano. Tuttavia, questa fattispecie sembra essersi verificata ben sette mesi fa, mentre degli episodi recenti non è giunta alcuna conferma né dal Pentagono, né dal Ministro della Difesa olandese, Eimert van Middelkoop. Da qui a sostenere l’imminenza di un attacco da parte degli Stati Uniti, che tra l’altro coinvolgerebbe persino un Paese europeo membro della Nato, la distanza sembra essere però ampia. Anche se Washington avesse interesse a rovesciare il regime chavista, (dopo il tentativo fallito di golpe nel 2002, nel quale pare che la CIA avesse una certa dose di responsabilità), non sembra questo il momento più indicato per farlo. Le priorità della Casa Bianca in politica estera sono ben altre, nel breve e nel medio periodo, e sono rivolte essenzialmente alla lotta contro il terrorismo internazionale, a maggior ragione dopo i recenti “grattacapi” che sono giunti per Obama dallo Yemen. Se a questo si aggiunge il pressoché totale disinteresse dell’ attuale amministrazione USA per le vicende latinoamericane – ad eccezione del maldestro tentativo di mediazione in Honduras – si può concludere che la presa di Caracas non è proprio in cima alla lista delle priorità del leader Democratico.

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IMPLICAZIONI – Queste considerazioni non devono comunque far pensare che Washington non abbia interesse a tenere sotto controllo la zona. Come già detto, per il mar dei Caraibi transitano enormi quantità di droga e potrebbero anche essere presenti traffici illeciti di materiale adatto alla produzione di energia nucleare, come l’uranio. L’alleanza sempre più stretta tra Venezuela e Iran potrebbe indurre la Casa Bianca a vigilare con maggior attenzione, così come la presenza, poco distante, di navi della Marina russa. Mosca, sempre in ragione dell’amicizia con Caracas, è da qualche tempo riapparsa in America Latina allo scopo di effettuare esercitazioni congiunte con la Marina venezuelana. È presumibile perciò ipotizzare che tra le varie potenze presenti nella regione ci siano reciprochi controlli, più o meno leciti. Le ragioni di quest’ultima boutade di Chávez risiedono però essenzialmente nel continuare a distogliere l’attenzione dell’opinione pubblica dai problemi che sta attraversando il Venezuela. Il Paese ha concluso il 2009 in recessione con un’inflazione al 30% e anche i primi giorni del 2010 sono stati caratterizzati da episodi di razionamento di acqua ed energia elettrica, il che sembra un paradosso in una nazione che ha nelle risorse energetiche la fonte principale della propria ricchezza.Il caudillo sudamericano dovrebbe però agire con più lungimiranza: attaccare l’Olanda significa anche, in una certa misura, prendersela con la Nato e con l’Unione Europea. Questo potrebbe rivelarsi controproducente in vista del Vertice UE – America Latina, in programma a maggio a Madrid, nel quale si discuterà degli accordi commerciali con i Paesi della regione. A chi giova tirare troppo la corda? 

Davide Tentori 7 gennaio 2010 [email protected]

Colpo di grazia

Il terribile terremoto di martedì 12 è l’ennesima tragedia che colpisce uno dei Paesi più poveri del mondo. I perché del fallimento della nazione caraibica, figlio di una storia quanto mai travagliata

HAITI DEVASTATA – Nel tardo pomeriggio di martedì 12 gennaio (quando in Italia era già notte), Haiti è stata devastata da un terribile terremoto. Un sisma, o meglio uno sciame sismico (ovvero una sequenza di scosse) di forte intensità, il cui epicentro è stato registrato a pochi chilometri dalla capitale Port-au-Prince, ha provocato una vera e propria tragedia portando alla distruzione della maggior parte degli edifici (anche alcuni istituzionali, come la sede delle Nazioni Unite) e facendo rimanere sotto le macerie migliaia di persone. Gli italiani presenti sull’isola, quasi tutti impegnati in organizzazioni internazionali e umanitarie, dovrebbero essere circa un centinaio, ma al momento non è ancora possibile stabilire se siano tutti al sicuro, così come non si può effettuare un bilancio delle vittime. 

IN FONDO ALLE CLASSIFICHE – Haiti è situato nei Caraibi e fa parte geograficamente dell’isola di Hispaniola, occupata per l’altra metà dalla Repubblica Dominicana (dove il sisma pare sia stato avvertito senza particolari conseguenze). Si tratta dell’unico Stato indipendente situato nel continente americano di lingua francofona ed è anche il più arretrato di tutto il continente. Il reddito pro capite è il più basso in America (1300 dollari annui, meno di 2 dollari al giorno, il che pone Haiti sotto la soglia di povertà e nella fascia degli LDC, i Paesi meno sviluppati al mondo), ma anche gli indicatori sociali sono tra i peggiori nelle classifiche internazionali. L’analfabetismo è al 55%, la speranza di vita non supera i 50 anni e l’unica attività economica in grado di generare entrate, ovvero la produzione agricola (concentrata essenzialmente nello sfruttamento della canna da zucchero e della pianta del caffè), è ciclicamente funestata dal passaggio delle tempeste tropicali che devastano i raccolti.

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UN PAESE SENZA SPERANZA? – Insomma, Haiti non corrisponde in nulla all’immagine stereotipata del paradiso caraibico. Non si possono però attribuire le ragioni del suo sottosviluppo alla sfortuna, ma la situazione attuale è il frutto di un percorso storico ben preciso. Non è un caso, infatti, se in epoca coloniale Haiti era uno dei luoghi più prosperi del mondo. Ex colonia francese, la sua attuale composizione etnica (il 95% della popolazione è di origine africana, mentre il restante 5% appartiene all’élite creola) è il retaggio dello schiavismo che portò dalle coste dell’Africa orientale manodopera a costo zero per lavorare nelle piantagioni. Haiti finì, come tutto il resto delle nazioni americane, sotto la “tutela” degli Stati Uniti, che all’inizio del ‘900 imposero al piccolo Paese un’assoluta apertura commerciale dopo averlo occupato. Tale strategia, tuttavia, non ha mai funzionato, in quanto non erano mai state gettate le basi per uno sviluppo reale e solido dell’economia locale, presupposto essenziale prima di eliminare barriere e restrizioni ai traffici internazionali.L’instabilità economica ha fatto quindi il paio con un’endemica instabilità politica: il Paese, dopo essere stato in mano per decenni alla dittatura della dinastia dei Duvalier, è stato governato dall’ex sacerdote Jean Bertrand-Aristide. Nel 2004, però, in seguito ad una rivolta di militari ribelli che ha scatenato una guerra civile, il Paese è sprofondato nuovamente nel caos e da allora è attiva sull’isola la missione di pace MINUSTAH, sotto l’egida delle Nazioni Unite. Questo tuttavia non è bastato a restituire stabilità alle istituzioni, dato che si succedono esecutivi che non appaiono in grado di prendere saldamente in mano le redini del Paese. Parlare di prospettive per Haiti è francamente difficile, a maggior ragione dopo questo terremoto che si configura come un vero e proprio “colpo di grazia”. Haiti ha oggi le caratteristiche di un “failed State”, penalizzato anche a livello regionale dalla eterogeneità culturale e linguistica rispetto al resto dell’America Latina che costituisce uno dei tanti fattori di emarginazione dai progetti di integrazione. Un circolo vizioso che non sembra purtroppo offrire grosse speranze, almeno nel medio periodo, alla popolazione di questa infelice (mezza)isola caraibica. 

Davide Tentori 13 gennaio 2010 [email protected]

Un ‘Silvio’ cileno?

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In Italia Sebastián Piñera, vincitore delle elezioni presidenziali in Cile, è stato spesso accostato al premier per essere l’uomo più ricco del Paese. Cosa significa veramente il ritorno della destra a Santiago?

TORNA LA DESTRA – Tutto come previsto dai risultati del primo turno e dai sondaggi: Sebastián Piñera, leader della Coalición por el Cambio, è il nuovo Presidente del Cile. La sua elezione è, nel suo piccolo, un risultato storico per la democrazia sudamericana, dal momento che rappresenta, a vent’anni esatti di distanza dalla fine del regime dittatoriale e sanguinario di Augusto Pinochet, il ritorno al potere nel Paese di un esponente della Destra. La Concertación, la coalizione di centrosinistra che dal 1990 aveva garantito il ripristino e il consolidamento delle istituzioni democratiche dopo quasi un ventennio di autoritarismo, ha subito la sua prima sconfitta e il suo candidato, il democristiano Eduardo Frei (già presidente dal 1994 al 2000), non potrà dunque succedere a Michelle Bachelet, la presidente uscente che si potrà ripresentare alle elezioni solo nel 2014. La Costituzione cilena prevede infatti che il Presidente possa essere eletto per non più di un mandato consecutivo. Sebastián Piñera, che aveva già dominato il primo turno, ha vinto il ballottaggio di domenica 17 gennaio con il 51% delle preferenze, a fronte del 48% ottenuto da Frei. Un risultato, quello del candidato sconfitto, in ascesa rispetto al magro 29% registrato al primo turno, dovuto essenzialmente a due fattori. Il primo è la carenza di “appeal” del candidato: un politico conosciuto, forse troppo, dall’opinione pubblica cilena, che dopo la novità rappresentata dalla Bachelet aveva causato una rottura nella vita politica nazionale. Non a caso il livello di apprezzamento nei suoi confronti, al momento di lasciare la carica presidenziale, era superiore all’80%. In secondo luogo, la Concertación ha pagato a carissimo prezzo la defezione del Partido Socialista, che ha deciso di correre da solo con il giovane candidato Marco Enríquez-Ominami. Vero outsider delle elezioni, Ominami ha ottenuto il 20% dei suffragi al primo turno grazie ad una piattaforma programmatica innovativa e trasversale, capace di guadagnare simpatie non solo a sinistra ma essenzialmente nelle fasce più giovani della popolazione. Per il ballottaggio il Partido Socialista ha deciso di rimanere neutrale ma, anche se la maggior parte dei suoi elettori si sono orientati verso Frei, Piñera ha avuto comunque gioco facile nell’arrivare alla vittoria. Un suicidio politico? Probabilmente sì, visto che il sistema elettorale cileno favorisce una distribuzione bipartitica dei seggi, e quindi il raggruppamento in coalizioni. In ogni caso, la Concertación non potrà prescindere per il futuro dal rinnovamento al suo interno e da un accordo con Enríquez-Ominami. 

CHI E’ PIÑERA? – In Italia il nuovo Presidente del Cile è stato accostato a Silvio Berlusconi, in quanto Sebastián Piñera è l’imprenditore più ricco del Paese andino. Maggiore azionista della compagnia aerea LAN e del network televisivo Chilevisión, ha costruito le sue fortune a partire dagli anni Settanta, proprio quando il regime di Pinochet muoveva i suoi primi passi. Nonostante questo, Piñera si dichiara assolutamente contrario a quanto accadde durante la dittatura e in campagna elettorale ha promesso politiche volte a contrastare la povertà e la disuguaglianza (nonostante gli enormi progressi economici, il Cile è ancora il terzo Paese sudamericano, dopo Brasile e Bolivia, in quanto a distribuzione eterogenea del reddito). Eppure, a Santiago il timore più grande è che il ritorno della Destra, e in particolare del partito Unión Democrata Independiente, che fa parte della coalizione vincente insieme a quello liberale ed è erede della tradizione conservatrice cilena, possa far retrocedere il Paese sudamericano agli anni bui della dittatura. In realtà, il Cile sembra ormai una delle democrazie più mature del continente e la regola dell’alternanza fa parte del gioco, se si è appunto in una vera democrazia.  

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CHI E’ PIÑERA? – In Italia il nuovo Presidente del Cile è stato accostato a Silvio Berlusconi, in quanto Sebastián Piñera è l’imprenditore più ricco del Paese andino. Maggiore azionista della compagnia aerea LAN e del network televisivo Chilevisión, ha costruito le sue fortune a partire dagli anni Settanta, proprio quando il regime di Pinochet muoveva i suoi primi passi. Nonostante questo, Piñera si dichiara assolutamente contrario a quanto accadde durante la dittatura e in campagna elettorale ha promesso politiche volte a contrastare la povertà e la disuguaglianza (nonostante gli enormi progressi economici, il Cile è ancora il terzo Paese sudamericano, dopo Brasile e Bolivia, in quanto a distribuzione eterogenea del reddito). Eppure, a Santiago il timore più grande è che il ritorno della Destra, e in particolare del partito Unión Democrata Independiente, che fa parte della coalizione vincente insieme a quello liberale ed è erede della tradizione conservatrice cilena, possa far retrocedere il Paese sudamericano agli anni bui della dittatura. In realtà, il Cile sembra ormai una delle democrazie più mature del continente e la regola dell’alternanza fa parte del gioco, se si è appunto in una vera democrazia.  

Golpe perfetto?

Si è ufficialmente insediato a Tegucigalpa il nuovo Presidente Porfirio Lobo. È l’epilogo del golpe orchestrato da Roberto Micheletti? Di sicuro, chi si trova a governare ora l’Honduras non si trova in una posizione invidiabile

L’EPILOGO? – È entrato ufficialmente in carica il nuovo Presidente dell’Honduras. Porfirio Lobo, eletto durante le elezioni di fine novembre, ha preso in consegna il Paese da Roberto Micheletti, salito al potere a Tegucigalpa dopo che nel giugno scorso il Presidente legittimo Manuel Zelaya era stato rovesciato da un sollevamento militare. L’epilogo della storia ha visto dunque, nell’ordine: Porfirio Lobo, che era stato scofitto da Zelaya nelle elezioni del 2005, essere proclamato nuovo Presidente Costituzionale; Zelaya lasciare il paese alla volta delle Repubblica Dominicana dopo 4 mesi di reclusione nell’ambasciata brasiliana di Tegucigalpa; il generale Romeo Vásquez, nel frattempo nominato Capo di Stato Maggiore, dichiarato dai giudici “non perseguibile” per aver diretto il golpe; e infine lui, Micheletti, nominato dal Congreso Nacional “deputato a vita” e beneficiato da una amnistía politica. 

PATATA BOLLENTE – Certo è che chi si trova a governare in questo momento l’Honduras non si trova in una posizione propriamente invidiabile, sia dal punto di vista politico che economico. Lobo è chiamato a governare per il momento senza riconoscimento internazionale: nonostante i suoi tentativi di ingraziarsi la comunità internazionale, solo tre presidenti hanno assistito alla sua cerimonia di insediamento, quelli di Panama, Taiwan e Repubblica Dominicana. In compenso però, sul palco d’onore sedeva Reinaldo Rueda, Commissario Tecnico della Nazionale che ha conquistato la sua seconda, storica, qualificazione a un Mondiale. Difficilmente le soddisfazione calcistiche basteranno per risollevare la situazione economica della repubblica centroamericana. L’Honduras è il secondo paese più povero delle Americhe dopo Haiti. Occupa la posizione n. 115 nella lista dei paesi per Indice di Sviluppo Umano 2007 dell’ONU e attualmente è schiacciato da un debito pubblico che lo stesso Lobo ha definito “ingestibile” nel suo discorso di insediamento. Infatti, il prossimo 2 febbraio scadrà il termine di pagamento di un pacchetto di buoni del tesoro, piazzati nel sistema finanziario interno, di 2600 milioni di lempiras, pari a 98 milioni di euro. Il Governo uscente ha lasciato un saldo positivo, tuttavia pari solamente a un miliardo di lempiras, del tutto insufficienti a pagare il debito pubblico. Sono cifre basse per i nostri standard, ma importanti per un Paese di dimensioni così piccole e dall’economia così fragile, il cui PIL dipende in larga parte dalle rimesse inviate dagli emigranti. Nel suo primo discorso da presidente, Pepe Lobo ha sottolineato la necessità di una riconciliazione nazionale e della normalizzazione dei rapporti con la comunità internazionale.  Ha inoltre elencato quali saranno i capisaldi della sua presidenza: salute ed educazione; e lotta alla povertà, alla corruzione e alla criminalità.

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IL PROBLEMA DEL RICONOSCIMENTO – Resta da sciogliere il nodo del riconoscimento del suo governo da parte della comunità internazionale, la quale, fin dai primi giorni successivi al golpe ha espresso, almeno a parole, la sua netta condanna, minacciando di non riconoscere la legittimità di un governo scaturito da elezioni organizzate da un governo de facto. Il tema verrà trattato nel prossimo Summit del Gruppo di Rio previsto per il 21 febbraio a Cancún, Messico. Tutto lascia presagire che, in tempi e modi da stabilire, il Governo Lobo sarà ufficialmente riconosciuto e le relazioni diplomatiche con l’Honduras ristabilite. Faranno probabilmente eccezione, almeno in un primo momento, i Paesi dell’ALBA, ma non c’è ragione di pensare che l’isolamento internazionale dell’Honduras duri ancora a lungo. Il caso diplomatico dell’Honduras ha dimostrato tuttavia la mancanza, al giorno d’oggi, di un disegno politico preciso dell’amministrazione attuale statunitense nei confronti dell’America Latina: l’intervento poco riuscito di Thomas Shannon ha provocato una battuta d’arresto con un partner importante come il Brasile. Non sarà di certo un Paese dallo scarso peso internazionale come l’Honduras a mettere in crisi le relazioni emisferiche, ma l’episodio può essere usato come cartina di tornasole per verificare la mancanza di una precisa politica per le Americhe da parte dell’amministrazione Obama. 

Vincenzo Placco – Davide Tentori 1 febbraio 2010 [email protected]

Cristina contro tutti

La “Presidenta” non molla e continua sulla propria linea politica, in condivisione con il marito Néstor. Ecco le ultime vicende legate alle Falkland/Malvinas e all’uso delle riserve monetarie per pagare il debito estero

SEMPRE PIU’ SOLA – O quasi. L’appoggio del marito Néstor, infatti, Cristina Fernàndez de Kirchner non l’ha perso. E ci mancherebbe altro: il “matrimonio” Kirchner (termine che in Argentina ha ormai quasi assunto valore istituzionale) è forte e cerca di mantenere saldamente il potere, nonostante abbia ormai perso l’appoggio anche di gran parte dei propri alleati politici.Le decisioni prese nelle ultime settimane dalla “Presidenta” argentina, infatti, hanno suscitato aspri contrasti politici e hanno portato ad ulteriori defezioni all’interno del Partido Justicialista, la formazione politica di matrice peronista di cui fa parte il Frente para la Victoria (la corrente dei Kirchner), in favore delle correnti del PJ che si oppongono al Governo. 

LE ULTIME “GOCCE” – L’evento che ha tenuto sicuramente più piede nelle ultime settimane è stata la decisione del Governo argentino di mettere mano a una ingente quantità di riserve monetarie straniere per pagare il debito estero in scadenza quest’anno. Si tratta di una somma ingente, pari a 6,5 miliardi di dollari statunitensi, che la Casa Rosada ha intenzione di porre all’interno del cosiddetto “Fondo del Bicentenario” (così chiamato perché proprio quest’anno ricorrono i duecento anni dall’indipendenza dell’Argentina dalla Spagna), creato al fine di pagare la parte di debito in scadenza. Il governatore della Banca Centrale argentina, Martin Redrado, si è rifiutato di concedere tale somma all’esecutivo, e per questo è stato costretto a farsi da parte. Al suo posto è stato eletto un nuovo Governatore, Mercedes Marcó del Pont, vicina al Governo, la quale ha subito accettato il decreto di necessità e urgenza che la Kirchner aveva firmato per ottenere le riserve. Si tratta di una manovra pericolosa per due motivi. Il primo è politico: l’esecutivo ha scavalcato il Parlamento e ha inoltre interferito nell’autonomia della Banca Centrale, violando un principio che dovrebbe essere ormai acquisito nelle democrazie occidentali. Vi è poi una ragione di opportunità economica: l’indebolimento delle riserve (che ammontano a circa 40 miliardi di dollari) rischia di indebolire ulteriormente la posizione finanziaria, già precaria dopo la crisi debitoria del 2001, dell’Argentina.  

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LAS MALVINAS SON ARGENTINAS! – A quasi trent’anni dal conflitto con la Gran Bretagna per la contesa sulle isole Malvinas/Falkland, al largo delle coste argentine nell’Atlantico ma retaggio del dominio coloniale di Sua Maestà, Cristina ha “rispolverato” l’argomento. Il Governo di Buenos Aires, infatti, è tornato ad avanzare il proprio diritto di sovranità sulle isole, che saranno sperdute e inospitali, ma pare che siano anche molto ricche di idrocarburi. Recenti esplorazioni hanno infatti rivelato che potrebbero esserci risorse stimabili fino a 60 miliardi di barili equivalenti di petrolio e gas. In occasione dell’ultimo vertice del Gruppo di Rio, tenutosi due settimane fa in Messico, i Paesi latinoamericani hanno appoggiato unanimemente la richiesta della Kirchner, promettendo di sostenere i diritti dell’Argentina nei consessi internazionali. È indubbio che il Governo stia strumentalizzando, oggi come allora, la vicenda a fini politici, ovvero per cercare di distogliere l’attenzione dalle intricate vicende interne e per coagulare il consenso della popolazione attorno al sentimento nazionale, molto forte in Argentina. In questo caso, tuttavia, un certo peso va dato anche alle considerazioni di carattere economico: ad oggi non si può quantificare la redditività delle risorse petrolifere delle Malvinas, ma Buenos Aires ha un bisogno enorme di aumentare le fonti di approvvigionamento energetico

ELEZIONI IN VISTA – L’anno prossimo si terranno le Presidenziali. Cristina Kirchner, secondo i dettami della Costituzione, dovrà passare la mano. A chi? Il marito Néstor è pronto a ricandidarsi, in ottica di perpetuare il potere della propria corrente. Sembra però molto dura che ce la possa fare, in quanto il Frente para la Victoria ha perso la maggioranza in Parlamento in seguito alle elezioni di medio termine del giugno scorso. Kirchner dovrà vedersela con Eduardo Duhalde, ex presidente negli anni difficili della crisi debitoria, che ha ufficializzato la sua candidatura in seno al PJ ma nella corrente avversa all’ “oficialismo” (così è chiamata la corrente filogovernativa).Da segnalare, infine, anche la candidatura di Mauricio Macri, ricchissimo imprenditore che, oltre ad essere padrone del Boca Juniors, è sindaco di Buenos Aires. Macri è l’uomo di punta di Propuesta Republicana, partito di centrodestra che mira ad acquistare consensi. Sarebbe un risultato sorprendente, giacchè toglierebbe il potere dopo vent’anni al Partido Justicialista. Nei prossimi mesi, dunque, sarà molto importante seguire le vicende politiche argentine. Tuttavia, la crescente instabilità e la polarizzazione tra Esecutivo e Legislativo sta portando ad una paralisi istituzionale che il Governo cerca di aggirare ricorrendo abitualmente alla decretazione d’urgenza. Per il bene della democrazia e dello sviluppo economico argentino, però, questa sarebbe una situazione da evitare assolutamente. 

Davide Tentori 10 marzo 2010 [email protected]

Il Caffe’ su BMRadio

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Il Caffè sbarca su BMRadio. Due puntate alla settimana per raccontare quanto accade nel mondo, col “nostro” stile: nessun tema di nicchia, ma approfondimenti agili e accessibili a tutti. Per un Caffè sempre più piacevole, e sempre più luogo di incontro.

NOI E BM – Non è una novità da poco. Il Caffè Geopolitico da oggi non è solo un sito, ma anche una trasmissione radiofonica. Il Caffè sbarca in radio: su BMRadio (www.bmradio.it), va in onda da gennaio questo nuovo programma, interamente realizzato dalla nostra redazione. Con due strisce settimanali di mezzora, il martedì alle 22 e il giovedì alle 21, con due repliche nel weekend, il sabato e la domenica alle 11. Ogni puntata sarà poi ascoltabile sul sito di BMRadio in qualsiasi momento grazie ai podcast, che presto saranno disponibili anche sul nostro sito.

LO STILE – Quello del Caffè. Approfondimenti e visibilità su esteri, relazioni internazionali, geopolitica, su temi rilevanti noti (spesso solo superficialmente) e meno noti al grande pubblico. Modalità e stili di comunicazione non saranno però mai “di nicchia”, o da addetti ai lavori. Lo stesso strumento della webradio non lo può permettere. E allora, ancora di più in radio lo stile farà la differenza: tenteremo di comunicare quanto accade nel mondo, andando sempre in profondità e mai superficialmente, ma in maniera agile, frizzante, semplice, accessibile a tutti. Il Caffè momento di pausa piacevole e interessante, e nello stesso tempo luogo di incontro: la nostra scommessa è che anche in radio possa essere così. Ovviamente, trattandosi di radio, in mezzo agli interventi dei nostri esperti troverete anche tanta musica.

COMING SOON – Non finisce qui. La collaborazione con BMRadio aprirà a brevissimo un secondo fronte. Oltre a “Il Caffè Geopolitico”, a breve andrà in onda anche Coffee Break”. Una vera e propria pausa caffè: un notiziario quotidiano di tre-quattro minuti, con un breve approfondimento sul fatto del giorno e qualche altra notizia dal mondo. Il Caffè Geopolitico dunque rilancia, e tenta di diventare grande, sfruttando mezzi e piattaforme diverse. Sì, perché le novità non si fermano certo qui. Anzi, è solo l’inizio. E allora buon caffè a tutti, e… stay tuned!

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Nulla di fatto

Cadono ancora nel vuoto i tentativi di negoziato sulla questione honduregna. Tra i due litiganti, il presidente deposto Zelaya e quello de facto Micheletti, però, si frappone l’imminenza delle elezioni

MANCA L’ACCORDO – Secondo alcuni poteva essere la volta buona: e invece, sul più bello, la trattativa è saltata ancora una volta. In Honduras, l’intricatissimo nodo legato al contrasto istituzionale tra Manuel Zelaya, il presidente deposto dal colpo di Stato del 27 giugno scorso, e Roberto Micheletti, subentrato al suo posto in quanto presidente della Camera (secondo quello che prevede la Costituzione nazionale), non è ancora stato sciolto. L’ultima tornata di negoziati condotti in seno all’OSA (Organizzazione degli Stati Americani) tra le delegazioni dei due contendenti e con la mediazione del Presidente del Costa Rica Óscar Arias è giunta ad una nuova situazione di stallo. Infatti, nonostante entrambi riconoscano che si faranno da parte a gennaio, quando cioè il nuovo Presidente che sarà eletto dal voto programmato per il prossimo 22 novembre entrerà in carica, le modalità con cui intendono farlo sono diverse. Zelaya chiede di essere reintegrato nelle sue funzioni, Micheletti non è d’accordo e punta a terminare il mandato.

TRA RAGIONE E VIOLENZA – Mentre Zelaya chiede che sul suo ritorno al potere si pronunci il Parlamento, Micheletti sostiene invece che tale parere venga espresso dalla Corte Suprema dell’Honduras. Le ragioni di “Mel” (questo il soprannome del leader deposto, che continua a trovarsi nell’ambasciata brasiliana a Tegucigalpa) sono chiare: ottenere un voto dall’organismo che è espressione della volontà popolare sancirebbe la legittimità democratica del suo status presidenziale. Dall’altra parte, Micheletti invoca il rispetto delle norme costituzionali: secondo la tesi del Partido Liberal, Zelaya avrebbe attentato ripetutamente alla democraticità delle istituzioni e la sua deposizione sarebbe stata dunque un atto legittimo rispettoso della prassi costituzionale. Il pericolo, ora, è che i ripetuti fallimenti della mediazione portino i sostenitori dei contendenti a ricorrere all’uso della forza. Alcune fonti sostengono che  il Venezuela offrirebbe appoggio economico e materiale, in termini di armi, a soggetti vicini a Zelaya. Nei giorni scorsi, invece, sono stati assassinati un nipote di Micheletti e il colonnello Jiménez (anch’egli vicino al presidente de facto), dirigente dell’Industria Militare. 

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PROSPETTIVE E IL RUOLO DEGLI USA – La disputa tra Zelaya e Micheletti potrebbe però terminare tra un mese, quando si svolgeranno le elezioni presidenziali. È presumibile pensare che entrambi potrebbero non avere più voce in capitolo, in quanto il voto si svolgerà sotto i riflettori di organizzazioni regionali e internazionali volti a garantirne la correttezza. Le urne potrebbero dunque decretare la fine di questo singolare scontro istituzionale, sempre che le due parti non decidano di fare ricorso alla forza come extrema ratio. In tutta questa situazione, merita di essere discusso anche il ruolo degli Stati Uniti. Tradizionalmente interventisti nelle vicende continentali, in osservanza ai dettami di politica estera formulati ancora nell’800 dalla “dottrina Monroe” e dal “corollario Roosevelt”, questa volta Washington si è mantenuta su posizioni caute. Il presidente Obama, che ha sempre offerto sostegno a Zelaya, nonostante questi fosse alleato del “nemico” Chávez, ha incontrato l’opposizione del Partito Repubblicano e ha fatto addirittura parlare di una “deriva a sinistra” degli USA. In realtà, non sembra niente di tutto ciò: più probabilmente, Obama ha deciso di adottare anche nelle vicende continentali un approccio più multilaterale, dettato anche dalla necessità di fare “economia” per quanto riguarda l’utilizzo delle risorse militari, e di affidarsi ad un interlocutore fidato ed autorevole come il Brasile.  

Davide Tentori 27 ottobre 2009 [email protected]

Election time

In tutta l’America Latina è iniziato un periodo di votazioni che culminerà con le Presidenziali brasiliane a ottobre 2010. All’orizzonte potrebbero esserci molti cambiamenti

TUTTI ALLE URNE – In America Latina è appena iniziato un periodo che potrebbe essere foriero di importanti novità, per lo meno dal punto di vista politico. Ha infatti preso il via una fase di tornate elettorali che porteranno a votare la maggior parte degli abitanti del subcontinente, chiamati a scegliere i nuovi Presidenti. Ha cominciato l’Uruguay il 25 ottobre: lo scontro tra José “Pepe” Mujica, esponente della coalizione di sinistra del Frente Amplio, e Luis Alberto Lacalle, non ha ancora decretato un vincitore e sarà necessario un ballottaggio che si terrà a fine mese. Negli stessi giorni, in Honduras si terranno le elezioni che nomineranno (o dovrebbero nominare) il successore dei “litiganti” Zelaya e Micheletti. A vincere, secondo le previsioni, potrebbe essere in ogni caso un esponente antagonista del Venezuela, che sia il candidato del Partido Nacional Porfirio Lobo o quello del Partido Liberal Elvin Santos. Sarà quindi la volta, a inizio dicembre, di Cile e Bolivia. Nel Paese andino Michelle Bachelet, prima Presidente donna al Palacio de la Moneda (la sede del Governo a Santiago) non potrà ripresentarsi per un secondo mandato consecutivo e a sfidarsi saranno il democristiano Eduardo Frei, già presidente all’inizio degli anni ’90, e il miliardario di centro-destra Sebastian Piñera. A La Paz, invece, sembra scontata la rielezione del “cocalero” Evo Morales. A gennaio toccherà al Costa Rica, dove Óscar Arias lascerà il potere, mentre in Colombia Álvaro Uribe competerà – sembra senza avversari in grado di impensierirlo – per un terzo mandato. Il “gran finale”, però, sarà ad ottobre 2010, con le presidenziali in Brasile, dove si sfideranno Dilma Rousseff, scelta come “erede” da Lula, e il socialdemocratico José Serra.

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LA SINISTRA AL TRAMONTO? – Negli ultimi anni si è parlato tanto del fiorire di regimi di centro-sinistra nella regione, che avrebbero così garantito una presunta identità ideologica in quasi tutta l’area. In realtà, le differenze tra Paese e Paese sono nette: la sinistra con accenti populisti di stampo chavista e che è al potere in Venezuela, Ecuador, Bolivia e Paraguay, per esempio ha poco in comune con il Cile della Concertación (una coalizione che siede al potere da vent’anni e che unisce democristiani e socialdemocratici), il Brasile del pragmatico Lula o la stessa Argentina dei Kirchner, che nonostante accenti di un ritorno al nazionalismo economico non si può dire che aderisca al “Socialismo del XXI secolo” ideato da Hugo Chávez. In alcuni di questi Paesi le coalizioni ora al potere potrebbero essere sconfitte: l’esito appare abbastanza scontato in Cile, dove Frei, oltre a non avere appeal perché appartenente ad una classe politica ormai appartenente al passato, perderà circa il 20% dei voti per la scissione operata dal giovane socialista Marco Enríquez-Ominami, che ha deciso di presentarsi da solo. Anche in Uruguay il ballottaggio potrebbe giocare un brutto scherzo a Mujica: Lacalle, esponente del Partido Nacional conterà sui voti dell’altro candidato “derechista”, Pedro Bordaberry, e la somma dei voti potrebbe superare quella destinata al Frente Amplio. In Brasile, infine, nonostante il successo planetario di Lula, Dilma Rousseff è per ora in notevole svantaggio rispetto al rivale Serra (che è comunque collocato politicamente al centro, e non a destra). La cosa più sorprendente è che in tutti i casi citati i Presidenti uscenti possono vantare anni di buon governo e di grande crescita economica: il tasso di approvazione della Bachelet è superiore al 70%, così come quello di Lula e anche Tabaré Vázquez, presidente dell’Uruguay, ha il sostegno della maggior parte della popolazione. E allora? La spiegazione più plausibile è il funzionamento della regola dell’alternanza, caratteristica di tutte le democrazie mature. Dopo vent’anni e al riparo da rigurgiti golpisti, i cileni decidono che l’esperimento della Concertación è terminato; dopo due mandati di successo di Lula (agevolati però anche dalle politiche economiche di Cardoso, suo predecessore) i quasi duecento milioni di brasiliani ritengono di poter affidare il loro voto ad un altro candidato che non sia esponente del Partido dos Trabalhadores. Non è il ritorno del conservatorismo, prodromo per nuovi regimi autoritari, ma semplicemente il sintomo di Paesi che stanno crescendo e maturando a livello politico e sociale, seppur ancora in mezzo a molte difficoltà e ingiustizie. 

Davide Tentori 3 novembre 2009 [email protected]

‘Giocare’ alla guerra

Le recenti dichiarazioni di Hugo Chávez circa la possibilità di una guerra con la Colombia hanno suscitato scalpore e preoccupazione. Le minacce, che siano vere oppure no, sono comunque un duro colpo all’integrazione regionale

 

CHIAMATA ALLE ARMI – Per chi non lo conoscesse, “Aló Presidente” è il programma televisivo che ha per unico protagonista il Presidente del Venezuela Hugo Chávez, che ad ogni puntata monopolizza per ore ed ore il piccolo schermo con monologhi fiume sugli ormai consueti temi: il socialismo, bolivarismo, l’avversione agli Stati Uniti. Nella puntata di domenica scorsa, tuttavia, il leader di Caracas si è spinto oltre alla tradizionale retorica, giungendo a paventare la possibilità di una guerra contro la confinante Colombia e invitando le truppe a prepararsi ad ogni evenienza.

 

Trattasi di delirio o di un’ipotesi da prendere seriamente in considerazione? Probabilmente, come sempre, in medio stat virtus. Bisogna innanzitutto comprendere cosa c’è alla base di questa crisi dei rapporti bilaterali. I rapporti tra Colombia e Venezuela non sono mai stati idilliaci e sono peggiorati notevolmente da quando al potere nei due Paesi ci sono rispettivamente il più fidato alleato di Washington in Sudamerica, ovvero Àlvaro Uribe, e il più aspro critico, Hugo Chávez. Le relazioni si sono deteriorate ulteriormente nel corso di quest’ultimo anno, in seguito a reciproche accuse legate a dispute di frontiera implicanti il passaggio di persone e merci illecite (guerriglieri marxisti delle FARC appoggiati da armi provenienti dal Venezuela, infiltrazione di paramilitari colombiani, traffico di stupefacenti, ecc. Cfr. Venti di guerra da sud). Caracas è arrivata al punto di bloccare le importazioni dalla Colombia, penalizzando non solo quest’ultima ma anche sé stessa in quanto strettamente dipendente dalle merci in arrivo da oltre confine. Nelle ultime settimane, fatti poco chiari avvenuti in prossimità della frontiera che hanno portato all’uccisione di otto colombiani e due militari venezuelani.

 

IPOTESI PLAUSIBILE? – Questi, dunque, gli antefatti che hanno portato Chávez a minacciare i propri vicini colombiani. Che, in tutta risposta, non hanno accettato di prendere parte all’escalation di violenza (per ora fortunatamente solo verbale) e si sono limitati a diramare un comunicato governativo ufficiale nel quale si afferma che “la Colombia non ha mai intrapreso né mai intraprenderà atti aggressivi” nei confronti di altri Stati.  Tuttavia, molte nazioni sudamericane hanno manifestato preoccupazione nei mesi scorsi per l’accordo militare stipulato dalla Colombia con gli Stati Uniti per la concessione a questi ultimi di sette basi sul proprio territorio, ufficialmente a scopi esclusivamente interni di lotta al narcotraffico e alla guerriglia di estrema sinistra. Inutile dire che le critiche più dure sono giunte proprio dal Venezuela, che non crede alla versione di Bogotá e ritiene invece che le basi siano il prodromo per un ritorno dell’ “imperialismo” statunitense nella regione. Chávez si è però trovato abbastanza solo nel lanciare questi attacchi, in quanto gli altri Stati della regione, Brasile in primis, si sono limitati ad esprimere delle perplessità e a chiedere dei chiarimenti sull’accordo militare. In più, va ricordato che il Venezuela è il grande sconfitto della crisi honduregna, risolta (anche se solo provvisoriamente, visto che la questione non è ancora chiusa) dalla mediazione degli USA: l’approccio oltranzista del caudillo di Caracas non ha pagato. Insomma, l’innalzamento della tensione nella regione fa dunque parte della strategia di Chávez di ottenere la leadership politica nella regione, o quantomeno di impedire che si formi un blocco omogeneo sotto l’egida del Brasile. Inoltre, va tenuto in considerazione il fatto che a primavera 2010 si svolgeranno in Venezuela le elezioni legislative: con un’economia in difficoltà per il calo del prezzo del petrolio e l’inflazione galoppante e un tasso di criminalità in continua crescita, il consenso attorno a Chávez si sta erodendo. La retorica bellicista, come molti esempi storici rivelano, può essere un utile “collante patriottico”  a disposizione di regimi autoritari in difficoltà.  Un intervento militare, alla luce di questa lettura dei fatti, rimane dunque un’ipotesi altamente improbabile, che va liberata dalla “tara” della tradizionale retorica aggressiva del Presidente venezuelano.

 

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IMPLICAZIONI REGIONALI E INTERNAZIONALI – Una guerra tra Venezuela e Colombia scatenerebbe un vero e proprio pandemonio a livello quantomeno regionale: gli Stati confinanti (Brasile ed Ecuador in primis) non potrebbero certo rimanere inerti in caso di un conflitto aperto. Così come neppure gli USA, che per ragioni di alleanza non potrebbero esimersi dallo schierarsi al fianco di Bogotá. Al fianco di Caracas potrebbero schierarsi partner strategici ed economici come Russia e Iran, e in questo caso il conflitto assumerebbe addirittura proporzioni mondiali.

 

Fermiamoci qui: la fanta-geopolitica non è il nostro pane. Occorre misurarsi coi fatti e le risorse in gioco e a disposizione degli attori: nessuno ha veramente intenzione di impegnarsi in una guerra, mentre è nell’interesse di Chávez, per le ragioni citate nel paragrafo precedente, tenere alta la tensione. Tale comportamento allontanerebbe ulteriormente il Venezuela dal Brasile, dove il Senato ha deciso di sospendere il voto finale per l’ammissione di Caracas nel Mercosur, ma potrebbe provocare anche l’allontanamento di alcuni partner “consolidati”: il boliviano Evo Morales ha criticato implicitamente le dichiarazioni dell’ “amico” Hugo, sostenendo che dovrebbe essere il popolo colombiano, e non una potenza esterna, a ribellarsi all’ “imperialismo a stelle e strisce”.

 

In ogni caso, se il Venezuela proseguirà su questa strada, i progetti di integrazione regionale ad ampio spettro saranno destinati a nuovi fallimenti. A questo punto, la palla passa prima di tutto al Brasile: dopo il mezzo fallimento nella questione honduregna, Lula è chiamato a misurare le proprie ambizioni di leadership politica regionale, e globale, con questa nuova crisi. Se saprà risolverla con i mezzi della diplomazia, avrà vinto la partita; in caso contrario, Chávez potrà continuare a “giocare” pericolosamente alla guerra.