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La guerra nascosta

Geopoliticamente parlando, uno degli Stati più strategici al mondo. A metà tra l’Oceano Indiano e il Mediterraneo, tra il Corno d’Africa e la penisola arabica, tra sciismo e sunnismo, lo Yemen sta sprofondando nel caos. In silenzio

 

NEL DIMENTICATOIOPochi ne parlano, in Italia praticamente nessuno. Lo Yemen è un Paese sull’orlo del collasso e, si direbbe, sull’orlo di una guerra civile. Si direbbe, perché in realtà già lo è, e non è una novità. Il Paese è profondamente diviso, non in due, ma almeno in tre. Governo autoritatio; separatisti di ispirazione marxista-leninista nel Sud; sciiti zaiditi, seguadi del ribelle Abd al-Malik Al-Houthi, a Nord. Questo è lo Yemen, e non è finita qui. Uno Stato in cui la presenza istituzionale e la sua legittimazione è pressochè nulla. Un Paese in cui, da anni e non da poco tempo, si nascondono alcune delle cellule più pericolose e attive di quella galassia di movimenti terroristici di ispirazione sunnita wahhabita, che per semplificazione va sotto il nome di Al-Qaeda. Un Paese che, complice la fetta di popolazione di fede musulmana sciita che è lì presente, è meta del sostegno logistico e finanziario di un altro grande protagonista del Medio Oriente, che sta tentando da tempo di espandere la propria influenza ai margini del Mediterraneo: l’Iran. Un Paese in cui il fondamentalismo sunnita, dall’altra parte, non è mai stato abbastanza combattuto ed in cui, adesso, si avvertono le conseguenze di anni di politiche a breve, brevissimo termine, senza un reale progetto che mirasse allo sviluppo ed alla stabilizzazione interna.

 

LE LOTTE INTESTINE – Tutto ciò è oggi lo Yemen, in cui da più di dieci anni, ma con rinnovato vigore da un paio di mesi, si sta combattendo una vera e propria guerra intestina tra il governo e le forze presidenziali di Ali Abdullah Saleh e gli sciiti zaiditi del guerrigliero Al-Houthi dall’altra parte. Parte, quest’ultima, che da sempre subisce le politiche discriminatorie di Sana’a e che, soprattutto per tale motivo, porta avanti una lotta al potere centrale che abbia come obeiettivo il riconoscimento di eguali diritti per tutti i cittadini yemeniti. Se è vero che l’Iran tenta di sfruttare questa presenza sciita nel Golfo meridionale per poter imporre una propria presenza ed influenza nella zona, pare essere altrettanto vero che il governo non fa niente per migliorare la condizione degli sciiti e tentare di conseguenza di calmare gli animi. In un Paese dove i legami personali e tribali contano ancora di più di quelli istituzionali e politici, ecco che la miscela diventa esplosiva. Nelle ultime settimane si sono intensificati gli scontri tra forze governative e sciite, fino al bombardamento di ieri, che ha fatto registrare ben 80 vittime civili in un villaggio del Nord e in un’operazione che in teoria sarebbe stata concepita per sradicare la presenza di al-Houthi e dei suoi seguaci dalla zona settentrionale del Paese.

 

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TRA I DUE LITIGANTI… – In tutta questa grandissima confusione, come spesso accade in queste occasioni, vi è una terza parte che per il momento sembrerebbe raccogliere i frutti della lotta intestina: i fondamentalisti legati ad al-Qaeda. Questi stanno trovando nello Yemen privato di qualsiasi presenza politica ed istituzionale credibile alle proprie periferie, un campo fertile per fare proseliti e per agire indisturbati. Le infiltrazioni da qui verso l’Arabia Saudita (ancora nemico numero 1 di al-Qaeda) e nel resto del mondo arabo (Iraq in primis) comincerebbero a farsi sempre più pressanti ed il governo di Sana’a si tgrova così a dover affrontare anche questa presenza come nuovo nemico interno. Sullo sfondo, una lotta tra Iran e potenze sunnite che si espande sempre più verso le acque del Mar Rosso e del Mediterraneo; la pirateria nel Corno d’Africa che trova sempre più facile agire in luoghi pressochè anarchici ed un Paese arabo, lo Yemen, che rischia di diventare la miccia di nuovi esplosivi confronti in Medio Oriente.

La partita intorno all’atomo

La rivelazione del nuovo impianto di arricchimento dell’uranio a Qom riaccende i dubbi della comunità internazionale riguardo alla natura del programma di Teheran. E ripropone l’importanza del lavoro d’intelligence nella partita iraniana

 

UNA GUERRA NASCOSTA? –  La dichiarazione di Teheran di possedere un secondo sito – precedentemente non dichiarato – per l’arricchimento dell’uranio è solo l’ultima mossa della “guerra fredda” in corso tra l’Occidente e l’Iran negli ultimi anni. Una sfida in cui le dichiarazioni pubbliche e i negoziati sono spesso solo la facciata e nascondono una serie di mosse e contromosse non sempre conosciute dal pubblico.Per citarne solo un caso, si va dalla scomparsa a Istanbul del comandante dell’intelligence iraniana in Medio Oriente nel 2007 (rapimento o diserzione?) alla successiva risposta iraniana che è consistita nel rapimento della squadra di soldati inglesi nel Golfo Persico e successivo rilascio, di cui anche i media si sono interessati.

 

INTELLIGENCE ALL’OPERA –  La costruzione di un impianto che debba restare segreto richiede un impegno costante per cercare di nascondere l’attività agli occhi indiscreti di satelliti e spie. Quanto sia difficile mantenere davvero la riservatezza però può essere dimostrato dall’operazione aerea di Settembre 2007 quando la Israeli Air Force (IAF) distrusse il presunto sito nucleare siriano di al-Kibar, nonostante l’elaborato lavoro di camuffamento impiegato per la sua sicurezza.Anche la costruzione dell’impianto a Qom non è rimasta segreta, tanto che dopo alcuni anni di osservazione e raccolta dati e prove, gli USA si preparano a presentare al riguardo un dossier all’ONU il 1 Ottobre prossimo. In questo modo sarebbe stato possibile smentire la collaborazione di Teheran con l’AIEA in un contesto ufficiale. Ma evidentemente il VEVAK, servizio di intelligence iraniano, ha avuto sentore del pericolo e la repubblica islamica ha anticipato l’Occidente informando l’AIEA con una lettera. Se l’obiettivo era mostrare ancora una volta cooperazione, esso sembra fallito, dato che ben poche diplomazie mondiali sembrano essersi bevuti la pretesa d’innocenza e la condanna è stata pressoché unanime.Quello che risalta è che l’AIEA non pare avere gli strumenti adeguati per poter monitorare efficacemente il programma iraniano: per anni un sito di rilevante importanza è rimasto nascosto agli occhi di El-Baradei e dei suoi collaboratori e poco conforta il fatto che esso sia ancora in costruzione e non operativo: le dimensioni infatti sono compatibili con una quantità di centrifughe adatta all’arricchimento di uranio in quantità sufficiente per uso bellico, mentre risultano eccessive per un uso puramente civile. A questo si aggiungano i rapporti della resistenza iraniana, i Mujahedeen del Popolo, che accusano Teheran di avere due siti segreti per la ricerca e la produzione di sistemi di detonazione per armi atomiche e che hanno presentato la loro documentazione direttamente all’AIEA.

 

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CHE SUCCEDERA’ ORA? –  Anche se non tutti i dati sono ancora confermati, le rassicurazioni verbali continuamente fornite da Ahmadinejad sul programma nucleare appaiono poco convincenti. E soprattutto aumenta la preoccupazione di quelle nazioni arabe (Giordania, Arabia Saudita, Egitto,…) che guardano con sospetto all’influenza sciita nella regione e temono le intenzioni di Teheran.L’opzione militare rimane ufficialmente sconsigliata da USA, Russia ed Europa, ma le voci al riguardo si fanno sempre più insistenti. Del resto nuove sanzioni, anche se severe, non sembrano avere presa su un paese che sfrutta proprio l’ostilità esterna per rafforzare il proprio status di resistenza contro quelle che presenta come ingiustizie occidentali. L’Iran ha fino a dicembre per dimostrare la propria innocenza all’AIEA e al Consiglio di Sicurezza dell’ONU. In caso contrario forse l’opinione mondiale potrebbe modificarsi a tal punto che opzioni militari potrebbero diventare, se non dichiaratamente accettabili, almeno tacitamente approvate.

 

Lo scontro di civiltà

Molto spesso le tensioni internazionali trovano diverse valvole di sfogo: a volte si tratta di sanzioni commerciali ed economiche, altre di limitazioni negli spostamenti e chiusure delle frontiere; accade anche che i conflitti tra due o più Paesi siano portai avanti a colpi di… reperti archeologici

MEDIO ORIENTE vs. EUROPA – E’ quanto sta accadendo in questi giorni tra due dei più importanti Paesi mediorientali, l’Iran e l’Egitto da un lato e, dall’altro, due dei capofila dell’Unione Europea, Gran Bretagna e Francia. Queste due coppie sono accomunate da una comune diatriba in corso circa alcuni dei più importanti reperti archeologici dell’età antica e, seppure per motivi ed oggetti diversi, proprio in questi giorni sia la Gran Bretagna, sia la Francia, si trovano al centro di dure polemiche rispettivamente con l’Iran e l’Egitto. E’ notizia di ieri che Teheran ha dovuto incassare il rifiuto da parte del British Museum di Londra circa il prestito del cosiddetto Cilindro di Ciro, che le autorità iraniane avrebbero voluto esporre presso il Museo Nazionale dell’Iran, nella capitale iraniana. Il reperto, risalente appunto all’età di Ciro il Grande, re di quella Persia che fu uno dei più grandi imperi del passato, rappresenta uno dei primi (secondo molti esperti addirittura il primo in assoluto) codici dei diritti umani della storia, precedendo di quasi 1.500 anni la Magna Charta inglese (curiosità: altra competizione, questa, tutta persiana-anglosassone).

ALLE ORIGINI DELLA CIVILTA’ – Secondo il governo iraniano, la decisione britannica di negare il prestito del Cilindro di Ciro andrebbe ricondotta a motivazioni politiche. In particolar modo Londra, secondo le tesi di Teheran, starebbe vendicandosi dell’arresto dei diplomatici britannici in Iran, a seguito delle contestate elezioni del 12 giugno scorso e dei disordini nelle strade iraniane. In quell’occasione, il governo di Teheran procedette all’arresto di funzionari britannici e di una ricercatrice francese, in un atto che andava chiaramente contro i governi di Londra e Parigi, creando una vera e propria crisi diplomatica, risolta solo in parte grazie alla mediazione della Siria. Ad ogni modo, l’episodio del reperto persiano ha aperto un altro contenzioso tra i due Paesi, dimostrando l’alto livello di tensione venutosi a creare. Allo stesso modo, spostandosi un po’ di longitudine, all’inizio di questa settimana si è registrata la dura presa di posizione da parte di Zahi Hawass, Segretario Generale del Consiglio Supremo della antichità egizie, nei confronti del museo più famoso del mondo, il parigino Louvre, il quale ospita una delle più importanti collezioni al mondo di archeologia degli antichi Egizi. Hawass ha sospeso qualsiasi collaborazione tra l’Egitto ed il Louvre, chiedendo, in attesa di riprendere le relazioni, la restituzione alle autorità egiziane in particolare di cinque frammenti di affreschi provenienti dalla Valle dei Re, nei pressi di Luxor. Secondo Hawass, infatti, il museo francese avrebbe comprato tali reperti, pur essendo a conoscenza del fatto che si trattava di reperti rubati.

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COSA C’E’ DIETRO? – Anche in questo caso, come nel caso della controversia tra Teheran e Londra, potrebbero esservi alla base motivazioni politiche e diplomatiche. Secondo alcune fonti, comunque smentite dal diretto interessato Hawass, la presa di posizione egiziana potrebbe essere una risposta alla mancata elezione dell’ex Ministro della Cultura dell’Egitto, Faruq Hosni, alla Segreteria Generale dell’UNESCO. Hosni avrebbe dovuto ottenere il posto più alto dell’organizzazione dell’ONU per l’Educazione, la Scienza e la Cultura, ma è stato scalzato dalla bulgara Irina Bokova lo scorso settembre (secondo il quotidiano “Le Monde” con il voto determinante della Francia, inizialmente schierata con Hosni) dopo accese polemiche riguardanti il supposto carattere anti-semita del Ministro egiziano. Hawass, come già detto, ha smentito qualsiasi collegamento tra le due vicende, portandone a riprova il fatto che il contenzioso con il Louvre risale a più di 8 mesi fa. Ad ogni modo, rimane il fatto di un vero e proprio scontro diplomatico tra i due Paesi, che forse potrebbe nascondere, come nel caso dell’Iran e della Gran Bretagna, motivazioni e richieste politiche che vanno ben oltre la rivendicazione del possesso di un reperto archeologico. Anche tramite questi mezzi, al giorno d’oggi, due Paesi possono far giungere le loro relazioni bilaterali ad un punto di rottura. Nel mondo globalizzato e moderno, anche questi sono segnali di tensioni politiche e diplomatiche, prima ancora che prettamente culturali. Anche da questi episodi si percepisce come i rapporti tra il Medio Oriente e l’Occidente non siano ancora del tutto rosei.

Autunno caldo

Il Governo sta per varare un piano volto a risolvere la diatriba con la minoranza curda. Ocalan, leader – in carcere – dei curdi, ne propone un altro. La Turchia, dopo la riconciliazione con l’Armenia, riuscirà a sciogliere anche questo nodo?

QUALE PIANO? – La tanto attesa road map promossa dal governo turco per tentare di risolvere la questione curda è stata programmata per il mese di ottobre; la decisione è stata presa per far coincidere il lancio dell’iniziativa con l’apertura dei lavori in Parlamento. Il ministro degli interni Atalay, durante recenti interventi, ha sottolineato come sia necessaria la creazione di un clima politico sereno per poter discutere in merito alle nuove riforme democratiche che – sottolinea il ministro – interessano tutto il paese. Ma dal canto suo Ocalan, leader del Pkk che sta scontando dal 2002 un ergastolo nella prigione di Imrali, ha consegnato ai suoi avvocati, verso la fine di agosto, una propria versione del progetto di risoluzione della questione curda in Turchia, un’apertura democratica che coinvolga lo Stato, la società civile e l’opinione pubblica internazionale.

 IL PIANO DI OCALAN – Il quotidiano “Bianet” ha pubblicato alcune bozze della road map redatta dal leader curdo. Il tema principale che viene sin da subito affrontato è quello sulla natura di questa proposta e sul fine ultimo che essa vuole raggiungere. Egli sottolinea come il suo progetto di unità nazionale sia un progetto per la stabilità mediorientale, con particolare attenzione verso la questione turca. Infatti tra le sue proposte c’è quella relativa alla lingua curda ed al diritto universale di poterla utilizzare ed insegnare liberamente, per preservare quell’elemento culturale che contraddistingue ogni popolazione. Inoltre fa riferimento al sistema della “guardia di villaggio”, sistema creato per poter controllare in maniera diretta e coercitiva le zone curde più pericolose. Questo sistema – sostiene Ocalan – deve essere sostituito da un tipo di polizia costituita dalla gente del posto, poiché il vecchio sistema ha creato solo disagi e violenze tra curdi. Un altro importante tema è quello sulla riforma della costituzione che risulta necessaria per poter avviare un processo di democratizzazione che includa la realtà curda. Per Ocalan il ruolo dei partiti all’opposizione è interamente volto a sabotare un progetto di questo tipo, poiché vorrebbe dire – secondo il leader del Pkk – il declino di formazioni come l’Mhp che hanno fatto della questione identitaria la propria bandiera, rifiutando qualsiasi tipo di apertura o riconoscimento alla minoranza curda.

ALCUNI DATI – Un sondaggio condotto dalla Fondazione SETA rivela come la questione curda venga classificata dal 55% degli intervistati come il maggiore problema da affrontare in Turchia. Ma altri sondaggi evidenziano come questo trend sia poco decifrabile, in quanto in molti casi la disoccupazione ed i problemi economici sono messi sullo stesso piano. Per quanto riguarda il parere sull’operato del governo relativo agli ultimi mesi, in un sondaggio realizzato dalla società A&G, il consenso in relazione alle riforme costituzionali e di apertura verso la questione curda è calato dal 60,9% di giugno a circa il 40% nel mese di agosto, questo per via della forte divisione all’interno della politica turca.

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L’APERTURA DEMOCRATICA VERSO LA QUESTIONE CURDA – Il pacchetto di riforme promosso dal Governo per accelerare la risoluzione della questione relativa alla minoranza curda è stato discusso in molte sedi istituzionali. Il ministro degli Interni Besir Atalay ha recentemente affermato come siano in procinto importanti iniziative, sul piano legislativo, per contribuire alla costruzione di un clima di unità nazionale, e allo stesso tempo riacquistare fiducia tra le fila della popolazione curda, divenuta negli anni diffidente a questo tipo di dichiarazioni di intenti. Tra le varie proposte c’è la revisione del controverso articolo 221 del codice penale turco, che autorizza la detenzione per tutti coloro che appartengono ad organizzazioni che operano in qualche modo contro l’operato dello Stato. Questo articolo è stato l’artefice, insieme alla legge anti-terrorismo, di numerosi casi di detenzione di minori, soprattutto durante le manifestazioni pro-Ocalan o durante le celebrazioni del Newroz, la tradizionale festa curda che si tiene ogni anno nel mese di marzo. L’Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico (OCSE) ha più volte rimarcato la pericolosità di alcuni articoli del codice penale turco, tra cui l’articolo 221 che attua una sistematica violazione per quel che riguarda il rispetto dei diritti civili della società turca. Un’altra importante riforma è quella relativa al "Public Reform Act", la quale fu approvata già nel 2004 dal Parlamento turco ma venne bloccata dal veto dell’ex presidente Ahmet Necdet Sezer. Il testo della riforma prevede il trasferimento di alcuni poteri dall’amministrazione centrale a quelle locali, una sorta di decentralizzazione amministrativa che negli intenti a come principale obiettivo quello di responsabilizzare maggiormente le amministrazioni curde sul territorio.  

LE “OPPOSIZIONI” – Come anticipato il problema maggiore adesso in Turchia è la spaccatura creatasi all’interno del mondo politico turco. Se il Milliyetçi Hareket Partisi (Mhp), movimento di stampo nazionalista, ha sempre dichiarato il fermo rifiuto verso un apertura democratica nei confronti della minoranza curda, motivata dall’ideologia di “uno stato, una popolazione”, il Cumhuriyet Halk Partisi (Chp), ovvero il Partito Repubblicano del Popolo,  ha invece cercato di costruire una strategia alternativa, enfatizzando i problemi economici che affliggono il paese e valutando la proposta del governo come una macchinazione per occultarne la responsabilità relativa alla fallimentare politica economica, evidenziata dal grande tasso di disoccupazione degli ultimi mesi.  

IL “PIANO CURDO” DEL 1989 – Sulla stampa turca degli ultimi giorni è apparso un dossier preparato dall’allora dirigente del partito socialista turco (Shp) ora leader del Chp, Deniz Baykal, il quale elaborò insieme ad altri esponenti del partito un piano per la risoluzione della questione curda. Il piano, presentato nel 1989, venne definito da molti come la migliore soluzione al difficile tema; il report denominato “SHP's Perspectives and Proposals for Solutions in the East and Southeast” conteneva delle linee guida su come affrontare e risolvere il problema relativo alla minoranza curda e del movimento separatista del Pkk. Il piano che Baykal presentò nel 1989 è pressoché simile a quello redatto pochi giorni fa dal leader curdo Ochalan. Vi sono temi principali comuni, come l’introduzione della lingua curda, l’eliminazione del sistema della guardia di villaggio, le riforme della costituzione in merito al rispetto dei diritti civili e la spinta a investire più nel sud-est del paese per combattere la forbice della ricchezza; il Governo perciò sembrerebbe intenzionato a seguire molti di questi suggerimenti per la realizzazione della Road map di ottobre, auspicando che si realizzi un compromesso almeno con la parte più moderata del Chp, dato che le elezioni per il nuovo segretario del partito avverranno nel mese di gennaio e la sconfitta di Baykal potrebbe portare alcuni cambiamenti.  

Sotto attacco

Un attentato kamikaze nel Sud-Est del Paese ha provocato la morte di decine di persone e di alcuni capi dei Pasdaran, l’elite di governo fedele ad Ahmadi-Nejad. Chi c’è dietro e perché l’Iran è oggetto di attacchi

 

TERRORISMO IN CASAStavolta non si tratta di ribellione sociale, così come era stato nel dopo-elezioni dello scorso giugno nelle strade di Teheran e dei principali centri urbani di tutto l’Iran. E pensare che, in quell’occasione, i rappresentanti del regime ormai comandato dai Pasdaran (le Guardie della Rivoluzione), erano arrivati a processare ed, in alcuni casi, condannare anche a morte, alcuni dei giovani che manifestavano chiedendo più democrazia e trasparenza, proprio con l’accusa di terrorismo. Quasi a mo’ di legge del contrappasso, invece, il terrorismo, quello vero, arriva nuovamente a far breccia in territorio iraniano. Di nuovo nella regione Sud-orientale del Sistan-Baluchistan come era già accaduto a fine maggio, proprio alla vigilia di quelle che sarebbero poi diventante le più contestate elezioni iraniane della storia post-rivoluzionaria. Un attentatore kamikaze ha ucciso almeno 49 persone, provocando la morte di alcuni dei vertici dei Pasdaran, tra cui il vice-comandante delle Forze di terra Nour Ali Shoushtari. E risulta anche alquanto paradossale ed “ironico” (se non fosse per i quasi 50 morti che vi sono stati) il fatto che ad essere sotto il mirino del terrorismo sia proprio il Paese che, da più parti, è nell’occhio del ciclone per il suo supposto appoggio ad organizzazioni di stampo terroristico in mezzo mondo, dallo Yemen alla Palestina, dal Libano all’Iraq, fino all’America Latina.

 

CHI E’ CONTRO CHI? – Non è un fatto che può essere ricondotto ai disordini di piazza dello scorso giugno, dal momento che il Jundullah, (“Esercito di Dio”) organizzazione che combatte il regime di Teheran con l’uso delle armi e la strategia terroristica, sia un acerrimo nemico del governo e delle istituzioni iraniane almeno dal 2003, anno in cui l’organizzazione si è formata. Ma chi sono e cosa vogliono questi attentatori del Sud-Est iraniano? E poi, vi sono motivazioni reali (a parte la solita retorica nazionalista ed anti-occidentale ad uso interno) per cui il Presidente del Parlamento iraniano Ali Larijani accusa direttamente gli Stati Uniti, la Gran Bretagna ed il Pakistan (oltre il sempre presente Israele) di aver dato appoggio all’Esercito di Dio nel portare a termine l’attentato? L’attentato avviene in quella che, insieme alla provincia occidentale curda, è per l’Iran base delle più ostili opposizioni al regime, e questo per la natura stessa della popolazione e del territorio. I Baluchi, infatti, sono per lo più sunniti e non persiani, in un Paese a maggioranza sciita e persiano: minoranze per ben due volte, dunque. In virtù di tale condizione, i Baluchi sono, insieme appunto ai Curdi, la minoranza più bistrattata del Paese, cittadini di serie B che cercano una via d’uscita a questa situazione. Essendo minoritari, come accade in molte altre zone del mondo, alcuni gruppi organizzati hanno nel terrorismo l’unica strategia perseguibile nei confronti del governo centrale e delle istituzioni. Il Jundullah potrebbe, secondo fonti locali, aver ricevuto una qualche forma di sostegno esterno in funzione anti-iraniana, sia durante l’Amministrazione Bush dagli USA, che dai Talebani afghani (tramite il Pakistan), che, infine, dallo stesso Pakistan, Stato confinante (con cui divide la provincia del Baluchistan l’Iran) proprio nell’area dell’attentato e fortemente ostile all’Iran (soprattutto per motivi di egemonia regionale).

 

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GAS ED EROINA – Se da un lato la questione, posta in questi termini, sembra quasi essere fin troppo semplice (un’organizzazione che combatte un governo del proprio Paese, appoggiata da elementi esterni che hanno un interesse comune nell’indebolire le istituzioni di quel Paese), a ben guardare vi sono almeno altri due elementi da prendere in considerazione e che potrebbero ricollegarsi all’instabilità del Sistan-Baluchistan iraniano. In primo luogo, e qui rientrano in gioco gli USA e le potenze filo-occidentali, da quel territorio dovrebbe passare uno dei gasdotti più controversi della regione, il cosiddetto “gasdotto della pace” Iran-Pakistan-India (IPI), progetto fortemente osteggiato dagli USA (che temono un vantaggio economico per l’Iran). In quest’ottica, maggiore è l’instabilità dell’area di potenziale transito del gas iraniano, maggiore sarà la possibilità che il progetto si areni. Inoltre, vi è un’altra ed annosa questione: l’oppio afghano. E’ da qui che la droga prodotta in Afghanistan (il 90% dell’eroina sul mercato mondiale proviene dall’Afghanistan), maggiore fonte di finanziamento per i Talebani, entra nei mercati occidentali, andando, nel suo passaggio, ad intaccare anche la società iraniana. Centinaia di militari iraniani sono morti in operazioni di lotta al narcotraffico nell’area e l’ostinazione del regime iraniano a voler cessare il flusso di oppio non è sicuramente ben vista da chi ne beneficia in Afghanistan e Pakistan. Dunque il Jundullah potrebbe essere stato usato anche a scopi di rappresaglia per tali azioni repressive dell’Iran. Le ipotesi sono tutte sul tavolo e, come si capisce, la situazione non è semplice e lineare come potrebbe apparire. L’unica cosa certa è che il regime attuerà la solita repressione senza pietà contro i Baluchi e, così facendo, contribuirà ad alimentare le opposizioni contro di lui. In attesa che l’Occidente arrivi a presentare il conto di una debolezza sempre più forte, nel momento in cui Ahmadi-Nejad dovesse sedersi al tavolo delle trattative.

Braccio di ferro

Nonostante le dichiarazioni di collaborazione, l’Iran continua a mantenere posizioni ambigue sulla questione nucleare. Il rischio è che sia deciso a volere la bomba

 

LE PROPOSTE DELL’AIEA – Continua il braccio di ferro tra l’Iran ed il gruppo di negoziazione per la questione del programma nucleare avviato da Teheran. La settimana scorsa, in un clima reso molto più teso dall’attentato che aveva colpito al cuore il regime dei Pasdaran, i rappresentanti iraniani hanno ricevuto dall’AIEA e dal suo Direttore Mohamed el-Baradei una proposta che sembrava potesse far uscire i negoziati dallo stallo attuale. El Baradei, in accordo con il gruppo dei cosiddetti “5+1”, ha proposto ad Ahmadi-Nejad di trasferire l’80% dell’uranio iraniano (in tutto circa 1.500 chili) parzialmente arricchito in Russia, in modo tale da poter essere ulteriormente arricchito per poter essere poi utilizzato come combustibile nucleare, a soli scopi energetici. Ciò in virtù del fatto che l’arricchimento del’uranio necessita di vari fasi diverse per l’uso civile, piuttosto che per quello militare. In altre parole, l’uranio avrebbe bisogno di essere molto più arricchito, rispetto a quanto si faccia per usarlo a fini civili, se volesse essere utilizzato per la costruzione di armi nucleari. La proposta del gruppo di negoziazione è stata, dunque, quella di far arricchire l’uranio iraniano a Mosca, in modo tale da essere tenuto sotto controllo e da essere portato ad un livello tale di arricchimento che garantisse il solo uso civile da parte degli Ayatollah.

 

UN PIANO PERFETTO? – La Francia, maggiore nazione nucleare in quanto ad energia prodotta in Europa e la Russia, che avrebbe appunto dovuto arricchire l’uranio iraniano (e che finanzia i reattori di Bushehr nello stesso Iran), si sono immediatamente dette disponibili ad accettare un tale accordo. Accordo che, effettivamente sembrava essere finalmente risolutivo: si sarebbe preservato il diritto iraniano a sviluppare il nucleare civile (cosa che l’Amministrazione statunitense precedente, sotto la Presidenza Bush, escludeva categoricamente a priori), così da non dare l’impressione di comportarsi pregiudizialmente solo con il regime di Teheran e, allo stesso tempo, si sarebbe garantito che l’Iran usasse l’uranio effettivamente ai soli fini pacifici. Il problema è sorto dopo che, a dispetto dei toni ottimistici di El Baradei, l’Iran ha cominciato a dare segnali contrastanti circa le sue reali intenzioni di fronte a questa proposta che, agli occhi del mondo intero, sembrava la classica proposta da non poter rifiutare.

 

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IRAN SI’, IRAN NO – Teheran ha dapprima detto che avrebbe accettato, poi ha smentito tutto, dicendo che avrebbe rinunciato a qualsiasi forma di compromesso; in un secondo tempo le agenzie ufficiali iraniane hanno detto che il governo avrebbe preso tempo e avrebbe risposto entro una settimana. Infine, Ahmadi-Nejad è parso nuovamente essere negativo su tutti i fronti, mostrando la sua assoluta non volontà ad assumere un atteggiamento cooperativo con la comunità internazionale. Nel corso della settimana, come se non bastasse, l’Iran ha lanciato altri segnali contrastanti: dapprima ha detto di voler collaborare, ma solo in parte (cedendo solo una parte dell’uranio richiesto da Mosca per essere arricchito a fini civili) e, poi, sono anche girate voci circa un’accettazione in toto dell’accordo proposto in sede AIEA. Le smentite, comunque, si sono rincorse sulle agenzie ufficiali del regime, portando nuovamente il clima ad un’incertezza totale, in cui è difficile per gli attori coinvolti capire le reali intenzioni del regime iraniano.

 

I PIANI DI TEHERAN – Ciò che sembra certo, comunque, è il fatto che Ahmadi-Nejad sembra voler assumere dei comportamenti non collaborativi a priori. Nonostante le timide aperture a parole da parte di Teheran, infatti, appena il governo iraniano si trova di fronte a reali soluzioni all’ impasse creatasi sulla questione del nucleare, sembra adottare ogni strategia per depistare i suoi dialoganti, portando così ad un clima di esasperazione. Ciò probabilmente è dovuto al fatto che l’Iran, al di là di ogni retorica affermazione, ha deciso di dotarsi comunque dell’arma nucleare e non intende in alcun modo fare dei passi indietro. Il possesso di armi nucleari sarebbe necessario e funzionale all’idea di Teheran di egemonia in tutto il contesto mediorientale. Con tale arma, infatti, l’Iran avrebbe, secondo i piani di Ahmadi-Nejad (e degli Ayatollah che, probabilmente, in questo lo sostengono), una capacità di deterrenza ed una proiezione di potenza sicuramente più profonda degli altri attori competitori e potrebbe addirittura porsi sullo stesso piano dello Stato di Israele, tentando di stabilizzare (paradossalmente, ma è questa la logica della deterrenza, come nella Guerra Fredda tra USA e URSS) i rapporti con gli Israeliani, per godere di un’incontrastata leadership sul mondo arabo-musulmano che lo circonda. Visti in quest’ottica, i piani iraniani difficilmente possono prevedere un accordo che metta fine alle ambizioni di Teheran circa il possesso della “Bomba”. In questa cornice, è di nuovo l’Occidente a dover decidere il da farsi, nella speranza che lo stesso Israele non diventi troppo irritato dai continui tentennamenti iraniani e non decida di attivare i propri missili puntati ad Est.

La polveriera Kirkuk

La città irachena è un nodo dove si intrecciano tensioni di ogni tipo: etniche, religiose, economiche. Le autorità riusciranno a scioglierlo prima delle elezioni presidenziali di gennaio?

LO SCENARIO IRACHENO – Un film di Kristian Fraga, montato con le immagini riprese da Mike Scotti, tenente dei marine durante l’invasione americana in Iraq nel 2003, ha riportato il conflitto iracheno all’attenzione dell’opinione pubblica internazionale. Secondo le stime del ministero degli interni e della difesa iracheno nel mese di ottobre è raddoppiato il numero delle vittime rispetto a settembre; la notizia fa riflettere considerando che le elezioni politiche sono agli sgoccioli. Infatti a gennaio sono in programma le prossime elezioni, che andranno a definire quale sarà il nuovo presidente e i partiti, che avranno il compito di guidare il paese fuori dall’attuale crisi. Ma uno dei maggior ostacoli sembra essere quello relativo al governatorato di Kirkuk, la cui sorte non è ancora definita e che potrebbe compromettere la data delle elezioni, previste entro il 31 gennaio. La causa principale è la legge elettorale, o meglio gli emendamenti necessari per il nuovo corso politico iracheno che si trova in una sostanziale fase di stallo.Già nelle passate elezioni provinciali, tenutesi a gennaio scorso, il nodo di Kirkuk sembrava poter rallentare il normale processo elettorale per le provinciali, a causa della sua componente multietnica e multiconfessionale che ha impedito al parlamento di trovare una soluzione concreta, ed ha costretto al rinvio delle provinciali tutta la provincia di Ta’amim, che ha Kirkuk come capoluogo. Ebbene, a distanza di quasi un anno la situazione di Kirkuk non è ancora stata risolta e nemmeno il lavoro di Staffan de Mistura, incaricato dell’ONU in Iraq, è riuscito a trovare una soluzione di compromesso tra le parti in gioco. L’ultima fumata nera si è avuta ad ottobre, durante un incontro preparativo sugli emendamenti per la nuova legge elettorale, che per la cronaca dovrà precedere di almeno 90 giorni la data delle elezioni.

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QUALI ATTORI SI CONTENDONO KIRKUK? – Il governatorato di Kirkuk dal 2003 è interessato da una politica di “de-arabizzazione” che ha come obiettivo quello di ristabilire gli equilibri etnici e confessionali prima della politica repressiva di Saddam Hussein degli anni ’80, quando furono deportati – secondo le stime dell’ONU – circa centomila curdi dalle provincie del nord Iraq. Il governo regionale curdo (KRG) rivendica con forza l’appartenenza della provincia di Ta’amim, affermando la propria autorità non solo tramite il controllo delle amministrazioni locali ma anche attraverso l’impiego sistematico dei peshmerga lungo i confini (l’esercito regolare della regione autonoma del Kurdistan iracheno). Dall’altra parte c’è la componente araba che rivendica il proprio diritto di concorrere alla pari con la controparte curda per le prossime elezioni. La minoranza araba ha una storia relativamente breve nella composizione etnica di Kirkuk, essendo stata “inserita” per la maggior parte durante il periodo della cosiddetta campagna al Anfal, che costrinse alla deportazione di migliaia di curdi dalle provincie del nord verso le zone meridionali nei pressi di Bassora; e in questo periodo perciò che si concentra il massimo fenomeno migratorio arabo nella provincia di Kirkuk. Un altro gruppo etnico presente nella zona è quello turcomanno, da sempre nella regione ed appoggiato direttamente dalla Turchia, che rivendica una posizione alla pari con le altre componenti politiche per una ridistribuzione più equa delle ricchezze derivate. Le ricchezze infatti potrebbero essere ingenti. Si parla di un giacimento petrolifero ancora abbastanza grande da attirare le attenzioni di parecchi attori internazionali. Il capo delegato curdo presso l’Unione Europea, Burhan Jaf, ha affermato come l’articolo 140 della Costituzione sia un punto cardine per risanare un’area, nello specifico quella di Kirkuk, dalla campagna di arabizzazione condotta dal regime baathista. Secondo questa lettura dell’articolo, i curdi avrebbero una sorta di “diritto al ritorno” a prescindere dalle decisioni prese in materia dal governo di Baghdad. LA COMPONENTE RELIGIOSA – Il fattore religioso è un altro argomento da approfondire, risultando alla pari di quello etnico, per quanto riguarda il livello di violenze e persecuzioni compiute contro le minoranze confessionali della zona. Il Vescovo di Kirkuk, Mons. Louis Sako, ha affermato su AsiaNews come dal 1600 la storia dei cristiani iracheni di Kirkuk sia contraddistinta da violenze e resistenza alle forze esterne tramite il martirio dei fedeli. La regione di Kirkuk ha una delle più antiche comunità cristiane di tutta la storia della Chiesa. Ma oggi rappresenta un obiettivo da controllare per coloro che vogliono mettere le mani sulla provincia. Inoltre anche la componente mussulmana ha non pochi problemi nel gestire la parte della guerriglia sunnita dei famigerati “movimenti del risveglio” al-Sawa, che dopo una breve parentesi di tregua con il governo di al Maliki, pagata a suon di dollari dall’esercito americano, hanno ripreso attività intimidatorie nelle zone a nord di Baghdad, nel quartiere al-Adhamiya. 

QUALE FUTURO PER KIRKUK – Il problema principale risulta essere quello relativo agli elenchi elettorali, nello specifico la scelta dovrebbe cadere su due possibili opzioni: utilizzare l’elenco del 2004, proposta appoggiata dalla componente araba e turcomanna; il gruppo dei parlamentari curdi e la stessa UNAMI, agenzia ONU di assistenza all’Iraq, supportano invece l’utilizzo di nuovi elenchi aggiornati al 2009. La disputa nasce dal fatto che nel 2004 la presenza curda nella provincia non era così forte come adesso, per via del ritorno di molte famiglie dalle regioni meridionali. Il “ritorno a casa” negli ultimi anni ha creato una nuova maggioranza etnica ed ha complicato il già fragile equilibrio. Se non si dovesse trovare una soluzione a breve, il caso Kirkuk rischierà di degenerare, spingendo il governo regionale curdo a prendere una posizione molto dura, che potrebbe includere una formale richiesta secessionista, nei confronti del governo iracheno. 

Damasco in fiamme

Un’esplosione ha causato molte vittime nella capitale siriana, solitamente tranquilla e sicura. Perché la nuova ondata di terrorismo (se di terrorismo si tratta, date le smentite) colpirebbe la Siria? L’Iran come obiettivo indiretto e gli arabi sunniti che non si dispiacciono…

 

L’ESPLOSIONEDamasco brucia. La capitale siriana non è più sicura come una volta e, qualora servissero ulteriori conferme, l’esplosione di stamattina arriva puntuale a turbare il Presidente della Siria Bashar al-Assad e i milioni di siriani che da mesi sperano di poter vedere il loro Paese tornare a far parte degli Stati graditi alla Comunità Internazionale. L’esplosione di questa mattina ha coinvolto un autobus di pellegrini sciiti, secondo alcune fonti iraniane, che si dirigevano in uno dei luoghi sacri dello sciismo presenti a Damasco: la moschea di Sayda Zeynab. Secondo le prime fonti vi sarebbero almeno 6 morti e molti feriti coinvolti nell’esplosione, avvenuta nei pressi di una stazione di benzina. Non è certo che si tratti di un attentato, dal momento che le autorità siriane hanno parlato di un “incidente”. Tale versione però sembra alquanto strana, riportando che uno pneumatico dell’autobus sarebbe scoppiato causando a sua volta lo scoppio di una bombola di gas presente nella stazione di rifornimento. Vedendo le lamiere dell’autobus scaraventate a decine di metri dal luogo dell’esplosione, risulta strano che lo scoppio di una gomma possa aver provocato quell’inferno.  Se si trattasse di un attentato dunque, cosa potrebbe esserci dietro questo ennesimo atto di destabilizzazione in Medio Oriente? Perché proprio la Siria, Paese relativamente tranquillo da decenni e che ultimamente sembra essere in buoni rapporti con quasi tutti i vicini regionali? Possiamo fare delle ipotesi, interpretando i dati a nostra disposizione circa la situazione siriana, la congiuntura che sta attraversando il Medio Oriente e i rapporti di Damasco con gli altri attori regionali, fermo restando che non è certo che si tratti di un attentato.

 

LE SVOLTE DI DAMASCONon si può non notare che l’obiettivo dell’eventuale attentato sia stato, chiaramente, la comunità sciita. Per chi ha memoria lunga, possiamo ricordare che nel settembre del 2008 un altro attentato compiuto nella capitale siriana aveva coinvolto sempre un quartiere sciita, provocando 17 vittime. Allo stesso tempo se si tratta di un attentato non può essere un caso la coincidenza con la visita a Damasco, prevista proprio per oggi, di uno dei più importanti uomini del regime dell’Iran: il capo dell’apparato di sicurezza nazionale Said Jalili. Come dire: Iran, il nostro obiettivo sei tu, è un avvertimento. Ma chi potrebbe essere stato a portare a termine l’attentato? La Siria è sempre stata, da quasi trent’anni, l’alleato più stretto dell’Iran tra gli arabi del Medio Oriente. Per varie ragioni: affinità religiose e culturali (il governo di Assad è di estrazione alawita, una branca minoritaria dello sciismo, nonostante il Paese sia in maggioranza sunnita), motivazioni strategiche e politiche soprattutto. Da un po’ di tempo Damasco sembra però intraprendere un cammino piuttosto autonomo rispetto a Teheran: si sta riavvicinando all’Occidente, grazie alle aperture dell’Unione Europea con la Francia in testa; ha ormai compiuto il cammino della completa normalizzazione con la vicina Turchia, con cui adesso i rapporti sembrano essere ottimi; si è riavvicinata all’Arabia Saudita, nemico numero uno dell’Iran nella regione e, fino a poco tempo fa, in pessimi rapporti con la stessa Siria; tenta da due anni di arrivare ad un accordo addirittura con Israele, con la mediazione turca prima e francese poi; si è disimpegnata dal vicino Libano, che occupava militarmente fino al 2005 e ha permesso indirettamente la relativa stabilizzazione libanese a seguito delle elezioni dello scorso giugno.

 

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OBIETTIVO: TEHERAN? – Dunque i cambiamenti sono tanti, soprattutto Damasco sta tentando di uscire dall’isolamento internazionale in cui l’aveva relegata l’ex Presidente statunitense George W. Bush da un lato e, dall’altro, il suo ambiguo atteggiamento di fiancheggiatrice di gruppi organizzati anche di stampo terroristico nella regione. Date le svolte descritte sopra, si potrebbe intendere che molti dei gruppi terroristici di matrice sunnita non abbiano gradito alcuni atteggiamenti della Siria, come per esempio la trattativa indiretta con Israele o, ancora, il sospetto coinvolgimento del regime siriano in alcuni attentati che hanno colpito l’Iraq. Ma l’eventuale attentato potrebbe essere volto anche a deteriorare i rapporti tra la Siria e l’Iran, in un momento delicato per Teheran. Con atti destabilizzatori si potrebbe voler mettere in luce l’attuale difficoltà del Presidente Assad di tenere sotto controllo i gruppi estremisti siriani o infiltrati da fuori, come invece era sempre stato fino ad un anno fa. Si tratterebbe delle avvisaglie di una situazione interna che sfugge di mano al governo, in modo tale da rendere l’Iran più sospettoso di Damasco ed allontanare Ahmadi-Nejad dall’alleato Assad. In tal modo Teheran si troverebbe sempre più isolata e in parte privata dell’appoggio siriano come testa di ponte nel cuore del Medio Oriente.

 

I GUAI DI ASSAD – Allo stesso tempo, un attentato potrebbe essere una sorta di punizione contro la politica estera seguita da Assad, fatta di rapporti con l’Occidente, rottura dell’isolamento e ammiccamenti con Israele. Proprio qualche giorno fa era trapelata la notizia secondo cui l’uccisione del numero due di Hezbollah Mughniyyeh, avvenuta nel febbraio 2008 sempre a Damasco, sarebbe stata portata a termine dai servizi segreti israeliani con la complicità della Siria stessa. Dunque è da quasi due anni che Damasco si sta attirando le ire di molti vicini arabi. Non si esclude che dietro un possibile attentato vi sia la lunga mano saudita, per esempio tramite un gruppo terroristico con base in Libano, Fatah al-Islam, il cui capo Shaker al-Abssi è stato arrestato e probabilmente ucciso (è scomparso dopo l’arresto e non si hanno più notizie su di lui) proprio dalle autorità siriane. Un atto terroristico che potrebbe avere molti mandanti e diversi scopi. Sicuramente alla base vi sarebbe la volontà di mostrare la vulnerabilità della Siria agli occhi dell’Occidente da un lato e dell’Iran dall’altro, in modo tale da screditare il Paese da entrambi i fronti. L’Occidente non potrebbe essere sicuro di un’eventuale alleanza con la Siria e l’Iran vede i propri concittadini essere massacrati per le strade di Damasco. E’ anche per questo che probabilmente, in attesa di notizie più certe, le autorità siriane dicono che non si tratta di un attentato, ma di un incidente provocato da una bombola di gas. Se di attentato si tratta, invece, dietro le bombe vi potrebbe essere la mano di attori che, con le mosse attuali della Siria, stanno perdendo colpi a livello di immagine ed influenza regionale, vale a dire i “classici” interlocutori arabi e sunniti dell’Occidente, come Arabia Saudita, Egitto e Giordania. In occasioni come queste torna sempre il vecchio detto che in Medio Oriente non vi sono alleanze, ma solo interessi. La Siria sta pagando il prezzo di politiche conciliatorie con i nemici di una volta e sta subendo le ritorsioni di altri attori, con scopi molteplici. Del resto, se vi è un posto dove tutto può accadere contro tutti, quello è il Medio Oriente. A Washington, nel frattempo, Obama si sveglierà con un’altra brutta notizia per la sua opera di mediazione nella regione.

Il Caffe’ su BMRadio

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Il Caffè sbarca su BMRadio. Due puntate alla settimana per raccontare quanto accade nel mondo, col “nostro” stile: nessun tema di nicchia, ma approfondimenti agili e accessibili a tutti. Per un Caffè sempre più piacevole, e sempre più luogo di incontro.

NOI E BM – Non è una novità da poco. Il Caffè Geopolitico da oggi non è solo un sito, ma anche una trasmissione radiofonica. Il Caffè sbarca in radio: su BMRadio (www.bmradio.it), va in onda da gennaio questo nuovo programma, interamente realizzato dalla nostra redazione. Con due strisce settimanali di mezzora, il martedì alle 22 e il giovedì alle 21, con due repliche nel weekend, il sabato e la domenica alle 11. Ogni puntata sarà poi ascoltabile sul sito di BMRadio in qualsiasi momento grazie ai podcast, che presto saranno disponibili anche sul nostro sito.

LO STILE – Quello del Caffè. Approfondimenti e visibilità su esteri, relazioni internazionali, geopolitica, su temi rilevanti noti (spesso solo superficialmente) e meno noti al grande pubblico. Modalità e stili di comunicazione non saranno però mai “di nicchia”, o da addetti ai lavori. Lo stesso strumento della webradio non lo può permettere. E allora, ancora di più in radio lo stile farà la differenza: tenteremo di comunicare quanto accade nel mondo, andando sempre in profondità e mai superficialmente, ma in maniera agile, frizzante, semplice, accessibile a tutti. Il Caffè momento di pausa piacevole e interessante, e nello stesso tempo luogo di incontro: la nostra scommessa è che anche in radio possa essere così. Ovviamente, trattandosi di radio, in mezzo agli interventi dei nostri esperti troverete anche tanta musica.

COMING SOON – Non finisce qui. La collaborazione con BMRadio aprirà a brevissimo un secondo fronte. Oltre a “Il Caffè Geopolitico”, a breve andrà in onda anche Coffee Break”. Una vera e propria pausa caffè: un notiziario quotidiano di tre-quattro minuti, con un breve approfondimento sul fatto del giorno e qualche altra notizia dal mondo. Il Caffè Geopolitico dunque rilancia, e tenta di diventare grande, sfruttando mezzi e piattaforme diverse. Sì, perché le novità non si fermano certo qui. Anzi, è solo l’inizio. E allora buon caffè a tutti, e… stay tuned!

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Nulla di fatto

Cadono ancora nel vuoto i tentativi di negoziato sulla questione honduregna. Tra i due litiganti, il presidente deposto Zelaya e quello de facto Micheletti, però, si frappone l’imminenza delle elezioni

MANCA L’ACCORDO – Secondo alcuni poteva essere la volta buona: e invece, sul più bello, la trattativa è saltata ancora una volta. In Honduras, l’intricatissimo nodo legato al contrasto istituzionale tra Manuel Zelaya, il presidente deposto dal colpo di Stato del 27 giugno scorso, e Roberto Micheletti, subentrato al suo posto in quanto presidente della Camera (secondo quello che prevede la Costituzione nazionale), non è ancora stato sciolto. L’ultima tornata di negoziati condotti in seno all’OSA (Organizzazione degli Stati Americani) tra le delegazioni dei due contendenti e con la mediazione del Presidente del Costa Rica Óscar Arias è giunta ad una nuova situazione di stallo. Infatti, nonostante entrambi riconoscano che si faranno da parte a gennaio, quando cioè il nuovo Presidente che sarà eletto dal voto programmato per il prossimo 22 novembre entrerà in carica, le modalità con cui intendono farlo sono diverse. Zelaya chiede di essere reintegrato nelle sue funzioni, Micheletti non è d’accordo e punta a terminare il mandato.

TRA RAGIONE E VIOLENZA – Mentre Zelaya chiede che sul suo ritorno al potere si pronunci il Parlamento, Micheletti sostiene invece che tale parere venga espresso dalla Corte Suprema dell’Honduras. Le ragioni di “Mel” (questo il soprannome del leader deposto, che continua a trovarsi nell’ambasciata brasiliana a Tegucigalpa) sono chiare: ottenere un voto dall’organismo che è espressione della volontà popolare sancirebbe la legittimità democratica del suo status presidenziale. Dall’altra parte, Micheletti invoca il rispetto delle norme costituzionali: secondo la tesi del Partido Liberal, Zelaya avrebbe attentato ripetutamente alla democraticità delle istituzioni e la sua deposizione sarebbe stata dunque un atto legittimo rispettoso della prassi costituzionale. Il pericolo, ora, è che i ripetuti fallimenti della mediazione portino i sostenitori dei contendenti a ricorrere all’uso della forza. Alcune fonti sostengono che  il Venezuela offrirebbe appoggio economico e materiale, in termini di armi, a soggetti vicini a Zelaya. Nei giorni scorsi, invece, sono stati assassinati un nipote di Micheletti e il colonnello Jiménez (anch’egli vicino al presidente de facto), dirigente dell’Industria Militare. 

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PROSPETTIVE E IL RUOLO DEGLI USA – La disputa tra Zelaya e Micheletti potrebbe però terminare tra un mese, quando si svolgeranno le elezioni presidenziali. È presumibile pensare che entrambi potrebbero non avere più voce in capitolo, in quanto il voto si svolgerà sotto i riflettori di organizzazioni regionali e internazionali volti a garantirne la correttezza. Le urne potrebbero dunque decretare la fine di questo singolare scontro istituzionale, sempre che le due parti non decidano di fare ricorso alla forza come extrema ratio. In tutta questa situazione, merita di essere discusso anche il ruolo degli Stati Uniti. Tradizionalmente interventisti nelle vicende continentali, in osservanza ai dettami di politica estera formulati ancora nell’800 dalla “dottrina Monroe” e dal “corollario Roosevelt”, questa volta Washington si è mantenuta su posizioni caute. Il presidente Obama, che ha sempre offerto sostegno a Zelaya, nonostante questi fosse alleato del “nemico” Chávez, ha incontrato l’opposizione del Partito Repubblicano e ha fatto addirittura parlare di una “deriva a sinistra” degli USA. In realtà, non sembra niente di tutto ciò: più probabilmente, Obama ha deciso di adottare anche nelle vicende continentali un approccio più multilaterale, dettato anche dalla necessità di fare “economia” per quanto riguarda l’utilizzo delle risorse militari, e di affidarsi ad un interlocutore fidato ed autorevole come il Brasile.  

Davide Tentori 27 ottobre 2009 [email protected]

Election time

In tutta l’America Latina è iniziato un periodo di votazioni che culminerà con le Presidenziali brasiliane a ottobre 2010. All’orizzonte potrebbero esserci molti cambiamenti

TUTTI ALLE URNE – In America Latina è appena iniziato un periodo che potrebbe essere foriero di importanti novità, per lo meno dal punto di vista politico. Ha infatti preso il via una fase di tornate elettorali che porteranno a votare la maggior parte degli abitanti del subcontinente, chiamati a scegliere i nuovi Presidenti. Ha cominciato l’Uruguay il 25 ottobre: lo scontro tra José “Pepe” Mujica, esponente della coalizione di sinistra del Frente Amplio, e Luis Alberto Lacalle, non ha ancora decretato un vincitore e sarà necessario un ballottaggio che si terrà a fine mese. Negli stessi giorni, in Honduras si terranno le elezioni che nomineranno (o dovrebbero nominare) il successore dei “litiganti” Zelaya e Micheletti. A vincere, secondo le previsioni, potrebbe essere in ogni caso un esponente antagonista del Venezuela, che sia il candidato del Partido Nacional Porfirio Lobo o quello del Partido Liberal Elvin Santos. Sarà quindi la volta, a inizio dicembre, di Cile e Bolivia. Nel Paese andino Michelle Bachelet, prima Presidente donna al Palacio de la Moneda (la sede del Governo a Santiago) non potrà ripresentarsi per un secondo mandato consecutivo e a sfidarsi saranno il democristiano Eduardo Frei, già presidente all’inizio degli anni ’90, e il miliardario di centro-destra Sebastian Piñera. A La Paz, invece, sembra scontata la rielezione del “cocalero” Evo Morales. A gennaio toccherà al Costa Rica, dove Óscar Arias lascerà il potere, mentre in Colombia Álvaro Uribe competerà – sembra senza avversari in grado di impensierirlo – per un terzo mandato. Il “gran finale”, però, sarà ad ottobre 2010, con le presidenziali in Brasile, dove si sfideranno Dilma Rousseff, scelta come “erede” da Lula, e il socialdemocratico José Serra.

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LA SINISTRA AL TRAMONTO? – Negli ultimi anni si è parlato tanto del fiorire di regimi di centro-sinistra nella regione, che avrebbero così garantito una presunta identità ideologica in quasi tutta l’area. In realtà, le differenze tra Paese e Paese sono nette: la sinistra con accenti populisti di stampo chavista e che è al potere in Venezuela, Ecuador, Bolivia e Paraguay, per esempio ha poco in comune con il Cile della Concertación (una coalizione che siede al potere da vent’anni e che unisce democristiani e socialdemocratici), il Brasile del pragmatico Lula o la stessa Argentina dei Kirchner, che nonostante accenti di un ritorno al nazionalismo economico non si può dire che aderisca al “Socialismo del XXI secolo” ideato da Hugo Chávez. In alcuni di questi Paesi le coalizioni ora al potere potrebbero essere sconfitte: l’esito appare abbastanza scontato in Cile, dove Frei, oltre a non avere appeal perché appartenente ad una classe politica ormai appartenente al passato, perderà circa il 20% dei voti per la scissione operata dal giovane socialista Marco Enríquez-Ominami, che ha deciso di presentarsi da solo. Anche in Uruguay il ballottaggio potrebbe giocare un brutto scherzo a Mujica: Lacalle, esponente del Partido Nacional conterà sui voti dell’altro candidato “derechista”, Pedro Bordaberry, e la somma dei voti potrebbe superare quella destinata al Frente Amplio. In Brasile, infine, nonostante il successo planetario di Lula, Dilma Rousseff è per ora in notevole svantaggio rispetto al rivale Serra (che è comunque collocato politicamente al centro, e non a destra). La cosa più sorprendente è che in tutti i casi citati i Presidenti uscenti possono vantare anni di buon governo e di grande crescita economica: il tasso di approvazione della Bachelet è superiore al 70%, così come quello di Lula e anche Tabaré Vázquez, presidente dell’Uruguay, ha il sostegno della maggior parte della popolazione. E allora? La spiegazione più plausibile è il funzionamento della regola dell’alternanza, caratteristica di tutte le democrazie mature. Dopo vent’anni e al riparo da rigurgiti golpisti, i cileni decidono che l’esperimento della Concertación è terminato; dopo due mandati di successo di Lula (agevolati però anche dalle politiche economiche di Cardoso, suo predecessore) i quasi duecento milioni di brasiliani ritengono di poter affidare il loro voto ad un altro candidato che non sia esponente del Partido dos Trabalhadores. Non è il ritorno del conservatorismo, prodromo per nuovi regimi autoritari, ma semplicemente il sintomo di Paesi che stanno crescendo e maturando a livello politico e sociale, seppur ancora in mezzo a molte difficoltà e ingiustizie. 

Davide Tentori 3 novembre 2009 [email protected]

‘Giocare’ alla guerra

Le recenti dichiarazioni di Hugo Chávez circa la possibilità di una guerra con la Colombia hanno suscitato scalpore e preoccupazione. Le minacce, che siano vere oppure no, sono comunque un duro colpo all’integrazione regionale

 

CHIAMATA ALLE ARMI – Per chi non lo conoscesse, “Aló Presidente” è il programma televisivo che ha per unico protagonista il Presidente del Venezuela Hugo Chávez, che ad ogni puntata monopolizza per ore ed ore il piccolo schermo con monologhi fiume sugli ormai consueti temi: il socialismo, bolivarismo, l’avversione agli Stati Uniti. Nella puntata di domenica scorsa, tuttavia, il leader di Caracas si è spinto oltre alla tradizionale retorica, giungendo a paventare la possibilità di una guerra contro la confinante Colombia e invitando le truppe a prepararsi ad ogni evenienza.

 

Trattasi di delirio o di un’ipotesi da prendere seriamente in considerazione? Probabilmente, come sempre, in medio stat virtus. Bisogna innanzitutto comprendere cosa c’è alla base di questa crisi dei rapporti bilaterali. I rapporti tra Colombia e Venezuela non sono mai stati idilliaci e sono peggiorati notevolmente da quando al potere nei due Paesi ci sono rispettivamente il più fidato alleato di Washington in Sudamerica, ovvero Àlvaro Uribe, e il più aspro critico, Hugo Chávez. Le relazioni si sono deteriorate ulteriormente nel corso di quest’ultimo anno, in seguito a reciproche accuse legate a dispute di frontiera implicanti il passaggio di persone e merci illecite (guerriglieri marxisti delle FARC appoggiati da armi provenienti dal Venezuela, infiltrazione di paramilitari colombiani, traffico di stupefacenti, ecc. Cfr. Venti di guerra da sud). Caracas è arrivata al punto di bloccare le importazioni dalla Colombia, penalizzando non solo quest’ultima ma anche sé stessa in quanto strettamente dipendente dalle merci in arrivo da oltre confine. Nelle ultime settimane, fatti poco chiari avvenuti in prossimità della frontiera che hanno portato all’uccisione di otto colombiani e due militari venezuelani.

 

IPOTESI PLAUSIBILE? – Questi, dunque, gli antefatti che hanno portato Chávez a minacciare i propri vicini colombiani. Che, in tutta risposta, non hanno accettato di prendere parte all’escalation di violenza (per ora fortunatamente solo verbale) e si sono limitati a diramare un comunicato governativo ufficiale nel quale si afferma che “la Colombia non ha mai intrapreso né mai intraprenderà atti aggressivi” nei confronti di altri Stati.  Tuttavia, molte nazioni sudamericane hanno manifestato preoccupazione nei mesi scorsi per l’accordo militare stipulato dalla Colombia con gli Stati Uniti per la concessione a questi ultimi di sette basi sul proprio territorio, ufficialmente a scopi esclusivamente interni di lotta al narcotraffico e alla guerriglia di estrema sinistra. Inutile dire che le critiche più dure sono giunte proprio dal Venezuela, che non crede alla versione di Bogotá e ritiene invece che le basi siano il prodromo per un ritorno dell’ “imperialismo” statunitense nella regione. Chávez si è però trovato abbastanza solo nel lanciare questi attacchi, in quanto gli altri Stati della regione, Brasile in primis, si sono limitati ad esprimere delle perplessità e a chiedere dei chiarimenti sull’accordo militare. In più, va ricordato che il Venezuela è il grande sconfitto della crisi honduregna, risolta (anche se solo provvisoriamente, visto che la questione non è ancora chiusa) dalla mediazione degli USA: l’approccio oltranzista del caudillo di Caracas non ha pagato. Insomma, l’innalzamento della tensione nella regione fa dunque parte della strategia di Chávez di ottenere la leadership politica nella regione, o quantomeno di impedire che si formi un blocco omogeneo sotto l’egida del Brasile. Inoltre, va tenuto in considerazione il fatto che a primavera 2010 si svolgeranno in Venezuela le elezioni legislative: con un’economia in difficoltà per il calo del prezzo del petrolio e l’inflazione galoppante e un tasso di criminalità in continua crescita, il consenso attorno a Chávez si sta erodendo. La retorica bellicista, come molti esempi storici rivelano, può essere un utile “collante patriottico”  a disposizione di regimi autoritari in difficoltà.  Un intervento militare, alla luce di questa lettura dei fatti, rimane dunque un’ipotesi altamente improbabile, che va liberata dalla “tara” della tradizionale retorica aggressiva del Presidente venezuelano.

 

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IMPLICAZIONI REGIONALI E INTERNAZIONALI – Una guerra tra Venezuela e Colombia scatenerebbe un vero e proprio pandemonio a livello quantomeno regionale: gli Stati confinanti (Brasile ed Ecuador in primis) non potrebbero certo rimanere inerti in caso di un conflitto aperto. Così come neppure gli USA, che per ragioni di alleanza non potrebbero esimersi dallo schierarsi al fianco di Bogotá. Al fianco di Caracas potrebbero schierarsi partner strategici ed economici come Russia e Iran, e in questo caso il conflitto assumerebbe addirittura proporzioni mondiali.

 

Fermiamoci qui: la fanta-geopolitica non è il nostro pane. Occorre misurarsi coi fatti e le risorse in gioco e a disposizione degli attori: nessuno ha veramente intenzione di impegnarsi in una guerra, mentre è nell’interesse di Chávez, per le ragioni citate nel paragrafo precedente, tenere alta la tensione. Tale comportamento allontanerebbe ulteriormente il Venezuela dal Brasile, dove il Senato ha deciso di sospendere il voto finale per l’ammissione di Caracas nel Mercosur, ma potrebbe provocare anche l’allontanamento di alcuni partner “consolidati”: il boliviano Evo Morales ha criticato implicitamente le dichiarazioni dell’ “amico” Hugo, sostenendo che dovrebbe essere il popolo colombiano, e non una potenza esterna, a ribellarsi all’ “imperialismo a stelle e strisce”.

 

In ogni caso, se il Venezuela proseguirà su questa strada, i progetti di integrazione regionale ad ampio spettro saranno destinati a nuovi fallimenti. A questo punto, la palla passa prima di tutto al Brasile: dopo il mezzo fallimento nella questione honduregna, Lula è chiamato a misurare le proprie ambizioni di leadership politica regionale, e globale, con questa nuova crisi. Se saprà risolverla con i mezzi della diplomazia, avrà vinto la partita; in caso contrario, Chávez potrà continuare a “giocare” pericolosamente alla guerra.