Analisi – Con questa analisi proviamo a fare chiarezza sulla morte di Soleimani e su ciò che ha significato per lo scenario geopolitico regionale e internazionale. Sicuramente un atto illegale dal punto di vista del diritto internazionale, ma che probabilmente è risultato cruciale per abbassare la tensione tra USA e Iran.
CHI ERA QASEM SOLEIMANI
Figura quasi leggendaria in patria, militarmente operativo giĂ ai tempi della rivoluzione khomeinista del 1979 e veterano del conflitto tra Iran e Iraq (1980-1988), dal 1998 il Generale Qasem Soleimani era a capo delle unitĂ speciali Quds. La Forza Quds (“Gerusalemme”) è un corpo paramilitare d’élite dei Guardiani della Rivoluzione Islamica (Pasdaran), incaricato di condurre operazioni al di fuori dei confini nazionali. Sotto la leadership del Generale, l’unitĂ ha assunto un ruolo centrale nella sfera politica, finanziaria e di intelligence del Paese. Personaggio molto vicino all’Ayatollah Ali Khamenei e considerato il secondo attore piĂą influente negli equilibri di potere interni dopo la Guida Suprema, era il principale artefice della proiezione iraniana all’estero e della sua rinnovata influenza regionale. Nonostante abbia sempre mantenuto un atteggiamento di basso profilo, a lui si devono il rafforzamento del legame con le milizie sciite in Iraq e con Hezbollah in Libano, il sostegno al regime alawita di Assad in Siria e ai ribelli sciiti Houthi in Yemen e un fondamentale impulso alla lotta contro l’ISIS. La sua elevata popolaritĂ in Iran rendeva plausibile un’eventuale candidatura alle elezioni presidenziali del 2021, ipotesi tuttavia smentita spesso dallo stesso Soleimani.
Embed from Getty ImagesFig. 1- Qasem Soleimani, Generale delle forze speciali Quds. Teheran, 18 settembre 2016
L’OPERAZIONE AMERICANA E L’UCCISIONE DI SOLEIMANI
L’operazione per eliminarlo, direttamente autorizzata dal Presidente Trump, è scattata nella notte del 3 gennaio nei pressi dell’aeroporto internazionale di Baghdad: il bersaglio è stato colpito con l’impiego di droni e un elicottero (un UCAV MQ-9 Reaper dell’United States Air Force – USAF, un UCAV MQ-1C Grey Eagle e un elicottero d’attacco AH-64E Guardian dello US Army). Tra le vittime del raid anche Abu Mahdi al-Mouhandis, vicecomandante della milizia irachena filo-iraniana Hashd al-Shaabi.
L’attacco è stato sferrato al culmine di un periodo di crescenti tensioni tra Stati Uniti e Repubblica Islamica: il 27 dicembre 2019 un contractor civile statunitense era rimasto ucciso durante un’azione aerea contro un compound militare a Kirkuk. Ritenendo Teheran responsabile, il 29 dicembre gli USA avevano colpito alcune postazioni di Kataeb Hezbollah, milizia sciita irachena sostenuta dall’Iran. Il 31 dicembre miliziani iracheni vicini alle forze iraniane hanno preso d’assalto l’ambasciata USA a Baghdad, in un clima di proteste cominciate giĂ a ottobre scorso in Iraq. La reazione irachena è stata la richiesta della rimozione delle truppe statunitensi presenti in Iraq e l’annullamento dell’accordo concluso con gli USA per il supporto nella lotta allo Stato Islamico.
L’Amministrazione repubblicana ha motivato l’assassinio con la “difesa preventiva” da presunti imminenti attacchi pianificati da Soleimani contro obiettivi statunitensi in Iraq. Le giustificazioni dell’Amministrazione Trump sono state abbastanza confuse e contraddittorie e anche per questo parte del Congresso e dell’opinione pubblica americana non sono parse molto convinte. La mossa di Trump può essere letta in continuitĂ con la strategia di arginare l’espansionismo dell’influenza iraniana nella regione, colpendone la figura piĂą simbolica. A livello di politica interna, è indubbia la volontĂ di sfruttare un’azione eclatante nell’anno delle elezioni e dell’avvio della procedura di impeachment del Presidente.
Da parte iraniana il Consiglio Supremo per la Sicurezza Nazionale presieduto da Khamenei ha promesso una dura ritorsione contro quello che ha definito “il piĂą grande errore strategico degli Stati Uniti nell’Asia occidentale”. A poche ore dall’omicidio, il ruolo del Generale ucciso è stato assunto dal suo vice Ismail Ghaani, di statura politica e orientamento probabilmente piĂą intransigenti del suo predecessore.
Fig. 2- Una manifestazione per ricordare le vittime dell’attacco americano, tra cui Abu Mahdi al-Muhandis, capo delle milizie irachene Kata’ib Hezbollah. Karbala, Iraq, 4 gennaio 2020
LA RISPOSTA DELL’IRAN
Sul fronte interno iraniano la morte di un esponente di spicco dei Guardiani della Rivoluzione ha suscitato enorme clamore, agendo da elemento di convergenza tra i sostenitori e gli oppositori del regime e compattando momentaneamente le diverse istanze del Paese nella comune identitĂ nazionale e religiosa. L’Iran, che stava assistendo a un’ondata di proteste giĂ a partire dalla fine del 2019, si è stretto intorno alla morte di Soleimani. Milioni di persone hanno partecipato ai funerali nella cittĂ natale di Kerman: in un discorso tenuto l’8 gennaio a Qom, Khamenei ha lodato le qualitĂ umane, strategiche e militari di Soleimani, ribadendo la volontĂ di porre fine alla presenza statunitense in Medio Oriente.
La risposta dell’Iran non ha tardato ad arrivare: nella notte tra il 7 e l’8 gennaio sono stati lanciati attacchi missilistici contro le basi aeree che ospitano truppe USA in Iraq, a Erbil e al-Asad. L’azione “Soleimani Martire”, partita dal territorio iraniano con il lancio di cruise e di missili balistici a corto raggio, ha costituito la prima forma di rappresaglia militare messa in atto da Teheran. Il Ministro degli Esteri Mohammad Javad Zarif l’ha definita “legittima difesa” contro “l’attacco terroristico” rappresentato dall’assassinio del Generale da parte americana. La Repubblica Islamica ha minacciato di compiere azioni devastanti in caso di ritorsione degli Stati Uniti: “Se l’Iran dovesse essere attaccato sul suo territorio, Dubai, Haifa e Tel Aviv verranno colpite in un terzo round di attacchi”.
La risposta iraniana, avviata simbolicamente alla stessa ora dell’uccisione di Soleimani, è frutto di una precisa analisi strategica: obbligata a reagire all’affronto subìto per salvaguardare prestigio e influenza regionale, la teocrazia degli Ayatollah ha scelto di iniziare con un atto efficace e spettacolare, ma che non ha causato vittime. Il Primo Ministro iracheno Adil Abdul Mahdi ha confermato che l’Iraq era stato avvertito di possibili azioni contro bersagli statunitensi; inoltre, fonti diplomatiche arabe riportano che Baghdad avrebbe a sua volta allertato Washington. L’evidenza sembra quindi suggerire che l’Iran, pur disponendo di indubbie capacitĂ operative e potendo contare su una rete di alleanze nell’area, abbia preferito al momento non alimentare l’escalation. Si tratta comunque di una escalation controllata, in cui però manca la capacitĂ di definire i termini di un negoziato da entrambe le parti.
In un momento storico complesso e nell’instabile contesto geopolitico mediorientale, le contromosse statunitensi contribuirebbero determinare l’evoluzione di una crisi che avrebbe necessariamente ripercussioni di carattere internazionale. L’Amministrazione repubblicana ha annunciato il 10 gennaio nuove pesanti sanzioni ai danni di importanti settori dell’economia iraniana tra cui acciaio, alluminio, rame, ferro. A livello ufficiale entrambi i Paesi sostengono di non volere un conflitto: la diplomazia iraniana insiste nel ribadire che non è alla ricerca della guerra aperta, Trump si è sempre espresso contro un nuovo coinvolgimento militare USA e i principali attori potenzialmente interessati (Iraq, Israele, Arabia Saudita, Emirati Arabi Uniti) temono ovviamente operazioni sul proprio territorio. L’eventualitĂ di incidenti o azioni condotte a seguito di calcoli errati è risultata palese nella tragedia del Boeing 737 della Ukraine International Airlines precipitato l’8 gennaio poco dopo il decollo dall’aeroporto di Teheran, abbattuto involontariamente dalle forze di difesa iraniane che lo avevano scambiato per un aereo nemico. Definito un “errore imperdonabile” dal Presidente Hassan Rohani, l’episodio è ritenuto da Zarif un errore umano provocato nel “momento di crisi causato dall’avventurismo degli USA”.
Fig. 3- Una squadra di soccorso presente sul campo dopo la caduta dell’aereo della Ukraine Airlines, 8 gennaio 2020
GLI ATTORI REGIONALI: ISRAELE E IL GOLFO NELLA CRISI
Le divisioni degli ultimi anni all’interno del fronte sunnita, testimoniate dalla crisi diplomatica tra Arabia Saudita e Qatar, hanno agevolato il consolidamento dell’influenza iraniana, in grado di esercitare potenzialmente il controllo sulla cosiddetta “Mezzaluna sciita” in un’area che va da Teheran a Beirut passando per Baghdad e Damasco. La comune ostilitĂ anti-iraniana ha inoltre consentito un avvicinamento del campo sunnita a Israele, in un’inedita comunanza di interessi tra attori storicamente rivali.
Alla notizia della morte di Soleimani, il Ministro degli Esteri israeliano Israel Katz ha sottolineato il rischio che l’azione americana possa trascinare Israele in un conflitto con Teheran, affermando tuttavia che “deve essere chiaro che risponderemo con forza a qualsiasi attacco”. Il premier Netanyahu ha interrotto la visita in Grecia, in occasione della firma degli accordi sul gasdotto Eastmed, riunendo i vertici della Difesa e innalzando il livello di allerta nel Paese. Netanyahu, nel ribadire il totale appoggio agli Stati Uniti, ha voluto anche evidenziare il miglioramento dei rapporti con i vicini arabi dopo decenni di aperta ostilità : “le nostre relazioni col mondo arabo stanno attraversando un cambiamento molto importante, la normalizzazione avanza ad un ritmo senza precedenti”.
L’eventualitĂ di un confronto militare originato dal deterioramento dei rapporti USA-Iran ha favorito l’adozione di posizioni comuni da parte dei Paesi riuniti nel Consiglio di Cooperazione del Golfo (CCG). Le Monarchie sunnite, recentemente divise nella gestione di alcuni importanti temi di politica regionale, si sono espresse a favore di un allentamento delle tensioni e di una soluzione diplomatica della crisi.
Malgrado all’apparenza l’eliminazione di Soleimani, protagonista dei principali successi iraniani nell’area, possa rappresentare un vantaggio per le nazioni arabe sunnite, queste ultime hanno reagito alla mossa unilaterale statunitense con preoccupazione e cautela. Un ufficiale saudita ha rivelato che Riyadh non era stata informata del raid del 3 gennaio, vedendosi potenzialmente esposta a una rappresaglia iraniana. Il Principe saudita Mohammed bin Salman ha inviato il fratello Khalid bin Salman, viceministro della Difesa, a Washington e Londra, mostrando un approccio conciliante nei confronti di Teheran. Anche il Qatar, che recentemente si era avvicinato all’Iran in conseguenza della frattura con gli altri membri del CCG, si è attivato per favorire una de-escalation con la visita dell’Emiro Sheikh Tamim bin Hamad Al Thani al Presidente Rohani. Lo scontro diretto sarebbe un’opzione contraria agli interessi di tutti gli attori del Golfo, in particolare dell’Arabia Saudita, che ha sempre implicitamente strutturato una dialettica con il nemico iraniano limitata a conflitti per procura a bassa intensitĂ .
Violetta Orban