Perche’ l’Argentina ha finalmente deciso di pervenire ad un accordo con Repsol in seguito all’espropriazione di YPF? Sara’ forse che Cristina Kirchner comincia a sentire il terreno sgretolarsi sotto i piedi?
LA DIFFICILE TRANSAZIONE – Lo stato argentino e la multinazionale del petrolio spagnola Repsol hanno siglato un accordo, ora sottoposto all’approvazione del Congresso Nazionale e dal cda dell’azienda, per chiudere una vicenda che va avanti dal maggio del 2012, la nazionalizzazione della filiale argentina Yacimentos Petroliferos Fiscales (YPF), detenuta al 57% proprio da Repsol poi scesa al 6% per effetto dell’intervento dello Stato. Gli iberici riceveranno un indennizzo pari a 5 miliardi di dollari in buoni del tesoro argentini, cifra dimezzata rispetto alla richiesta iniziale.
I PRESUPPOSTI DELL’OPERAZIONE – Sono molteplici e di varia natura i motivi che spinsero la Kirchner ad un gesto così forte; su tutti, spiccano quelli meramente finanziari, quindi il fatto che YPF rappresentasse effettivamente un unicum in tutto il continente perché non era controllata dallo Stato. E la gestione delle risorse, degli idrocarburi in particolare, è strategicamente importante dal punto di vista geopolitico come stiamo vedendo in questi giorni per l’Ucraina. E’ realistico, poi, credere che quanto rivendicava il governo Kirchner fosse fondato, cioè Repsol non procedeva a reinvestire sul suolo sudamericano preferendo rimpatriare i profitti, impoverendo in questo modo, senza alcuna contropartita, l’Argentina.
Rispetto alla politica interna l’Argentina si è presa un bel rischio; estromessa dal mercato delle valute estere pregiate dopo il default del 2001, refrattaria a recepire i dettami del Fondo Monetario Internazionale (FMI) che chiedeva di aprire l’economia agli investitori esteri in cambio degli aiuti finanziari, sostanzialmente isolata politicamente dopo essere stata estromessa dal G20, con la riconquista degli idrocarburi la Casa Rosada pensava di compattare l’opinione pubblica distogliendola dagli altri gravi problemi socio – economici. Un diversivo più efficace della questione Falkland – Malvinas e massima interpretazione del “panem et circenses” di Giovenale. Nazionalizzare era comunque nelle corde del nuovo corso di riformismo moderato e patriottico, espressione dell’establishment che aveva appoggiato l’elezione dei Kirchner. Che invece speravano anche di attirare investitori stranieri sul ricco giacimento di Vaca Muerta, secondo al mondo per le riserve di shale gas e quarto per il petrolio non convenzionale. E’ su questo punto che si è registrata la convergenza di tutti i nodi sfavorevoli all’Argentina.Era ancora forte l’eco suscitata dalla nazionalizzazione di sessanta imprese operanti nel settore petrolifero attuata dal Presidente Chávez nel 2009, solo due anni prima. Ma quella manovra era consequenziale all’ispirazione socialista della forma di governo, quindi in un certo senso attesa e coerente con l’azione politica. La mossa della Fernàndez, invece, ha scosso gli equilibri economici di un Paese dichiaratamente appartenente all’economia di mercato e lontano da qualunque veste ideologica. E’ giunta piuttosto inattesa ed è stata brutale, consumata in pochi gesti da uno Stato che già veniva considerato “osservato speciale” dal mondo economico e finanziario.
LA RISPOSTA DEL SISTEMA ECONOMICO – Europa, Banca Mondiale e Stati Uniti non tardarono a presentare le loro risposte ufficiali ma oltre lo sdegno formale non poterono andare. Le armi per la rappresaglia erano alla fine piuttosto limitate. Ma quello che non ha fatto la politica è stato demandato, in maniera più o meno conscia, all’economia.
L’Argentina sconta l’isolamento continentale e la sua vocazione al protezionismo non l’aiuta. Non si può ignorare che tra meno di due anni avrà le elezioni presidenziali e i poteri forti tremano perché Cristina Fernàndez è precipitata nei sondaggi affossando il gradimento per il movimento politico incarnato dal consorte prima e da lei poi. Non si può candidare per un terzo mandato e l’epoca dei coniugi presidenti sembra avviata al tramonto.
Il periodo del boom delle materie prime, su cui lo sviluppo argentino aveva puntato, è finito ed ora l’economia, dopo aver toccato tassi di crescita anche del 9%, segna di nuovo il passo. Il peso è sempre più svalutato il che fa salire l’inflazione e rende molto più complicata la vita della popolazione. Che protesta e si fa sentire.
Potrebbe essere questa la ragione che ha indotto Buenos Aires a siglare, dopo ben due anni di trattative, l’accordo per l’indennizzo agli spagnoli; chiudere più o meno onorevolmente una vecchia ferita per ricucire con la ex madrepatria e dare alle istituzioni finanziarie mondiali un segnale di (rinnovata) buona volontà, prima che sia troppo tardi. L’Argentina, pur rimanendo un Paese ricco, attraversa una difficile fase economica e sociale e ha bisogno di alleanze e di investitori. Non può più permettersi una politica isolazionista ed ha necessità di rientrare nel consesso finanziario internazionale.
Andrea Martire