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Chi sono i foreign fighters europei?

Secondo i dati dell’ I.C.S.R, (International Centre for the Study of Radicalisation and Political Violence), il numero di foreign fighters in Siria e Iraq ha raggiunto in dicembre la quota di 20mila unità, di cui almeno un quinto proveniente dall’Europa occidentale. In quest’articolo cerchiamo di spiegare in 3 sorsi chi sono e perché partono, con uno sguardo alla situazione italiana

1. CHI SONO?  L’immagine del jihadista come persona non integrata e non istruita è stata demolita dagli studi portati avanti sia in Francia, sia nel Regno Unito: moltissimi di loro non solo hanno compiuto studi universitari, ma hanno addirittura un lavoro fisso, anche se non di alto livello. I gruppi di provenienza sono diversi: mentre buona parte di loro appartiene all’immigrazione di seconda e terza generazione, è presente un gran numero di convertiti (quasi il 23% dei foreign fighters francesi rientrerebbe in questa classe). Un terzo gruppo di volontari è formato da giovani radicalizzati nelle carceri: entrati per crimini meno gravi come borseggi escono radicalizzati e pronti a brandire le armi in difesa dell’Islam. Questo è il caso, ad esempio, di Chérif Kouachi, uno dei killer parigini. È degno di nota come l’età dei combattenti sia piuttosto bassa, tra i 15 e i 30 anni.

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Al-Baghdadi, leader dello Stato Islamico

2. PERCHÉ PARTONO?  La decisione di partire è legata per molti di loro, secondo Marc Sagerman, psicologo ed esperto di al-Qaida, a un periodo di profonda crisi personale che la conversione a un Islam radicale e l’ingresso in una società di pochi eletti (i Soldati di Dio), permetterebbero di superare. Non è questa ovviamente l’unica ragione: altri vedono nella partenza per il jihad un dovere religioso e sono molto sensibili verso quello che percepiscono come un attacco verso la propria religione. Uno di questi era Giuliano Delnevo, forse il più famoso foreign fighter italiano, che a detta dei suoi conoscenti era ossessionato dall’idea di partire. Altri ancora, specialmente i giovanissimi, vedono nel guerrigliero jihadista una figura eroica degna di rispetto e imitazione, soprattutto grazie a un uso eccellente da parte dei gruppi radicalizzati di social network quali Facebook, Twitter e Instagram, solo per nominarne alcuni.

3. E L’ITALIA?  La situazione italiana appare anomala da più punti di vista: il numero di combattenti, in primo luogo, è minore rispetto a Paesi come la Francia, attestandosi tra le 59 e le 80 unità contro le 1.200 francesi. Inoltre vi è un minor sviluppo del radicalismo autoctono. Come ha ben descritto una ricerca dell’ISPI (Istituto per gli Studi di Politica Internazionale), la scena jihadista italiana appare ancora poco evoluta rispetto a quella europea. Ciò è dovuto anche al fatto che l’immigrazione di seconda e terza generazione è relativamente giovane nel nostro Paese. In secondo luogo, gli apparati di sicurezza interna hanno saputo monitorare la situazione e intervenire con velocità quando necessario. Questo ha permesso lo smantellamento di network jihadisti che avevano le basi soprattutto nelle Moschee (ad esempio la moschea di viale Jenner a Milano) e l’espulsione dal territorio nazionale di individui radicalizzati. Si è assistito però negli ultimi anni alla nascita di un radicalismo separato dalle moschee e cresciuto in rete, più difficile da individuare e, di conseguenza, da fermare. È questo il caso di Jarmoune, cresciuto in Valcamonica da genitori marocchini e considerato un ragazzo ben integrato e timido, eppure uno dei più attivi jihadisti italiani in rete. Oppure di Anas el-Abboubi, un passato come rapper, fondatore del blog italiano Sharia4Italy e che ora si fa chiamare Anas al-Italy da Aleppo, dove si è unito all’ISIS. La sfida che questo nuovo tipo di terrorismo presenta all’intelligence è enorme, perché secondo le parole di Carl Björkman «il terrorista del XXI secolo è un animale diverso rispetto simili minacce del passato, come le Brigate Rosse». Il controllo di siti internet ritenuti a rischio e, soprattutto, un maggiore dialogo tra i servizi di sicurezza europei sono degli ottimi strumenti per evitare la partenza di volontari che, se rientreranno, saranno, citando Peter Neumann, direttore dell’ICSR «Pericolosi, disturbati o disillusi».

Veronica Murzio

[box type=”shadow” ]Un chicco in più

Per un approfondimento sui foreign fighters consigliamo, sulle nostre pagine:

Per un’analisi più estesa del fenomeno europeo, vi segnaliamo questo articolo, scritto dall’autrice del contributo proposto.

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Veronica Murzio
Veronica Murzio

Sono nata nel 1979 e mi sono laureata presso l’Università di Padova con una tesi sui rapporti tra il tribalismo e l’Imamato nello Yemen contemporaneo. Ho vissuto lì per sette mesi studiando l’arabo e la cultura locale dopo la laurea. Partire e lasciarlo mi ha spezzato il cuore nonostante sia uno dei Paesi più problematici dell’area.Ho lavorato come traduttrice letteraria al mio rientro in Italia prima di completare i miei studi con un Master in Studi Mediterranei presso l’Università di Firenze dove ho approfondito la Geopolitica della regione MENA e mi sono addentrata nello studio della Legge Islamica. Ora lavoro per i Musei della mia città, Vicenza.

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