L’Africa subsahariana è una delle regioni più povere del mondo, ma al contempo è una delle più dinamiche, in perpetuo fermento d’energie. Garantire l’accesso al cibo per oltre 700 milioni di persone (con 220 milioni di abitanti denutriti) è uno dei maggiori obiettivi della comunità internazionale. È importante innanzitutto capire che la scarsità alimentare africana non è dovuta soltanto a problematiche tecniche e ambientali o all’instabilità: in grande misura è una sfida politica. Prima parte.
UNA SITUAZIONE COMPLESSA – L’Africa è la terra simbolo dell’emergenza alimentare. Per quanto l’incipit possa sembrare brutale, questa immagine è fortemente radicata nell’opinione pubblica occidentale, condizionata dalla cronaca del continente nero e dai molti progetti allo sviluppo diretti alla regione subsahariana. E in effetti c’è un fondo concreto di verità: basti pensare che in Africa la denutrizione colpisce il 21% della popolazione, vale a dire circa 220 milioni di persone, con picchi vicini al 50% in Paesi come la Repubblica centrafricana e lo Zambia. Ci sono poche altre zone al mondo nel quale il concetto di food security si presenta con tutti i propri significati (disponibilità, accesso e qualità del cibo). La denutrizione in Africa non deriva soltanto dall’incapacità dell’agricoltura di garantire quantità sufficienti di cibo per motivazioni tecniche e ambientali, ma soprattutto dall’assenza di un contesto politico adeguato, con serie problematiche a livello di governance infrastrutturale e progettuale, sia locale, sia internazionale. Sembra scontato, eppure è così: l’esempio africano nella sua globalità dimostra come l’azione per la food security non sia soltanto una lotta per l’aumento della produzione alimentare, bensì anche una sfida per lo sviluppo delle capacità socio-politiche della nuova area subsahariana. Tuttavia, nonostante i numeri restino impressionanti, in Africa sono stati raggiunti traguardi rilevanti, a cominciare dalla costante riduzione delle persone denutrite, tanto che secondo la FAO si potrebbe raggiungere già entro il 2015 l’obiettivo simbolico del dimezzamento dei numeri rispetto ai primi anni Novanta, quando le stime parlavano di un 35% della popolazione con scarso accesso al cibo.
LE MAGGIORI PROBLEMATICHE (OLTRE ALL’INSTABILITÀ) – Per affrontare il problema della food security in Africa bisogna tenere presenti alcune peculiarità del contesto subsahariano, in primo luogo quelle climatico-ambientali, con regioni caratterizzate da lunghi periodi di siccità, terre inadatte all’agricoltura e rischio di desertificazione – e qui è evidente come lo sforzo mondiale per il cibo sia imprescindibile dalla difesa del pianeta. Oltretutto, spesso gli agricoltori africani hanno a che fare con eventi di dimensioni catastrofiche, come nel caso della grande carestia che ha colpito il Corno d’Africa tra il 2010 e il 2013 – ma ancora la situazione non è stabilizzata, – causando almeno 260mila morti (la metà dei quali erano bambini) e mettendo in pericolo decine di milioni di abitanti. Ad aggravare la vicenda fu il costante stato di guerra in Somalia, che rese difficoltosa l’assistenza internazionale – i cui risultati furono definiti «inaspettatamente soddisfacenti». In altre circostanze l’emergenza ha riguardato la presenza di insetti e infezioni su vasta scala che i coltivatori non hanno potuto affrontare per mancanza di mezzi. Non bisogna dimenticare inoltre che spesso l’agricoltura africana (in molti casi priva di un sistema infrastrutturale) si trova ad affrontare insormontabili barriere economiche, siano esse dazi di Paesi stranieri o ridotta concorrenzialità all’interno del mercato internazionale.
ALCUNE AREE D’INTERVENTO – In questo senso i singoli Stati e le Organizzazioni internazionali hanno cercato – con alterne fortune – di concentrare la propria azione tanto a livello locale, con la formazione degli agricoltori e il sostegno all’economia familiare-tradizionale, quanto a livello generale. L’intervento maggiore è ovviamente il sostegno diretto alle persone in stato di difficoltà tramite fornitura di derrate alimentari e assistenza medica, poiché lo stato odierno di denutrizione può condurre già nel breve periodo a ritardi nello sviluppo fisico e mentale dei bambini e a malattie croniche. Da un punto di vista politico si punta, come accennato poco sopra, alla professionalizzazione dei coltivatori tramite progetti che coinvolgano tutta la comunità ed esaltino le caratteristiche del territorio. L’intervento pubblico e pubblico-internazionale ha riservato ampie risorse per migliorare la condizione della donna nel sistema produttivo, con modelli di sviluppo sensibili a diversità di genere ed età. Si cerca spesso di valorizzare la struttura sociale locale, affidando compiti specifici a tutti coloro che sono coinvolti nella creazione del cibo, dotandoli delle opportune competenze. Contestualmente è prioritario – e molto difficile – tentare di garantire alle piccole imprese non solo un sostegno economico, ma anche la possibilità di affrontare il mercato per mezzo di accordi commerciali a livello internazionale e nuove infrastrutture. Il Brasile, per esempio, ha contribuito a far emergere oltre 30 milioni di africani dalla povertà con i propri programmi allo sviluppo. L’approccio prima di Lula e poi di Rousseff ha visto un rafforzamento dei rapporti con i Paesi subsahariani lusofoni (soprattutto Angola e Mozambico), con un asse politico-ideologico di cooperazione Sud-Sud. Gli agricoltori africani hanno avuto modo di acquisire importanti nozioni sulle coltivazioni tropicali, guadagnando in know how, professionalizzazione e tecniche.
CENNI AL FENOMENO DEL LAND GRABBING – Per quanto l’azione brasiliana abbia condotto importanti risultati positivi, la vicenda richiama un altro aspetto critico per la food security nel continente nero, ossia la questione della presenza straniera e del land grabbing, fenomeno che si concentra per il 70% della propria dimensione proprio in Africa (solo in Mozambico si parla di almeno 5 milioni di ettari, in Madagascar 1,3 milioni di ettari, tutti in mano alla Corea del Sud). Dal 2008 si sta infatti assistendo a massicci investimenti di capitali pubblici e privati nell’acquisto di terreni coltivabili, col duplice scopo di raggiungere una rendita sicura e di garantire un buon approvvigionamento alimentare ai Paesi d’origine. A partecipare a questa “corsa” sono sempre più alcuni dei protagonisti dei nuovi equilibri mondiali, dalla Cina agli Stati del Golfo, passando per lo stesso Brasile. I terreni sono acquistati o dati in concessione tramite investimento diretto o per mezzo di operazioni finanziarie, spesso con contratti opachi e rigidi ai quali i Paesi africani non possono o non vogliono sottrarsi. I risultati, però, sono il più delle volte devastanti, con intere popolazioni costrette a spostamenti in massa, oppure forzate a passare dall’indipendenza alla subordinazione. Si tratta, senza mezzi termini, della riproposizione di una forma di colonialismo che risponde a precise esigenze geopolitiche: come per le risorse energetiche, una potenza internazionale necessita di una propria indipendenza alimentare, difficile per scarsità di terre coltivabili (come nel caso dei Paesi del Golfo), per l’elevato numero di abitanti (per esempio Cina e Giappone) o comunque per i nuovi bisogni della cittadinanza (India, Sudafrica e ancora Cina). La presenza di investitori e lavoratori stranieri, talvolta chiusi in vere e proprie cittadelle fortificate, muta ovviamente le relazioni africane, causando cambi di alleanze, o almeno di postura generale. In molte circostanze il land grabbing è da inserirsi in una più ampia opera di penetrazione politico-economica, consistente per lo più in investimenti infrastrutturali. E a riguardo è emblematico il ruolo della Cina in Africa orientale. (Continua)
Beniamino Franceschini
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Un chicco in più
Qui è possibile consultare il rapporto FAO sulla denutrizione.[/box]