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Algeria, i Mondiali e la solidarietà ‘Sud-Sud’ con la Palestina

La Nazionale algerina, eliminata dalla Germania lo scorso 30 giugno, ha deciso di donare il premio per la partecipazione alla Coppa del mondo ai bambini della Striscia di Gaza. L’altruistico gesto del quale si è resa protagonista la squadra, l’unica araba a qualificarsi, induce a chiedersi quali siano le attuali posizioni del Paese nordafricano sul conflitto tra Israele e Hamas e se siano plausibili nuovi sviluppi nelle relazioni tra l’Algeria e i due attori in lotta.

GAZA – Il gesto è stato annunciato nei giorni scorsi dall’attaccante ventiseienne Islam Slimani, il quale ha affermato «Loro hanno più bisogno di noi di questi soldi», in riferimento ai civili, in particolare ai bambini, della Striscia di Gaza.

L’esempio di fratellanza interaraba dato da “Les Fennecs”(soprannome della squadra)giunge in una delle fasi più nere della questione israelo-palestinese, caratterizzata da un numero di perdite tra i civili palestinesi maggiore di quello registrato a seguito dell’operazione “Colonna di Nuvole” del novembre 2012. Gli appelli al cessate il fuoco vengono ignorati da entrambe le parti e le vittime palestinesi sono oltre centosettanta.

Nella notte del 13 luglio l’operazione israeliana “Margine Protettivo” ha scatenato la prima offensiva di terra e truppe speciali della Marina sono penetrate a Gazadal confine settentrionale. In seguito, tutte le forze impiegate sono rientrate in territorio israeliano, ma il primo ministro Benjamin Netanyahu fa sapere che per ora esse rimarranno sul confine.

ALGERIA E PALESTINESI: SOLIDARIETÀ SUD-SUD – La decisione della Nazionale di calcio algerina ha fatto ben presto il giro del mondo, sebbene per i mass media arabi l’annuncio non fosse del tutto inaspettato. Poche settimane prima dell’eliminazione, infatti, la cantante emiratina Ahlam aveva offerto un pallone da calcio in diamanti alla squadra in caso di vittoria e 10mila dollari per ogni giocatore che avesse segnato. Prevedibilmente si era poi sentita rispondere di elargire invece questi premi a chi nel mondo arabo versa in condizioni di bisogno. Il gesto dei calciatori induce a riflettere sui significati vecchi e nuovi che il maggiore conflitto mediorientale assume nei diversi Paesi della macro-regione, a livello politico e socio-culturale.

Nell’area la causa palestinese, dal 1948 in avanti, ha sempre avuto la funzione di collante sociale transnazionale. Nelle diverse epoche tale funzione ha assunto connotati prevalentemente religiosi, connessi dunque all’identità musulmana sovranazionale della Umma, la comunità dei fedeli, o in riferimento al mito del panarabismo transnazionale, topos politico con scarse realizzazioni concrete, tra le quali il breve esperimento della Repubblica Araba Unita (RAU), condotto da Gamal Abd el-Nasser tra il 1958 e il 1961 tra Egitto, Siria e, per poco, l’allora Yemen del Nord.

Le bandiere di Palestina e Algeria
Le bandiere di Palestina e Algeria

L’Algeria non fa eccezione e in modo solo apparentemente paradossale nel Paese nordafricano la notizia della donazione a Gaza non ha avuto la stessa eco con la quale si è diffusa all’estero. In Algeria si dice: «Con la Palestina quando ha ragione, con la Palestina quando ha torto».

A uno sguardo approfondito, l’Algeria rappresenta probabilmente uno dei più strenui sostenitori arabi della causa palestinese, e ciò per fondamentali ragioni di carattere storico e geografico. Dal punto di vista storico, la Guerra di indipendenza (1954-1962) e le tecniche in essa impiegate dai combattenti contro la Francia hanno costituito un indubbio modello per la lotta dei palestinesi. Il 18 dicembre 1988, a un mese di distanza dalla Dichiarazione di indipendenza palestinese, l’Algeria è stata il primo Paese al mondo a riconoscere lo Stato palestinese e a stabilire con esso relazioni diplomatiche. A seguito degli Accordi di Camp David tra l’Egitto di Anwar al-Sadat e il premier israeliano Begin del 1979, inoltre, l’Algeria ha a lungo sospeso i rapporti diplomatici con Il Cairo. Ancora adesso Algeri non intrattiene relazioni ufficiali con Israele, sebbene siano verosimili rapporti commerciali incentrati probabilmente sull’importazione algerina di tecnologia militare israeliana.

Oltre alle ragioni storiche che hanno dettato la solidarietà algerina al popolo palestinese, anche il fattore geografico rende il rapporto stabile. Vista la lontananza dell’Algeria dai territori israeliani e palestinesi, infatti, appare evidente come il Paese di Bouteflika abbia un ruolo meno complesso di Stati quali l’Egitto o la Giordania, da sempre costretti a un delicato equilibrio tra interessi nazionali, alleati occidentali e opinione pubblica. Risulta inoltre necessario notare come Algeri si sia resa protagonista, animata probabilmente tanto da ambizioni umanitarie, quanto dalla volontà di recuperare consensi a livello continentale, di una sorta di solidarietà “Sud-Sud” che non si esaurisce alla sola Palestina: nel 2013, per esempio, in occasione del 50° anniversario della nascita dell’Unione Africana, l’Algeria ha annullato il debito di 14 Paesi africani, tra i quali il Mali, per un totale di 902 milioni di dollari.

L’ALGERIA VISTA DA ISRAELE – All’avvio del quarto mandato presidenziale di Abdelaziz Bouteflika alla fine dello scorso aprile, in Israele ci si interrogava su ciò che il non-cambio di potere in Algeria avrebbe potuto significare per lo Stato ebraico. Con tutta probabilità la scelta algerina di puntare sullo status quo senza affrontare malcontento, stagnazione economica e corruzione ha allarmato Israele, alla luce di uno sguardo retrospettivo sulle sorti degli altri Paesi arabi che condividevano simili scenari. Dal punto di vista israeliano, le rivoluzioni delle “Primavere” hanno innescato un effetto domino che ha portato caos e instabilità, con un incremento della circolazione di armi incontrollata. Si pensi in tal senso alla rotta che dalla Libia veicola i traffici illeciti verso il Nord del Sinai e la Striscia di Gaza, insieme con un’accresciuta libertà di manovra jihadista nell’intera regione. Esasperare il malcontento del popolo algerino pertanto potrebbe danneggiare, seppur indirettamente, Israele stesso, sebbene fino a oggi l’Algeria sia rimasta pressoché immune alle cosiddette “Primavere”.

In aggiunta a un simile effetto domino, alcuni episodi hanno preoccupato gli analisti di Tel Aviv, come l’attentato al bus di turisti israeliani sul Mar Nero del 2012, di cui è sospettato un algerino addestrato da Hezbollah in Libano.

Il tweet di Rohani per la Nazionale iraniana
Il tweet di Rohani per la Nazionale iraniana

ISLAM E CALCIO: NON SOLO ALGERIA – L’identità musulmana e le tematiche a essa connesse sono state tra le protagoniste dei campionati mondiali di calcio appena conclusisi non solo in riferimento alla donazione algerina. Un altro tema su cui l’attualità si è sovente concentrata è stato l’opportunità per i calciatori di fede musulmana di seguire i dettami riguardanti il mese di Ramadan, in cui quest’anno si è svolta la competizione. Molti giocatori, primo tra tutti il francese Bacary Sagna, hanno semplicemente deciso di non digiunare, mentre altri si sono concentrati su alcune categorie di persone esentate dal precetto di non assumere cibo o liquidi dall’alba al tramonto, quali gli infermi, le donne in gravidanza e chi si trova in viaggio. Proprio l’esenzione per i viaggiatori sarebbe quella individuata da alcuni, come il difensore algerino Djamel Mesbah.

Il fatto che l’Islam non abbia un clero unitario che deliberi su lecito e illecito ha sempre fatto sì che su molti aspetti della vita quotidiana l’ijtihad (“interpretazione”) aprisse dibattiti fecondi e caratterizzati da una molteplicità di posizioni. Lo dimostra il parere ancora diverso di Mohammed Mekerkab, leader dell’Associazione degli Ulema algerini, il quale afferma che non sarebbe stato lecito per i giocatori astenersi dal digiuno, poiché l’esenzione per i viaggiatori è riservata a coloro che si spostano in cerca di sapere, per motivi di salute o per combattere il jihad. Un altro sapiente musulmano, il saudita Abd al-Rahman al-Barrak, si è reso protagonista del dibattito su Islam e calcio, vietando con una fatwa il gioco. La proibizione deriva dalla capacità di questo sport di creare divisioni sociali dettate dal tifo per squadre differenti e di diffondere “mode degli infedeli” tra i credenti musulmani. In aggiunta alla decisione della Nazionale algerina, alla questione del Ramadan e alla fatwa saudita contro il calcio, anche dall’Iran sono giunti i venti del confronto tra pensiero musulmano e Coppa del Mondo.

Il Presidente iraniano Hassan Rouhani, infatti, con una mossa che non ha precedenti nella storia del Paese, ha mostrato al mondo, per di più attraverso Twitter, un’immagine che lo ritrae intento a guardare una partita della Nazionale iraniana indossando una maglia della squadra. Oltre a essere una delle prime fotografie non ufficiali di un capo di Stato iraniano, il ritratto ha suscitato scalpore anche per il fatto che l’Autorità religiosa non è in abiti tradizionali.

Solo apparentemente notizia di costume, questo e altri espedienti mediatici sembrano confermare l’operazione di comunicazione che la Presidenza iraniana ha inaugurato da alcuni mesi.

Sara Brzuszkiewicz

Cipro-Turchia, dialogo difficile

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Intervista del Caffè all’Ambasciatore della Repubblica di Cipro in Italia, Leonidas Markides. Si parla della situazione economica sull’isola, in lento miglioramento, degli ottimi rapporti bilaterali con il nostro Paese, e delle complicate relazioni con la Turchia, che occupa ancora de facto una parte di Cipro

Festagape, per nuovi pozzi in Camerun

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Se siete in Brianza nel weekend, passare da Besana aiuta il Camerun. Qui tutte le info dell’iniziativa, promossa da Agape Onlus

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Miscela Strategica – La strategia di Washington e quelle dei suoi avversari stanno portando ad una rivalutazione del ruolo della potenza e della proiezione marittima in ambito militare.

Tregua mancata a Gaza

Il recente tentativo di tregua a Gaza è fallito, nella più classica dimostrazione di come in diplomazia alcuni errori banali possano rovinare ogni iniziativa. Vediamo quali, in 5 punti

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America Latina, Cina e il rischio dipendenza

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Israele vs Hamas, la dimensione strategico-operativa

Ancora una volta si combatte sulla striscia di Gaza, e il confronto fra Israele e Hamas si insaprisce ogni giorno di più.  In 5 domande e 5 risposte approfondiamo la dimensione operativa nella quale i due contendenti si affrontano, e quali siano i loro punti di forza e di debolezza nei confronti dell’avversario.

Polonia: Sikorski nella bufera

Alcune intercettazioni diffuse dal settimanale Wprost hanno messo in grave imbarazzo il governo del premier Donald Tusk, svelando le contraddizioni della politica estera polacca dopo la crisi ucraina.

La Svizzera degli albanesi

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Lo stato elvetico si è da sempre contraddistinto per la sua multiculturalità e un alto tasso di immigrazione non poteva non mostrarsi anche al Mondiale. A vedere giocare la nazionale elvetica in Brasile si sarebbe potuto pensare all’esistenza di un cantone albanese in Svizzera.

Lo stallo di Gaza

Ci risiamo. Israele e Hamas stanno di nuovo affrontandosi a Gaza, come nel 2008-2009 e nel 2012. E come allora lo scontro non vede soluzioni di lungo termine.

Prospettive storiche e strategiche del Medio Oriente che cambia

Miscela Strategica – Era il 2004 quando l’amministrazione di J.W. Bush, in piena “guerra al terrore”, presentava quella che sarebbe diventata “l’iniziativa per il Grande Medio Oriente” al G8 di giugno. L’obiettivo era quello di muovere il pivot americano verso il Medio Oriente, area giudicata da sempre troppo critica e di difficile gestione. Si sarebbero poste così le basi per il controllo della regione attraverso un complesso sistema di partenariati politici ed economici fra gli Stati Uniti, l’Europa, i Paesi arabi e anche Turchia, Pakistan, Afghanistan, Iran e Israele (il Grande Medio Oriente, appunto). Un’iniziativa basata sulla pura logica politica astratta che, a distanza di dieci anni, rivela tutte le sue criticità sul piano reale. 

LA MAPPA A CAVALLO DELLA GRANDE GUERRA – 1914, le grandi potenze europee stanno per lanciarsi in un’impresa bellica senza precedenti che ridefinirà in maniera sostanziale la carta politica non solo dell’Europa, ma del mondo. Anche la regione mediorientale subirà un forte impatto politico, a seguito della ridefinizione dei confini interni. La disgregazione dell’Impero Ottomano da un lato, e la spartizione della regione fra le potenze vincitrici, Gran Bretagna e Francia, insieme alla Repubblica Turca e alla neonata URSS dall’altro, hanno di fatto frazionato il mondo arabo ponendo le basi per le crisi susseguitesi nei cento anni a venire. Quello a cui stiamo assistendo oggi, dal caos iracheno alla pentola a pressione siriana, fino al processo di transizione del Maghreb dopo le rivolte del 2011, ha radici profonde in quelle che sono state la dominazione e la gestione della regione dal Diciannovesimo secolo in avanti, ma non solo. Naturalmente, tutte le cause delle criticità mediorientali non possono essere ricondotte solamente a questo aspetto: fattori congeniti alla cultura e alla religione islamica, ascesa di gruppi di potere a latere delle comunità religiose, profonde divisioni settarie e controversi regimi autoritario-dittatoriali, fanno tutti parte di un sistema che si estrinseca nella grande complessità geopolitica mediorientale. Lo sguardo alle azioni delle potenze occidentali nella regione nel corso dell’ultimo secolo, dunque, è da intendersi come una delle tante chiavi di lettura di questa complessità. Il periodo che va dall’inizio dell’800 fino al 1920 è storicamente considerato come il punto di partenza nello studio delle dinamiche politico-strategiche occidentali nell’area, a partire dalla campagna d’Egitto di Napoleone Bonaparte del 1798 fino al noto Trattato di Sykes-Picot del 1916, che stabiliva la spartizione territoriale fra Francia e Gran Bretagna all’indomani della Prima Guerra Mondiale. La carta geopolitica del Medioriente agli inizi dell’Ottocento vedeva ancora il dominio dell’Impero Ottomano e dell’Impero Persiano, benché sempre più deboli e soggetti alle minacce europee. Già dalla fine del secolo precedente l’influenza ottomana sulla penisola arabica iniziò a indebolirsi, in Arabia centrale e orientale la dinastia saudita iniziò a costruire il suo emirato sulla base dei principi wahhabiti (ovvero dell’islamismo puro e radicale) opponendosi apertamente agli Ottomani. Nello Yemen già dalla prima metà del 1600 si erano istallati gli imam zaiditi, mentre i confini settentrionali vengono travolti dall’espansione dell’Impero Russo, che dopo aver annesso i territori caucasici riescono a togliere il Mar Nero dall’influenza ottomana nel 1774. Il “vecchio malato”, così come era definito l’Impero Ottomano agli albori del 1900, alla vigilia della Prima Guerra Mondiale aveva ormai perso la sua importanza politico-strategica nella regione. I Paesi del Maghreb un tempo sotto la sua autorità, vennero mano a mano inglobati nelle sfere di influenza britanniche o francesi. A fine Ottocento Egitto e Cipro passano sotto l’amministrazione britannica, mentre Algeria e Tunisia sotto quella francese. La Libia invece, sarà ceduta all’Italia fra il 1911 e il 1912.

Mappa storica della suddivisione delle sfere di influenza nella regione dello Sham
Mappa storica della suddivisione delle sfere di influenza nella regione dello Sham (1916

IL FRAZIONAMENTO DEL MONDO ARABO E LA FINE DEL ‘CALIFFATO’ – Mettere in ginocchio l’Impero Ottomano era uno degli obiettivi bellici delle potenze europee in Medio Oriente. Una volta definita la sconfitta sul piano militare, però, si rese necessaria la definizione delle modalità di gestione politica e strategica dei territori attraverso l’approccio imperialista classico: la delimitazione delle zone di influenza. Il Trattato di Sykes-Picot, o Asia Minor Agreement, fu il risultato dei negoziati segreti condotti a cavallo tra il 1915 e il 1916 fra Gran Bretagna e Francia (lasciando fuori Mosca), che portarono al frazionamento del mondo arabo nella definizione dei confini che oggi conosciamo. Secondo il Trattato il Libano, la Siria, l’Alta Mesopotamia e il sud dell’Anatolia andarono alla Francia, mentre la Giordania (o meglio i territori a est del fiume Giordano) e la Bassa Mesopotamia andarono alla Gran Bretagna. Di fatto, quindi, Parigi controllava la Siria e la provincia curda di Mosul nell’Iraq settentrionale, mentre Londra aveva come suoi protettorati le province irachene di Baghdad e di Basra. L’Iraq, da sempre considerato come la culla della cultura islamica, era Stato definitamente posto sotto il controllo politico di due nazioni europee. Precedentemente al periodo coloniale, il concetto di “Stato territoriale” era del tutto assente nel mondo musulmano. Le suddivisioni all’interno dell’area si basavano, e si basano tutt’ora, su aspetti di natura etnica, linguistica e regionale. L’unica forma di coesione e unità politica vissuta fino a quel momento era stata rappresentata dal Califfato, l’unione politico-religiosa che comprendeva tutta la comunità musulmana nei secoli che seguirono la morte del profeta Maometto, nel 632. Il Califfo era un’autorità politica con una qualche forma di autorità di guida spirituale. La storia complessa di battaglie e conquiste portò il Califfato a vivere alterne fasi di espansione fino al 1258, quando cessò definitivamente di esistere dopo la sconfitta di Baghdad da parte dei Mongoli. Nel Diciottesimo secolo il concetto di Califfato venne ripreso dagli Ottomani, utilizzato come strumento di controllo dell’Impero Ottomano ormai al crepuscolo. L’idea del Califfato, dell’unione politica di tutti i musulmani, ha rivestito un discreto fascino nei sultani ottomani, che in una fase di evidente declino avevano certamente pochi mezzi per mantenere un qualche grado di influenza sulle popolazioni musulmane che si trovavano sui territori un tempo appartenuti all’Impero. Nel 1924, poi, a seguito della definitiva dissoluzione dell’Impero Ottomano e della contestuale nascita della Repubblica Turca, anche questo concetto di Califfato vide il tramonto. Il Medio Oriente e l’Asia Centrale, oggi, contano una ventina di Stati indipendenti. In una prima fase, alla vigilia della Seconda Guerra Mondiale, gli Stati indipendenti erano la Turchia, l’Iraq, l’Iran, l’Afghanistan, l’Arabia Saudita, l’Egitto e lo Yemen settentrionale. A seguire, nel dopoguerra, anche Siria, Libano e Transgiordania (che diventerà Giordania dal 1950) divennero Stati indipendenti. Nel 1948 venne creato ex novo lo Stato di Israele, con tutte le conseguenze sul piano strategico che ne sono derivate. Infine, l’ultima ondata degli anni Sessanta e Settanta ha visto protagonisti gli ex protettorati britannici della penisola arabica, Yemen meridionale, Kuwait, Oman, Bahrain, Qatar e Emirati Arabi Uniti.

F-15 schierati durante l'operazione Desert Shield, 1991
F-15 schierati durante l’operazione Desert Shield, 1991

IL FALLIMENTO DEL ‘GRANDE MEDIO ORIENTE’ SECONDO BUSH – Il gioco delle grandi potenze europee in Medio Oriente ha subito la sua definitiva battuta d’arresto nel 1956, a causa del fallimento della spedizione di Suez. Per la prima volta dalla fine della Seconda Guerra Mondiale le principali potenze europee si rendevano conto della loro incapacità tecnica militare, oltre che politica, per poter intervenire in autonomia in una crisi al di fuori dei propri confini. L’intero assetto dell’ordine mondiale era profondamente mutato, e la regione mediorientale divenne oggetto della esposizione di forza delle nuove potenze al di là e al di qua della cortina ferro. Gli Stati Uniti fronteggiano l’URSS sul teatro mediorientale, nell’ottica del contenimento dell’espansionismo sovietico. La difesa dello Stato di Israele e il controllo delle emergenti potenze petrolifere del Golfo, sono Stati i pilastri della politica estera di Washington fino al crollo dell’impero sovietico. Gli anni Novanta, nel tentativo di ristabilire un ordine mondiale legato al predominio statunitense, sono Stati il punto di non ritorno per le crisi attualmente in corso. L’approccio dell’amministrazione Bush agli attacchi dell’11 Settembre 2001, e ancora prima all’invasione irachena del Kuwait nel 1990, sono la dimostrazione di un pensiero politico fortemente ancorato al retaggio di ‘influenza occidentale’ in Medio Oriente. Lo stesso concetto di ‘Grande Medio Oriente’ formulato poi nel 2004, dopo l’invasione manu militari dell’Iraq da parte di Washington, tende a richiamare quel retaggio. Nonostante il concetto di base fosse effettivamente una novità in campo di politiche strategiche nella regione, di fatto era ancora vittima di una visione unilaterale della complessità politica regionale. Il ‘Grande Medio Oriente’, concetto più strategico che politico, altro non era che una novella forma di controllo dell’area sotto l’influenza americana ottenibile tramite strumenti più ‘polically correct’, quali partenariati economici o accordi di sviluppo e cooperazione. Tale visione, naturalmente, faceva da complemento alla più generale lotta globale al terrorismo. Già nel giro di qualche anno, però, l’amministrazione americana faceva marcia indietro e distribuiva al mondo un nuovo concetto, quello di ‘Nuovo Medio Oriente’. Il limite principale dell’iniziativa per il Grande Medio Oriente formulata dall’amministrazione di Washington nei primi anni Duemila, va individuato nella considerazione superficiale delle dinamiche interne alla regione. L’emergere delle potenze regionali è un fatto impossibile da trascurare. Negli anni Sessanta e Settanta, erano già ampiamente visibili le linee di faglia all’interno della regione, ma sono state spesso ignorate. Il trauma del colonialismo europeo è Stato sviscerato nel corso dell’ultimo decennio, culminando poi nell’ascesa di organizzazioni terroristiche radicali come Al Qaeda. L’area mediorientale era una fucina di tensioni, una tra le tante, e forse quella con maggiore potenziale distruttivo, è stata la fine del jihad afghano contro le forze di invasione sovietica. A conclusione dell’esperienza militare di Mosca in Afghanistan, infatti, un gran numero di combattenti che si erano votati alla causa della liberazione afghana dall’invasore, rientrarono in patria ormai fortemente indottrinati e iniziarono a sorgere in tutta la regione delle organizzazioni si stampo radicale votate alla causa. Al Qaeda era una di queste.

Miliziani dell'ISIS Image credits: The Telegraph
Miliziani dell’ISIS
Image credits: The Telegraph

IL TASSELLO IRACHENO: VERSO UNA NUOVA STRATEGIA PER IL MEDIO ORIENTE – Dopo l’insorgere di Al Qaeda in Afghanistan e in altre regioni del Medio Oriente, dopo le rivolte arabe, dopo la questione iraniana, dopo la crisi in Siria, la minaccia numero uno sembra oggi rinchiusa all’interno del concetto di ‘Califfato’, rispolverato nelle ultime settimane da ISIS (Stato Islamico per l’Iraq e il Levante) durante la sua avanza in Iraq. Quello che essenzialmente ha allarmato gli osservatori è l’idea di una effettiva trasposizione sul piano politico-statuale dell’ideologia perpetrata da Al Qaeda. Si tratta sicuramente di un dato di grande rilevanza, da tenere in considerazione nella formulazione delle politiche strategiche nella regione nel prossimo futuro. Altresì, il ‘fattore Califfato’ va affrontato con una corretta obiettività. Il Califfato propriamente detto, come anticipato, ha cessato di esistere in Medio Oriente con la caduta di Baghdad nelle mani dei mongoli nel Tredicesimo secolo. Lo stesso Califfato ottomano, di fatto, era più uno strumento utilizzato dall’Impero Ottomano per mantenere il controllo sulle popolazioni dei territori che un tempo erano sotto la sua autorità. La proclamazione dell’instaurazione del Califfato di Abu Bakr al-Baghdadi e il cambio di nome da ISIS al più omnicomprensivo “Stato Islamico”, ha un forte impatto emotivo nel mondo islamico. Di fatto però, al momento mancano degli elementi essenziali per l’istituzione effettiva di un organismo politico-statuale di questo tipo: la capacità di ISIS di istituzionalizzare il proprio potere per riuscire a governare stabilmente su una porzione territoriale tanto ampia, una coesione politica, religiosa, ideologica ed etnica delle popolazioni comprese all’interno, una capacità funzionale e di una proiezione esterna, l’ufficiale rifiuto di Al Qaeda di accettare questa denominazione.

Emma Ferrero

Mappa del concetto geopolitico di "Grande Medio Oriente"
Mappa del concetto geopolitico di “Grande Medio Oriente”