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La difesa antimissile degli Stati Uniti

Miscela StrategicaGli Stati Uniti possiedono uno dei più avanzati sistemi di difesa antimissile del pianeta, eppure per ragioni economiche, pratiche e politiche hanno rinunciato allo sviluppo di una copertura territoriale totale da un attacco nucleare massiccio. In questo articolo analizziamo il sistema statunitense, da cosa è composto e per quali minacce è stato concepito.

LA DOTTRINA – Gli Stati Uniti sono uno dei Paesi più avanzati per quanto riguarda i sistemi antimissile. Il progetto SDI (Strategic Defense Initiative – Iniziativa per la Difesa Strategica) degli anni Ottanta (comunemente conosciuto come “Scudo Spaziale” o “Guerre Stellari”), prevedeva una copertura totale del territorio tramite satelliti armati di raggi laser e grandi specchi deflettori per l’intercettazione dei missili e delle testate nella fase di volo spaziale. Il programma fu accantonato a causa degli alti costi e della complessità tecnica. Successivamente, le varie amministrazioni statunitensi, nonostante gli annunci propagandistici di ripresa di progetti di difesa antimissile a copertura totale, si sono concentrate su programmi realistici e tecnicamente sostenibili.

Date le dimensioni del territorio statunitense (al quale vanno aggiunte le isole Hawaii nell’Oceano Pacifico) si è rinunciato a perseguire una capacità difensiva territoriale totale in caso di massiccio attacco con missili balistici intercontinentali (Intercontinental Ballistic Missiles – ICBM). Secondo la Missile Defense Agency (Agenzia per la difesa antimissile – MDA), che fa capo al Dipartimento della Difesa (Department of Defense – DoD) gli Stati Uniti dispiegano (e continueranno a migliorare) un sistema di difesa missilistica (Ballistic Missile Defense – BMD) capace di proteggerli da un attacco ICBM di portata limitata (deliberato, accidentale o non autorizzato).

LE MINACCE – Il Ballistic Missile Defense Review Report (Rapporto sullo stato della difesa antimissili balistici) redatto dal DoD individua come principali minacce alla sicurezza territoriale degli Stati Uniti la Corea del Nord e l’Iran. Pyongyang sta proseguendo il suo programma di sviluppo missilistico per arrivare ad ottenere un ICBM funzionante per poter trasportare le proprie testate nucleari. I due test del missile Taepo Dong-2 (TD-2), in realtà classificato come IRBM (Intermediate Range Ballistic Missile – Missile Balistico a Raggio Intermedio), rispettivamente nel 2006 e nel 2009 sono falliti, ma i nord-coreani sono determinati a completarne lo sviluppo. Secondo i dati disponibili, il TD-2 avrebbe il raggio massimo d’azione in grado di raggiungere gli Stati Uniti occidentali e le Hawaii. La minaccia iraniana è ancora potenziale, poiché il programma nucleare di Teheran ancora non si trova in uno stato tale da permettere la fabbricazione di testate nucleari anche se il settore missilistico è sufficientemente sviluppato, con capacità SRBM (Short Range Ballistic Missile – Missile Balistico a Corto Raggio) e MRBM (Medium Range Ballistic Missile – Missile Balistico a Medio Raggio). Il lancio del razzo Safir-2 nel 2009 ha posto in orbita il primo satellite interamente costruito dall’Iran e la capacità di lancio orbitale è abilitante per lo sviluppo di vettori IRBM o ICBM.

I missili nord-coreani e iraniani sono considerati da Washington una minaccia a prescindere dalla capacità nucleare, poiché le testate trasportabili, oltre che convenzionali, possono essere con testata chimica o batteriologica. Inoltre è necessario ricordare che le testate non convenzionali possono essere efficaci indipendentemente dalla precisione del missile che le trasporta, implicando una minore complessità dello sviluppo dei vettori per via di un sistema di guida non necessariamente ad alta precisione.

La base di Fort Greely in Alaska, uno dei due siti che ospitano i missili GBI
La base di Fort Greely in Alaska, uno dei due siti che ospitano i missili GBI. (Clicca per ingrandire)

RUSSIA E CINA – Gli Stati Uniti a livello diplomatico hanno spesso specificato che il loro sistema antimissile non è concepito in chiave anti-cinese e anti-russo. Washington si è inoltre dichiarata disposta a collaborare con Russia e Cina per la difesa antimissile a livello regionale (Medio ed Estremo Oriente) e per la non proliferazione.  Come è stato evidenziato in precedenza, il sistema di difesa antimissile degli Stati Uniti non è stato progettato per proteggere il territorio da un massiccio attacco con ICBM e gli unici due Paesi, al momento, in grado di portarlo avanti sarebbero la Cina e, soprattutto, la Russia. La prima sta aumentando e migliorando il proprio arsenale nucleare. Mosca invece detiene comunque il secondo maggior potenziale nucleare del pianeta, seppur con una momentaneamente diminuita capacità di proiezione. Gli Stati Uniti considerano perciò sufficiente ed economicamente più sostenibile affidarsi alla deterrenza garantita dalla mutua distruzione assicurata (Mutual Assured Destruction – MAD). Nella concezione del sistema nazionale di difesa antimissile sono presenti i casi di lanci “non autorizzati” o “accidentali”, probabilmente riferiti alla scarsa fiducia degli USA nella catena di comando e controllo degli altri Paesi, inclusi Russia e Cina.

Lancio di un GBI dalla base aerea di Vandemberg
Lancio di un GBI dalla base aerea di Vandemberg

IL BMD STATUNITENSE: I SENSORI – Il sistema si basa su sensori di scoperta e tracciamento e su missili intercettori. Per quanto riguarda i sensori, questi sono basati a terra, in aria, in mare e nello spazio. Per comodità divideremo la difesa in tre settori: fase d’ascesa, fase di volo e fase terminale.

Per la scoperta di un lancio di un missile vengono utilizzati radar dispiegati in posizioni avanzate (sul territorio di alleati vicini alla minaccia) e satelliti in orbita geostazionaria (Geostationary Orbit – GEO) o fortemente ellittica (Highly Elliptical Orbit – HEO). I radar sono gli Army Navy / Transportable Radar Surveillance (Radar per la Sorveglianza Trasportabile della Marina e dell’Esercito – AN/TPY-2) in banda X, mentre nello spazio è presente la costellazione SBIRS (Space-Based Infrared System – Sistema spaziale all’infrarosso) composta dai satelliti GEO-1 e GEO-2 (in orbita geostazionaria) e HEO-1 e HEO-2 (in orbita fortemente ellittica). Tutti e quattro hanno payloads per il tracciamento di missili tramite sensori all’infrarosso che seguono il calore rilasciato dal motore durante la fase propulsa.  Al sistema SBIRS è accoppiata la costellazione SSTS (Space Surveillance and Tracking System – Sistema Spaziale per la Sorveglianza e il Tracciamento). Composto da tre satelliti (STSS-ATRR, STSS Demo-1, STSS Demo-2), il sistema è posizionato in orbita bassa (Low Earth Orbit – LEO) e usa anch’esso sensori all’infrarosso. Per la fase d’ascesa è possibile anche l’uso di droni ad alta quota.

Per la fase di volo i sensori utilizzati sono gli UEWR (Upgraded Early Warning Radars – Radar migliorati per l’allarme lontano) basati in California, il radar COBRA DANE  schierato in Alaska e il Sea-Based X-band Radar (Radar in banda X trasportabile in mare) che può essere trainato da una nave in acque internazionali (o alleate) nell’Oceano Pacifico. In questa fase può essere utilizzato anche il sistema AEGIS dei cacciatorpediniere e incrociatori della marina USA (del quale ci occuperemo in un prossimo articolo).

IL BMD STATUNITENSE: GLI INTERCETTORI – Nella fase d’ascesa, il missile in arrivo può essere intercettato da missili SM-3 dei cacciatorpediniere e incrociatori dotati di sistema AEGIS schierati in zone limitrofe al Paese-minaccia. Il nerbo della difesa antimissile statunitense è però costituito dagli GBI (Ground-Based Interceptors – Intercettori basati a terra), schierati in Alaska e California. Questi missili sono a due stadi e trasportano un veicolo d’intercettazione extra-atmosferico (Exo-atmospheric Kill Vehicle – EKV) che distrugge la testata in arrivo utilizzando la sola energia cinetica (ossia la velocità d’impatto). Il sistema è in via di miglioramento con lo schieramento di missili più sofisticati. I GBI e i relativi radar a terra compongono il sistema chiamato Ground-Based Midcourse Defense (Difesa basata a terra per la fase di volo). Nella fase terminale, la più pericolosa e che richiede una notevole precisione, gli Stati Uniti si basano sui missili Patriot PAC-3 ai quali si sta aggiungendo gradualmente il sistema Terminal High Altitude Area Defense (Difesa terminale ad alta quota d’area – THAAD), progettato per colpire le testate in arrivo ad una quota molto alta per mitigare gli effetti del payload nel caso questo sia ti tipo chimico o batteriologico. La fase terminale contempla anche l’uso del sistema AEGIS se necessario.

Emiliano Battisti

Il funzionamento della difesa antimissile per la fase di volo.  Image credits: Los Angeles Times

Il funzionamento della difesa antimissile per la fase di volo.
Image credits: Los Angeles Times

Il G7 e la sicurezza energetica dell’Europa

I leader del G7, escludendo la Russia, hanno manifestato unità di intenti sulle questioni riguardanti la crisi ucraina, l’energia, le politiche ambientali e gli accordi di libero scambio. Le tematiche si rivelano collegate al fine di definire una comune risposta alle minacce russe.

IL G7 DI BRUXELLES – La parola d’ordine del G7 di Bruxelles da poco concluso è l’unità, in nome della quale è necessario scendere a compromessi con i singoli interessi nazionali in favore di benefici comuni. I leader dei Paesi membri hanno difatti sottolineato l’intesa su diverse questioni, tanto che il Presidente della Commissione Europea Barroso, al termine del meeting, ha orgogliosamente sostenuto che i 7 grandi del mondo “su una serie di questioni geo-strategiche hanno raggiunto un’unità e una comune determinazione al fine di guidare la reazione mondiale”. Come si evince dalla dichiarazione finale del G7, il punto focale dell’incontro è stata la crisi tra Ucraina e Russia che minaccia la sicurezza internazionale. Le altre tematiche trattate hanno riguardato i cambiamenti climatici, la sicurezza energetica e gli accordi economici internazionali tra i Paesi membri. Come ha sostenuto lo stesso Barroso, e come vedremo di seguito, tali questioni vanno “mano nella mano”.

L’UCRAINA – I Paesi del G7 hanno affermato di essere uniti nel sostenere Kiev e nel condannare le minacciose azioni di Putin nei confronti della sovranità e dell’integrità territoriale dell’Ucraina. Ciò era evidente anche di fronte all’esclusione della Russia dal tavolo del summit. Ma l’assenza di Mosca ha permesso di definire delle linee guida comuni nei confronti della crisi e di mandare un messaggio di unità e risolutezza allo stesso Putin. I sette leader hanno dichiarato di ritenere inaccettabile l’uso dell’energia come mezzo di coercizione politica e come minaccia alla sicurezza. Difatti il leader russo ha tagliato le forniture del gas all’Ucraina, non essendo stato trovato un accordo sul prezzo dello stesso, né sul saldo dei debiti pregressi. Tale misura, oltre a mettere in grave difficoltà l’Ucraina altamente dipendente dalle forniture di Gazprom, è un serio problema per l’Unione Europea tutta, ancora fortemente legata alle importazioni del gas di Mosca.

Nave statunitense per l'esportazione di gas naturale liquefatto.
Nave statunitense per l’esportazione di gas naturale liquefatto.

SICUREZZA ENERGETICA – La sicurezza energetica diventa quindi, nel contesto attuale, una problematica di primaria importanza. Come affermato nel summit del G7, è essenziale sviluppare un mercato dell’energia flessibile, trasparente e competitivo. Per raggiungere tale obiettivo, specie per l’Europa, è necessario diversificare le fonti e le vie dei combustibili ed allentare quindi i legami forzati con la Russia. Tutto ciò si tradurrebbe in un aumento delle forniture di gas naturale provenienti dall’altra parte dell’Atlantico, specie da Stati Uniti e Canada che, in seguito alla recente rivoluzione dello shale gas, hanno una gran necessità di trovare mercato alla loro grande disponibilità di combustibili fossili. Allo stesso tempo per aumentare la sicurezza dell’Europa è necessario migliorare la resilienza del sistema energetico, potenziando la sua capacità di affrontare le crisi ed i tagli minacciati da Putin. Come affermato anche nella Strategia di Sicurezza Energetica dell’UE, del 28 maggio scorso, questo risultato è raggiungibile attraverso misure mirate al breve e al medio/lungo periodo.
I provvedimenti a breve termine riguardano la diminuzione della domanda energetica, strettamente legata anche alle politiche ambientali, e la creazione di infrastrutture di emergenza e di stoccaggio del gas. Le misure relative al lungo periodo si connettono in particolare proprio alla diversificazione delle fonti di approvvigionamento, in riferimento anche allo sviluppo delle energie rinnovabili.

CAMBIAMENTI CLIMATICI – Il terzo argomento cardine del G7 riguarda proprio i cambiamenti climatici e l’impegno dei leader dei Paesi membri di ridurre le emissioni di carbonio e di adottare entro il 2015 un accordo globale vincolante per diminuire le emissioni nocive e combattere il riscaldamento globale. La rilevanza delle politiche ambientali si lega strettamente a quelle energetiche ed alla diversificazione delle fonti per aumentare l’integrazione del mercato e ridurre la dipendenza sia dal singolo esportatore che dalla singola risorsa. Minore sarà la dipendenza dai combustibili fossili, specie quelli provenienti dalle aree geopoliticamente calde del globo, minore sarà di conseguenza l’impatto ambientale e l’insicurezza delle forniture. Ciò si traduce per l’Unione Europea in una preferenza per le fonti indigene o per le importazioni sicure, come quelle provenienti dagli Stati Uniti. Non è un caso che lo stesso Presidente Obama abbia recentemente sottolineato l’impegno americano nel definire un piano che riduca drasticamente, del 30% entro il 2030, le emissioni nocive del proprio Paese. Ciò farebbe degli USA il partner perfetto per le forniture energetiche europee, garantendo allo stesso tempo la sicurezza e la pulizia degli approvvigionamenti.

 ACCORDI COMMERCIALI – Per completare il quadro è necessario analizzare l’ultima tematica cardine del G7: il commercio e gli investimenti internazionali. I leader del summit hanno affermato il loro impegno nel sostenere il libero mercato e nel combattere ogni forma di protezionismo al fine di evitare distorsioni nel mercato globale. Difatti nell’incontro si è discussa la necessità di sostenere gli accordi di libero scambio bilaterali e multilaterali tra i Paesi membri. Uno di questi si lega in particolare alle tematiche di sicurezza energetica: è il Trattato Transatlantico sul Commercio e gli Investimenti, il cui acronimo anglofono è TTIP. Tale accordo è mirato alla creazione di un area di libero scambio tra l’Unione Europea e gli Stati Uniti al fine di liberalizzare le esportazioni di energia americana verso il Vecchio Continente, ad oggi bloccate secondo le leggi federali statunitensi. La definizione del Trattato Transatlantico permetterebbe all’Europa di iniziare il percorso verso un mercato dell’energia più diversificato, potenzialmente più pulito ed anche più sicuro, come auspicato dai leader del G7.

Marco Spada

L’Ucraina sotto pressione

L’Ucraina è stata interessata da diversi avvenimenti negli ultimi giorni: l’assunzione della presidenza da parte di Poroshenko, l’avvio di trattative con la Russia per il pagamento del debito sul gas ed il loro fallimento, l’abbattimento di un Il-76 e la prospettiva di un cessate-il-fuoco.

In 3 sorsi la situazione ucraina

ARRIVA POROSHENKO – Sabato 7 giugno Petro Poroshenko ha assunto l’incarico di presidente ucraino. Nel suo discorso inaugurale ha pronunciato parole che facevano sperare in una imminente conciliazione, avendo promesso l’amnistia per coloro i quali depongano le armi e avendo dichiarato “non voglio la guerra, non voglio la vendetta”. Ma il nuovo Presidente è stato chiaro nella medesima occasione: la volontà di eliminare i contrasti nelle relazioni con il vicino russo e di riappacificare il Paese non andranno a discapito dell’integrità territoriale dell’Ucraina, intendendo con ciò che non è riconosciuta l’annessione della Crimea a Mosca. Ulteriore punto sottolineato da Poroshenko è il futuro della struttura statale ucraina: “i sogni di federazione non hanno fondamento in Ucraina”, contrapponendo quindi un secco rifiuto alle richieste dei ribelli della Novorossiya e agli inviti della Russia. Nello stesso giorno del giuramento, il vicepresidente americano Joe Biden ha annunciato un nuovo aiuto al governo di Kiev per un valore di 48 milioni di dollari, il che porta il totale degli aiuti da Washington a 184 milioni quest’anno.

GLI SVILUPPI NELL’EST UCRAINO – La conciliazione auspicata non ha avuto luogo ad oggi. L’offensiva delle forze del governo centrale è continuata, riportando sotto il controllo di Kiev parte del territorio prima interessato dalla ribellione. All’avanzare delle truppe ucraine la resistenza però aumenta ed i ribelli sono in grado di infliggere seri danni. Due casi delle capacità ribelli sono perfettamente esemplificative. Il primo è quello della comparsa nei pressi del confine russo-ucraino di 3 carri armati, sulla cui provenienza non esistono certezze: Kiev ha immediatamente accusato Mosca dell’incursione, mentre altre fonti ritengono possa trattarsi di carri ucraini precedentemente catturati dai ribelli. Immagini satellitari diffuse dalla NATO individuano sul lato russo del confine diversi movimenti di carri compatibili con quelli individuati in Ucraina. Il secondo caso che testimonia le capacità ribelli è l’abbattimento di un Ilyushin-76, trasporto militare con a bordo 40 paracadutisti e 9 membri d’equipaggio; l’aereo sembra sia stato abbattuto da un MANPAD (Man-Portable Air-Defense, arma che rende ancora più forti gli interrogativi circa la provenienza dell’arsenale ribelle) mentre si avvicinava ad un aeroporto nei pressi di Lugansk. Le vittime dell’abbattimento sono andate ad aggiungersi alle già diverse centinaia registrate. Sul fronte umanitario, l’ONU stima che il numero di persone in fuga si stia avvicinando alle 20000. Di fronte alla questione Poroshenko ha ordinato la creazione di corridoi umanitari nelle aree dell’est per permettere lo spostamento dei civili verso l’ovest del Paese. Infine, ancora Poroshenko ha annunciato ieri che verrà proclamato un cessate-il-fuoco una volta che le autorità centrali avranno il controllo dell’intero confine verso la Russia, nel frattempo l’offensiva continua. La logica è chiara: Kiev non vuole dare tregua ai ribelli, che approfitterebbero della pausa dei combattimenti per rafforzarsi ed ottenere aiuti da Mosca attraverso il confine.

Il sistema di distribuzione del gas attraverso l'Ucraina. (Clicca per ingrandire)
Il sistema di distribuzione del gas attraverso l’Ucraina. (Clicca per ingrandire)

LA QUESTIONE DEL GAS – Uno dei principali problemi nelle relazioni tra Ucraina e Federazione Russa è la questione del pagamento del debito ucraino sul gas. A seguito degli avvenimenti di febbraio e marzo e al continuo mancato pagamento, la Russia ha eliminato lo sconto speciale che faceva al proprio vicino. Il negoziato tra autorità russe e ucraine è durato diverso tempo al fine di trovare una quadra sul metodo di pagamento del debito e sul nuovo prezzo al quale Kiev dovrebbe acquistare il gas russo. Le trattative sono naufragate quando gli Ucraini hanno rifiutato la proposta di 385 dollari per mille metri cubi (dagli iniziali 485 dollari), chiedendo invece di pagare 268 dollari. Non è servita a nulla la successiva proposta Ucraina, sponsorizzata dai mediatori europei, in cui Naftogaz assicurava il pagamento di 2 miliardi del proprio debito verso Gazprom a patto che il prezzo del gas fosse fissato a 326 dollari. Mosca aveva fissato la scadenza per il ripaga mento del debito al 16 giugno, scadenza mancata dall’Ucraina con la conseguenza che sono state tagliate le forniture di gas a Kiev; d’ora in avanti l’Ucraina riceverà solo il gas per il quale pagherà in anticipo.

Matteo Zerini

Argentina e Club di Parigi: un accordo per la credibilità

L’Argentina ha raggiunto un accordo con il Club di Parigi per estinguere il debito contratto a causa del default del 2001: 9,7 miliardi di dollari da restituire in cinque anni. Un passo importante per il ritorno di Buenos Aires sui mercati internazionali, ma un’operazione considerata spregiudicata: tutto l’onere ricadrà sull’esecutivo in carica dal 2015.

L’ACCORDO – Il Club di Parigi, gestore dei crediti dei Paesi più avanzati economicamente, ha ottenuto un accordo con il governo argentino per la restituzione del debito non più pagato a causa della bancarotta nel 2001. Il default argentino ha, infatti, obbligato il paese a restare escluso dal sistema finanziario internazionale e dopo tredici anni d’inattività finanziaria e la precedente dichiarazione, del 2007, della presidente Cristina Fernández de Kirchner di rimborsare il Club, si è finalmente giunti all’accordo. L’intesa raggiunta prevede il rimborso di 9,7 miliardi di dollari attraverso pagamenti dilazionati e una riduzione del tasso d’interesse dal 7% al 3%. Il piano di rientro ha una durata di cinque anni ma, qualora non vi fossero sufficienti investimenti diretti in Argentina da parte dei paesi membri del Club, potrebbe esser prolungato di altri due. L’incontro, tenutosi lo scorso 28 e 29 maggio, tra i rappresentanti dei creditori e il Ministro dell’Economia argentino Axel Kicillof ha permesso di concordare una “soluzione sostenibile e definitiva” alla questione degli arretrati, consentendo ai membri del club che lo desiderano di riprendere le loro attività di credito alle esportazioni. L’Argentina ha così preso un impegno formale al saldo della prima rata di 1,150 miliardi di dollari con un primo versamento di 650 milioni di dollari a luglio, mentre i restanti 500 milioni saranno corrisposti entro maggio 2015.

SCELTE SBAGLIATE – Il piano rappresenta una buona opportunità per il Paese di normalizzare le sue relazioni con la comunità finanziaria internazionale, anche se la situazione economica generale dell’Argentina è ancora lontana dalla normalità. Le conseguenze del default del 2001 sono tutt’altro che esaurite e le previsioni del Fondo Monetario Internazionale stimano una crescita dello 0,5% quest’anno e dell’1% per il 2015. Non avendo accesso al mercato internazionale, l’unico modo per aumentare le riserve monetarie sono le entrate derivanti dalle esportazioni, ma la bilancia commerciale ha registrato una riduzione del 27% rispetto ai dati del 2012 a causa delle restrizioni alle esportazioni e alla crescente spesa in importazione di combustibili. Le politiche economiche adottate dal governo di Cristina Kirchner sono state spesso oggetto di critiche. Il debito, ormai ridotto, non sembra più un problema, mentre lo rappresentano l’eccessiva pianificazione dell’economia e l’inflazione. La Kirchner, al governo dal 2007, ha adottato delle scelte in politica economica di stampo nazionalista che hanno condotto il paese sull’orlo della recessione dopo i progressi registrati con tassi di crescita al 9% negli scorsi anni. La ricca Argentina, in termini di risorse, è stata penalizzata da scelte in politica monetaria discutibili come i provvedimenti volti a contenere le fughe di capitali, le restrizioni all’acquisto di dollari, e la svalutazione della moneta. Sul piano interno si è avuto un riflesso negativo con una contrazione dei consumi, sia per la crescente inflazione, sia per la riduzione della produzione industriale, deteriorando il potere di acquisto della popolazione.

Cristina Fernández de Kirchner, presidente della Repubblica Argentina
Cristina Fernández de Kirchner, presidente della Repubblica Argentina

CREDIBILITA’– Il compromesso raggiunto fa ben sperare per l’uscita dall’oblio finanziario in cui è caduta l’Argentina dal 2011. Nonostante le dichiarazioni del ministro Kicillof che smentiscono il ritorno in tempi brevi dei Tango Bond nei mercati finanziari, l’Argentina ha estrema urgenza di finanziarsi attraverso il mercato di capitali. Così l’accordo stipulato con il Club di Parigi sembra il primo passo per la riconquista della fiducia degli investitori esteri, soprattutto gli esportatori europei, tra cui quelli italiani che detengono il 5% del debito contratto dai tempi della dittatura di Videla. L’Argentina finora ha dimostrato poca credibilità per accedere nuovamente al mercato finanziario internazionale, ne è un esempio la denuncia del Fondo Monetario Internazionale (FMI) della manipolazione da parte dell’Instituto Nacional de Estadística y Censos (INDEC) dei dati economici, che ha costretto a rivedere il metodo di stima dell’indice di inflazione del governo Argentino. L’inflazione ha vanificato il valore reale della valuta argentina e i dati forniti dal governo a riguardo hanno creato numerose incertezze tra gli investitori stranieri. Se da un lato il governo stima il tasso d’inflazione all’11,9% per il 2013, dall’altro quelle degli istituti privati salgono al 28%. Anche le politiche isolazioniste condotte dalla Kirchner, ostile a seguire le indicazioni del FMI, e scelte populiste come la nazionalizzazione della compagnia petrolifera YPF, hanno giocato un ruolo importante nel ridurre il peso dell’Argentina sullo scenario internazionale. Un altro duro colpo potrebbe arrivare dall’attesa sentenza della Corte Suprema degli Stati Uniti sul caso dei cosi detti fondi “avvoltoi”, capitanati da Nml Capital. In caso di giudizio negativo sul ricorso, infatti, sul Paese sudamericano graverebbe l’onere di risarcire 1,33 miliardi di dollari. Sul piano delle relazioni internazionali, invece, un segno incoraggiante, arriva dall’invito da parte del Ministro degli Esteri Russo, Sergei Lavrov, a partecipare al prossimo vertice dei paesi BRICS (Brasile, India, Russia, Cina, Sudafrica) del 15 luglio in Brasile. Gli sforzi compiuti negli ultimi tempi, come fornire statistiche economiche attendibili, l’accordo con Repsol e quello con il Club di Parigi stanno, infatti, facendo riemergere il Paese sudamericano dall’isolazionismo voluto dalla Kirchner.  L’Argentina è così in attesa, mentre si avvicina lo spettro della recessione, della possibilità di poter accedere finalmente al mercato dei capitali e poter prendere a prestito valuta internazionale vitale per salvare le sue riserve monetarie.

ELEZIONI – La Kirchner, al suo secondo mandato, non potrà candidarsi alle prossime elezioni e tutto l’onere della sua gestione economica ricadrà sul nuovo esecutivo che sarà eletto alle prossime elezioni presidenziali nell’ottobre 2015. La popolarità in calo del kirchnerismo ha reso il gioco facile al candidato dell’opposizione, leader del Frente Renovador, Sergio Massa, vincitore alle scorse elezioni legislative e considerato candidato potenziale alla presidenza. Chiunque sarà il nuovo presidente dovrà voltare pagina e far fronte all’impegno preso con il Club di Parigi per i prossimi cinque anni; sarà un difficile banco di prova per la credibilità argentina, ma solo così forse, e se saranno attuate le giuste correzioni alla politica economica interna, l’Argentina potrà riprendere la via dello sviluppo. Altrimenti quest’accordo rischia di rimanere un’altra timida promessa.

Annalisa Belforte

L’ISIS avanza in Iraq

I miliziani dell’ISIS hanno avviato una forte offensiva militare in Iraq, conquistando città e regioni importanti. In 3 Sorsi analizziamo gli eventi, le molteplici reazioni e le conseguenze geopolitiche nell’area, con l’attivismo iraniano e la scomoda posizione statunitense.

GLI EVENTI – L’offensiva dell’ISIS (Islamic State of Iraq and al-Sham – Stato Islamico dell’Iraq e del Levante, termine quest’ultimo spesso considerato sinonimo di Siria) in Iraq dei giorni scorsi è stata improvvisa, rapida e, al momento, molto efficace a livello militare. I jihadisti hanno concentrato il loro attacco nella porzione di territorio iracheno abitato in maggioranza da musulmani sunniti, occupando la città di Mosul (la seconda per estensione del Paese) e arrivando anche a Tikrit, città natale di Saddam Hussein. L’ISIS ha scelto l’area d’attacco con cura, per poter contare su un certo sostegno (tacito o esplicito) della popolazione locale, che non vede di buon occhio il governo del musulmano sciita Nuri al-Maliki. Molti delle decine di migliaia di profughi che hanno lasciato Mosul dopo l’occupazione da parte delle milizie jihadiste hanno dichiarato che il motivo era il timore per un attacco dell’artiglieria governativa sulla città più che per gli uomini dell’ISIS. L’Esercito iracheno stanziato nella regione non ha contrastato la minaccia efficacemente. I miliziani hanno poi diretto le proprie forze verso la capitale. Durante l’avanzata sono avvenute le consuete e violente esecuzioni sommarie e, fatto innovativo, l’ISIS ha usato i social-media, in particolare Twitter, a fini di propaganda e di terrore, documentando gli scontri, gli attentati alle forze governative e le esecuzioni.

Posto di blocco dell'ISIS.
Posto di blocco dell’ISIS.

LE REAZIONI – La prima reazione è stata quella del governo che ha dichiarato che sarà fatto “di tutto” per ristabilire l’ordine e la sicurezza nel Paese. Le milizie sciite, tra le quali il famigerato Esercito del Mahdi guidato da Muqtada Al-Sadr (che creò numerosi problemi alle forze della coalizione internazionale in Iraq, tra cui anche quelle italiane) si sono dichiarate pronte a contrastare e respingere l’avanzata dell’ISIS e a proteggere la capitale Baghdad. L’Iran si è detto pronto ad aiutare il vicino Iraq, ponendo l’accento sul termine “aiutare” invece che “intervenire”, anche se vi sono alcuni reports sulla presenza di unità delle milizie Pasdaran nei dintorni della capitale irachena. La Lega Araba è contraria a qualsiasi intervento esterno nel Paese e la Russia ha puntato il dito contro l’intervento statunitense del 2003 causa, a suo dire, degli attuali problemi. Le Nazioni Unite hanno condannato le violenze e le esecuzioni sommarie perpetuate dall’ISIS, mentre il Presidente Obama ha dichiarato che gli Stati Uniti non interverranno finché l’Iraq non mostrerà un piano politico serio di convivenza pacifica tra sunniti, sciiti e curdi (i tre maggiori gruppi etnico-religiosi del Paese). Nonostante questo, la portaerei George W. H. Bush è stata inviata nel Golfo Persico.

CONSEGUENZE NELL’AREA – L’esercito iracheno ha cominciato la controffensiva per la riconquista delle regioni e delle città perdute; tuttavia l’attacco dell’ISIS ha rimescolato le carte del gioco geopolitico nell’area. L’Iran si è impossessato del ruolo di protagonista nella crisi, con la sua offerta di “aiuto” a Baghdad (se non in forma di intervento diretto, ufficialmente escluso, almeno nel sostegno alle milizie sciite) e con un’apertura verso Washington per collaborare alla risoluzione della crisi, ponendosi come interlocutore privilegiato. Questo ha messo gli USA in una scomoda posizione, poiché, a livello diplomatico, l’unico tavolo aperto con Teheran è il negoziato sul nucleare e a livello militare l’unica opzione possibile è l’impiego delle forze aeree essendo del tutto escluso (anche se Obama ha detto che sta considerando tutte le opzioni) l’invio di truppe di terra. L’attivismo iraniano ha inoltre messo in secondo piano l’Arabia Saudita come principale potenza regionale. Il Presidente siriano al-Assad si è detto pronto a combattere il terrorismo insieme al governo iracheno, essendo l’ISIS un nemico comune. Anche le milizie laiche dell’Esercito Siriano Libero (che ormai da anni combattono contro le forze governative siriane, i loro alleati, ma anche contro l’ISIS) hanno messo a disposizione il loro sostegno.

Emiliano Battisti

Territori controllati dall'ISIS

Territori controllati dall’ISIS

Le scelte difficili di Hillary

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Alcuni giorni fa è uscito, nelle librerie americane, l’ultimo libro di memorie dell’ex Segretario di Stato e, secondo molti, prossimo candidato democratico alle presidenziali del 2016, Hillary Rodham Clinton.

Le attese percsono state molto alte, soprattutto perché principalmente dedicato al coinvolgimento della Clinton nelle scelte della politica estera statunitense. Parte del contenuto era già stato rivelato, poiché oggetto delle attenzioni delle commissioni di inchiesta parlamentari, incaricate di far luce sugli attacchi terroristici di Benghazi del 2012.

Inoltre la CBS News è riuscita ad avere, qualche giorno prima dell’uscita ufficiale, una copia del libro e ha pubblicato sul proprio sito i temi caldi trattati nel volume: dalla missione per catturare Osama bin Laden ai rapporti con Putin e la Russia, dalla questione siriana al rapporto con gli ex Segretari di Stato, dai diritti umani al ruolo dell’economia americana nelle relazioni internazionali. Seicento pagine che saranno analizzate parola per parola, in attesa di sapere se sarà proprio la Clinton a dover raccogliere l’eredità di Obama e correre per la Presidenza tra due anni.

La Clinton ha già iniziato il tour promozionale che assomiglia molto a delle prove generali in vista di una possibile campagna per le primarie. In effetti nella maggior parte degli incontri e delle interviste il libro è usato come punto di partenza per una valutazione generale delle posizioni della Clinton su tutti i temi di attualità. Al Council on Foreign Relations Hillary Clinton ha fatto una chiacchierata di un’ora con Richard Haass che merita davvero di essere vista e ascoltata con attenzione.

Ecco il link dell’intervista:

http://www.cfr.org/united-states/hbo-history-makers-series-hillary-rodham-clinton/p33069

Ecco le anticipazioni sul sito della CBS:

Davide Colombo

Brasile, una potenza regionale riluttante

Nei prossimi trenta giorni tutti gli occhi del mondo saranno puntati sul Brasile: l’appuntamento dei Mondiali di calcio offre anche un pretesto per discutere del ruolo del Paese sudamericano non solo come potenza sportiva ma anche come geopolitica e geoeconomica, a livello regionale e globale

POTENZA ECONOMICA… ANCHE GEOPOLITICA? – Il Brasile è stato protagonista durante l’ultimo decennio di un periodo di crescita economica stabile e costante (il PIL è cresciuto in media del 3.6% annuo secondo il Fondo Monetario Internazionale). È di gran lunga la prima potenza economica e demografica di tutta l’America Latina (seguito dal Messico) e un attore di primo piano a livello mondiale grazie alla sua presenza nel G20 e al ruolo di rilievo nel forum dei BRICS. La domanda che è lecito porsi è però se il Brasile sia davvero un leader in America Latina.
Bisogna anzitutto semplificare l’analisi dividendo l’area latinoamericana in America Centrale e America del Sud. Infatti, mentre l’influenza geopolitica a nord del canale di Panama è appannaggio del Messico (che è il punto di riferimento economico e politico – nonché ‘ponte’ verso gli Stati Uniti –  per le altre piccole repubbliche centramericane, lo spazio geopolitico ‘naturale’ del Brasile è situato in America del Sud. Tuttavia, si potrebbe quasi dire che il Brasile sta al Sudamerica come la Germania di oggi sta all’Europa: due grandi potenze economiche nei rispettivi continenti che sono però riluttanti ad assumersi responsabilità da leader politici ed economici.

Il Messico potrebbe scalzare il Brasile come potenza regionale in America Latina?
Il Messico potrebbe scalzare il Brasile come potenza regionale in America Latina?

LO STALLO DEL MERCOSUR – Negli ultimi anni, soprattutto durante la guida di Lula, sembra infatti che il Brasile si sia interessato maggiormente ad intensificare le proprie relazioni con altre regioni del mondo in via di sviluppo, in particolare l’Africa. La cooperazione Sud-Sud e un’intelligente declinazione pratica del soft-power (facilitato da vincoli culturali con i Paesi lusofoni) sono state infatti funzionali alla strategia di investimenti esteri delle grandi multinazionali brasiliane nel settore dell’energia (Petrobras) e dell’acciaio (Vale). A livello commerciale, Unione Europea, Cina e Stati Uniti sono di gran lunga i principali partner, assorbendo circa il 49% delle esportazioni e oltre il 50% delle importazioni.  L’Argentina, con il 7% degli scambi commerciali, rappresenta l’unico partner di rilievo in Sudamerica. Come mai?
La principale organizzazione di integrazione regionale in cui il Brasile è coinvolto, il MERCOSUR, è in crisi ormai da anni. Quella che era nata come un’area di libero scambio e unione doganale destinata a seguire l’esempio dell’Unione Europea, si è poi trasformata in una piattaforma per la promozione dei nazionalismi di sinistra riapparsi nella regione, l’Argentina di Cristina Kirchner e dal 2012 – anno dell’ammissione nel MERCOSUR – anche il Venezuela. Il Brasile non è riuscito a promuovere ulteriori aperture in tema di commercio e investimenti rimanendo invischiato in dispute commerciali con l’Argentina che hanno portato ad una ripresa del protezionismo con effetti deleteri non solo per i rapporti bilaterali ma per l’integrazione regionale. Non è un caso se il Brasile sta pensando di dare vita a relazioni bilaterali con l’UE per un accordo di libero scambio sganciandosi dal MERCOSUR, visto che i negoziati tra l’organizzazione e Bruxelles sono ormai ad un binario morto da diversi anni. Il recente summit bilaterale UE-Brasile che si è svolto a febbraio è una prova della tendenza in corso.

C’E’ CHI NON PERDE TEMPO – Nel frattempo, le economie della regione che si affacciano sull’Oceano Pacifico non stanno perdendo tempo. Cile, Perù e Colombia hanno appoggiato con decisione politiche economiche liberali volte all’apertura commerciale e in termini di investimenti esteri. Hanno dato vita, all’interno della regione latinoamericana, dell’Alleanza del Pacifico insieme al Messico, e i primi due sono membri della futura Trans-Pacific Partnership, un accordo regionale attualmente in fase di negoziazione guidato dagli USA e che vede coinvolti tredici Paesi in America Latina e Asia (tra cui lo stesso Giappone).
In anni recenti risultati più incoraggianti sono stati raggiunti tramite le iniziative di cooperazione politica anziché economica. L’UNASUR (Unione delle Nazioni Sudamericane), la cui nascita fu promossa proprio dal Brasile nel 2004, è una piattaforma di dialogo su diverse tematiche, dalla difesa allo sviluppo umano. Tuttavia, un’agenda troppo ampia ha giocoforza ridotto l’efficacia dell’organizzazione non consentendo al Brasile di farne un vero e proprio strumento di influenza regionale.

RISCHI E SFIDE – Il Brasile rischia di perdere terreno nella sua stessa regione e di rimanere isolato sia rispetto ai partner Atlantici e Pacifici. Sembra quasi paradossale che l’unico gigante economico della regione rimanga all’esterno dei principali accordi di integrazione politica ed economica. Certamente la possibilità di contare su un mercato interno enorme (quasi duecento milioni di abitanti) e in espansione, grazie alle politiche redistributive che hanno permesso negli anni passati di ridurre le disuguaglianze, rappresenta un vantaggio consentendo di ridurre la dipendenza dai mercati stranieri, e dunque anche di attutire gli shock economici e finanziari provenienti dall’estero. Allo stesso tempo, però, una potenza economica come il Brasile deve decidere che cosa ‘vuol fare da grande’. Il disimpegno degli Stati Uniti dall’area sudamericana nel corso degli ultimi vent’anni ha aperto da alcuni anni ampi spazi che il Brasile avrebbe potuto colmare ponendosi come leader e dettando l’agenda dell’integrazione sia intra- che extra-regionale. Così invece non è avvenuto.
Una delle priorità del prossimo governo (le elezioni Presidenziali si svolgeranno ad ottobre) sarà ridefinire l’agenda di politica estera e ricalibrare la proiezione internazionale del Brasile. Ri-orientare lo sguardo verso la regione sudamericana sembra un’alternativa ragionevole, se non una necessità, viste le enormi opportunità ancora inesplorate in termini di commercio, investimenti e integrazione produttiva con il resto del Sudamerica.

Davide Tentori

Perchè Cafè Mundial

Lo speciale del Caffè Geopolitico per la Coppa del Mondo: tutto quanto c’è da sapere sulle Nazionali e sui 32 Paesi che si sfideranno in Brasile, in un continuo intreccio tra sport e politica internazionale. Qui una introduzione e una spiegazione dello speciale, con una prima storia

Cosa avranno provato in quei momenti? Erano felici? Erano tristi?”

Si comincia nel 1930, quando per decidere la sede della prima Coppa del Mondo, Jules Rimet scelse l’Uruguay, che doveva festeggiare il centenario della sua Costituzione. Si arriva ora agli eventi surreali dell’ultima settimana, quando la Nazionale del Camerun minaccia di non partire per Brasile se non ottiene almeno un anticipo dei suoi premi per la partecipazione. Eto’o e compagni, ad un passo dal clamoroso sciopero, hanno ottenuto il versamento immediato del 6% che la Federazione camerunense riceve dalla Fifa per la qualificazione ai mondiali, 15mila euro circa, oltre ad un bonus di altri 75mila euro a testa. Il bello arriva adesso: la Federazione ha dovuto chiedere un prestito urgente al governo, che ha subito allertato i direttori delle Banche del Paese per rendere queste cifre disponibili immediatamente, nonostante il giorno di chiusura (sarebbe quasi da ridere, se non si pensa alle condizioni di povertà in cui si trova il Camerun).

Il dittatore aveva preso il potere due anni prima. Miliziani irregolari piombavano in casa di presunti dissidenti politici, sottraendoli alle famiglie e facendoli sparire nel nulla. Ancora oggi non si conosce il numero esatto delle persone scomparse. Solo dopo molti anni si venne a sapere delle indicibili torture subite da quelle persone, la gran parte delle quali buttate in mare con i voli della morte.

Il campionato del mondo di calcio fu lo strumento perfetto del regime per distogliere l’attenzione della popolazione da quanto stava accadendo. L’organizzazione fu affidata a una società di pubbliche relazioni americana, che propose al mondo il lato migliore del Paese. Quartieri malfamati rasi al suolo, striscioni pro Nazionale ovunque… quella squadra senza volerlo divenne il miglior prodotto di marketing del regime. Molti giocatori avevano idee ben diverse da quelle del regime, ma amavano il loro Paese, e sapevano di dover giocare e rappresentare tutto il popolo, non solo i generali.

 Dal 1930 al 2014, le venti edizioni dei Mondiali di questi 84 anni hanno visto infiniti intrecci tra pallone e politica: dai mondiali italiani del 1934, tentativo di legittimazione del fascismo e strumento diplomatico di consenso e propaganda, fino ai tempi recenti, con il tentativo (fallito) delle due Coree di organizzare insieme i Mondiali del 2002. E ancora, le assegnazioni dei Mondiali di questo decennio da sole bastano ad illustrare i nuovi equilibri geopolitici globali: tre Coppe del Mondo a tre Paesi BRICS (Sudafrica 2010, Brasile 2014, Russia 2018). Per non parlare dell’edizione 2022, che dovrebbe – condizionale d’obbligo, dati gli scandali in corso – disputarsi in Qatar, un Paese che il suo ruolo di attore protagonista nel mondo se lo sta letteralmente “comprando”.

La pressione è enorme, e si fa sentire nel primo girone, passato a fatica. Nel secondo tutto si gioca all’ultima gara, contro il Perù: bisogna vincere con tre gol di scarto per superare il Brasile e conquistare la finale. La partita ancora oggi si ricorda come la marmelada peruana. Il portiere avversario Ramon Quiroga è cittadino peruviano solo da pochi mesi, ma è nato e cresciuto nel Paese degli avversari, che vincono la partita 6-0. Anni dopo, il suo compagno Josè Velazquez confermerà la combine, addirittura raccontando di una visita pre-gara del dittatore, in compagnia del Segretario di Stato americano Kissinger. In finale si affronta l’Olanda. Arbitro designato è l’israeliano Klein, sostituito per le pressioni del regime dall’italiano Gonella, accompagnato allo stadio da Licio Gelli, capo della loggia P2, di cui fa parte anche uno dei più stretti collaboratori del dittatore. Il leader della nazionale chiede alla squadra di scendere in campo dando le spalle ai militari, e promette di non stringere la mano al dittatore in caso di vittoria. La squadra scende in campo obbedendo al suo leader, e il rumore assordante dei tifosi di colpo si tramuta in un silenzio sbigottito. L’arbitraggio casalingo aiuta la squadra, in vantaggio al 37’ con un gol del suo leader, ma l’Olanda pareggia a nove minuti dalla fine, e coglie un palo clamoroso a pochi secondi dal triplice fischio. Nei supplementari la fisicità dei padroni di casa si fa sentire: il leader raddoppia al 105’, e a quattro minuti dalla fine si segna il 3-1 finale: la Coppa del Mondo è vinta.

La storia della Coppa del Mondo è una fucina infinita di racconti. I mondiali hanno qualcosa di magico, e riescono anche ad appassionare molta gente che certo non si ferma la domenica per vedere quelli-che-corrono-dietro-un-pallone-che-rotola. E soprattutto hanno un impatto globale molto forte, e anche noi al Caffè Geopolitico non potevamo non occuparcene. Abbiamo però deciso di realizzare questo e-book con il nostro stile, con una serie di contenuti speciali che presentino i Paesi protagonisti della Coppa del Mondo, le Nazionali pronte a sfidarsi in campo, e soprattutto tutte quelle connessioni e interazioni tra “mondo reale” e campo di calcio, che rendono così speciale la competizione che oggi vedrà finalmente il via.

Stavamo disputando la finale nello stadio del River Plate, e a tre-quattrocento metri c’era la scuola di meccanica navale. Solo dopo abbiamo scoperto che era il principale centro di tortura della marina. E penso, quando segnavamo, tutti ci potevano sentire. Le guardie magari dicevano ai prigionieri “stiamo vincendo”, è così che probabilmente glielo riferivano. Non dicevano “L’Argentina sta vincendo” ma “noi stiamo vincendo”. Uno è l’aguzzino, l’altro la sua vittima. E poi penso: coloro che erano imprigionati come si sentivano, felici o tristi? In un certo senso erano felici perché erano argentini, e stavamo vincendo la Coppa del Mondo per la prima volta nella nostra storia. Meraviglioso. Ma sapevano che quella vittoria significava che la dittatura militare sarebbe durata ancora a lungo. Che non sarebbero stati rilasciati. Cosa hanno provato in quei momenti?”

Quest’ultima frase è una citazione di Osvaldo Ardiles – uno dei migliori calciatori argentini di sempre – e basterebbe a spiegare cosa abbia significato per la storia dell’Argentina la vittoria ai Campionati mondiali del 1978, ai tempi della dittatura di Videla e della tragedia dei desaparecidos. Al triplice fischio le urla degli 80.000 del Monumental sono assordanti, e presumibilmente giungono chiare anche alla Escuela de mecanica de la Armada, il principale centro di tortura del regime. Sembra per tutti la vittoria dei generali, ma sul campo la Selección ha vinto anche per le persone torturate lì di fianco: sul palco delle premiazioni, Kempes manterrà la sua promessa, e non stringerà la mano a Videla.

Ecco, il lavoro che vi presentiamo è anche per raccontarvi il Mondiale con questo taglio, per condividere storie come questa, e per sperare insieme che l’assurda domanda posta per un gol della propria Nazionale – saranno felici o tristi? – possa essere solo un brutto ricordo del passato. Buon Mondiale a tutti.

Alberto Rossi

L’Italia e gli aeromobili a pilotaggio remoto ad uso tattico

Miscela strategica Una panoramica sugli aeromobili a pilotaggio remoto (APR) impiegati per uso tattico dalle Forze Armate italiane che ne dispongono. Analizzeremo al contempo i possibili scenari futuri in merito ai programmi di acquisizione.

L’ITALIA E GLI APR, “LINEE GUIDA” – Il Decreto Ministeriale emanato il 23 giugno 2006 dall’allora Ministro della Difesa Arturo Parisi definisce l’aeromobile a pilotaggio remoto (APR) come «un vettore aereo, denominato aerial vehicle (AV), che compie la missione di volo, pilotato da un equipaggio operante da una stazione remota di comando e controllo (SRCC)». Lo stesso decreto – che integra la definizione di APR formulata nella legge 178/2004, poi abrogata – propone una classificazione leggermente differente rispetto a quella usualmente utilizzata. Gli APR vengono dunque distinti in micro (indicati con m, di peso inferiore a 2 kilogrammi), mini (M, con peso tra i 2 e i 20 kilogrammi), leggeri (L, peso tra 20 e 150 kilogrammi), tattici (T, tra i 150 e i 500 kilogrammi) e strategici (S, con peso superiore ai 500 kilogrammi).

APR TATTICI vs. USO TATTICO DEGLI APR – La suddivisione appena menzionata potrebbe ingenerare dei dubbi sull’utilizzo del termine tattico. E’ infatti possibile utilizzare per finalità tattiche anche gli APR di peso inferiore a quelli di tipo T (e dunque quelli strettamente definiti come tattici). Per chiarire la questione basta tenere a mente che un mezzo è usato in funzione tattica se serve a fornire supporto diretto alle truppe dislocate sul campo, e in chiave strategica se è invece utilizzato per supportare la catena di comando, e dunque le decisioni che riguardano in modo più ampio la condotta di tutte le operazioni.

La linea di demarcazione tra mezzo tattico e mezzo strategico non è necessariamente netta, come mostrato dal potenziale doppio utilizzo dei due APR in dotazione all’Aeronautica Militare: il Predator (che nasce come velivolo preminentemente strategico, ma che diventa tattico considerando l’invio alle truppe al suolo delle informazioni raccolte) e lo STRIX-C (che pur nascendo come tattico, può ricoprire una funzione strategica nel momento in cui invia le informazioni alla catena di comando).

Un operatore dell'Aeronautica Militare appronta uno Strix. Image credit: U.S. Air Force Staff Sgt. Andrew Davis
Un operatore dell’Aeronautica Militare appronta uno Strix. Image credit: U.S. Air Force Staff Sgt. Andrew Davis

AERONAUTICA MILITARE ED APR – Il mezzo (principalmente) tattico in dotazione alla nostra Aeronautica Militare, come precedentemente citato, è lo STRIX-C, che da qualche tempo consente ai Fucilieri dell’Aria del 16° Stormo di Martina Franca di migliorare la protezione, diurna e notturna, del perimetro esterno dell’aeroporto di Herat, base italiana in Afghanistan. Questo APR di 8 kilogrammi, che viene lanciato mediante una catapulta, sebbene non abbia delle prestazioni particolarmente performanti (vola missioni da otto minuti ciascuna e il suo range è di circa 12 chilometri, che possono essere aumentati se la stazione di controllo a terra viene montata su un mezzo che “segue” il velivolo sul terreno), consente la sorveglianza di obiettivi sensibili, il supporto a pattuglie esterne e la ricognizione su punti o aree, può essere usato per funzioni di intelligence, ma anche per interventi in emergenza.

GLI APR DELL’ESERCITO – L’Esercito italiano ha avuto ed ha in dotazione diversi tipi di APR con funzione tattica. Il Pointer, di produzione americana, è un APR di circa 4 kilogrammi che può volare missioni di circa un’ora, impiegato essenzialmente per la sorveglianza del campo di battaglia; è diventato operativo nel 2004, da quando viene impiegato in Iraq. Successivamente la Forza Armata ha acquisito gli APR micro Raven A (2007) e Raven B (2009), utilizzati in Iraq ed Afghanistan per supportare le unità di manovra. Tra le dotazioni dell’Esercito Italiano ci sono inoltre tre versioni del Bramor, un mini APR utilizzato per funzioni ISR (Intelligence, Surveillance and Recognition) e per l’individuazione di ordigni esplosivi improvvisati, che ha “debuttato” a Herat il 9 giugno scorso.

La Forza Armata, inoltre, attende a breve la consegna dell’APR di tipo tattico Shadow, che fornirà supporto ai battaglioni per sorveglianza, ricognizione ed acquisizione degli obiettivi.

http://pakmr.blogspot.it/2011/04/us-to-provide-85-hand-launched-rq-11.html
Immagine di un APR Raven.

DESIDERATA – Sia le Forze Armate che la Polizia di Stato, riconoscendo l’importanza che gli aeromobili a pilotaggio remoto potrebbero rivestire per le loro operazioni, hanno espresso la volontà di dotarsi di tali mezzi. Dopo un utilizzo sperimentale su Milano e Roma, i vertici della Polizia hanno compreso quanto l’apporto di APR possa essere rilevante per le loro azioni quotidiane di contrasto alla criminalità organizzata.

La lotta ai traffici illeciti, soprattutto quelli via mare, è invece una delle motivazioni addotte dalla Guardia di Finanza per giustificare la necessità di dotarsi di APR, in aggiunta al riconoscimento di segnali radar o lo sviluppo di operazioni di polizia di tipo complesso. In aggiunta, grazie alle previsioni del Nuovo Programma Operativo per la Legalità, sarebbe possibile richiedere l’impiego di nuove tecnologie per le fronteggiare sfide emergenti, come gli illeciti ambientali.

Anche la Capitaneria di Porto, che dalla fine degli anni ’80 si avvale di un servizio aereo organizzato su tre basi (Sarzana, Pescara e Catania), ritiene che i tempi siano maturi per l’acquisizione di velivoli a pilotaggio remoto. Dal 2016, infatti, inizierà il periodo di dismissione dei velivoli più vecchi tra quelli in dotazione, che dovrebbe concludersi nel 2035, quando sopraggiungerà il fine vita operativa degli ATR e dei Piaggio P180 (in servizio dal 2011). Sebbene non sia attualmente al vaglio alcun piano di acquisizione di aeromobili a pilotaggio remoto nel breve periodo, il varo di due pattugliatori con annesso ponte di volo si pone come precondizione per l’acquisizione di tali velivoli, che potrebbero rispondere alle esigenze di ricognizione strategica e tattica e di sorveglianza locale (in ambito portuale e del demanio marittimo).

GLI SVILUPPI FUTURI – Sebbene al momento non siano stati avviati dei veri e propri programmi di acquisizione di tali sistemi per Polizia, Guardia Costiera e Guardia di Finanza, non si può escludere che tali requisiti operativi siano formulati nel breve-medio periodo. In aggiunta a ciò che è stato sottolineato nel paragrafo precedente, infatti, le esperienze fatte dagli altri Paesi dimostrano come gli APR tattici possano costituire un valido supporto per le operazioni di tipo ISR (Intelligence, Surveillance and Recognition), considerando non solo le loro dimensioni abbastanza agevoli, ma anche la possibilità di utilizzarli in un ampio spettro di missioni per attività di law enforcement.

Giulia Tilenni

Geopolitica del commercio di armi nel Golfo

Miscela Strategica – Il commercio di materiale bellico è un interessante indicatore delle dinamiche geopolitiche mondiali. L’aumento degli approvvigionamenti da parte del Medio Oriente, insieme alla crescita delle esportazioni statunitensi proprio in quell’area, evidenzia come il ‘pivot mediorientale’ di Washington non sia stato ancora, di fatto, accantonato.

 CRESCE LA SPESA PER L’ACQUISIZIONE DI ARMI IN MEDIO-ORIENTE – I dati statistici relativi ai due anni appena trascorsi mostrano una sostanziale diminuzione della spesa globale di armamenti. Il dato appare certamente interessante, considerando che si tratta del primo decremento in termini reali dal 1998. Ad un primo sguardo superficiale, si direbbe che nel 2012 sia iniziato un trend in discesa per quanto riguarda le spese militari mondiali, dato di fatto in disaccordo con le crisi in corso. Solo per citarne alcune, il biennio passato ha visto nascere le cosiddette ‘primavere arabe’ (scoppiate a catena nel 2011), il disastro siriano, l’Iraq in rivolta, la difficile transizione afghana, finanche gli albori del tumulto ucraino. Il quadro generale evidenziato dal dato grezzo, infatti, non è rappresentativo di per sé. Innanzi tutto, occorre osservare il trend della spesa militare mondiale nell’ultimo ventennio. Ragionando su una retrospettiva di medio-lungo periodo, dagli anni Novanta ad oggi le spese globali in ambito militare hanno seguito una strada in ascesa, raggiungendo il culmine nel 2010. Il livello di spesa dell’ultimo biennio, seppur in discesa, quasi raddoppia il livello registrato nei primi anni Novanta, nei quali si è assistito all’assestamento conseguente al venir meno della contrapposizione fra i blocchi. In secondo luogo, andando a scomporre il dato generale relativo al periodo 2012-2013, si rileva che a una cospicua riduzione in investimenti e approvvigionamenti da parte di Stati Uniti ed Europa, corrisponde un impressionante aumento di spesa in Medio Oriente. In proporzione, può dirsi che il Medio Oriente sia l’area in cui la spesa per l’acquisizione di armi ha subito il picco maggiore, con una preponderanza di acquisizioni da parte delle economie petrolifere della Penisola Arabica. Addirittura, la spesa militare nella regione del Golfo e in Nord Africa ha subito un’impennata negli anni passati che si allinea pienamente alla situazione politica della regione. Un’area, quella del Golfo, che ultimamente è stata declassata nella maggior parte delle analisi geo-strategiche globali, per lasciare il passo all’emergente ingerenza cinese in Asia ed al conseguente vettore di Washington verso il Pacifico. Sicuramente, dal punto di vista strategico, la proiezione verso l’estremo oriente degli Stati Uniti poggia su delle basi solide. Tuttavia, sottovalutare il calderone mediorientale – e il mondo arabo nel suo insieme – sarebbe una grave leggerezza. 

Uno scorcio del salone IDEX 2013, negli Emirati Arabi Uniti.
Uno scorcio del salone IDEX 2013, negli Emirati Arabi Uniti.

CHI COMPRA – Il Medio Oriente e il Nord Africa hanno registrato, rispettivamente, una crescita della spesa militare dell’8 % e del 7% tra il 2010 e il 2011. I dati ufficiali disponibili, però, non riguardano tutti i Paesi della regione. Se, da un lato, esistono certezze circa la spesa di Oman, Arabia Saudita, Iraq, Bahrain e Kuwait, mancano all’appello tutta una serie di Paesi estremamente rilevanti per definire una panoramica accurata. Non a caso Iran, Siria, Qatar e Emirati Arabi Uniti sono fra questi. Le complesse dinamiche di forza nell’area potrebbero essere essenzialmente ricondotte a tre fattori di instabilità: gli effetti delle rivolte arabe con l’emergere di nuove figure dominanti al posto dei regimi totalitari tollerati dai Paesi occidentali, la tensione fra i Paesi del Golfo e l’Iran, il contenimento della crisi in Siria. Un aspetto che accomuna questi fattori, sicuramente, è che sono il prodotto delle crisi più o meno latenti che affliggono la regione da decenni. Ognuno di questi elementi, in modo diverso, tocca infatti tutti i Paesi della regione. Le scelte di politica estera e di politica commerciale dei singoli Paesi, dunque, riflettono il ruolo che questi attori svolgono, o avrebbero intenzione di svolgere, sul più ampio teatro strategico regionale.

L’Arabia Saudita, in termini di spesa militare, è il numero uno fra i Paesi del Medio Oriente. È noto che per far fronte alle esigenze strategiche nazionali, il regime saudita abbia già da qualche anno avviato una massiccia campagna di spesa militare per ampliare la produzione autonoma di armamentario bellico. Nel 2010, gli Stati Uniti hanno firmato un accordo dal valore di 60 miliardi di dollari con l’Arabia Saudita per la fornitura di elicotteri e velivoli militari (circa 70 Apache, altrettanti Blackhawk, 85 caccia F-15 e alcuni elicotteri ultraleggeri per le operazioni speciali), di un sofisticato sistema di allerta radar e di componenti missilistiche. L’obiettivo saudita è quello di mantenere un ruolo di leadership sullo scacchiere mediorientale, facendo da contraltare alla politica estera aggressiva dell’Iran, aspro rivale nella contesa per il ruolo di guida nella regione. La monarchia saudita si è da sempre caratterizzata per un uso prudente della politica estera, mantenendo buoni rapporti di amicizia con Washington nonostante le divergenze di pensiero intercorse vis à vis della gestione delle ‘primavere arabe’. Lo scoppio di un focolaio di tensione nel vicino Bahrain ha appunto incrinato il sodalizio fra Washington e Riyadh; la prima più incline ad una retorica democratica favorevole al cosiddetto ‘risveglio arabo’, la seconda assolutamente intenzionata a fermare sul nascere le prime scintille di dissenso alle porte. L’acquisizione di materiale bellico dagli Stati Uniti, in quest’ottica, delinea la volontà di assicurarsi una certa autonomia militare nella regione, pur rimanendo vicino all’alleato storico di Washington. Immediatamente in coda all’Arabia Saudita, in ordine di grandezza, sono l’Iraq e il Bahrain. Le ragioni del copioso aumento della spesa militare sono intuibili per entrambi. Il Bahrain – si è ricordato – sta vivendo la sua ‘primavera’. L’Iraq, a quasi tre anni dal ritiro delle truppe americane dal suo territorio, fronteggia un’escalation di violenza che ha superato i picchi del 2006-2008, il periodo più sanguinoso del conflitto. Tensioni politiche, settarie e religiose stanno dilaniando un Paese che, ad oggi, non si è dimostrato in grado di gestire la transizione democratica. Buona parte delle armi acquistate serve a rifornire le forze di sicurezza nazionali preposte alla protezione dei giacimenti energetici e al controllo dei labili confini con la Siria. 

Il pattugliatore classe Falaj2, della marina degli Emirati Arabi, di produzione italiana.
Il pattugliatore classe Falaj2, della marina degli Emirati Arabi, di produzione italiana.

CHI VENDE – La leadership mondiale nelle esportazioni di materiale bellico resta agli Stati Uniti, con stime che si aggirano intorno ai 60/70 miliardi di dollari all’anno. Mosca, tradizionalmente considerata un forte competitor sul mercato degli armamenti, esporta per un sesto del volume di Washington. Una leadership statunitense, dunque, che non solo permane, ma sembra in crescita. Mentre la crisi economica mondiale ha frenato le acquisizioni di Washington, dal 2010 a oggi il livello delle esportazioni è cresciuto in maniera esponenziale. Le vendite sono triplicate negli ultimi due anni, seguendo una direttiva verso il Medio Oriente. La maggior parte della produzione bellica esportata dagli Stati Uniti, infatti, è destinata ai Paesi del Golfo, dove l’Arabia Saudita, gli Emirati Arabi Uniti e l’Oman sono il principale punto di approdo. Le tensioni legate all’ingerenza di Teheran nella regione hanno spinto molti attori a incrementare gli investimenti e gli approvvigionamenti. Gli Stati Uniti stanno ampiamente soddisfacendo tale domanda, consapevoli del ruolo geopolitico che ne deriva. Gli accordi, elaborati tutti su base bilaterale, riguardano per lo più la fornitura di velivoli e di sistemi di difesa missilistica. I Paesi del Golfo coinvolti, in primo luogo l’Arabia Saudita, non condividono una diretta prossimità geografica con il territorio di Teheran. L’opzione missilistica marchiata USA, dunque, sembra confermare la tesi per cui la proiezione di Washington nella regione si accompagna alle esigenze strategiche nazionali dei Paesi del Golfo. 

IL GOLFO RIMANE UN’AREA STRATEGICA – Le tensioni politiche e sociali che hanno disgregato lo ‘pseudo-ordine’ mediorientale delineatosi fino al preludio delle rivolte del 2011 permangono tutt’ora nella regione. Quello che in un primo momento poteva sembrare un possibile assestamento delle dinamiche regionali, si è rivelato un ulteriore focolaio di tensioni all’interno di un’area geopolitica storicamente in bilico. La gestione della ‘questione mediorientale’, con tutte le sfaccettature di cui è composta, non potrà che rimanere uno degli obiettivi strategici per gli Stati Uniti. L’affacciarsi di nuovi attori sul panorama asiatico – come la Cina – o lo spauracchio ‘in stile Guerra Fredda’ del confronto con Mosca, non eliminano la proiezione di Washington nella regione mediorientale.

Intanto, i Paesi del Golfo resteranno il primo fornitore di greggio per gli Stati Uniti ancora per diverso tempo, nonostante i progressi nel campo dello ‘shale gas’. Elemento ancor più rilevante, la Penisola Arabica si trova in una posizione strategica fondamentale: è un ponte di lancio verso quel tumulto che è l’Asia Centrale. Mentre la presenza militare sul terreno si sta allentando (si pensi al ritiro delle truppe dall’Iraq e al progressivo allontanamento dall’Afghanistan), la gestione delle esportazioni della produzione bellica nazionale – pianificata sugli obiettivi strategici – consente ancora agli Stati Uniti di mantenere un ruolo chiave nella regione.

Emma Ferrero

Mappa del Medio Oriente. Image credit: UN Cartographic Section.
Mappa del Medio Oriente. Image credit: UN Cartographic Section.

La Colombia verso il ballottaggio

Dopo le elezioni presidenziali del 25 maggio, la campagna elettorale non si ferma in Colombia: i due candidati più votati continuano a sfidarsi in vista del ballottaggio del 15 giugno che decreterà chi sarà il nuovo Presidente del Paese. Il tema centrale della campagna resta il processo di pace con le FARC che continua a dividere la società colombiana.

RISULTATI– Il candidato del Centro Democrático Óscar Iván Zuluaga ha ottenuto il 29% dei voti, mentre l’attuale Presidente Juan Manuel Santos si è fermato al 25%. Al terzo posto troviamo Marta Lucía Ramírez, candidata del Partido Conservador, con il 15,5%, seguita da Carla López del Polo Democrático Alternativo con il 15,2% e da Enrique Peñalosa di Alianza Verde con circa l’8%. Da sottolineare è la scarsa partecipazione alle elezioni, poiché circa il 60% dell’elettorato non ha esercitato il proprio diritto di voto. Zuluaga e Santos competeranno per la carica di Presidente il prossimo 15 giugno, giorno in cui la popolazione colombiana sarà nuovamente chiamata al voto.

Il candidato Oscar Ivan Zuluaga.
Il candidato Oscar Ivan Zuluaga.

LA CAMPAGNA ELETTORALE CONTINUA– Il tema più rilevante – e anche più controverso – sul quale si sono schierati i candidati durante la campagna elettorale riguarda il processo di pace iniziato tra il governo di Santos e le FARC. Zuluaga, appartenente al partito uribista, sarebbe favorevole ad una sospensione di tale processo in caso di una sua elezione, mentre Santos riconfermerebbe la sua intenzione di continuare il percorso per raggiungere gli accordi necessari a pacificare il Paese. Chiaramente questa è la questione che più ha diviso l’elettorato e rimane centrale anche nella campagna elettorale per il ballottaggio. Ora resta da vedere come si modificheranno le posizioni dei candidati prima del 15 giugno e capire con chi si schiererà quella parte dell’elettorato che ha votato i partiti minori o non ha votato.

Il candidato Juan Manuel Santos
Il candidato Juan Manuel Santos

NUOVI SCHIERAMENTI– La linea ufficiale del Partido Conservador è di appoggio a Zuluaga, posizione presa dopo che quest’ultimo ha firmato un documento insieme alla leader del partito, nel quale si impegna a continuare il dialogo con le FARC e non a sospenderlo come invece prometteva prima del 25 maggio. Tuttavia, i parlamentari conservatori sono dal 2010 alleati di Santos e mantengono il loro appoggio anche in vista del ballottaggio e, tenendo conto del loro potere locale, potrebbero spostare la bilancia a favore dell’attuale Presidente.

Il Polo Democrático Alternativo, critico verso Santos ma maggiormente verso Zuluaga, non ha espresso una posizione ufficiale. Questo partito ha sempre sostenuto il processo di pace con le FARC ed è quindi possibile che una parte dell’elettorato di sinistra si esprima a favore di Santos. Visti i risultati ottenuti da questi due partiti al primo turno (entrambi intorno al 15%) il loro appoggio a Zuluaga o Santos potrebbe non influire di molto sui risultati se essi conservassero il loro orientamento iniziale.

Le vere incognite in vista del ballottaggio sono due. Innanzitutto bisogna capire a chi andranno i voti degli elettori che hanno sostenuto i verdi (8%). Ufficialmente Alianza Verde non supporta nessuno dei due candidati e sostiene la libertà di voto, lasciando all’elettorato la facoltà di esprimersi per la leadership che più rispecchia i valori del partito. Anche in questo caso sembra che le posizioni dei candidati rispetto al tema del processo di pace guideranno la scelta degli elettori: data la speciale congiuntura e il prolungato sostegno del partito agli accordi con le FARC, Santos potrebbe essere la scelta più coerente di questa parte dell’elettorato. La seconda incognita riguarda l’astensione: andando oltre la drammaticità del dato di scarsa partecipazione, si deve tenere in conto che molte autorità locali non hanno mobilitato le proprie clientele al primo turno. Quindi sarà determinante per i risultati del ballottaggio quella parte dell’elettorato che sceglierà di votare invece di astenersi.

BALLOTTAGGIO– Risulta chiaro che la particolare congiuntura che sta vivendo la Colombia rende le opinioni dei candidati sul processo di pace ciò che influirà maggiormente sulle scelte degli elettori. Lo spostamento di Zuluaga a favore del processo di pace con le FARC potrebbe avere effetti contrari: dal un lato potrebbe attrarre quella parte dell’elettorato a favore di tale processo che non condivide i metodi utilizzati da Santos. D’altro canto, il repentino mutamento d’opinione del candidato del Centro Democrático potrebbe beneficiare invece il suo avversario che, avendo dato inizio alle negoziazioni con le guerriglie, ha mantenuto una posizione stabile e coerente rispetto alla questione.

Paola Bertelli

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