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Panama: inatteso cambio al potere

Il 4 maggio Panama ha scelto un nuovo presidente: Juan Carlos Varela. Il candidato dell’opposizione ed ex vicepresidente ha guidato una campagna che promette crescita economica e riduzione della povertà. L’elevato tasso di crescita del Paese saprà redistribuire la ricchezza tra l’intera popolazione?

LE ELEZIONI – Lo scorso maggio quasi 2,5 milioni di panamensi sono stati chiamati alle urne per le elezioni generali esprimendo le loro preferenze per il Presidente e il vicepresidente, i settantuno membri dell’Assemblea Nazionale, i venti membri del Parlamento centroamericano (PARLACEN), insieme a centinaia di uffici comunali. Panama ha scelto così la classe politica che guiderà il paese dal 2014 al 2019, ma i riflettori sono puntati senza dubbio sul nuovo presidente Juan Carlos Varela. Una vittoria inaspettata rispetto le previsioni dei sondaggi elettorali che davano come favorito il candidato di Cambio Democratico José Domingo Arias, scelto personalmente dal Presidente uscente Ricardo Martinelli. Arias in caso di vittoria avrebbe guidato il Paese con l’aiuto dell’attuale first lady, ovvero la moglie del presidente Martinelli Marta Linares, candidata alla vicepresidenza. Questo, non a torto, ha fatto pensare a una rielezione occulta dell’ex Presidente, impossibilitato alla candidatura secondo le previsioni costituzionali che limitano il mandato elettorale. Arias ha così ottenuto il 32% dei voti mentre al terzo posto con 491.035 preferenze (27,46%) si è piazzato Juan Carlos Navarro del Partido Revolucionario Democratico. I panamensi hanno scelto come nuovo presidente il leader dell’opposizione Juan Carlos Varela, candidato del Partito Panameñista (PPa), in alleanza con il minoritario Partido Popular, che ha ottenuto 689.720 voti, in altre parole il 39%. La tornata elettorale, che ha registrato una partecipazione pari al 75%, denota la volontà di cambiamento da parte della società civile che cerca di riscattare i propri interessi per troppi anni sacrificati in nome della crescita economica.

IL PRESIDENTE – Juan Carlos Varela rappresenta davvero l’uomo del cambiamento nella politica panamense? Varela è attualmente vicepresidente della Repubblica di Panama, incarico che ricoprirà fino al 1 luglio quando inizierà il suo mandato elettorale. Salito al potere con le scorse elezioni grazie alla coalizione tra il Partido Panameñista e Cambio Democrático, presieduto da Ricardo Martinelli, è stato destituito dal suo incarico di Ministro degli Esteri nel 2011. Le forti divergenze in tema di giustizia, e le accuse mosse a Martinelli di scarsa trasparenza ed eccessivo dirigismo hanno portato alla rottura dell’accordo di colazione del 2009. L’imprenditore panamense ha così deciso di concorrere alla carica presidenziale come rappresentante del partito di opposizione con il Partido Panameñista, ottenendo il 99% dei voti alle primarie. Varela è stato quindi nominato il candidato dell’Alianza “El Pueblo Primero”, formata dal Partido Panameñista e dal Partido Popular con l’appoggio del movimento politico “Los Gallos de Verdad”. Varela ha basato la sua campagna elettorale sulla lotta alla corruzione, rivolgendo pesanti accuse al suo predecessore; la sua vittoria è stata favorita dal dialogo che ha cercato di instaurare con i cittadini panamensi, stanchi degli scioperi e delle manifestazioni tenutesi i giorni precedenti alle elezioni che hanno paralizzato l’industria edilizia del Paese, bloccando anche i lavori per l’ampliamento del Canale di Panama.

TRA CRESCITA E DISUGUAGLIANZA – Panama sotto la guida di Martinelli ha conosciuto una forte crescita economica, di circa l’8% annuo, trainata dai lavori e dagli investimenti esteri per l’ampliamento del canale; Martinelli però non è riuscito a diffondere il benessere tra popolazione di cui il 27% vive in condizioni di povertà e a ridurre le forti diseguaglianze economiche. La campagna elettorale di Varela ha posto al centro dell’attenzione le necessità della popolazione: punti cardine del programma sono, infatti, benessere e sviluppo umano, rafforzamento della democrazia e dello stato di diritto, sviluppo economico sostenibile. I cinque pilastri su cui si fonda il piano di governo dell’alleanza “El pueblo primero” sono un minor costo della vita, città sicure, un piano di sanità nazionale, educazione bilingue per tutta la popolazione e il diritto alla salute per tutti. Un piano che evidenzia le profonde spaccature della società nei confronti di Martinelli accusato di aver usato il suo potere di governo per il proprio tornaconto personale senza considerare gli interessi della popolazione, come nella gestione della zona di Còlon. Il periodo precedente alle elezioni è stato caratterizzato da forti agitazioni nella società civile panamense legate a tensioni sul piano lavorativo e sociale. Il settore più colpito è stato quello dell’edilizia, traino dell’economia che nel 2013 ha contribuito al 12% del PIL, con proteste a favore dell’aumento salariale. Le tensioni nascono dalla consapevolezza che la distribuzione della ricchezza non è avvenuta in modo ugualitario, il costo della vita negli ultimi anni è aumentato del 41%, mentre i salari degli operai sono aumentati solo del 18%.

Il Canale di Panama
Il Canale di Panama

OLTRECONFINE – La vittoria di Varela è stata ben accolta dal capo di Stato venezuelano Nicolas Maduro. Le relazioni diplomatiche tra i due paesi si erano rotte unilateralmente lo scorso 5 marzo dopo che Martinelli era intervenuto presso l’Organizzazione degli Stati Americani (OSA) a favore dell’opposizione venezuelana. Varela ha assicurato che la ripresa dei rapporti con il Venezuela sarà una delle priorità del governo, dimostrando una linea di politica estera contraria a quella di Martinelli che aveva preso le distanze dai governi di sinistra del continente. Altra priorità sarà portare a compimento il progetto di ampliamento del Canale di Panama, fissato inizialmente ad agosto 2014, il cui ritardo potrebbe portare delle ingenti perdite economiche al paese. Panamá gode di una posizione geografica particolarmente strategica, congiunge, infatti, due subcontinenti e due oceani rappresentando uno dei punti di transito navale più importante al mondo e per questo ha destato da sempre l’attenzione degli Stati Uniti sul controllo della zona. Il nuovo corso politico panamense dovrebbe dare impulso alla conclusione dei lavori che sotto il governo di Martinelli hanno subito pesanti ritardi a causa dell’aumento del costo dei lavori, lievitati di 1,6 miliardi di dollari. Gli scandali di corruzione che hanno coinvolto Martinelli, come l’ultimo che vede coinvolta anche Finmeccanica, hanno sicuramente pesato sulla’andamento dei lavori e sul giudizio critico di Washington nei confronti dell’ex Presidente. L’interesse per il canale da parte degli Stati Uniti non riguarda solo un progetto di crescita economica sostenibile ma sembra essere più uno strumento per il controllo dei loro interessi particolari in questa zona strategica. Intanto progetti concorrenti come quello del presidente del Nicaragua Daniel Ortega, in accordo con il magnate cinese delle telecomunicazioni, Wang Jing, proprietario della società cinese Hknd, di realizzare un canale marittimo che consentirebbe alla Cina di scardinare il rapporto commerciale privilegiato tra Stati Uniti e America Latina, rendono sempre più pressanti le richieste di conclusione dei lavori. Sarà interessante quindi vedere se Varela riuscirà a garantire l’esigenza degli Stati Uniti e rendere Panama un Paese sicuro su cui investire, riuscendo al tempo stesso a tramutare la ricchezza in benessere condiviso.

Annalisa Belforte

Assalto all’aeroporto di Karachi

Nella tarda serata di Domenica 8 Giugno un gruppo di assaltatori apparentemente appartenenti ai Talebani  ha attaccato l’aeroporto internazionale di Karachi in Pakistan. In 3 Sorsi analizziamo l’attacco, le sue origini e allarghiamo lo sguardo alle conseguenze future per sicurezza della regione.

L’ATTACCO – Alle 23.30 di Domenica 8 Giugno un commando ha assaltato l’aeroporto internazionale di Karachi in Pakistan, il più attivo e con il più alto numero di voli e passeggeri del Paese. Gli assaltatori erano armati con fucili d’assalto, lanciarazzi, granate e, secondo le prime ricostruzioni, almeno due di loro indossavano giubbotti esplosivi. Il numero degli assaltatori è stato stimato in circa dieci uomini, dei quali cinque hanno condotto l’assalto iniziale, probabilmente indossando uniformi delle forze di sicurezza pachistane, successivamente i restanti cinque si sono uniti all’attacco. Gli attentatori sarebbero entrati dal vecchio terminal per poi dirigersi verso l’area cargo. Alcuni di loro avrebbero preso posizione sulla pista più vicina. Le autorità aeroportuali hanno immediatamente annullato tutti i decolli e gli atterraggi, dirottando gli aerei in arrivo verso altri scali. I passeggeri sui voli in attesa e quelli nei terminal sono stati immediatamente evacuati e spostati in zone ritenute più sicure. Le unità antiterrorismo delle forze armate pachistane sono arrivate a Karachi dopo circa un’ora e mezza e hanno iniziato gli scontri con gli attentatori che si sono protratti fino alla mattina. In totale l’attacco all’aeroporto è durato più di cinque ore. Il conteggio delle vittime, ancora provvisorio, è di più di venti morti compresi gli attentatori (secondo fonti della CNN).

Le forze antiterrorismo pachistane all'interno dell'aeroporto Image credits: CNN
Le forze antiterrorismo pachistane all’interno dell’aeroporto
Image credits: CNN

LA RIVENDICAZIONE – L’attacco arriva dopo l’offensiva lanciata dall’esercito pachistano nel Waziristan settentrionale contro le basi dei miliziani anti-governativi che ha provocato circa 81 vittime totali. Il portavoce dei Talebani pachistani, Shahidullah Shahid, ha dichiarato che l’assalto all’aeroporto è stato la risposta all’offensiva citata in precedenza e agli attacchi condotti dai droni statunitensi contro esponenti del gruppo. Nelle passate due settimane numerosi soldati pachistani sono stati vittime di agguati al confine con l’Afghanistan e i servizi d’intelligence avevano messo in guardia le autorità su un possibile assalto in larga scala a un obbiettivo sensibile. I fatti hanno dato loro ragione. Numerosi esponenti dei Talebani sono detenuti nella città di Karachi, rendendo così le sue infrastrutture automaticamente obbiettivi sensibili. I miliziani hanno attaccato quello che forse è il maggiormente fortificato e con le migliori misure di sicurezza, mandando un forte messaggio al governo di Islamabad sulla loro capacità di colpire ovunque.

Un'altra immagine dall'esterno dell'aeroporto attaccato Image credits: CNN
Un’altra immagine dall’esterno dell’aeroporto attaccato
Image credits: CNN

SICUREZZA NELLA REGIONE – L’azione all’aeroporto di Karachi ha nuovamente evidenziato i problemi di sicurezza del Pakistan in primis e dell’area. Il Paese lotta da anni per stabilire un ambiente sicuro con scarsi risultati, fatto evidenziato dal report pubblicato dal Dipartimento di stato USA sugli attacchi terroristici dell’anno 2013. Con la fine della missione ISAF in Afghanistan e il ritiro della maggior parte delle truppe della coalizione internazionale (la permanenza di un ridotto numero per l’addestramento delle forze locali è soggetta all’approvazione di quello che sarà il nuovo Presidente eletto) la questione sicurezza nella regione passerà in mano agli Stati locali, con Pakistan, India e Cina in prima fila. Islamabad e Pechino collaborano nella SCO (Shanghai Cooperation Organization – Organizzazione per la Cooperazione di Shangai) e il loro obbiettivo sarà di rendere questa collaborazione effettiva nel settore della sicurezza post-ISAF.

Emiliano Battisti

Kosovo: elezioni anticipate 8 giugno

Domenica si svolgeranno le elezioni anticipate in Kosovo. Il Premier uscente Hashim Thaçi e’ dato in vantaggio sugli altri. Di interesse particolare sarà il coinvolgimento della minoranza serba.

L’Ucraina e l’impiego di forze non regolari: tra mito e realtà

Miscela StrategicaDa mesi Stati Uniti e Russia si accusano vicendevolmente di operare attraverso forze non regolari, clandestine o ausiliariee, per destabilizzare l’Ucraina dell’est. Entrambi mirano a sfruttare la vulnerabilità politica, militare ed economica del Paese a vantaggio dei propri obiettivi strategici.

SCAMBIO D’ACCUSE – Lo scambio di accuse comincia agli inizi di marzo, col trapelare di voci di corridoio in merito all’intervento di una compagnia militare privata statunitense per evacuare funzionari del nuovo governo ucraino da un edificio amministrativo a Donetsk, nell’est dell’Ucraina. La tesi sembra avvalorata dalle dichiarazioni di un diplomatico russo rilasciate all’agenzia di stampa moscovita Interfax, secondo il quale 300 operatori di società militari private statunitensi erano atterrati all’aeroporto Boryspil di Kiev. Fanno seguito le critiche del Ministro degli Esteri russo Sergei Lavrov che accusa Kiev di assoldare personale proveniente da compagnie militari private straniere per soffocare le proteste nei territori a maggioranza russofona.

Le accuse da parte avversa non tardano ad arrivare. Agli inizi di aprile, il portavoce della Casa Bianca Jay Carney riferisce dell’esistenza di forti prove che alcuni dei manifestanti che hanno occupato gli edifici governativi di Donetsk non fossero effettivamente locali, lasciando trasparire il coinvolgimento russo. Mosca ribatte denunciando la presenza a Donetsk di 150 contractor privati della Greystone Limited schierati in affiancamento ai reparti speciali anti sommossa del ministero degli interni di Kiev per sedare i disordini a Slovyansk.
A maggio sarà poi il quotidiano scandalistico tedesco Bild a rivelare la presenza di 400 soldati della compagnia militare Academi al fianco delle forze armate filo-governative ucraine, citando fonti dell’agenzia di intelligence tedesca Bundesnachrichtendienst (BND).

ERIK PRINCE E LO SCANDALO “BLACKWATERGATE” – Fino a questo momento le indiscrezioni sul personale militare e di sicurezza privato avvistato in Ucraina si sono sempre riferite a tre specifiche società: Blackwater, Academi e Greystone Limited.

La Blackwater è forse la compagnia militare privata più famosa del mondo. Fondata nel 1997 con quartier generale a Moyock, in North Carolina, da Erik Prince, un ex membro del corpo d’élite della marina americana Navy Seal, ha fornito negli anni numerosi servizi e decine di migliaia di contractor al governo americano, in particolare durante le guerre in Afghanistan e Iraq.
Nel 2007 Erik Prince, travolto dallo scandalo “Blackwatergate”, viene chiamato a comparire davanti alla commissione della camera dei rappresentanti del Congresso statunitense per il coinvolgimento di alcuni uomini della Blackwater in una sparatoria a Baghdad, durante la quale persero la vita 17 civili iracheni.
L’immagine della Blackwater screditata e il rifiuto del governo iracheno di rinnovare la licenza in scadenza convincono Prince a modificare il nome della compagnia in Xe Services LLC. Nel 2010 Erik Prince vende la società, mantenendo i diritti sul nome “Blackwater”, tramite private equity, a investitori ignoti dei quali, non essendo questi tenuti a rendere pubbliche le proprie transazioni, non si conosce l’esatta identità.

Il "soldato di ventura" dei nostri tempi.
Il “soldato di ventura” dei nostri tempi.

ACADEMI E GREYSTONE LIMITED – Nel 2011 la nuova proprietà ha istituito un consiglio di amministrazione, sostituito lo staff dirigenziale e cambiato nuovamente il nome, in “Academi”, cercando di prendere il più possibile le distanze dalla screditata Blackwater di Erik Prince. In risposta alle voci di avvistamenti del personale Academi a Donetsk, la compagnia ha ribadito tramite il proprio sito internet che non esiste più alcun legame con la Blackwater e ha negato il proprio coinvolgimento in Ucraina.
A prendere le distanze dall’Academi è a sua volta l’attuale management della Greystone Limited. L’azienda, con sede legale alle Barbados, che ha fornito dal 2004 servizi militari e di sicurezza privati come affiliata internazionale della Blackwater, è stata venduta agli attuali proprietari nel 2010. Attraverso il portavoce Tiffany Anderson, la Greystone dichiara di non essere in alcun modo presente sul territorio ucraino, né tanto meno avere qualsiasi tipo di rapporto con l’Academi.
Appare chiaro da questa descrizione che i continui cambiamenti negli assetti proprietari, nella governance e persino del nome, le acquisizioni tramite private equity e la scarsa tracciabilità delle operazioni contribuiscono a rendere nel complesso questo genere di società poco trasparenti e difficilmente perseguibili.

IMPIEGO DI FORZE NON REGOLARI – Sebbene al momento non sia possibile comprovare o smentire con la massima sicurezza l’impiego di forze non regolari nella crisi Ucraina, il coinvolgimento delle grandi potenze attraverso compagnie militari e di sicurezza private è da ritenere un’ipotesi plausibile.

Dall’inizio degli anni Novanta le grandi potenze e in particolare gli Stati Uniti, sono più propense a impiegare le compagnie militari e di sicurezza private non solo in affiancamento, ma anche in alternativa alle forze armate statali regolari per portare avanti obiettivi strategici di politica estera in aree ritenute di interesse non vitale. La fine della Guerra Fredda ha infatti contribuito a ridurre il valore strategico che le grandi potenze attribuivano a determinate regioni, venendo così meno gli incentivi a intervenire manu militari.
La guerra non convenzionale è un’opzione che permette ad uno Stato di proiettare la propria forza militare con maggior flessibilità rispetto all’impiego delle Forze Armate. Nei Balcani, in America Latina, Asia Meridionale e Medio Oriente l’esternalizzazione delle funzioni di sicurezza a società militari private ha permesso agli Stati Uniti di portare avanti numerose operazioni strategiche senza coinvolgere grandi contingenti di truppe. L’impiego di entità private e commerciali garantisce una flessibilità tale da consentire di portare avanti in autonomia quelle politiche che mancherebbero di un forte supporto del Congresso, nonché dipendenti dalla disponibilità o meno dell’opinione pubblica a rischiare la perdita di soldati in guerra.

INSTABILITA’ IN UCRAINA – Seguendo questa logica, l’Ucraina appare il teatro di crisi più idoneo per proiettare la propria forza militare attraverso entità private, mentre al contrario l’impiego di forze militari regolari in affiancamento alle parti in gioco su entrambi i fronti porterebbe ad una escalation delle tensioni e alla mobilitazione militare su più ampia scala.

L’instabilità generatasi è quindi funzionale a tutte le parti in gioco. Da una parte si trova la Russia, che vede nell’allargamento politico della NATO a est una minaccia sempre più prossima. Mosca non ha più terreno da cedere ed è pronta a difendere i propri interessi nazionali con la massima determinazione. Nel cuore dei propri interessi nazionali trova posto anche l’economia energetica, per il momento legata a doppio filo con le sorti di quella europea. Nel futuro prossimo, la Russia sarà ancora l’unica in grado di fornire all’Europa una fetta importante del gas di cui ha bisogno, ma nel frattempo sta cercando di diversificare il proprio portafoglio clienti, avvicinandosi sempre più alle nuove economie emergenti.

D’altra parte, gli Stati Uniti hanno assistito, durante la crisi ucraina, con o senza il loro intervento, al passaggio di potere dalle mani dell’ex Presidente Yanukovich, colpevole di aver fatto sfumare l’Accordo di Associazione tra Ucraina e Unione Europea, a quelle di un governo più “atlantista” che gode perciò dei migliori favori americani. Qualora la presenza su suolo ucraino dei contractor di una o più compagnie militari private americane dovesse essere confermata, gli Stati Uniti potranno negare di aver assunto direttamente entità militari private da impiegare come forze non regolari, ma non di essere completamente estranei ai fatti né tanto meno di aver agito per ostacolarli. Poiché tutti i contratti devono essere autorizzati dall’Office of Defense Trade Controls (ODTC) del Dipartimento di Stato e nessuna compagnia americana può operare all’estero senza licenza, il governo statunitense ha di fatto l’opportunità di intervenire, bloccando la fornitura di servizi militari qualora fosse destinata, ad esempio, ad un governo sgradito. 

Martina Dominici

Video: presunti operatori statunitensi per le strade di Kharkiv.

Le sfide alla sicurezza in Asia Centrale

Miscela Strategica – L’Asia Centrale è una regione che a lungo è stata ignorata, considerata lontana e strategicamente poco importante, specie nei Paesi occidentali. Dopo l’11 settembre la concezione che si ha di quest’area del globo è cambiata. Ecco un approfondimento circa quelle che sono le principali sfide alla sicurezza che gli Stati della regione affrontano.

QUESTIONI ETNICHE – Uno dei principali obiettivi per la garanzia della sicurezza degli Stati è la coesione interna. Qualora la composizione etnica sia variegata, l’ottenimento di questo obiettivo è reso più difficile, in particolar modo laddove l’appartenenza ad una data etnia è riconosciuto come possibile tema discriminante. E’ questo il caso dell’Asia Centrale, dove i 5 Stati che compongono la regione (Kazakhstan, Uzbekistan, Kyrgyzstan, Tajikistan e Turkmenistan) hanno al proprio interno numerose comunità di etnici dei Paesi vicini. Il pericolo è che tali minoranze assumano tendenze autonomiste se non apertamente separatiste ai danni dei Paesi di appartenenza. Gli Uzbeki sono i più numerosi nella regione, con una popolazione che supera di diversi milioni quella delle altre etnie, e vi è il potenziale rischio (mai realmente concretizzatosi sinora) che, rafforzate dai propri numeri e concentrazione, le loro comunità diventino un pericolo per l’integrità di Stati quali il Kyrgyzstan ed il Tajikistan. E’ infatti in questi ultimi Paesi che le minoranze uzbeke sono più numerose e si concentrano in particolare nella Valle di Fergana, divisa tra Tashkent, Bishkek e Dushanbe. Il peggioramento, negli ultimi anni, della situazione economica e sociale in Asia Centrale ha però portato ad allarmanti manifestazioni di una frattura su basi etniche nei sistemi sociali della regione. Nel giugno del 2010, per citare il caso più rilevante, si verificò ad Osh (Kyrgyzstan) un violentissimo scontro tra Uzbeki e Kyrgyzi che portò alla morte di più di 420 persone. Le locali classi dirigenti si dimostrano incapaci di formulare le giuste risposte alle rivendicazioni delle minoranze oppure non sono disposte a perseguirle. Il metodo con il quale reagiscono è una sempre maggiore repressione (brutale) invece che l’apertura alle istanze, fomentando ulteriormente le rivalità tramite una narrativa nazionalista. Ma questa soluzione non porta ad altro che ad un circolo vizioso di irrigidimento da ambo le parti, con la conseguenza che numerosi individui guardano con disincanto alla possibilità di miglioramento della propria condizione. Lo status quo non viene più considerato e i gruppi etnici si predispongono ad una situazione di calma apparente oppure iniziano un percorso di avvicinamento all’islamismo militante, alla ricerca di una soluzione ideale anche per mezzo della lotta armata. Va però tenuto in considerazione che il suddetto peggioramento economico e sociale ha un impatto non solo interetnico, ma anche all’interno delle stesse etnie, con la differenza che sono soprattutto gli Uzbeki ed in misura minore i Tajiki ad essere sensibili alla deriva islamista, mentre soprattutto nel caso kyrgyzo la popolazione è incline alla protesta verso il regime (come dimostrano le deposizioni dei presidenti Akaev nel 2005 e Bakiev nel 2010).

Simbolo di Hizb ut-Tahrir
Simbolo di Hizb ut-Tahrir

LA MINACCIA ISLAMISTA – L’attività di soggetti islamisti in Asia Centrale può essere rilevata già a partire dagli anni ’90, durante la guerra civile tagika (1992 -1997), ma specie nelle azioni del gruppo Movimento Islamico dell’Uzbekistan (IMU), soggetto legato ad Al-Qaeda e che agì più volte tra le repubbliche uzbeka, kyrgyza e tajika, suscitando una violenta reazione da parte dei tre governi e venendo quasi del tutto eliminato. Le pratiche repressive estremamente feroci ed indiscriminate (spesso civili innocenti sono rimasti coinvolti in vario modo nelle operazioni di antiterrorismo) hanno indubbiamente portato a diversi successi, costringendo i gruppi all’allontanamento dalle proprie basi nella regione o a nascondersi limitando le proprie azioni. Tuttavia questi stessi metodi, uniti ai già menzionati effetti della crisi socio-economica, hanno indotto sempre più persone (specie, di nuovo, tra gli Uzbeki) a simpatizzare per l’islamismo e gli ambienti radicali. Il gruppo che beneficia maggiormente della radicalizzazione in atto è probabilmente Hizb ut-Tahrir (Partito della Liberazione). Si tratta di un’organizzazione diffusa in larga parte del mondo musulmano e che ufficialmente rinuncia alla violenza. E’ sospettata di essere quantomeno coinvolta in operazioni di finanziamento di attività terroristiche e si ritiene che, anche qualora fosse realmente estranea al metodo violento, tramite l’insegnamento dell’islam che impartisce ai propri membri avvii questi all’adesione a gruppi che praticano la lotta armata, come ad esempio l’IMU o Jund al-Khilafa (Soldati del Califfato, gruppo emerso nel 2011). Dal 2001 e dall’inizio della guerra in Afghanistan le attenzioni degli Stati coinvolti nella “war on terror” si sono rivolte anche a questa regione. Diversi gruppi islamisti dell’Asia Centrale hanno cominciato ad operare in Afghanistan (l’IMU, ad esempio) e gli Stati Uniti, nonché Russia e Cina, hanno voluto aiutare i 5 Stati regionali a rispondere al fenomeno e consolidare i regimi di fronte alla minaccia islamica. Ciò ha avuto luogo con la fornitura di equipaggiamento, lo scambio di informazioni tra i servizi di intelligence e lo svolgimento di esercitazioni comuni. Una delle maggiori iniziative in tal senso è l’istituzione (avvenuta a Tashkent nel 2003 nell’ambito della Shanghai Cooperation Organization) del RATS (Regional Anti-Terrorist Structure), centro il cui scopo è la condivisione di informazioni tra Paesi su ogni attore, di rilevanza regionale, nazionale o locale, che rappresenti una minaccia alla sicurezza nell’area della SCO.

TRAFFICO INTERNAZIONALE – Un fenomeno che crea problemi alla sicurezza degli Stati della regione è il fiorente narcotraffico. Oltre che per il consumo delle droghe da parte della popolazione, secondo diversi esperti il commercio di questi prodotti è un’importantissima fonte di introito per le organizzazioni islamiste. Queste ultime hanno sviluppato forti legami con l’ambiente criminale, utilizzando i proventi del narcotraffico (specie quelli provenienti dagli oppiacei prodotti localmente, ma soprattutto in Afghanistan) per il proprio finanziamento. Sfruttando la posizione di Tajikistan, Turkmenistan ed Uzbekistan e la porosità dei confini, il traffico internazionale di stupefacenti transita attraverso gli Stati dell’Asia Centrale per dirigersi poi verso i mercati europeo e russo. Le autorità sono generalmente impegnate nella lotta al fenomeno, ma sono diversi i casi di funzionari, specie a livello locale, collusi con i trafficanti e ciò, sommato alla scarsa sorveglianza dei confini, rende estremamente difficile trovare una soluzione al problema.

L'attuale stato del lago d'Aral, nel quale confluiscono sia l'Amu Darya che il Syr Darya; Credits: CIA The World Factbook
L’attuale stato del lago d’Aral, nel quale confluiscono sia l’Amu Darya che il Syr Darya; Credits: CIA The World Factbook

LE RISORSE IDRICHE – Un’ulteriore fonte di minaccia alla sicurezza nella regione è legata alle risorse idriche. Si sono sviluppate forti tensioni nei rapporti tra le capitali per via della (mala)gestione dell’acqua e dei problemi  connessi. In particolare, è il rapporto tra gli Stati a monte e quelli a valle dei fiumi ad essere causa di insicurezza. I corsi d’acqua più interessati dalla questione sono l’Amu Darya, che porta all’interazione Tajikistan, Turkmenistan e Uzbekistan, ed il Syr Darya, che costringe Kyrgyzstan, Uzbekistan, Tajikistan e Kazakhstan a relazionarsi. Le dinamiche che inducono allo scontro sono legate alle necessità di produzione di energia per i Paesi del tratto superiore dei fiumi (Kyrgyzstan e Tajikistan, poveri di gas e petrolio, ma con un grande potenziale per l’idroelettrico) e alle esigenze per l’agricoltura dei territori a valle (appartenenti a Stati ricchi di gas e petrolio e che non necessitano dunque dell’idroelettrico, vale a dire Kazakhstan, Uzbekistan e Turkmenistan). Nello specifico della situazione del Syr Darya, dopo il collasso dell’Unione Sovietica gli Stati ricchi di risorse energetiche pagavano con forniture elettriche il Kyrgyzstan per quote di acqua che lasciava fluire verso valle senza che questa fosse utilizzata per la produzione di elettricità (destinata al consumo interno). Nel corso inferiore è necessario un grande afflusso per via delle coltivazioni nella Valle di Fergana. Ma spesso le forniture verso il Kyrgyzstan sono state interrotte dopo che queste furono slegate dalle quote di acqua e condizionate invece al pagamento in denaro, che per via del dissesto finanziario di Bishkek non è facilmente eseguibile. Come reazione il governo kyrgyzo blocca le forniture d’acqua, generando così un danno agli agricoltori e producendo lo stallo. Dinamiche legate alle necessità dell’agricoltura si verificano anche per quanto riguarda l’Amu Darya, dove negli ultimi tempi si registrano tensioni per via della vicenda della diga di Rogun. Nonostante le tensioni tra Stati collegate alle questione idrica, non sono ipotizzabili conflitti interstatali nel breve termine. Sono numerosi però i casi di comunità frontaliere che attuano azioni violente per risolvere i problemi di irrigazione delle proprie attività agricole (numerosi i casi di scontro tra agricoltori tajiki e kyrgyzi). La mala gestione delle risorse è una minaccia anche sotto un altro punto di vista: essa provoca numerosi danni all’ambiente e inficia la sostenibilità dell’agricoltura nell’area. La costruzione errata di infrastrutture come dighe e canali sta portando al progressivo inaridimento dei territori e ad un inquinamento massiccio dovuto ai residui dei prodotti chimici utilizzati dagli agricoltori, che non vengono più trascinati via dai fiumi. Effetti macroscopici e ben visibili dell’attuale gestione sono quelli che affliggono il lago d’Aral, ormai quasi prosciugato.

Matteo Zerini

Mappa dell’Asia Centrale, Credits: United Nations, Department of Field Support, Cartographic Section

Mappa dell’Asia Centrale, Credits: United Nations, Department of Field Support, Cartographic Section
Asia Centrale

 

Il gas della Russia e la quiete della Cina

La Cina ha saputo attendere il momento opportuno per strappare a Putin un vantaggioso accordo sul gas.

LA STORIA – Quando, nel 1972, il presidente americano Richard Nixon si recò per la prima volta in visita ufficiale a Pechino, l’allora premier cinese Zhou Enlai fece la straordinaria affermazione secondo cui era ancora “troppo presto per giudicare l’impatto della rivoluzione francese.” Sebbene fosse frutto di una traduzione imperfetta – il premier cinese si riferiva in realtà al maggio francese del 1968 – la frase passò alla storia come emblema della ponderatezza orientale.

In effetti, la capacità cinese di attendere pazientemente il momento opportuno é proverbiale. Il presidente cinese Xi Jinping ne ha dato un eccellente esempio lo scorso 21 maggio, quando, al termine della visita a Pechino del presidente russo Vladimir Putin, è riuscito a concludere una trattativa che durava da dieci anni.

L’accordo, firmato dal manager di Gazprom Aleksej Miller e dal presidente della China National Petroleum Corporation (CNPC) Zhou Jiping, è il frutto di una estenuante trattativa notturna tra i due capi di stato, protrattasi fino alle quattro del mattino. In un’intervista al canale Rossiya, Putin l’ha definito “il più grande affare nella storia dell’industria del gas russo”, aggiungendo che “il prezzo finale è soddisfacente per entrambi.” Ma la segretezza tenuta dalle due parti e le circostanze in cui l’accordo è stato firmato portano a credere che i cinesi siano riusciti ad ottenere un prezzo molto minore di quello richiesto dai russi.

In effetti, la leadership cinese deve aver compreso che il presidente russo aveva un forte interesse a concludere rapidamente la trattativa, per rientrare in patria con un risultato tangibile e al tempo stesso poter mostrare all’occidente di avere un alleato solido in Asia. Xi Jinping ha potuto dunque adagiarsi sullo schienale e condurre la trattativa da una posizione di forza.

L’ACCORDO – Il contratto dovrebbe entrare in vigore a partire dal 2018, non appena le infrastrutture necessarie al trasporto del gas saranno pronte. Da quel momento, Gazprom inizierà a fornire 38 miliardi di metri cubi annui (bcm) di gas naturale, per un periodo di trent’anni, alla CNPC. Gli esperti stimano che il valore totale del contratto si aggiri attorno ai 300 miliardi di euro.

Dopo essersi trascinati per un decennio, i negoziati hanno subito un’improvvisa accelerazione nelle ultime settimane. La Russia ha revocato la prassi di interdire la proprietà di beni strategici alle imprese straniere, in modo da permettere alle imprese cinesi di prendere parte allo sviluppo delle infrastrutture necessarie, e ha offerto di esentare la Cina dal pagamento delle imposte sull’estrazione di risorse naturali. la Cina, da parte sua, ha rinunciato alle tasse di importazione.

Il gas proverrà dai giacimenti di Chayanda e Kovykta, situati nella Siberia orientale, e giungerà in Cina attraverso un nuovo gasdotto lungo 4 mila chilometri, denominato “la forza della Siberia.” Per realizzarlo, la Russia dovrà investire 55 miliardi di dollari, contro i 20 cinesi. Secondo molti analisti, a causa dell’ingente investimento iniziale, saranno necessari diversi anni prima che l’affare inizi a produrre un ritorno economico. Ma per il Cremlino, più che per il ritorno economico, l’accordo è importante per le motivazioni geopolitiche che lo sostengono. 

Immagine celebrativa dell'accordo tra le due aziende dell'energia.
Immagine celebrativa dell’accordo tra le due aziende dell’energia.

IL QUADRO GEOPOLITICO – Seppur in misura inferiore, l’accordo è importante anche per la Cina, che sta cercando di diminuire il consumo del carbone che è alla base del suo drammatico inquinamento atmosferico, e per questo è interessata ad ampliare e differenziare le importazioni di gas naturale. Ma i suoi fornitori attuali sono abbastanza affidabili: l’80 per cento del gas naturale importato dalla Cina proviene dalle repubbliche ex-sovietiche dell’Asia Centrale, Turkmenistan in testa, a cui nel 2013 si è aggiunto il contratto stipulato con il Myanmar.

Al contrario di Pechino, Mosca aveva molta più urgenza di concludere l’accordo, che serve a ridurre la dipendenza dal mercato europeo e a smorzare l’effetto delle sanzioni occidentali. Secondo Vladimir Milov, ex viceministro dell’energia russo e oggi direttore dell’istituto di politica energetica di Mosca, “Putin è pronto a diversificare le forniture di gas a qualsiasi costo perché lo considera geopoliticamente importante.”

Oltre alle motivazioni strategiche, per il Cremlino l’accordo ha soprattutto un grande valore simbolico: rappresenta la svolta asiatica di Putin, serve a mostrare che Russia e Cina sono pronti a cooperare tra di loro e che Mosca ha degli alleati a cui può fare riferimento quando è osteggiata dall’occidente. Ad esempio, prestiti cinesi potrebbero colmare il vuoto lasciato dai mancati investimenti occidentali.

AMICIZIA DI CIRCOSTANZA, RIVALITA’ INNATA – Il riavvicinamento tra Russia e Cina era già iniziato durante l’amministrazione Bush, ed è proseguito negli anni successivi quando le due potenze hanno assunto posizioni simili in politica estera, su questioni come le sanzioni per il regime di Bashar Assad in Siria o il nucleare iraniano. La Cina si è astenuta sulla votazione del Consiglio di Sicurezza riguardante il referendum in Crimea, e la prima visita ufficiale di Xi Jinping dopo il suo insediamento è stata proprio in Russia.

I due paesi hanno inoltre forti legami economici. La Cina è il primo partner commerciale della Russia: nel 2013, i due paesi hanno scambiato merci per 66 miliardi di euro, una cifra che entrambi contavano di raddoppiare entro il 2020, al netto dell’accordo sul gas. Tuttavia, la relazione non è simmetrica: Pechino scambia molto di più con Europa e Stati Uniti.

Arrivando a Pechino, Putin ha dichiarato alla stampa cinese che il Cremlino è “il loro amico fidato” e che la cooperazione tra i due paesi è “al più alto livello in secoli di storia,” nel tentativo di dare la maggiore eco possibile all’accordo tra i due colossi. Ma il riavvicinamento tra Mosca e Pechino ha basi fragili, e appare piuttosto dettato dalle circostanze. Nel lungo termine, è difficile che i due potenti vicini riescano a superare le loro incompatibilità di fondo.

Sia la Russia che la Cina vogliono affermarsi come potenze regionali. Il lungo confine che li separa continua ad essere fonte di diffidenza reciproca. Il lato cinese è sovraffollato, quello russo scarsamente popolato ma colmo di risorse naturali. Non a caso, le armi nucleari tattiche russe sono disposte lungo quel confine.

In questo quadro, la Cina continua ad avere una posizione di forza, dato che il suo potere globale è in netta ascesa. Al contrario, la mossa di Putin appare il colpo di coda di una potenza in declino, corrosa dalla corruzione e incapace di diversificare la sua economia rispetto alle risorse naturali.

Antonio Peciccia

 

La mappa tematica proposta dal Washington Post evidenzia la portata del progetto sino-russo.
La mappa tematica proposta dal Washington Post evidenzia la portata del progetto sino-russo.

 

Crisi in Thailandia: e ora?

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L’esercito ha destituito la premier Yingluck Shinawatra. Che cosa succederà ora?Nel Paese vige la legge marziale. I militari manterranno la promessa di indire nuove elezioni?

 IL BACKGROUND SOCIO – POLITICO – Dal Novembre dello scorso anno, la Thailandia sta vivendo una profonda crisi politica innescata dal malcontento di una parte della popolazione, sostenuta dai membri dell’opposizione del Democrat Party e dai monarchici delle “Camicie Gialle”, contro l’amministrazione del potere da parte di Yingluck Shinawatra, leader del partito populista del Puea Thai Party. Gli scontri tra gli anti-governativi ed i sostenitori del governo Shinawatra, le cosiddette “Camicie Rosse”, hanno provocato sino ad oggi 28 morti e più di un centinaio di feriti, conducendo il paese verso una progressiva paralisi istituzionale.

Dopo l’annullamento da parte della Corte costituzionale delle elezioni dello scorso Febbraio, compromesse dall’azione di boicottaggio dell’opposizione, il tentativo del Puea Thai di condurre il Paese nuovamente alle urne si é rivelato ripetutamente vano.

Il 7 Maggio 2014, poi, la premier Shinawatra é stata destituita dalla Corte dopo essere stata riconosciuta colpevole di abuso di potere, per fatti risalenti all’epoca del suo insediamento al governo, quando rimosse dalle sue funzioni l’allora Capo della sicurezza nazionale.

In attesa di nuove elezioni, il vice-premier ed ex ministro del Commercio, Niwattumrong Boonsongpaisan, è stato così nominato Primo Ministro ad interim ma l’intervento dell’esercito sulla scena politica ha cambiato completamente le regole del gioco.

UN NUOVO COLPO DI STATO – L’esercito thailandese ha sempre avuto un ruolo da protagonista nella storia politica del paese. Dal 1932, anno d’istituzione della monarchia costituzionale, la Thailandia ha infatti visto continue e profonde crisi di potere sfociare in veri e propri colpi di stato. L’ultimo, in ordine cronologico, fu quello che nel 2006 destituì e costrinse all’esilio auto-imposto l’allora primo ministro Thaskin Shinawatra, accusato di corruzione e conflitto d’interessi.

Sia gli esperti geopolitici che molti osservatori internazionali hanno così letto, nelle proteste e nei conflitti che hanno dilaniato il paese in questi ultimi mesi, l’imminenza di un nuovo golpe.

Davanti alla destituzione della premier Yingluck Shinawatra e all’impossibilità delle diverse forze politiche di accordarsi su nuove elezioni, la risposta dell’esercito non si è fatta attendere.

Il 20 Maggio scorso, il generale Prayuth Chan-Och ha firmato la legge marziale nel tentativo “di riportare la pace e l’ordine all’interno del Paese”. “Sarà tutto normale, a parte il fatto che l’esercito si occuperà di tutte le questioni sulla sicurezza nazionale”, aveva poi aggiunto ma soltanto due giorni dopo, il 22 Maggio, un nuovo intervento annunciava ufficialmente il colpo di Stato.

Sospesa la Costituzione, i principali rappresentanti politici sono stati chiamati a presentarsi davanti alla giunta militare. La maggior parte di questi, tra cui l’ex premier Yingluck Shinawatra ed il leader dell’opposizione Suthep Thaugsuban, sono stati arrestati per poi essere rilasciati qualche giorno dopo.

yingluck
Tempi duri per i sostenitori di Yingluck Shinawatra

LE REAZIONI INTERNE – Dopo la proclamazione ufficiale del golpe, le prime reazioni sono state quelle delle Camicie Rosse che hanno annunciato rappresaglie e sono scese in piazza per manifestare il proprio dissenso. I militari, tuttavia, hanno immediatamente provveduto a disperdere i manifestanti. Ogni tipo di raggruppamento che superi il numero di cinque persone ed abbia finalità politiche é stato infatti interdetto dalla recente legge marziale che punisce con multe salate, o addirittura con il carcere, i trasgressori. Nel frattempo, il re Bhumibol Adulyadej ha approvato ufficialmente la presa di potere da parte dei militari conferendo al generale Prayuth Chan-ocha, in occasione di una cerimonia nella capitale, la guida del Paese.

Il compito dell’esercito sarà quindi quello di garantire la stabilità politica della Thailandia e guidare progressivamente il Paese verso nuove elezioni. Sino ad allora, tuttavia, l’atmosfera resta tesa, come dimostrato negli scorsi giorni da alcuni cittadini thailandesi che davanti ai media internazionali non hanno esitato ad esprimere il proprio dissenso nei confronti dell’esercito.

UNA CONDANNA INTERNAZIONALE –  La maggior parte degli attori internazionali ha condannato il colpo di stato dei militari: gli Stati Uniti, attraverso il Segretario di Stato John Kerry, hanno espresso preoccupazione per eventuali “implicazioni negative” che l’intervento dell’esercito potrebbe apportare alla gestione della crisi. Allo stesso modo l’Unione Europea ed alcuni vicini asiatici, quali Australia a Giappone, hanno invitato il paese a trovare una soluzione democratica che scongiuri l’uso della violenza. A Tokyo, in particolar modo, la tensione é notevole: il Giappone é infatti il principale investitore straniero nella penisola thailandese con un capitale che, secondo il quotidiano locale The Nation, avrebbe raggiunto nel 2013 quasi 7 miliardi di dollari. Secondo le medesime fonti, dopo lo scoppio della crisi il gigante automobilistico Honda starebbe riconsiderando il progetto di aprire un’ulteriore fabbrica per il prossimo 2015. Una situazione, quella thailandese, monitorata costantemente anche dalla concorrente Toyota le cui fabbriche, come annunciato dal portavoce, per il momento sembrano andare avanti senza soffrire dell’instabilità politica del paese. L’attenzione delle principali potenze occidentali e non resta tuttavia elevata, volta soprattutto a salvaguardare gli interessi economici e strategici che molti di loro possiedono nella regione.

Benedetta Cutolo

La nuova strategia turca in Asia Centrale

Dopo aver perso centralità nella politica estera turca nella seconda metà degli anni novanta, l’Asia Centrale è tornata ad essere una priorità per Ankara, soprattutto alla luce del tentativo dell’Akp di rinsaldare quei legami economici, politici e culturali con le Repubbliche turcofone dell’area, puntando sul miglioramento delle relazioni con le due principali potenze regionali, Russia e Cina.

La Siria al voto

Martedì 3 giugno si svolgono le elezioni presidenziali in Siria. La vittoria di Bashar al-Assad è scontata, ma resta il quesito se riuscirà a vincere anche contro l’opposizione armata. In 3 sorsi un aggiornamento sulla situazione siriana.

TEMPO DI ELEZIONI –  Nel mezzo della guerra civile e sotto la minaccia di attacchi dei ribelli durante le operazioni di voto i Siriani, o almeno quelli che vivono nelle aree controllate dal regime, si apprestano ad eleggere il Presidente. I candidati sono 3: il primo è Bashar al-Assad, al potere già da 14 anni dopo essere succeduto al padre Hafez; gli altri due candidati, graditi al governo di Damasco, sono Hassan al-Nouri, uomo d’affari educato all’Università del Wisconsin (ma non americanizzato, come lui stesso dice), e Maher Hajjar, legislatore siriano. La vittoria di Assad è data per scontata, ma dato ciò risulta interessante capire perché il regime abbia voluto organizzare delle elezioni il cui risultato sarà riconosciuto solo da Russia, Cina ed Iran.

IL MOTIVO DELLE ELEZIONI – La motivazione ufficiale è che lo stabilisce la legge. Ma ciò che sta alla base è la volontà di ottenere un’incoronazione per l’attuale Presidente che mandi un messaggio a tutti i suoi oppositori: la sua capacità di resistere alla rivoluzione iniziata 3 anni fa e l’aumento della sicurezza nei mezzi militari e politici a propria disposizione. Con questo allo stesso tempo fornirebbe ai suoi alleati nella comunità internazionale uno strumento diplomatico. Le critiche alla decisione di far svolgere le elezioni sono state numerose e lo Segretario Generale dell’ONU, Ban Ki-moon, ha chiesto di non tenerle.

Mappa SiriaLA SITUAZIONE SUL CAMPO – Recentemente ci sono stati importanti sviluppi sul piano militare e sono questi ultimi che giustificano l’aumentata sicurezza di Damasco. Il 9 maggio, per mezzo di un accordo con i ribelli, il regime è rientrato in possesso di Homs e di aree limitrofe, permettendo così di consolidare le linee di comunicazione tra l’area alawita del Paese (quella costiera) e la capitale. Oltre a questo successo le forze governative hanno messo in sicurezza la gran parte dell’area confinante con il Libano, evitando così che da lì potessero provenire minacce alle basi di Hezbollah, la milizia sciita libanese schierata al fianco di AssadDunque il governo di Damasco ha rafforzato le sue posizioni e controlla le zone più popolose dello Stato; non bisogna tralasciare però che i ribelli sono ancora forti nelle aree settentrionali della Siria e in quelle meridionali. Intanto gli USA sono più vicini all’addestramento di forze dell’Esercito Libero Siriano al fine di prepararle al confronto con le forze governative e con quelle islamiste. Sul fronte diplomatico si registra invece il fallimento definitivo dei colloqui di Ginevra II e la conseguente rinuncia di Brahimi all’incarico di mediatore di Nazioni Unite e Lega Araba. Tenendo in considerazione questi sviluppi nella diplomazia internazionale ed il rafforzamento del regime di Assad, non ci si può aspettare una vicina conclusione della guerra civile siriana.

Matteo Zerini

Ancora sangue in Nigeria

In 3 Sorsi – Gli attacchi del gruppo Boko Haram continuano a insanguinare la Nigeria. Dopo l’attentato nella capitale Abuja e il rapimento delle 300 studentesse liceali, i miliziani hanno colpito uno stadio di calcio. In 3 Sorsi analizziamo l’attentato, la situazione nel Paese e le conseguenze geopolitiche delle azioni del Boko Haram.

I giorni dell’Arcobaleno del Cile

No! I giorni dell’Arcobaleno, secondo film della rassega cinematografica del Caffè a Seregno (MB), premiato a Cannes nel 2012, in nomination agli Oscar 2013, racconta del referendum cileno del 1989 dove si dovrebbe conscacrare la prosecuzione della dittatura di Pinochet, che non ha però fatto i conti con Renè e la sua allegria…

CILE VS ARGENTINA – Si può mettere l’allegria come tema centrale di un programma politico? Questa è la bellissima provocazione che ci pone questo film. Dopo essere entrati nel Garage Olimpo, questo secondo film che abbiamo presentato a Seregno (MB) su una dittatura sudamericana, in proporzione è una ventata d’aria fresca. Un film più leggero e godibile, una modalità molto più sfumata di presentare il regime, che nello stesso tempo riflette la differenza tra la situazione argentina tra il 1976 e il 1982 e i diciott’anni di Pinochet (1973-1990). La dittatura cilena, infatti, si è caratterizzata per essere meno brutale e drammatica di quella argentina (i “numeri” della dittatura parlano di 3.200 morti ufficiali, circa 30.000 morti ufficiosi, altrettanti carcerati e 200mila esiliati: cifre analoghe a quelle argentina, verificatesi però in 7 anni contro 18). Le ferite lasciate nella popolazione sono un po’ meno profonde, e la dittatura si è conclusa in maniera naturale, con Pinochet che ha concordato la sua uscita di scena, con l’accordo di non essere perseguito (rimarrà fino al 1998 a capo delle Forze armate, per poi divenire senatore a vita; arrestato a Londra ma mai condannato per motivi di salute nè mai processato in Cile, morirà infine nel 2006).

IL PARADOSSO DELLA RIMOZIONE – Il Cile post-Pinochet ha avuto dunque una transizione tendenzialmente pacifica, e senza i rigurgiti populistici che si sono verificati in Argentina, e la transizione è stata più pacifica e naturale. Il costo di un simile passaggio è però l’assenza di una netta presa di posizione nei confronti del regime: nessuna caccia ai colpevoli (solo 70 persone processate e 20 condannate), una Costituzione mai modificata dall’epoca della dittatura, un centrodestra nel quale ancora oggi molti esponenti erano certamente all’epoca simpatizzanti di Pinochet. La democrazia insomma si è ristabilita e consolidata a prezzo di risparmiare il giudizio su quanto accaduto. Il tema è quello della rimozione, che ritorna anche nei periodi post-ditattura vissuti in altri Paesi (in parte anche in Argentina): come è possibile rimuovere e fingere di ignorare ciò che per sua natura è non removibile?

Augusto Pinochet
Augusto Pinochet

L’EREDITA’ DELLA DISUGUAGLIANZA – La politica e l’economia del Cile odierno sono ancora oggi figlie del periodo della dittatura, che se da una parte ha gettato le basi per una economia stabile e duratura, dall’altra ha portato il Cile ad essere uno dei Paesi al mondo con le maggiori diseguaglianze sociali e con le maggiori differenze nella redistribuzione del reddito: secondo l’Ocse, il Cile è attualmente tra i 34 Paesi più ricchi al mondo, ma il 50% dei cittadini ha uno stipendio inferiore ai 400 dollari al mese, e il 14% vive sotto la soglia di povertà. Tutto questo anche a causa di uno Stato sociale estremamente ridotto, con pensioni, sanità e soprattutto educazione delegate ad enti privati. Soprattutto il tema dell’istruzione ancora oggi provoca grandi tensioni sociali e proteste, dato che i costi dell’educazione in Cile sono tra i più alti al mondo.

I GIORNI DELL’ARCOBALENO – Il film è ambientato nel 1989, quando Pinochet è costretto dalle pressioni internazionali a indire un referendum che decida la prosecuzione o meno della sua dittatura. Il fronte del no sembra pronto a una campagna elettorale quasi di testimonianza, convinto dell’impossibilità del successo. Il giovane pubblicitario Renè, protagonista del film, imposterà però una campagna assolutamente geniale, che riuscirà a muovere un intero popolo, compresi noi stessi spettatori del film, che difficilmente finiranno di vedere questa storia senza canticchiare il jingle del fronte del no. Senza anticiparvi nient’altro di questa bella storia, poniamo qui sotto solo tre spunti di riflessione, che sono tre lezioni del film che ci appaiono universalmente valide, ben oltre i confini cileni:

1) La denuncia non basta. Il bello di questo film, la genialità di Renè sta nel tentativo di andare oltre la volontà di denunciare cosa non va, per andare a proporre una volontà di cambiamento. Da una pura denuncia a una nuova proposta: questa è la chiave di volta per provare a cambiare le cose.

2) Il mezzo e il messaggio. Il film ci mostra come, nell’89, si inizi a (im)porre un tema decisivo per qualsiasi campagna politica, il rapporto tra contenuto e contenitore, di cui anche in Italia in questi anni si è enormemente discusso. L’utilizzo dello strumento televisivo e delle tecniche e del linguaggio pubblicitario sembra visto da alcuni come distorsivo: dando priorità a questi, si rischia di sminuire il vero valore di quanto si vuole comunicare. C’è un momento di discussione, nel fronte del no, che sembra emblematico di tante campagne elettorali perse (anche dalle nostre parti), dove l’importante è fare testimonianza, senza pensare a come comunicare, e quindi senza reali possibilità di vittoria. Le trovate di Renè, che punterà a sconfiggere la dittatura comunicando una idea di allegria, sono solo una geniale mossa di marketing? Difficile dire che siano solo questo, se sono in grado di risvegliare i sentimenti di un popolo intero.

3) La politica interna. Uno dei paradossi di chi studia la politica internazionale è quello di scoprire che in moltissimi ambiti ciò che fa la differenza non è la politica estera, bensì la politica interna. I grandi attori internazionali, gli Usa, l’Onu e quant’altro… certo queste realtà influenzano molto (anzi: è un fatto che la maturità di certe democrazie e classi politiche in America Latina sia anche figlia del minor interesse degli Usa per questa regione) ma alla fine, sono spesso le dinamiche di politica interna che muovono i veri cambiamenti degli Stati. E quella di Renè è una lezione e un messaggio di speranza per tutti, anche per noi: i cittadini attivi, la società civile e chi fa politica, anche dal basso, non deve pensare di essere impotente, perchè davvero può avere la possibilità di migliorare le cose, portando delle vere proposte di cambiamento. Renè riesce a mettere insieme i concetti di politica e allegria, che al giorno d’oggi ci paiono quanto mai agli antipodi. Eppure, associare la politica a un concetto di “bello” è una lezione che ci fa un gran bene, e davvero per questo a Renè dobbiamo essere grati.

Alberto Rossi

Il risultato elettorale in Egitto

Il Generale al-Sisi è il vincitore delle elezioni presidenziali egiziane. Un risultato previsto ma che si colloca in un Egitto che fa fatica a trovare la propria via verso la stabilità politica e la ripresa economica. In 3 sorsi