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Se la palla passa a Karzai

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Dalla crisi post elettorale innescata da Abdullah Abdullah in Afghanistan sembra aver tratto profitto il capo dello Stato uscente, Hamid Karzai. Vediamo come.

Diario da Kabul

ARBITRO? – Accusato dal candidato in odore di sconfitta di non essere stato neutrale, il presidente afgano inizialmente non ha reagito, se si esclude una nota di palazzo che ne riaffermava il ruolo super partes. Poi ha avuto parole morbide verso entrambi i rivali, definiti personalità che meritano rispetto. Infine domenica scorsa, in un incontro col Consiglio degli Ulema, ha derubricato lo scontro tra candidati a pura dialettica elettorale.

Nessuna scomunica insomma e un comportamento da vero arbitro della nazione. Quanto alle dimissioni di Amarkhil, Karzai le ha accettate di buon grado definendole un «atto responsabile» in grado di «normalizzare» la situazione.

DELEGAZIONE SPECIALE – Dalle parole poi è passato ai fatti e lunedì ha messo insieme una “delegazione speciale” incaricata di trovare ogni possibile via d’uscita.La notizia l’ha data il Procuratore generale Ishaq Aloko che si è augurato di non dover ricevere nessuna comunicazione che attivi i suoi uffici e che anzi proprio la delegazione, sulla cui formazione ancora non si sa molto, potrebbe essere la chiave per evitare di tirare in ballo anche la magistratura.

Con l’ultima mossa Karzai ha così riaffermato nei fatti la sua imparzialità, accolto con saggezza alcune delle richieste di Abdullah e si è ritagliato addosso l’abito del salvatore della patria neutrale, proprio in un momento in cui gode di un consenso minimo. Karzai peraltro sa che nessuno, oltre ad Abdullah, vuole fermare il processo elettorale a cominciare dagli Stati uniti per finire con l’Onu passando per la Ue. Il suo fallimento sarebbe infatti anche il loro.

I SOLITI SOSPETTI – Non di meno c’è chi sospetta – pochi – che tutto quanto accada sia addirittura una strategia di Karzai per rimanere in sella, a capo di un governo ad interim che indìca nuove elezioni se queste dovessero rivelarsi illegittime. E che lo siano sono in molti invece a pensarlo: «La cattiva notizia – dice un intellettuale locale – è che nessuno dei due candidati è a posto e se non si torna al voto la comunità internazionale e gli afgani avranno a che fare con un presidente eletto con la frode attraverso una commissione che la frode l’ha addirittura organizzata».

Da Kabul, Emanuele Giordana

Membro del Comitato Scientifico del Caffè Geopolitico

Argentina: lo spettro di un nuovo default?

Dopo l’accordo raggiunto con il club di Parigi, arriva un duro colpo per l’Argentina: La Corte Suprema degli Stati Uniti ha emanato la sentenza che vieta al Paese di effettuare qualunque pagamento sul debito ristrutturato
se non rimborsa anche gli hedge funds (detti anche “fondos buitre”o “fondi avvoltoi”).

ARGENTINA: LA CRISI DEL 2001 E I TANGO BOND – La crisi economica del 2001 ha lasciato profonde incertezze sull’affidabilità dell’Argentina nella comunità finanziaria internazionale.

Néstor Kirchner e Cristina Fernández de Kirchner, principali protagonisti della politica  argentina dal 2003 ad oggi, si sono trovati a gestire un Paese messo in ginocchio da una crisi devastante che ha travolto tutti i settori. Per fronteggiare la situazione argentina, i Kirchner offrirono ai creditori il rimborso negoziato di una quota ridotta dei loro investimenti, senza dover passare attraverso il canale del Fondo Monetario Internazionale (FMI).

Molti creditori, che non hanno accettato la soluzione offerta dal governo argentino, reclamano ancora il compenso dovuto. Inoltre la contrapposizione rispetto al FMI è stata vista come strumento demagogico del governo per scopi interni. 

Non c'è pace in questo periodo per Cristina Kirchner
Non c’è pace in questo periodo per Cristina Kirchner

RITORNANO I FANTASMI DEL 2001 – Dopo la ristrutturazione del debito pubblico (accordo con il quale le condizioni originarie di un prestito vengono modificate per alleggerire l’onere del debitore) effettuata tra il 2005 e il 2010, l’Argentina era arrivata a un accordo con la maggior parte dei suoi creditori: offrendo nuovi titoli scontati in cambio delle vecchie obbligazioni. Gli investitori hanno accettato lo scambio del 93% del debito, mentre i “fondi avvoltoio”, avendo rifiutato la proposta, hanno chiesto la restituzione del debito iniziale oltre agli interessi accumulati.

Questi fondi, tra cui Aurelius Capital ed Elliott Management, per ottenere le somme richieste, si sono rivolti a una Corte d’Appello e a un tribunale federale degli Stati Uniti. Entrambi hanno stabilito che l’Argentina non potrà effettuare alcun pagamento sul debito ristrutturato se prima non avrà rimborsato i creditori holdout.

In seguito a tale sentenza, il governo di Buenos Aires si è rivolto alla Corte Suprema degli Stati Uniti sollecitando la revisione delle due sentenze. Ma lunedì 16 giugno si è avverata la peggiore delle ipotesi per l’esecutivo della presidente Cristina Fernández: la Corte ha infatti respinto la sua richiesta.

Questa sentenza rappresenta un grave problema per l’Argentina in quanto la clausola del pari passu, secondo cui gli obbligazionisti vanno tutti trattati allo stesso modo, impedisce di pagare le prossime cedole con scadenza a fine giugno (tranne nel caso in cui si paghi quello che viene reclamato dai fondi).

PARADOSSALE RISCHIO DI UN NUOVO DEFAULT? – Si preannuncia dunque un rischio per l’Argentina di un nuovo default.

Questa imposizione inoltre potrebbe generare gravi perdite per gli obbligazionisti, i mercati del credito e per i cittadini argentini. Il mancato pagamento sarebbe ancora peggio; un default potrebbe anche innescare una crisi finanziaria rinnovata, che compromette direttamente la situazione economica di milioni di cittadini argentini.

Inoltre questa sentenza diventa un precedente per quanto riguarda i problemi di debito di altri paesi dal momento che non esiste “un sistema di fallimento sovrano”.

La Casa Rosada afferma che se il prossimo 30 giugno pagherà il saldo del debito ristrutturato, dovrà pagare contemporaneamente quello reclamato dai fondi avvoltoi (come stabilito dalla sentenza). Questo significherebbe, secondo quanto anticipato dal ministro dell’Economia Axel Kicillof, un esborso di 15 miliardi di dollari, ovvero il 50% delle riserve monetarie ufficiali del Paese, qualora gli altri creditori decidessero di non accettare la ristrutturazione del debito. Per l’Argentina significherebbe default tecnico, dovuto non alla mancanza di liquidità ma all’impossibilità di pagare tutti. Un default su un debito già ristrutturato sarebbe paradossale.

La strategia degli avvocati che rappresentano il governo argentino era di arrivare a gennaio 2015, quando scadrà la clausola Rights Upon Future Offers (RUFO).

La clausola RUFO si attiva se l’Argentina fa un’offerta “volontariamente” migliore per i creditori che sono stati lasciati fuori prima del 31 dicembre 2014. Questo ha dato sollievo al governo per poter negoziare con i fondi un accordo migliore ed evitare l’ondata di azioni legali contro il paese che farebbe aumentare il debito di oltre 120 miliardi di dollari, secondo il ministro Axel Kicillof.

Dopo essere stato consultato puntualmente sulle conseguenze di questa sentenza, il Capo di Gabinetto Jorge Capitanich ha affermato che, in vista della scadenza del 30 giugno, tutte le strategie possibili per difendere l’interesse nazionale saranno tutelate’’

Eliana Maria Esposito

 

La vittoria (di Pirro) di Abdullah

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Le dimissioni di Zia ul Haq Amarkhil, capo della segreteria e numero due della Commissione elettorale indipendente afgana (Iec), segnano per il candidato in odore di sconfitta Abdullah Abdullah la vittoria più significativa dopo aver già incassato la prima, con il via libera del presidente Hamid Karzai a un intervento delle Nazioni Unite che non potranno, per altro, che seguire le future evoluzioni del processo elettorale, potendo far poco su quanto accaduto in passato, prima e dopo il giorno del voto del 14 giugno.

Diario da Kabul

POSSIBILE SOLUZIONE – Col sacrificio di Amarkhil, Abdullah dunque vince un round ma la battaglia finale è già persa. Nessuno vuole invalidare il processo elettorale: non lo vuole Ashraf Ghani e nemmeno l’Onu. Ancor meno gli Stati Uniti, l’Europa e tutti i Paesi che hanno partecipato ad Isaf e per i quali delle buone elezioni sono il miglior viatico per chiudere la partita afgana. Infine non lo vogliono gli afgani, piuttosto stufi di questi tira e molla che paventano l’ennesimo scenario armato.

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Zia ul Haq Amarkhil

Abdullah non può non saperlo, dunque? L’ipotesi meno peregrina (c’è anche chi avanza la teoria – debole – che Karzai sia dietro a tutto questo) è che il candidato nordista voglia perdere almeno con onore (e cioè non con uno scarto di oltre un milione di voti) e che ora stia alzando la posta, trattando per sé e per i suoi in vista del nuovo esecutivo. Obtorto collo dovrà accettare il risultato, per ora rinviato forse proprio perché ci sia il tempo di un accordo sul futuro.

Soldi dicono alcuni, potere sostengono altri. Influenza e rispetto, forse, così che il piccolo medico dell’eroe nazionale Ahmad Shah Massud, di cui era il portaborse sanitario, possa lui pure entrare nel pantheon dei Grandi.

PERCORSO ACCIDENTATO – La sfida però non finirà oggi e neppure domani e forse ci riserverà altre sorprese. La più temibile, a nostro modestissimo avviso, potrebbe venire dalle province. Cosa dirà Abdullah ai commander del Nord se non potrà mantenere le promesse pre-elettorali?

E questi si accontenteranno o coveranno sentimenti di vendetta da trasformare in omicidi mirati, ritorsioni, minacce verso chi si sarà guadagnato il posto al sole? La capacità di tenere assieme il Paese, la capacità di saldare equilibri ed evitare spinte centrifughe o, peggio secessioniste, è la vera nuova sfida del futuro presidente. Una sfida più infida di quella rappresentata dalla guerra in corso. Che anche oggi ha chiesto e ottenuto il suo rituale sacrificio di vite umane qui e là per una terra che della guerra non ne può davvero più.

Da Kabul, Emanuele Giordana

Membro del Comitato Scientifico del Caffè Geopolitico

Una tregua all’Ucraina?

Ormai senza più troppa attenzione dei riflettori, la crisi nell’est dell’Ucraina continua. Un’importante novità è stata però annunciata da Poroshenko il 20 giugno. In 3 sorsi, i nuovi sviluppi della crisi ucraina

TREGUA UNILATERALE – Venerdì 20 giugno, giorno della prima visita di Poroshenko nel Donbas, Ucraina orientale, il presidente ucraino ha annunciato una tregua con i ribelli, che ancora controllano diverse aree nella parte orientale del Paese. La tregua, della durata di una settimana, è stata annunciata unitamente all’invito verso gli insorti a deporre le armi, con la garanzia che coloro che non hanno commesso gravi crimini godranno dell’amnistia. Questa azione del governo di Kiev fa parte di un piano in 15 punti (riportato nel chicco in più) per la pacificazione del Paese. Ma quanto affermato in precedenza dalle autorità ucraine induce a pensare che la situazione sul campo possa essersi sviluppata decisamente in favore del governo centrale. Poroshenko aveva detto che non ci sarebbe stato alcun cessate-il-fuoco, se prima il confine tra Russia ed Ucraina non fosse tornato pienamente nelle mani del governo; se ora un cessate-il-fuoco è stato proclamato, significa che Kiev è relativamente certa che la settimana di pausa nei combattimenti non tornerà a favore dei ribelli (vale a dire che non dovrebbero arrivare armi dalla Russia attraverso il confine). Ma la tregua annunciata dal governo non è stata concordata con gli insorti e questi ultimi hanno affermato che non si sentono vincolati alla proclamazione unilaterale.

GLI SCONTRI NELL’EST – L’annuncio del cessate-il-fuoco è avvenuto soltanto un giorno dopo la maggiore battaglia tra forze del governo centrale e milizie locali finora combattuta. Nei pressi di Krasny Liman, località nell’oblast di Donetsk, le forze indipendentiste sono state accerchiate dalla fanteria ucraina, affiancata da veicoli corazzati. Un portavoce dell’esercito di Kiev ha affermato che nella zona si ritiene che siano coinvolti negli scontri circa 4.000 “terroristi”, provvisti anch’essi di mezzi corazzati, e che l’ultimatum a deporre le armi loro rivolto è stato rigettato, con la conseguenza che i militari avrebbero proceduto a stringere l’accerchiamento. Igor Strelkov, comandante dei ribelli citato da Reuters, ha affermato che è stato respinto il primo attacco e che è stato distrutto anche un carro armato, ma non ha escluso che  le forze regolari riusciranno a porre termine alla resistenza nell’area. Gubarev, governatore della Repubblica Popolare di Donetsk, intervistato da RIA Novosti ha affermato ancora una volta che gli indipendentisti non si arrenderanno e che la tregua unilaterale continuerà a non essere rispettata.

Soldati della 95a Brigata Aviotrasportata ucraina; Wikimedia Commons
Soldati della 95a Brigata Aviotrasportata ucraina; Wikimedia Commons

LA QUESTIONE GAS – Domenica 16 giugno Gazprom ha smesso di fornire gas all’Ucraina, annunciando che d’ora in avanti avrebbe rifornito l’Ucraina solo previo pagamento. Alla base di questa decisione è il mancato pagamento da parte ucraina del proprio debito verso l’azienda russa, ora ammontante a 4,46 miliardi di dollari. Da quel giorno due notizie hanno attirato l’attenzione in merito alla questione del gas. La prima è lo scoppio il 17 giugno di un gasdotto nei pressi di Poltava, che porta il gas dalla Siberia verso la Slovacchia. Le autorità centrali hanno immediatamente considerato l’evento come un attacco operato da elementi filo-russi, ma in seguito si è ritenuto che l’esplosione è avvenuta in seguito ad una depressurizzazione del gas nella conduttura. La seconda è invece quella di sospetti di appropriazione da parte ucraina di parte del gas diretto verso l’Europa occidentale. Lunedì 23 giugno sia Gazprom che il Ministero dell’Energia russo hanno tuttavia negato attraverso propri portavoce che ciò sia avvenuto.

Matteo Zerini

 

Bomba Abdullah, intercettazioni scomode in Afghanistan

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Non c’è niente di peggio di un’intercettazione telefonica per mettere in dubbio l’onestà intellettuale di un individuo. E’ appena successo in Afghanistan.E quelle rivelate a Kabul dal candidato Abdullah Abdullah incastrano il segretario della Commissione elettorale (Iec).

Diario da Kabul

22 Giugno – BOMBA ABDULLAH – Scoppia una nuova bomba sul processo elettorale in Afghanistan. Il segretario della Commissione Zia ul Haq Amarkhil, di cui Abdullah chiede la testa da giorni, avrebbe orchestrato una truffa su scala industriale per favorire lo sfidante Ashraf Ghani. (Leggi tutta la storia su Lettera22).

Nelle telefonate intercettate si parla di ovini ma il linguaggio in codice è fin troppo evidente. Ovviamente ci si chiede come Abdullah le abbia ottenute e da chi. Ma sono domande che passano in secondo piano e rilanciano la bufera sul processo elettorale mentre tutti i giorni le strade si riempiono di dimostranti, tende e sit-in in favore di Abdullah (non grandi ma sufficienti a farsi notare.

La Commissione elettorale intanto ha fatto sapere che i risultati elettorali del secondo turno subiranno un rinvio  ma ha reiterato che la partecipazione al voto del 14 giugno è stata di oltre sette milioni di afgani.

Hamid Karzai

21 Giugno – LA CRISI AFGANA E IL RITORNO DI KARZAI – L’avventura di Abdullah Abdullah – un “dramma afgano”, come l’ha definita un diplomatico occidentale – sembra per ora aver prodotto, al di là di qualche manifestazione di protesta nella capitale dai numeri poco consistenti, un solo effetto: il ritorno in scena a tutti gli effetti di Hamid Karzai.

Accusato dal candidato in odore di sconfitta di non essere stato neutrale, il presidente afgano inizialmente non ha reagito, se si esclude una nota di palazzo che ne riaffermava l’imparzialità.

Poi, anziché attaccare Abdullah per le accuse e diffidarlo per la sua sconfessione del processo elettorale, ha detto di ritenere lui e Ashraf Ghani due personalità che meritano ogni rispetto.

E’ andato più in là: ha accolto la proposta di Abdullah di tirare in mezzo l’Onu come arbitro super partes. E le Nazioni Unite  rispondono che si, la cosa si può valutare. Così facendo, l’astuto capo di Stato uscente ha riaffermato nei fatti la sua imparzialità, ha accolto con saggezza almeno una delle richieste di Abdullah senza criticarne la scelta di fondo ma, soprattutto, ha disinnescato la crisi aperta dal candidato valorizzando, con questo modo di fare, un ruolo super partes e di pater patriae che ne ingrandisce una statura fortemente debilitata sino a ieri in termini di consenso. Che gli apre la strada a un’uscita di scena che è l’anticipo del suo ritorno sulla scena politica afgana.

Ashraf Ghani
Ashraf Ghani

20 Giugno – COME LA PENSA ASHRAF GHANI – Alla vigilia della crisi, è la tarda mattinata di ieri, Ashraf Ghani fa circolare la sua versione dei fatti. Già la sera prima aveva twittato un paio di messaggi alla volta del suo rivale: toni pacati ma fermi. E, con un tam tam di sottofondo, l’ex ministro dalle buone letture, il tecnocrate che piace ai laici e sembra aver convinto una larga parte della gioventù afgana, ribadisce che l’unica linea da seguire è, sul piano legale, la Costituzione e su quello etico la trasparenze.

Ci cono contestazioni? Bene, la Commissione per i reclami è lì per questo. I commissari elettorali han dato troppo presto e con leggerezza i dati sull’affluenza? Ci sarà tempo perché arrivino i dati ufficiali, un lavoro per esperti non per chi vuole fare illazioni.

Il suo staff ha i dati che gli osservatori del candidato Ghani hanno raccolto nei seggi, ma il presidente in pectore – cui le prime proiezioni, gli exit pool, le indiscrezioni e le relazioni dei suoi nei vari seggi danno vincitore di diverse lunghezze – li tiene per adesso per sé. Gli unici dati accettabili, ribadiscono i “ghaniani”, sono quelli che il 2 e il 22 luglio la Commissione elettorale elargirà come ufficiali.

Regole insomma e non supposizioni. Criteri assodati e sottoscritti da ambi i candidati, non illazioni o costruzioni su elementi non ufficiali. E se poi è solo una mossa per negoziare qualche posto al sole nel futuro governo, Ghani fa sapere che non è disponibile per  nessuna trattativa segreta.  Quanto a Karzai, Ghani – che pure ha avuto col presidente uscente più di uno screzio – ne rispetta l’imparzialità senza tirarlo (diremmo noi) per la giacchetta.

Ma basteranno i toni rassicuranti e urbani di questo personaggio sulla cui ascesa nessuno avrebbe scommesso? Basterà richiamarsi alla Costituzione, alle regole o alle garanzie che la comunità internazionale richiede per evitare il patatrac? E’ presto per dirlo. Mentre sulla capitale scende la sera, Hakim fa spallucce davanti alle nostre preoccupazioni: «La situazione politica è grave? Uff, qui abbiamo visto ben di peggio». Purché il kalashnikov continui a rimanere con la sicura.

Intanto i talebani vanno avanti: un gruppo di kamikaze  ha  incendiato almeno 37 veicoli della Nato al porto doganale di  Torkham, alla frontiera col Pakistan (Passo Khyber). Crisi o non crisi la guerra continua.

Da Kabul, Emanuele Giordana

Membro del Comitato Scientifico del Caffè Geopolitico

Iraq e ISIS: quale evoluzione?

I recenti eventi in Iraq con l’emergere della minaccia dell’ISIS stanno riportando il Paese al centro dell’attenzione. Quali le cause e cosa ci si può attendere? Lo vediamo in 10 punti.

1-I Sunniti in Iraq – L’attuale situazione in Iraq è figlia non solo dell’instabilità nella vicina Siria, ma anche e soprattutto della mala gestione della complessità settaria in Iraq stesso, Paese da sempre diviso in tre aree: approssimativamente Curdi al nord, Sciiti al sud, Sunniti al centro nell’area più povera. Con la caduta di Saddam Hussein, che aveva posto i Sunniti in cima alla gerarchia dello stato, erano stati poi questi ultimi a soffrire l’esclusione. Vivendo nell’area più povera e priva di risorse naturali del paese, da soli non avevano una chance di ricostruzione e sviluppo senza l’aiuto del resto del paese.

2-Gli errori USA –  Colpevoli della mala gestione iniziale gli USA, che avevano sciolto e mandato a casa gran parte dell’esercito iracheno, in particolare le componenti sunnite, senza fornire loro un’alternativa di impiego civile. Come successe all’Italia unita dopo il 1861, sciogliere un esercito (nel nostro caso fu quello delle Due Sicilie) in questo modo significa creare le premesse per una forte resistenza armata da parte di chi, senza altra prospettiva, trova la lotta armata come unica via d’uscita. E così fu.

3-La chiave giusta – Lo aveva capito Petraeus che questa era la chiave per la pacificazione del paese: dopo anni di aspra lotta il generale americano cambiò la rotta della strategia USA e riuscì a ridurre quasi del tutto il terrorismo di Al-Qaeda in Iraq tramite i Sahwa (“consigli del risveglio”), ovvero milizie sunnite che, disgustate dalla violenza dei terroristi anche verso la popolazione, avevano accettato di lottare al fianco degli americani, chiedendo in cambio una maggiore considerazione politica e l’inclusione nelle forze armate regolari di gran parte delle milizie stesse. Nel 2011, il paese poteva considerarsi quasi pacificato.

4-Gli errori di al-Maliki – Non lo aveva capito, o forse preferì ignorarlo per motivazioni politiche, il premier Nuri al-Maliki, sciita, che con l’uscita di gran parte delle forze americane nel 2011 ha implementato una politica settaria volta nuovamente all’esclusione dei sunniti dal potere e da tutti i posti chiave, estromettendo le figure politiche ad essi legate e rimangiandosi tutte le promesse di Petraeus. Esclusi da tutto, la rivolta armata rimaneva per i sunniti l’unico, logico esito. Nasce così l’insurrezione sunnita nel paese che è attiva oggi, della quale l’ISIS non è l’unica espressione, ma sicuramente quella più eclatante, estrema e, come visto recentemente, “di successo”, oltre ad essere l’unica “esportata” al di fuori del paese, in Siria. Del resto la cosa non deve stupire: nel mondo sono proprio le aree a difficile condizione socio-economica, dimenticate dalle istituzioni, a essere le più adatte per la nascita e il proliferare di movimenti estremisti.

Mappa etnico-settaria dell'Iraq
Mappa etnico-settaria dell’Iraq

5-L’ISIS – L’ISIS, come tanti altri casi simili in altre parti del mondo (ad esempio in Mali), è composto principalmente da guerriglieri altamente motivati armati principalmente alla leggera con pochi veicoli da combattimento degni di questo nome, anche se non mancano apparecchiature e armi più sofisticate ottenute dalla conquista di Mosul e di altre basi dell’esercito iracheno. La sua forza attuale è però proprio il suo entusiasmo e recente successo, che attirerà tra l’altro probabili donatori di fondi tra coloro (principalmente emiri e ricchi affaristi del Golfo Persico) che hanno sempre aiutato le formazioni estremiste islamiche nei loro momenti di maggior fama.

6-Entusiasmo e fragilità – E’ però un equilibrio altrettanto fragile, che generalmente funziona solo contro avversari deboli e mal motivati. L’ISIS ha già incontrato difficoltà in Siria, spesso sconfitto da Jabhat al-Nusra, l’altro movimento estremista, e dai Curdi siriani, e comunque incapace di imporsi globalmente nel paese davanti a resistenze organizzate. I suoi buoni risultati lì sono dovuti anche alla scelta politica di Bashar al-Assad di ignorare l’ISIS per favorirlo contro le altre formazioni ribelli e screditare quindi l’opposizione. In generale, è plausibile che il successo dell’ISIS in Iraq continui solo fino a che non venga loro rivolta una risposta militare decisa – allora i loro limiti strutturali verranno a galla e le prime serie sconfitte minerebbero proprio quell’entusiasmo e quell’attrattiva che il movimento ha ora.

7-Il fattore Kurdistan – Da dove verrebbero questa resistenza e questa reazione? Innanzitutto dal nord: gli stessi Curdi iracheni, ben organizzati, armati e addestrati, sono un ostacolo insormontabile che fa preferire all’ISIS il rivolgersi verso sud. Hanno ripreso Kirkuk, importante centro petrolifero, e potrebbero decidere di recuperare la stessa Mosul. La città, per i Curdi, ha una duplice importanza: è una città dove i curdi sono percentuale rilevante della popolazione; nei suoi dintorni passa uno dei più importanti oleodotti per l’esportazione di petrolio proprio da Kirkuk verso la Turchia. I Curdi hanno dunque interesse a intervenire, almeno limitatamente, anche di propria spontanea volontà. Allo stesso modo; Governo iracheno e USA potrebbero chiedere il loro intervento. Certo è che il “prezzo” istituzionale per, eventualmente, intervenire – o per restituire ciò che nel frattempo hanno liberato e che non vorranno abbandonare tanto presto – potrebbe essere molto alto e includere maggiori autonomie (ma non l’indipendenza, che comunque non è più una priorità).

8-Iraq e Iran – L’asse anti-ISIS dunque vedrà in prima linea il governo iracheno, che dovrà impegnare forze considerevoli e assicurarsi che siano le truppe migliori ad operare, per evitare capitolazioni impreviste o fughe pericolose di unità poco motivate. L’Iran, interessato alla stabilità del Paese sia per supporto al governo sciita (che garantisce a Tehran una certa influenza) sia per evitare che diventi un nuovo avamposto di forze sunnite legate all’Arabia Saudita, invierà consulenti, addestratori e, forse, anche forze paramilitari (Basiji o perfino Pasdaran, probabilmente sotto mentite spoglie) che evitino di mostrare un intervento diretto in Iraq, ma aiutino l’Iraq nella lotta. Con più alto morale e capacità di combattimento, potrebbero rivelarsi decisive sul campo. Le milizie paramilitari sciite locali presenti in Iraq (come quella che, anni fa, mostrava i muscoli nel paese sotto la guida del chierico sciita Moqtada al-Sadr) saranno un altro elemento di contrasto che potrebbe entrare in gioco, per quanto indichino anche una debolezza del Governo centrale nel garantire la sicurezza con sole forze convenzionali.

9-E gli USA? – Gli USA invece non hanno intenzione di usare truppe di terra in quantità dopo essersene andati solo qualche anno fa. Ma manderanno addestratori, consulenti e qualche reparto di forze speciali che, all’occorrenza, possa compiere raid mirati. Poi ci sarà, plausibilmente anche se non è stato ancora formalizzato, un aiuto aereo: i gruppi estremisti sono vulnerabili alle ricognizioni aeree e agli attacchi dal cielo che ne mettono in crisi gli spostamenti, i rifornimenti e le linee di comunicazione. Se questa combinazione di sforzi anti-ISIS avverrà, il movimento non resisterà a lungo e rimarrà limitato alla Siria e ad aree difficilmente controllabili al confine con lo stesso, ma è ancora da verificare se tutti gli attori in gioco siano convinti dello stessa necessità di sforzo e dunque, prima di ogni valutazione sarà necessario aspettare gli esiti sul campo, ancora incerti.

10-Il problema non è solo militare – Lo sforzo anti-ISIS è appoggiato da gran parte della comunità internazionale, inclusa la Cina che del petrolio iracheno ha bisogno, soprattutto in prospettiva futura, e certamente non vuole che tensione geopolitiche mettano a rischio prezzi e riserve. Ma la vera partita non è solo militare: anche sconfitto l’ISIS, serve una nuova politica che includa nuovamente i sunniti nelle istituzioni e nel governo del Paese, ascoltando le rimostranze di quei gruppi di ribelli che non sono estremisti ma che comunque si sentono costretti alla lotta. Da qui nasce la forte critica ad al-Maliki, e la richiesta USA che egli venga sostituito da qualcuno che cambi rotta. Altrimenti si sarà curato il sintomo, ma non la malattia dell’insurrezione sunnita: nuovi gruppi nasceranno, evolveranno e potranno diventare altrettanto pericolosi.

Lorenzo Nannetti

Freedom Betrayed

Le recensioni del Caffè – Questa settimana vi suggeriamo una lettura impegnativa ma molto affascinante per gli appassionati di storia degli Stati Uniti e delle relazioni internazionali.

STORIA DI UN PRESIDENTE – Il titolo completo del testo è Freedom Betrayed – Herbert Hoover’s secret history of the Second World War and its afthermaths.

L’opera è imponente, oltre 1000 pagine di memorie, analisi, tesi storiche e rivisitazioni dei principali eventi che caratterizzarono la storia degli Stati Uniti dalla depressione del 1929 al secondo dopoguerra. Il filo conduttore è la vita politica del Presidente Hoover, una figura poco popolare e talvolta bistrattata dalla storiografia ufficiale. Il libro ne riabilita la profondità e complessità di pensiero, e rivede la sua visione politica che si rivela motivata da importanti esperienze che Hoover maturò sia come uomo di affari che come figura istituzionale.

IL REVISIONISMO STORICO – Addentrarsi nel contenuto risulta affascinante per gli appassionati del genere. Dal testo traspare chiara la voglia di dare una lettura più nobile di tesi politiche ed economiche che non furono premiate dalla Storia ma la cui visione di insieme fu semplificata per essere resa comprensibile fin quasi a svilirla. In poche parole, posizioni politiche come, ad esempio, l’isolazionismo o l’anti-interventismo, che furono messe in minoranza nei decenni in considerazione, vengono presentate come risultato di valutazioni complesse dell’intero sistema-Paese e non come scelte arbitrarie. Ciò non significa automaticamente che tali posizioni fossero davvero le più adeguate al momento, ma semplicemente che Hoover avrebbe preferito che la storia degli Stati Uniti prendesse una via diversa e spiega, nel dettaglio, quale fosse la propria idea di riferimento. Insomma, un bel mattone, ma ricco di aneddoti e particolari di pregio.

DIFFICOLTA’ DI LETTURA – Ancora una volta è doveroso specificare come una lettura di questo genere non possa considerarsi del tutto amena. Il registro è alto e la sintassi decisamente complessa. Per i non madrelingua occorre quindi una buona dose di pazienza per comprendere il testo ed in alcuni casi anche un buon dizionario. Per contro leggere un inglese colto e forbito aggiunge fascino all’opera che, da questo punto di vista, risente dell’età del materiale di base.

Marco Giulio Barone

Adnan Januzaj: un intreccio internazionale

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La stellina del Manchester United dopo mesi di indecisione per quale nazionale giocare ha deciso di vestire la maglia dei Diavoli rossi del Belgio. E’ diventato un caso internazionale tra Inghilterra, Belgio, Albania, Kosovo, Turchia, Croazia e Serbia. Delusa l’Albania che ci aveva fatto più di un pensiero. Speranze solo per il Kosovo in futuro.

INTRECCIO INTERNAZIONALE – Adnan Januzaj è la nuova promessa calcistica del Manchester United e da poco più di un mese ha deciso di giocare con la nazionale del Belgio. La vicenda ha rappresentato un piccolo intreccio internazionale che racchiude la storia complicata di tutta una regione, i Balcani, poichè Januzaj ha avuto la possibilità di scegliere di giocare per sette nazionali.

Nato da genitori kosovari emigrati a Bruxelles, Januzaj aveva la possibilità di giocare per il Belgio, essendovi nato. L’Albania sperava di fare leva sul fatto che i genitori sono entrambi kosovari, infatti altri calciatori kosovari nati all’estero o in Kosovo giocano per la nazionale albanese, considerandola la madre-patria di tutti gli albanesi. Scartate fin da subito Serbia, Croazia e Turchia, altre possibili opzioni, e anche l’Inghilterra, per la quale avrebbe dovuto aspettare cinque anni per ottenere residenza e passaporto.

La Serbia non è stata nemmeno presa in considerazione. I genitori di Janzuaj si sono conosciuti e sposati a Bruxelles, dove poi è nato il ragazzo. Il padre, Abedin, nato a Istog (attuale Kosovo), scappò dalla Jugoslavia per non arruolarsi nell’esercito jugoslavo ed Eemigrò in Belgio dove trovò lavoro. Un zio e un fratello si sono arruolati nell’UCK e hanno combattuto per la liberazione del Kosovo. La madre di Adnan, nasce da una famiglia benestante dell’Istog ma, dopo la seconda guerra mondiale, proprio per il fatto di essere ricchi proprietari terreni non passarono inosservati dal regime socialista iugoslavo. La famiglia fu coinvolta infatti nel piano per la soppressione del nazionalismo albanese e obbligata a lasciare il Kosovo, destinazione Turchia prima e Belgio dopo.

IDOLO IN ALBANIA – Januzaj è seguito da quasi due anni dalla nazionale albanese, con il C.T. italiano De Biasi schierato in prima persona a convincere lui e suo padre ad optare in questa direzione. L’Albania voleva fare di lui il simbolo del futuro della nazionale albanese, dando l’esempio per altri calciatori con radici albanesi ma che rappresentano altre nazionali. Il padre-procuratore, Abedin Januzaj, ha da sempre ricoperto un ruolo determinante nelle scelte del figlio: ha rifiutato gli inviti delle varie “under” dal Belgio, ha criticato la Federazione albanese per mancanza di professionalità nel contattare il Manchester senza interpellare lui, ma aveva lasciato la porta aperta un po’ a tutti, Inghilterra compresa.

nazionale belgio
La nazionale del Belgio

L’Albania ha cominciato a fare lobbying insieme al Kosovo, coinvolgendo nella causa il magnate nonché vice-premier Bexhet Pacolli per convincere il padre. Puntando sull’orgoglio nazionale e su tutto quello che ha rappresentato la famiglia Januzaj durante la guerra del Kosovo, l’Albania ha cullato fino all’ultimo il sogno di vedere il ragazzo con la maglia del paese delle aquile.

SIMBOLO O TRADITORE – Dopo tanti dubbi, il 23 aprile, il C.T. del Belgio Wilmots dichiara orgogliosamente di aver ricevuto la conferma che Januzaj si metteva a disposizione dei Diables Rouges. Januzaj avendo così la possibilità di giocare i mondiali in Brasile, per i quali è stato infatti convocato.

Da Tirana nessun commento ufficiale per la scelta finale di Januzaj, verosimilmente determinata dalla razionalità e convenienza professionale più che da altri fattori. L’Albania, per quanto intrigante dal punto di vista sentimentale e della possibilità di diventare il simbolo di una nazione, non avrebbero sicuramente garantito a livello internazionale il palcoscenico al quale ambisce il ragazzo. A nulla sono valse varie campagne sotto la sigla “Januzaj, dì si alla nazionale albanese”. Dopo il rifiuto (cosi è stato interpretato il si al Belgio) il quotidiano più importante di sport albanese metteva in prima pagina a lettere capitali “TU NON CI MERITI…”. Una parte del popolo però si dichiara orgogliosa che un talento albanese possa giocare il Mondiale.

SPERANZE PER IL KOSOVO – Il Kosovo pero può ancora sperare che un giorno il ragazzo vestirà la sua maglia. Infatti, non essendo ancora una Stato riconosciuto dall’ ONU, dalla FIFA e dall’UEFA, manca anche il riconoscimento della nazionale di calcio. Solo a marzo c’è stato un piccolo passo avanti in questa direzione: i kosovari possono giocare delle partite amichevoli però senza simboli e senza inno nazionale. Sono i passi avanti per la creazione di una squadra che potrà nascere in futuro, contando anche su talenti che giocano attualmente per altre nazionali, dei quali Adnan Januzaj potra fare parte se vorrà. Secondo il regolamento della FIFA infatti, alla creazione di una nuova nazionale hanno diritto di farne parte anche giocatori che prima hanno vestito la maglia di un altro paese.

Juljan Papaproko

Afghanistan: elezioni, la situazione precipita

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“D’ora in poi ogni azione delle Commissioni elettorali sarà considerata da noi illegale e inaccettabile”. Abdullah Abdullah apre la crisi in Afghanistan e sconfessa il processo elettorale.

Diario da Kabul

TIMORI CHE SI AVVERANO – Come si temeva, dopo aver chiesto l’intervento dell’Onu, ritirato gli osservatori dalle Commissioni, pretesa la testa del primo segretario della Commissione elettorale (Iec), Abdullah ha tirato l’affondo. E ha ribadito – in un discorso trasmesso in televisione – di considerare Karzai (cui di fatto spetta la decisione finale sul lavoro delle commissioni elettorali) responsabile della crisi.

Per ora il candidato la cui base elettorale guarda a quella che un tempo si chiamava Alleanza del Nord è solo. Le Nazioni Unite lo hanno invitato al rispetto della Costituzione e il portavoce della missione dell’Onu, Ari Gaitanis, si è detto “rammaricato” per la decisione di Abdullah di ritirare i suoi osservatori dagli uffici elettorali. Lo stesso han fatto le ambasciate di Stati Uniti e Gran Bretagna.

La Commissione elettorale dal canto suo ha negato gli addebiti e Karzai per ora resta in silenzio (se si esclude una nota di palazzo che ne riafferma la neutralità). Ma la crisi è formalmente aperta e Abdullah sa di poter contare su diversi parlamentari e, soprattutto, sulla sua rete di sostenitori nel Nord. Senza contare gli appoggi nella pubblica amministrazione e nell’esercito. Situazione tesa.

Da Kabul, Emanuele Giordana

Membro del Comitato Scientifico del Caffè Geopolitico

Le forze di terra USA e la nuova strategia americana

Miscela Strategica – La riluttanza dell’Amministrazione Obama di mettere i “boots on the ground”, dovuta a molteplici ragioni, e la nuova strategia orientata verso il Pacifico stanno portando a un nuovo modo di concepire ed impiegare le forze di terra.

BOOTS ON THE GROUND – Le due guerre dispendiose ereditate da Obama, sia in termini economici sia di vite umane, sono state decisive nel modificare l’approccio dell’attuale Presidenza all’impiego delle forze di terra. In realtà il diverso orientamento è stato agevolato anche da altri fattori, tra cui i pesanti tagli al bilancio del Dipartimento della Difesa e l’attività politico-diplomatica di altri attori (tra cui Russia e Cina) che hanno bilanciato, soprattutto in sede di Consiglio di Sicurezza ONU, una già non poderosa volontà americana nell’intervenire in situazioni difficili (la Siria è un esempio lampante). Considerato ciò, gli Stati Uniti hanno mostrato una preferenza nel non volere impegnarsi direttamente e stabilmente sul terreno e, all’opposto, di voler ridurre al più presto e al minimo indispensabile la presenza di militari americani sul suolo iracheno e afgano. La questione di mettere o meno i “boots on the ground” è però leggermente più sfumata e deve tenere conto di alcuni aspetti, analizzati in maniera sintetica ma efficace dall’ex Sottosegretario alla Difesa Dov Zakheim. Zakheim è stato in carica dal 2001 al 2004 (quando il Presidente Bush ha dato il via alle occupazioni di Afghanistan e Iraq) e in un recente articolo, su The National Interest, associa la difficoltà americana nel rimanere a lungo in un teatro di crisi a fattori che vanno oltre la presenza in sé dei militari. Un giudizio severo è stato dato alle operazioni in Somalia, in Afghanistan e in Iraq: l’insuccesso, secondo Zakheim, è legato in particolare alla volontà degli Stati Uniti di intervenire in ambienti ostili per cercare di creare o cambiare un regime e renderlo il più simile possibile al proprio, senza vagliare sufficientemente le controindicazioni contingenti e strutturali.

Alcune operazioni hanno però registrato un esito migliore, in particolare quelle svolte nell’emisfero occidentale. Le ragioni sono individuabili in una cultura più assimilabile a quella statunitense e, soprattutto, a linee logistiche più brevi. Inoltre esistono differenze fondamentali nel tipo di operazioni.  Infatti, se si considerano le missioni di maggior successo, esse hanno comportato fornitura di armi, addestramento e supporto aereo, di solito a favore del Governo o comunque volti alla stabilizzazione di un Paese, piuttosto che un intervento diretto e teso a ribaltare il regime esistente come accaduto in Afghanistan e Iraq. Anche quando i militari statunitensi si sono fermati a lungo su un territorio (ad esempio El Salvador o Colombia) le operazioni erano di supporto alle forze locali. Perciò il successo della presenza sul terreno delle forze armate per lunghi periodi dipenderebbe dall’obiettivo, stabilizzazione versus nation building, e dall’invasività, compiti di supporto e addestramento versus occupatio bellica (o mandati omnicomprensivi).

Esercitazione nel Pacifico
Esercitazione nel Pacifico

COSA CAMBIA CON L’ASIA PIVOT – Il cambio strategico avvenuto durante il primo mandato della Presidenza Obama ha coinvolto non solo gli obiettivi americani, ma anche direttamente le modalità di intervento militare. Per quanto concerne la valutazione degli interessi vitali degli Stati Uniti, la presa di posizione è stata spiegata dall’allora Segretario di Stato Clinton e dallo stesso Obama in più discorsi ufficiali. Lo spostamento verso il quadrante pacifico e l’Asia orientale e sud-orientale è una tendenza presente che potrà confermarsi nei prossimi anni. Per quanto riguarda la metodologia appare chiara la propensione in termini di suddivisione delle responsabilità con gli alleati (si veda l’intervento in Libia) e di quello che si potrebbe definire come Air-and-Sea capability (per esempio sfruttando utilizzo intensivo dei droni e della flessibilità navale) rispetto al predecessore. Sia per queste preferenze, valide in generale, sia per la conformazione dell’area asiatica e del Pacifico si potrebbe dedurre che l’uso delle truppe di terra sarà sempre minore e confinato ad operazioni speciali per corpi di élite, escludendo il grosso delle forze di terra e operazioni su vasta scala (si discute molto in questo periodo della prevalenza del concetto Anti Access/Area Denial). In effetti, anche alcuni dati sembrerebbero confortare questa tesi. Documenti del Pentagono e della Casa Bianca rivelano che lo US Pacific Command (USPACOM è il comando unificato del Pacifico) si sta spostando verso una dotazione maggiore di sottomarini, di F35 e F22, di radar e di sistemi missilistici difensivi. Entro il 2020, sempre secondo le previsioni del Dipartimento di Difesa, il 60% della flotta statunitense sarà operativo nell’Oceano Pacifico. Nonostante ciò le forze di terra dispiegate nel Pacifico rimangono comunque rilevanti, sia in territorio statunitense sia in Paesi alleati. Il comando unificato del Pacifico (USPACOM) ha sede nelle isole Hawaii, la Venticinquesima Divisione fanteria ha la prima e la quarta brigata stanziata in Alaska e la seconda e la terza brigata nelle Hawaii, senza contare uomini e basi situate sulla costa orientale degli Stati Uniti (la Prima Divisione Marines è di stanza in California). Per quanto riguarda gli alleati, già nel 2012, con un patto firmato con il governo australiano, le truppe USA posizionate in basi sulla costa settentrionale dell’Australia sono arrivate a 2500 unità (marines).

In Corea è presente un sotto-comando unificato (United States Forces Korea) subordinato all’USPACOM, in cui le forze di terra sono rappresentate da 20.000 soldati dell’Ottava Divisione dell’Esercito e dalle 100 unità dello Special Operations Command Korea. Anche in territorio giapponese si trova un sotto-comando dell’USPACOM, lo United States Forces Japan, il quale coordina le forze militari americane in Giappone. Nell’aprile 2012 il governo americano e quello giapponese hanno trovato un’intesa per la modifica del dispiegamento dei Marines già presenti in territorio giapponese: 5000 Marines spostati a Guam, altri 4000 tra Australia ed Hawaii, mentre 10.000 Marines della Terza Divisione sono rimasti in Giappone, ad Okinawa. A questi si aggiungono circa 2000 unità dello US Army Japan (USARJ). Infine è significativo l’accordo trovato tra Stati Uniti e Filippine, che riporta a distanza di oltre vent’anni i militari americani (una parte della 25 Divisione fanteria) a stabilirsi su quelle isole. Infatti, è dal 1992 che le forze USA non stazionano permanentemente in territorio filippino.

Più in generale non è corretto pensare di poter fare a meno delle forze di terra, anche con un cambio radicale di strategia e di teatri operativi. Il Generale Peter Chiarelli, vice Capo di Stato Maggiore dell’Esercito, sostiene, in maniera evocativa, che ogni volta che si finisce una guerra si tende a pensare che le forze di terra non serviranno più, fino a quando scoppia un nuovo conflitto, in cui il 90% dei combattimenti e delle perdite è proprio a carico dei contingenti che operano sul terreno.

Soldati statunitensi del Pacific Command portano in parata le bandiere degli alleati nella regione.
Soldati statunitensi del Pacific Command portano in parata le bandiere degli alleati nella regione.

I NUOVI APPROCCI DIFENSIVI DELLE FORZE DI TERRA – È necessario capire quali compiti sarà chiamato a svolgere questo personale militare e in che maniera. In un ben articolato rapporto del Center for Strategic and Interntional Studies (“US Ground Force Capabilities through 2020”-CSIS, ottobre 2011), l’autore, Nathan Freier, individua le quattordici principali tipologie di operazioni che coinvolgono le forze di terra, le analizza una ad una (fornendo interessanti scenari futuri) e riporta il grado di probabilità di un loro impiego, avendo come orizzonte temporale il 2020. Di seguito una sintesi delle operazioni e della frequenza con cui potranno servire agli scopi di politica estera americana.

1) Dimostrazione di forza (probabilità Alta): accrescere la presenza e la visibilità delle forze d’avamposto con lo scopo di far cessare una minaccia messa in atto da un attore ostile.

2) Assistenza umanitaria e gestione delle calamità (probabilità Molto Alta): aiutare le autorità civili sia nel mantenimento dell’ordine sia nell’organizzazione dei soccorsi in seguito a disastri.

3) Supporto ad un alleato in condizioni di instabilità o guerra civile (probabilità Molto Alta): fornire personale ad un governo durante gravi crisi interne o condizioni di forte instabilità.

4) Supporto a forze non convenzionali straniere (probabilità Media): condurre operazioni, segrete o non, a supporto di forze irregolari per combattere una comune minaccia.

5) Assistenza logistica (probabilità Alta): fornire materiale, mezzi ed expertise ad un alleato coinvolto in operazioni militari, non sono coinvolte di solito unità di combattimento.

6) Evacuazione di civili (probabilità Molto Alta): proteggere l’incolumità fisica di civili (americani e, se contemplato, di terzi) durante l’evacuazione da un Paese straniero.

7) Operazione di peacekeeping (probabilità Alta): condurre operazioni di interposizione tra fazioni e di mantenimento della pace.

8) Messa in sicurezza di aree o infrastrutture strategiche (probabilità Media): intervenire per impedire che posizioni strategiche o infrastrutture strategiche per gli Stati Uniti vengano distrutti o entrino in possesso di forze nemiche.

9) Intervento d’umanità (probabilità Alta): proteggere popolazione civile durante una guerra civile.

10) Stabilizzazione di un territorio (probabilità Media): ristabilire l’ordine in aree di cui l’instabilità minaccia interessi vitali per gli Stati Uniti.

11) Distruzione di obiettivi sensibili (probabilità Media): operazioni mirate a distruggere infrastrutture o bersagli considerati una minaccia per gli Stati Uniti

12) Raid (probabilità Molto Alta): condurre operazioni su piccola scala e di breve durata con obiettivi specifici.

13) Campagna contro attori non statali (probabilità Molto Alta): portare a termine azioni militari di diversa natura per smantellare organizzazioni non statali che minacciano la sicurezza degli Stati Uniti.

14) Campagna di vasta scala (probabilità Bassa): condurre operazioni su vasta scala con l’obiettivo di sconfiggere l’esercito regolare o le forze irregolari al servizio di uno Stato nemico.

Davide Colombo

Livello di probabilità e violenza per le operazioni future (Fonte: US Ground Forces capabilities through 2020, CSIS)

L’ora delle polemiche sul voto: Abdullah alza la voce

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Se al processo elettorale afgano non è mai mancato il sale, adesso è l’ora del pepe. Polemiche, dibattiti e discussioni si incrociano nei giorni in cui, dopo il voto di ballottaggio del 14 giugno, è iniziata la conta dei voti.

Diario da Kabul

FACCIAMO I CONTI – Abdullah Abdullah, cui i primi conteggi attribuirebbero (in modo del tutto non ufficiale) una sconfitta, ha chiesto che il conteggio venga fermato. Abdullah è certo: ci sono state frodi, e pesanti. Due sono le cose che alimentano i sospetti dell’ex candidato favorito: i dati provenienti dalle province, che indicherebbero in alcuni casi un’affluenza addirittura superiore al primo turno e, soprattutto, il caso del segretario generale dellIndependent Election Commission (Iec), Zia-ul-Haq Amarkhail, accusato senza mezzi termini di brogli: in effetti sabato sera – la sera del voto – una macchina del suo staff proveniente dagli uffici dell’Iec viene fermata dalla polizia con un bagagliaio pieno di schede non utilizzate.

E com’è che, in una fase tanto delicata, questi girano senza una scorta di polizia e con schede bianche? La Commissione, cui Abdullah chiede la testa di Zia nega ogni addebito, respinge l’idea di fermare la macchina elettorale e si giustifica col fatto che, quella sera,  scorta non ce n’era per accompagnare il viaggio incriminato. Ma tanto basta ad Abdullah per ritenere che ci sia di che preoccuparsi.

inchiostro elezioniIl candidato ha comunque già raccolto  il sostegno della Fefa (Free and Fair Election Foundation of Afghanistan), la più importante organizzazione non governativa per il monitoraggio elettorale che ha, sparsi sul territorio nazionale, oltre 8.500 osservatori. Al  momento intanto, le contestazioni relative al voto giunte alla Commissione dedicata (Ecc) sono oltre 2500.

ACCUSE E REAZIONI – Abdullah si spinge più in là: accusa Karzai di essersi sbilanciato in favore di Ghani (accusa grave due volte perché le commissioni elettorali e qualsiasi decisione in merito al loro operato dipendono dal presidente).

Insomma, tutti fermi un giro. Ashraf Ghani dal canto suo reagisce. E con piglio. Dice che il suo oppositore sta minando l’intero processo che finora tutti hanno accettato e dice che presto dirà la sua pubblicamente. E’ per mezzogiorno di giovedi che in una conferenza stampa chiarirà il suo pensiero nel dettaglio. Anche se è chiaro che il concetto di base è che, per lui, la conta deve andare avanti.

Da Kabul, Emanuele Giordana

Membro del Comitato Scientifico del Caffè Geopolitico

La difesa antimissile degli Stati Uniti

Miscela StrategicaGli Stati Uniti possiedono uno dei più avanzati sistemi di difesa antimissile del pianeta, eppure per ragioni economiche, pratiche e politiche hanno rinunciato allo sviluppo di una copertura territoriale totale da un attacco nucleare massiccio. In questo articolo analizziamo il sistema statunitense, da cosa è composto e per quali minacce è stato concepito.

LA DOTTRINA – Gli Stati Uniti sono uno dei Paesi più avanzati per quanto riguarda i sistemi antimissile. Il progetto SDI (Strategic Defense Initiative – Iniziativa per la Difesa Strategica) degli anni Ottanta (comunemente conosciuto come “Scudo Spaziale” o “Guerre Stellari”), prevedeva una copertura totale del territorio tramite satelliti armati di raggi laser e grandi specchi deflettori per l’intercettazione dei missili e delle testate nella fase di volo spaziale. Il programma fu accantonato a causa degli alti costi e della complessità tecnica. Successivamente, le varie amministrazioni statunitensi, nonostante gli annunci propagandistici di ripresa di progetti di difesa antimissile a copertura totale, si sono concentrate su programmi realistici e tecnicamente sostenibili.

Date le dimensioni del territorio statunitense (al quale vanno aggiunte le isole Hawaii nell’Oceano Pacifico) si è rinunciato a perseguire una capacità difensiva territoriale totale in caso di massiccio attacco con missili balistici intercontinentali (Intercontinental Ballistic Missiles – ICBM). Secondo la Missile Defense Agency (Agenzia per la difesa antimissile – MDA), che fa capo al Dipartimento della Difesa (Department of Defense – DoD) gli Stati Uniti dispiegano (e continueranno a migliorare) un sistema di difesa missilistica (Ballistic Missile Defense – BMD) capace di proteggerli da un attacco ICBM di portata limitata (deliberato, accidentale o non autorizzato).

LE MINACCE – Il Ballistic Missile Defense Review Report (Rapporto sullo stato della difesa antimissili balistici) redatto dal DoD individua come principali minacce alla sicurezza territoriale degli Stati Uniti la Corea del Nord e l’Iran. Pyongyang sta proseguendo il suo programma di sviluppo missilistico per arrivare ad ottenere un ICBM funzionante per poter trasportare le proprie testate nucleari. I due test del missile Taepo Dong-2 (TD-2), in realtà classificato come IRBM (Intermediate Range Ballistic Missile – Missile Balistico a Raggio Intermedio), rispettivamente nel 2006 e nel 2009 sono falliti, ma i nord-coreani sono determinati a completarne lo sviluppo. Secondo i dati disponibili, il TD-2 avrebbe il raggio massimo d’azione in grado di raggiungere gli Stati Uniti occidentali e le Hawaii. La minaccia iraniana è ancora potenziale, poiché il programma nucleare di Teheran ancora non si trova in uno stato tale da permettere la fabbricazione di testate nucleari anche se il settore missilistico è sufficientemente sviluppato, con capacità SRBM (Short Range Ballistic Missile – Missile Balistico a Corto Raggio) e MRBM (Medium Range Ballistic Missile – Missile Balistico a Medio Raggio). Il lancio del razzo Safir-2 nel 2009 ha posto in orbita il primo satellite interamente costruito dall’Iran e la capacità di lancio orbitale è abilitante per lo sviluppo di vettori IRBM o ICBM.

I missili nord-coreani e iraniani sono considerati da Washington una minaccia a prescindere dalla capacità nucleare, poiché le testate trasportabili, oltre che convenzionali, possono essere con testata chimica o batteriologica. Inoltre è necessario ricordare che le testate non convenzionali possono essere efficaci indipendentemente dalla precisione del missile che le trasporta, implicando una minore complessità dello sviluppo dei vettori per via di un sistema di guida non necessariamente ad alta precisione.

La base di Fort Greely in Alaska, uno dei due siti che ospitano i missili GBI
La base di Fort Greely in Alaska, uno dei due siti che ospitano i missili GBI. (Clicca per ingrandire)

RUSSIA E CINA – Gli Stati Uniti a livello diplomatico hanno spesso specificato che il loro sistema antimissile non è concepito in chiave anti-cinese e anti-russo. Washington si è inoltre dichiarata disposta a collaborare con Russia e Cina per la difesa antimissile a livello regionale (Medio ed Estremo Oriente) e per la non proliferazione.  Come è stato evidenziato in precedenza, il sistema di difesa antimissile degli Stati Uniti non è stato progettato per proteggere il territorio da un massiccio attacco con ICBM e gli unici due Paesi, al momento, in grado di portarlo avanti sarebbero la Cina e, soprattutto, la Russia. La prima sta aumentando e migliorando il proprio arsenale nucleare. Mosca invece detiene comunque il secondo maggior potenziale nucleare del pianeta, seppur con una momentaneamente diminuita capacità di proiezione. Gli Stati Uniti considerano perciò sufficiente ed economicamente più sostenibile affidarsi alla deterrenza garantita dalla mutua distruzione assicurata (Mutual Assured Destruction – MAD). Nella concezione del sistema nazionale di difesa antimissile sono presenti i casi di lanci “non autorizzati” o “accidentali”, probabilmente riferiti alla scarsa fiducia degli USA nella catena di comando e controllo degli altri Paesi, inclusi Russia e Cina.

Lancio di un GBI dalla base aerea di Vandemberg
Lancio di un GBI dalla base aerea di Vandemberg

IL BMD STATUNITENSE: I SENSORI – Il sistema si basa su sensori di scoperta e tracciamento e su missili intercettori. Per quanto riguarda i sensori, questi sono basati a terra, in aria, in mare e nello spazio. Per comodità divideremo la difesa in tre settori: fase d’ascesa, fase di volo e fase terminale.

Per la scoperta di un lancio di un missile vengono utilizzati radar dispiegati in posizioni avanzate (sul territorio di alleati vicini alla minaccia) e satelliti in orbita geostazionaria (Geostationary Orbit – GEO) o fortemente ellittica (Highly Elliptical Orbit – HEO). I radar sono gli Army Navy / Transportable Radar Surveillance (Radar per la Sorveglianza Trasportabile della Marina e dell’Esercito – AN/TPY-2) in banda X, mentre nello spazio è presente la costellazione SBIRS (Space-Based Infrared System – Sistema spaziale all’infrarosso) composta dai satelliti GEO-1 e GEO-2 (in orbita geostazionaria) e HEO-1 e HEO-2 (in orbita fortemente ellittica). Tutti e quattro hanno payloads per il tracciamento di missili tramite sensori all’infrarosso che seguono il calore rilasciato dal motore durante la fase propulsa.  Al sistema SBIRS è accoppiata la costellazione SSTS (Space Surveillance and Tracking System – Sistema Spaziale per la Sorveglianza e il Tracciamento). Composto da tre satelliti (STSS-ATRR, STSS Demo-1, STSS Demo-2), il sistema è posizionato in orbita bassa (Low Earth Orbit – LEO) e usa anch’esso sensori all’infrarosso. Per la fase d’ascesa è possibile anche l’uso di droni ad alta quota.

Per la fase di volo i sensori utilizzati sono gli UEWR (Upgraded Early Warning Radars – Radar migliorati per l’allarme lontano) basati in California, il radar COBRA DANE  schierato in Alaska e il Sea-Based X-band Radar (Radar in banda X trasportabile in mare) che può essere trainato da una nave in acque internazionali (o alleate) nell’Oceano Pacifico. In questa fase può essere utilizzato anche il sistema AEGIS dei cacciatorpediniere e incrociatori della marina USA (del quale ci occuperemo in un prossimo articolo).

IL BMD STATUNITENSE: GLI INTERCETTORI – Nella fase d’ascesa, il missile in arrivo può essere intercettato da missili SM-3 dei cacciatorpediniere e incrociatori dotati di sistema AEGIS schierati in zone limitrofe al Paese-minaccia. Il nerbo della difesa antimissile statunitense è però costituito dagli GBI (Ground-Based Interceptors – Intercettori basati a terra), schierati in Alaska e California. Questi missili sono a due stadi e trasportano un veicolo d’intercettazione extra-atmosferico (Exo-atmospheric Kill Vehicle – EKV) che distrugge la testata in arrivo utilizzando la sola energia cinetica (ossia la velocità d’impatto). Il sistema è in via di miglioramento con lo schieramento di missili più sofisticati. I GBI e i relativi radar a terra compongono il sistema chiamato Ground-Based Midcourse Defense (Difesa basata a terra per la fase di volo). Nella fase terminale, la più pericolosa e che richiede una notevole precisione, gli Stati Uniti si basano sui missili Patriot PAC-3 ai quali si sta aggiungendo gradualmente il sistema Terminal High Altitude Area Defense (Difesa terminale ad alta quota d’area – THAAD), progettato per colpire le testate in arrivo ad una quota molto alta per mitigare gli effetti del payload nel caso questo sia ti tipo chimico o batteriologico. La fase terminale contempla anche l’uso del sistema AEGIS se necessario.

Emiliano Battisti

Il funzionamento della difesa antimissile per la fase di volo.  Image credits: Los Angeles Times

Il funzionamento della difesa antimissile per la fase di volo.
Image credits: Los Angeles Times