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"L'imparzialità è un sogno, la probità è un dovere"

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L’11 settembre in Libia

A un anno dalla morte dell’ambasciatore statunitense Christopher Stevens a Bengasi, la situazione in Libia continua a essere drammatica: violenza, scontri tra fazioni, elevato numero di armi in circolazione e scioperi negli stabilimenti petroliferi.

Siria, lo spiraglio russo

La Russia propone una soluzione per evitare un conflitto in Siria, chiedendo ad Assad di aderire all’Organizzazione per la Proibizione delle Armi Chimiche e accettare il controllo internazionale sugli arsenali di sostanze tossiche.

Cile: quarant’anni dopo, riconciliazione possibile?

In occasione del 40° anniversario del colpo di Stato contro il Governo di Salvador Allende, il presidente cileno Sebastian Piñera ha lanciato un’iniziativa di riconciliazione nazionale.

Tokyo 2020: la quarta freccia dell’Abenomics?

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Tokyo sbaraglia la concorrenza e ottiene il diritto di organizzare le Olimpiadi nel 2020. Un’arma a doppio taglio: da una parte è un’occasione per stimolare la ripresa economica, dall’altra c’è l’alto rischio del cosiddetto ‘effetto boomerang’

Russia e Cina insieme per Peace Mission 2013

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Come di consueto dal 2005, Russia e Cina sono state le protagoniste dell’esercitazione militare Peace Mission 2013, indetta dalla Shanghai Cooperation Organization (SCO) e svoltasi dal 27 luglio al 15 agosto.

Battlegroups europei: l’arma spuntata

Miscela Strategica – “Servirebbe un esercito europeo!” E’ una frase che sentiamo spesso di questi tempi, ma forse non tutti sanno che, in realtà, qualcosa di molto simile a un esercito europeo già esiste. Si chiamano battlegroups e sono stati creati proprio come forza europea di reazione rapida. Ma allora perché non se ne parla mai e non li vediamo mai in azione? Perché, come spesso avviene, il problema sono le decisioni politiche.

 

1) Cosa sono i Battlegroups?

Fin dall’inizio, gli Stati membri dell’UE si sono resi conto che creare un esercito comune sarebbe stato un progetto difficile e di lunga durata. Meglio intanto dotarsi di una forza militare di reazione rapida che comunque provenga un po’ da tutti i Paesi. Diventano così pienamente operativi nel 2007 i Battlegroups (Gruppi da Battaglia, abbreviato in BG), ovvero formazioni da circa 1500 uomini bene addestrati con mezzi di supporto, circa un battaglione ad armi combinate (significa: fanteria, mezzi blindati, artiglieria, oltre alle strutture di comando e controllo) capaci di essere inviati ovunque sia necessario entro pochi giorni e possano operare indipendentemente  per massimo 3-4 mesi. Ogni grande Paese UE (Francia, Germania, Gran Bretagna, Italia) fornisce un BG, gli altri paesi invece collaborano formando BG “misti”. L’idea originaria era di avere 13-20 BG, con 2 BG sempre pronti all’azione in ogni momento con rotazioni di 6 mesi, ma i tagli ai budget militari europei hanno ridotto la rotazione a 1 BG alla volta.

 

2) Come funzionano in pratica?

Immaginiamo una situazione di crisi dove l’UE ritenga di dover intervenire rapidamente: potrebbe essere l’evacuazione di propri civili da zone di guerra, o protezione di elezioni in Paesi limitrofi dietro richiesta ONU, o ancora un’operazione di caccia ai terroristi lontano dall’Europa come ha fatto la Francia in Mali. Il sistema è ottimizzato per un’azione rapida, infatti è previsto che una volta presa la decisione di inviare le truppe, un BG sia pronto a partire entro 5 giorni e sia poi pronto ad agire in zona di operazioni entro altri 10 giorni. In altre parole, entro 15 giorni massimo dalla decisione politica l’UE può schierare (almeno) 1500 soldati bene addestrati ovunque possa essere necessario, al giorno d’oggi una forza tutt’altro che disprezzabile per operazioni limitate e di breve periodo (da 30 a 120 giorni, secondo lo statuto che ne regola il funzionamento) quali quelle ipotizzate.  Questi 1-4 mesi servono poi all’UE per decidere se preparare un intervento più massiccio, impiegando contingenti più grandi, richiedere un intervento internazionale, o trovare una soluzione diplomatica adeguata. Ovviamente la stessa missione del BG può essere prolungata.

 

I BG sono stati creati per l'impiego rapido
I BG sono stati creati per l’impiego rapido

3) Ma chi paga? Ovvero: in tempi di budget così ristretti e discussioni animate sugli stanziamenti, non si rischia che gli Stati litighino su chi deve pagare, e quanto?

Fortunatamente no. Il sistema dei BG, come detto sopra, è ottimizzato per agire rapidamente, pertanto esiste anche un sistema di finanziamento rapido delle missioni militari UE. Si chiama ATHENA, e si tratta di fondi europei già stanziati dagli stati membri in sede di budget europeo e accantonati come riserva d’emergenza proprio per le missioni internazionali. Non appena la missione viene autorizzata, i fondi necessari vengono appunto tratti da ATHENA e permettono al BG (ed eventuali altri asset di supporto, come marina, aviazione, polizia, ecc…) di operare da subito con piena copertura dei costi. Le attuali missioni internazionali che vedono all’opera truppe UE (nessun BG però) sono tutte finanziate con il sistema ATHENA. Proprio per evitare spese senza fine l’operatività è limitata a massimo 4 mesi – oltre quel limite l’UE deve approvare il prolungamento della missione e lo distanziamento dei fondi.

 

4) Tutto bene allora, sono un mezzo di reazione rapida ben organizzato. Eppure, non se ne sente mai parlare… perché?

Per capirlo, dobbiamo tornare alla risposta alla seconda domanda. Come funzionano i BG? Abbiamo detto che “(…)è previsto che una volta presa la decisione di inviare le truppe, un BG(…)”. Il problema sta proprio nella frase in corsivo: prima che tutto si attivi, l’UE, cioè in pratica gli Stati membri, devono essere d’accordo nel farlo. Ed è qui il punto: in un’Europa dove le posizioni in politica estera risultano essere così differenti tra i vari componenti, è oltremodo difficile giungere a un consenso su cosa fare, come farlo e, ancor peggio, se inviare truppe comunitarie. Se pensiamo alle posizioni sul conflitto in Libia, o in Siria, o perfino in Mali, è facile pensare a nazioni poco disposte ad autorizzare l’invio di BG che contengano i propri militari, mentre altre spingono per intervenire comunque. In quest’ottica, a poco importa che i BG possano essere operativi entro 15 giorni: è la decisione precedente che potrebbe prendere mesi, o non essere mai presa, tra discussioni infinite e tensioni politiche. Il ritardo potrebbe essere tale da rendere nel frattempo inutile ogni operazione.

 

Struttura di un BG
Struttura di un BG

5) Qual è il risultato di tutto questo?

In definitiva l’UE ha sì un sistema di intervento militare rapido, ma si trova nell’impossibilità di fatto di impiegarlo. Così, in casi come il Mali dove interessi comuni erano in gioco (stabilità regionali, terrorismo, risorse…) ed era necessario agire subito, la Francia ha preferito inviare subito le proprie truppe per non perdere tempo. E questo considerando che comunque aveva ottenuto l’appoggio logistico dei partner europei (e non solo, anche Cina e Russia erano favorevoli), tale però proprio perché nessun altro era disposto a un intervento diretto, sempre difficile da giustificare davanti alla propria opinione interna. L’impossibilità di usare forze comuni anche in una situazione così adatta al loro impiego rimarca la debolezza della Politica Comune di Sicurezza e Difesa (PCSD), della quale i BG sono uno strumento sicuramente potenzialmente efficace, ma nella pratica spuntato.

 

Lorenzo Nannetti

L’industria europea della difesa: il canto del cigno?

Miscela Strategica – Tra giugno e luglio la Commissione Europea ha lanciato l’allarme: l’industria europea della difesa sta perdendo competitività sia sul mercato interno che all’estero. Se non si corre ai ripari gli Stati Uniti e i Paesi emergenti potrebbero rimpiazzare le aziende europee del settore sui mercati fino ad oggi loro appannaggio. Vediamo perchè

G20, Siria e non solo

Comincia oggi a San Pietroburgo il vertice annuale delle principali venti potenze mondiali. Tema principale, data la drammatica attualità, è la crisi siriana. In realtà, l’agenda ufficiale è improntata sul coordinamento dell’economia internazionale. Quale futuro per la governance multilaterale?

Egitto e Primavere Arabe: cos’è la democrazia?

Gli eventi in Egitto, e più in generale nelle cosiddette Primavere Arabe, ci ricordano la grande differenza di punti di vista tra l’Occidente e il mondo Arabo di oggi. Tutto sommato, si può ridurre a una sola semplice domanda: che cos’è la democrazia?

Siria: la via d’uscita di Obama

Il Presidente USA Barack Obama ritarda l’attacco alla Siria volendo prima consultarsi con il Congresso. Difficile capire questo passo indietro se non comprendiamo prima quali dubbi attanaglino l’Amministrazione statunitense ora – nella consapevolezza che la politica USA in Siria potrebbe essere finita in un vicolo cieco.

 

NO WIN – In un recente articolo del “Time” si riportava una verità tanto chiara quanto a volte ignorata dal grande pubblico: la politica estera è l’arte del non trovarsi mai in situazioni senza via di uscita favorevoli (no no-win situations). Nel caso della Siria, la politica estera del presidente USA Barack Obama sembra invece non essere riuscita a rispettare tale assioma, e la recente decisione di chiedere il parere del Congresso sugli eventuali attacchi in Siria risponde proprio a questa situazione.

 

Gli USA, e in particolare il Presidente e il suo staff, appaiono chiusi in un vicolo cieco dove ogni scelta non è esente da problemi, ed è pesantemente influenzata dalle lezioni passate. Una riuscitissima vignetta di “The Economist” sintetizza l’atteggiamento americano meglio di tante analisi: dopo aver usato le maniere forti (il Leviatano, come lo definisce lo stratega USA Thomas P.M. Barnett) in Afghanistan e Iraq, e non essere riusciti a evitare di impantanarsi in situazioni gestite con molti problemi, gli USA ora provano a defilarsi e «guidare da dietro» (come ha detto lo stesso Obama in occasione della guerra in Libia); l’idea è evitare nuovi conflitti diretti, guadagnare un maggior apprezzamento internazionale e fornire il proprio aiuto solo in maniera indiretta, cosa che si sposa bene con i sempre più ridotti interessi statunitensi nell’area mediorientale.

 

DICHIARAZIONI RISCHIOSE – Il problema per gli USA è stato condire tale strategia con la dichiarazione di non tollerare l’uso di armi chimiche in Siria pena l’uso della forza in risposta – dichiarazione moralmente comprensibile, ma politicamente rischiosa perché si regge sulla convinzione che la minaccia basti a impedirne l’uso da parte di chiunque. Così non è stato, almeno finché le indagini ufficiali ONU non smentiscano, e questo ha chiuso il Presidente americano in un angolo.

 

Cosa fare ora? Abbiamo già parlato delle opzioni militari, ma guardiamo ora il tutto dalla parte di Obama.

 

La via d'uscita di Obama passa dal Congresso USA
La via d’uscita di Obama passa dal Congresso USA

ATTACCARE O NO? – Se ordina l’attacco, che sarà presumibilmente limitato per limitare al massimo le ripercussioni regionali, il Presidente non abbatterà Assad, realisticamente non modificherà sostanzialmente gli equilibri sul campo, si guadagnerà il biasimo di una parte dell’opinione pubblica mondiale (e dell’elettorato USA) che preferisce soluzioni negoziali e invischierà nuovamente il Paese in una crisi regionale dove non ha vantaggi in nessuna soluzione.

 

Se non lo ordina, avrà dimostrato ad avversari e alleati che gli USA sono senza denti, che le minacce statunitensi non hanno fondamento e dunque che è possibile utilizzare qualsiasi arma sul campo – tanto nessuno oserà intervenire – oltre a guadagnarsi il biasimo di una parte dell’opinione pubblica mondiale (e dell’elettorato USA) che preferisce l’intervento. Inoltre, confermerà ad attori come Turchia, Arabia Saudita, Egitto ecc… che non è più un partner affidabile – a tutto discapito dell’influenza nell’area.

 

QUALE VIA D’USCITA? – Non agire è ciò che meglio tutelerebbe gli interessi materiali USA, ed eppure è proprio ciò che ne screditerebbe di più l’immagine internazionale. Da qui nasce la decisione di chiedere conferma al Congresso. Il Presidente non ha bisogno del permesso di nessuno per lanciare operazioni militari, ma solo il Congresso può approvare la dichiarazione di guerra. La strategia di Obama si gioca dunque sul filo dei cavilli e sulla consapevolezza che la politica estera USA in Medio Oriente ne esce comunque sconfitta. Se il Congresso votasse contro l’intervento, questo smarcherebbe un po’ il Presidente dal biasimo nazionale per un mancato intervento. Se votasse invece a favore, potrà condividerne la responsabilità per gli eventuali scarsi effetti.

 

Lorenzo Nannetti

Siria: il Senato USA trova l’accordo

Ieri, all’interno della commissione Esteri del Senato statunitense è stato trovato un compresso su un eventuale intervento in Siria: al momento, si prevede un’operazione di massimo 90 giorni, senza intervento di terra. La reazione di Putin è stata chiara e decisa: «Una violazione del diritto internazionale».

 

1. IL COMPROMESSO – Con una rapida accelerazione dei tempi, ieri democratici e repubblicani hanno trovato un accordo sulla bozza di autorizzazione proposta da Obama per intervenire militarmente in Siria. Il Parlamento, quindi, dovrebbe acconsentire a un’azione di 60 giorni, prorogabile al massimo di altri 30 solo con il voto favorevole del Congresso e qualora, cinque giorni prima del termine, il Presidente dimostrasse la necessità del prolungamento. Durante la missione, Obama dovrà mantenere informato il Parlamento, nonché presentare alle commissioni Esteri di Congresso e Senato un progetto per risolvere politicamente la crisi, rivedendo l’assistenza agli insorti. Il compromesso è stato raggiunto da Robert Menendez, presidente democratico della commissione Esteri del Senato, e dal repubblicano Bob Corker. La bozza sarà sottoposta oggi alla medesima commissione, in attesa che il Parlamento riprenda i lavori il 9 settembre. Da segnalare che non è prevista l’autorizzazione per l’impiego di forze di terra.

 

2. LA REAZIONE DI PUTIN – Il Segretario generale dell’ONU, Ban Ki-Moon, non ha accolto favorevolmente la proposta statunitense d’intervento, dichiarando che «l’attacco per punire il presunto uso di armi chimiche da parte della Siria potrebbe scatenare altri tumulti». Molto più dura, invece, è stata la reazione di Vladimir Putin, il quale ha definito la probabile azione di Washington «un inammissibile uso della forza contro uno Stato sovrano, un atto di aggressione secondo il diritto internazionale vigente». Il Presidente russo ha dichiarato di essere disposto a discutere un coinvolgimento militare in Siria solo qualora sia l’ONU a intervenire sulla base di evidenti prove circa «chi ha usato le armi chimiche e con quali mezzi». Putin, inoltre, ha ricordato che la fornitura di missili S-300 sia «congelata, ma non interrotta» e che, pertanto, la Russia sia pronta a proseguire con l’invio di tali armi anche ad altri Paesi se la Siria subirà questa violazione del diritto internazionale. Già domani, comunque, durante il G-20 di San Pietroburgo, nonostante sia stato annullato l’incontro bilaterale tra USA e Russia in seguito all’affaire Snowden, potrebbe esserci un dialogo diretto tra Washington e Mosca.

 

3. LO SCHIERAMENTO DEGLI USA – Ieri mattina, il lancio di due missili nel Mediterraneo orientale ha posto in allarme l’intera comunità internazionale, salvo poi essere ridimensionato con l’ammissione israeliana di un test balistico. Nel frattempo, però, gli Stati Uniti hanno completato il dispiegamento di forze navali in vista dell’attacco alla Siria: quattro o cinque navi con missili da crociera, due sottomarini, un’unità da sbarco e la portaerei “Nimitz”, appena arrivata nel Mar Rosso e formalmente esterna all’operazione. Già allertati, inoltre, sarebbero alcuni bombardieri B-2 e B-52, i caccia F-16 in Giordania, i velivoli per la guerra elettronica in Turchia e i droni a Cipro. A queste forze devono essere aggiunte una nave, un sottomarino e gli aerei francesi nella regione, mentre non c’è ancora chiarezza sul livello di coinvolgimento di Arabia Saudita, Israele e Turchia.

 

Beniamino Franceschini

Il Mali ricomincia dal presidente

Le elezioni presidenziali in Mali hanno visto prevalere nettamente Ibrahim Boubacar Keïta, già protagonista della democrazia maliana. Il Presidente dovrà ora indire le nuove elezioni parlamentari e gestire gli aiuti internazionali, tentando di garantire l’unità del Paese a fronte dei movimenti che chiedono l’indipendenza del nord.