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Silenzio, si vota!

Questa settimana l'Europa torna alla ribalta con alcuni appuntamenti fondamentali come il Consiglio per gli Affari Esteri, con le restrizioni su Damasco, e soprattutto il Consiglio Europeo di Giovedì e Venerdì. Nel frattempo, Hugo Chávez lotta a Cuba contro l'ennesimo tumore maligno, mentre gli elettori repubblicani in America fremono per sapere se avranno un vero candidato entro Novembre. In Africa, il Senegal apre le urne e si prepara per gli scontri di piazza che seguiranno e continua in Nigeria la lotta senza quartiere tra Stato e Boko Haram. In Asia Kabul si ribella alle forze internazionali mentre la Russia è chiamata a pronunciarsi sul destino dell'eterno Vladimir Putin. Il Medio-Oriente rimane però la regione più instabile con Al Assad invoca la svolta democratica, ebbene sì, e il duello Israele-Iran che apre i suoi orizzonti.

EUROPA

Lunedì 27 – Si riunisce a Bruxelles il Consiglio per gli Affari Esteri presieduto dall'Alto Rappresentante Catherine Ashton, sul tavolo le questioni aperte in Siria e in Egitto. I ministri degli esteri dell'Unione saranno chiamati a decidere nuove misure sanzionatorie nei confronti del regime di Damasco tra cui il congelamento degli assets internazionali della Banca Centrale siriana e il blocco dei voli cargo diretti verso il paese. Preoccupa anche la situazione nel Caucaso meridionale russo dove gli scontri della scorsa settimana hanno provocato circa trenta morti nelle regioni del Daghestan e della Cecenia. Al termine del meeting ci sarà spazio per l'EU-Tajikistan Coperation Council, dove potrebbero essere promossi nuovi programmi di sviluppo per l'economia dell'Asia Centrale.

Martedì 28 – I capi di Stato e di Governo dei 27 paesi membri si riuniscono nel Consiglio in formazione Affari Generali per delineare il programma del prossimo Consiglio Europeo dell'1 e 2 Marzo. Lo sguardo sulla situazione dell'economia europea sarà garantito dal dibattito sulle conclusioni tratte dall'Indagine della Commissione sulla Crescita economica e sui punti evidenziati nella lettera d'intenti sponsorizzata pochi giorni fa da Mario Monti e David Cameron. Infine verrà analizzata in dettaglio la situazione politica di Belgrado, in linea con le conclusioni del Consiglio Europeo di dicembre, per decidere se conferire o meno alla Serbia il titolo di paese candidato dell'Unione.

Giovedì 1-Venerdì 2 – La due giorni che attende i leader europei si preannuncia carica di tensioni e di promesse per il futuro del vecchio continente. Proprio durante il summit verrà firmato infatti il trattato della discordia, il c.d. "Fiscal Compact", rifiutato da Regno Unito e Repubblica Ceca. La programmazione politico-economica pr la seconda parte del semestre si aprirà con le misure d'implementazione del patto Euro Plus e dell'integrazione fiscale tra i 27 paesi e l'Eurozona. Ma non sarà l'economia la protagonista degli incontri di Bruxelles, dato che sono in vista incontri della massima importanza come il G8 di maggio e il G20 di giugno e la tanto attesa Conferenza "RIO+20" sulle sorti dell'ambiente globale. Anche la questione serba troverà la sua logica conclusione quando la candidatura di Belgrado verrà esaminata definitivamente dai membri dell'Unione. AMERICHE Lunedì 27-Martedì 28 – Il Presidente venezuelano Hugo Chávez sarà sottoposto a Cuba all'ennesimo intervento chirurgico, sempre riguardante un tumore maligno nella zona pelvica come nel giugno 2011. Nonostante le dubbie condizioni di salute, il lìder di Caracas si è detto convinto di partecipare alla campagna elettorale contro Henrique Capriles Radonski in vista delle presidenziali di ottobre. A causa dei periodici viaggi obbligati nell'isola di Castro, il contatto diretto con la madrepatria sarà garantito da un pool di funzionari, inoltre l'assenza è stata autorizzata dal Parlamento così come prescritto da una legge ad hoc. Martedì 28, Venerdì 2 – Altra tappa del caucus repubblicano in vista dell'appuntamento decisivo di martedì prossimo, gli elettori del G.O.P. di Arizona, Michigan e poi Washington, sono chiamati a scegliere il loro uomo contro B. Obama. Secondo alcuni sondaggi promossi dal Washington Post e dal canale satellitare ABC, Rick Santorum riscuoterebbe i consensi dell'elettorato femminile conservatore, oltre che quello scontato del tycoon Rupert Murdoch. Proprio il Michigan potrebbe rappresentare una svolta nel duello personale tra Romney e Santorum, lo stato dell'auto sarebbe sulla carta promesso al candidato mormone, un'altra sconfitta di misura potrebbe far vacillare le sue pretese sulla Casa Bianca. Intanto dalla pancia repubblicana emergono voci di un possibile stallo alla Convention di Tampa dell'estate prossima, l'appuntamento per l'incoronazione del candidato G.O.P alle presidenziali. Se dovesse essere Santorum il verdetto delle urne, sono già pronti alcuni candidati di riserva tra cui il figlio nonchè fratello presidenziale Jeb Bush, ex governatore della Florida. BRASILE – Doppio imbarazzo per le autorità del governo di Brasilia per due incidenti che coinvolgono la missione esplorativa antartica nella base Comandante Ferraz sull'isola di King George. Secondo il quotidiano O estado de Sao Paulo il governo di Dilma Rousseff avrebbe cercato di insabbiare il naufragio di una cisterna contenente all'incirca 10mila litri di gasolio che ora si troverebbe a 40 metri di profondità. Il cargo era diretto proprio verso la stessa base in cui nella mattinata di domenica un corto circuito avrebbe causato un incendio ferendo alcuni membri del personale militare distaccato. In realtà è proprio il naufragio a causare preoccupazoni ed incertezze, secondo il Trattato sull'Antartide infatti, in materia di protezione ambientale, occorrerebbe attuare misure immediate d'emergenza per evitare danni irreaparabili. Il Brasile, come tutti gli stati impegnati in attività sperimentali nel continente, risulta tra i membri del patto e potrebbe subire ritorsioni e proteste dagli altri firmatari. AFRICA SENEGAL – Nella giornata di domenica i 5,3 milioni di aventi diritto si sono recati alle urne per partecipare ad una delle elezioni più attese dell'anno nel continente africano. Il Presidente ottuagenario Abdoulaye Wade, nonostante il limite di legislature stabilito per legge, parteciperà alla competizione mentre l'idolo del movimento M23, cantante e impreditore mediatico Youssou N'Dour è stato escluso dalla Corte Suprema. Il duello rimane quindi quello tra Wade e l'eterno rivale Moustapha Nasse, mentre l'inviato scelto dall'Unione Africana per seguire la crisi politica, fissa a due anni la scadenza del mandato in gioco. Impossibile fissare una data certa per la comunicazione dell'esito delle urne, quello che è certo è che l'opposizione a Wade non si farà attendere nelle contestazioni violente di piazza, che potrebbero portare il paese sull'orlo del baratro. CONGO – Nonostante le accuse di colonialismo che giungono per altre questioni, il Regno Unito conferma pienamente il suo impegno per la cooperazione allo sviluppo nei paesi africani. Grazie a vari accordi diplomatici ed intese finanziarie, Londra erogherà verso Kinshasa più di 200 milioni di dollari per garantire alla RDC un apparato di polizia efficiente ed autonomo e una rete stradale capace di soddisfare le esigenze di una delle economie più promettenti della regione. L'aiuto di Scotland Yard, la fornitura di tecnologie avanzate sommate a 60 milioni di aiuti potrebbero garantire al Congo una forza di polizia efficace nel controllo del territorio. Il piano per dotare il paese di circa 1700 km di strade è invece volto a sostenere il trasporto di merci e materie prime fondamentali per l'industria in forte crescita. NIGERIA – E' destinato a crescere il bilancio dei morti nella lotta continua tra Governo centrale e la setta islamico-estremista Boko Haram che si batte contro il cristianesimo e i costumi occidentali. L'ultimo atto della tragica storia si ferma a Domenica con un attentato suicida avvenuto all'interno di una chiesa di Jos, cittadina nella zona centrale del paese. Non si è fatta attendere la rivendicazone dell'atto da parte dell'ormai noto portavoce del movimento, tale Abul Qaqa, che nella dichiarazione ha richiamato gli omicidi contro i musulmani degli ultimi anni. In un occhio per occhio ancestrale, la comunità cristiana di Jos si è riversata nelle strade prendendo di mira i passanti di fede musulmana provocandone la morte con un linciaggio di massa.

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ASIA Lunedì 27-Venerdì 2 – Il Ministro degli Affari Esteri Guido Terzi di Sant'Agata è in partenza per un tour orientale a tappe forzate che lo porterà in soli 5 giorni in India, Vietnam e Singapore. Nonostante la visita fosse in programma da mesi, il suo significato è stato sicuramente soggetto alle emozioni dell'ultim'ora a causa dell'intricata vicenda che tiene i due marò italiani lontani da casa. In India Terzi incontrerà il suo omologo Somanahalli Mallaiah Krishna, il primo ministro Manmohan Singh e il reesponsabile per il commercio e l'industria. In Vietnam, economia emergente in via di riforma, il titolare della Farnesina parteciperà all'inaugurazione di un nuovo complesso industriale della marca italiana Piaggio. Singapore, con la sua gestione iper-efficiente delle autorità statali sarà una tappa fondamentale per promuovere il rilancio italiano, nonchè l'industria aeronautico-militare nostrana, settore per cui il piccolo stato spende il 3,8% del PIL. Domenica 4 – Dopo settimane di attesa, proteste di piazza, discorsi altisonanti e accuse reciproche la data fatidiche per le presidenziali in terra di Russia è finalmente vicina. Più di 100 milioni di votanti si recheranno alle urne per confermare l'esito scontato dell'appuntamento che potrebbe garantire a Vladimir Putin un regno incontrastato sul paese per altri 6 anni. Inutile pronunciarsi sulle chance di successo dei soliti sfidanti, il comunista nostalgico Zyuganov, il socialdemocratico populista Mironov, il liberale Zhirinovsky e l'indipendente Mikhail Prokhorov. In un'elezione che si propone come un referendum sulla figura politica dell'attuale premier, l'opposizione disunita sembra costretta a raccogliere i voti di protesta della classe media, che probabilmente non saranno sufficienti a battere l'eterno candidato di Russia Unita. AFGHANISTAN – E' un fuggi fuggi generale quello che vede come protagonisti i consiglieri diplomatico-militari di Francia, Germania, Regno Unito e Stati Uniti dalle istituzioni centrali di Kabul. Non sono risultate sufficienti le scuse ufficiali del Presidente Obama per il Corano dato alle fiamme in una base militare americana, la popolazione afghana ha infatti legato il gesto, simbolico ma gravissimo, ad anni di violazioni e miserie seguiti all'occupazione militare del 2001. In tali condizioni di scontro ed alta tensione sembra impossibile la permanenza in regime di sicurezza minima delle truppe internazionali presenti sul territorio, visto che le stesse forze di sicurezza afghane, sembrano ritorcersi contro coloro che ne hannpo favorito la creazione. Sarebbe stato proprio un agente dei servizi segreti di Kabul a provocare la morte dei due militari americani nella sede del Ministero dell'Interno, l'episodio ricorda l'uccisione dei 5 soldati francesi in seguito alla diffusione del video in cui alcuni marines insultavano i cadaveri di talebani uccisi in azione. MEDIO-ORIENTE IRAN – Pessime notizie per l'Italia da Teheran, secondo l'agenzia di stampa Fars, il Ministero del Petrolio avrebbe rifiutato la consegna di circa 500mila barili di greggio nei confronti della Grecia, costringendo alcune petroliere a tornare in patria a secco. Sei paesi europei si erano detti fiduciosi di continuare a gestire contratti di lungo periodo con l'Iran nonostante l'embargo petrolifero previsto per il rpimo di Luglio. Intanto la missione degli ispettori AIEA lascia forti dubbi sulla natura del programma nucleare di Teheran, proprio quando l'intelligence americana cerca di calmare le acque con interventi diretti sulla stampa nazionale. Londra intanto si dice sicura di un imminente attacco israeliano e sarebbe pronta ad unire le proprie forze con Tel Aviv, mentre Vladimir Putin si dice profondamente preoccupato per la questione. ISRAELE – In vista del summit alla Casa Bianca del 5 marzo e del Comitato per gli affari israelo-americani che si terrà a Washington nello stesso periodo, Benjamin Netanyahu è atteso ad Ottawa per un incontro col primo ministro Steven Harper. La visita in programma per venerdì 2, segue di poco il tour mediorientale di alcuni ministri chiave del governo Harper, che hanno incontrato i colleghi israeliani e palestinesi promuovendo i negoziati per la pace. Secondo indiscrezioni raccolte da The Canadian Press, il discorso tenuto dal Ministro degli Esteri John Baird alla sessione di settembre dell'Assemblea Generale ONU sarebbe stato modificato per nascondere il sostegno canadese alla lotta per lo stato palestinese. Nonostante l'appuntamento sia solo un appoggio per la maratona a stelle e strisce della prossima settimana, Netanyahu sa bene che il Canada è un partner fondamentale dell'Alleanza Atlantica e le sue forze armate sono stimate nel panorama internazionale per competenza ed organizzazione. SIRIA – Nonostante le premesse fossero le peggiori possibili, sembra aver riscosso una discreta affluenza il referendum proposto dal governo siriano per dotare il paese di una nuova Costituzione e indire elezioni politiche entro 90 giorni. Damasco, con punte nel quartiere cristiano di Bab Touma, e Aleppo le città simbolo dell'appuntamento elettorale accolto con manifestazioni giubilanti e code ai seggi aperti. Nelle aree ribelli invece la repressione è continuata incessantemente col bilancio dei morti giunto a 31 secondo l'Osservatorio Siriano per i Diritto Umani. Mentre l'emiro qatarino Al Thani e il Ministro degli esteri tedesco Westerwelle si dicono contrari ad appuntamenti elettorlai in tale clima, il Segretario di Stato USA Hillary Clinton si è detta pronta a sostenere una road-map democratica nel paese, contestando l'ipotesi di un intervento militare. Continuano il negoziato pressante del Comitato Internazionale della Croce Rossa e della Red Crescent siriana per garantire ai feriti e ai civili una tregua giornaliera e un effettivo accesso alle cure mediche. Tra tre settimane è prevista la prossima puntata della Conferenza degli Amici della Siria, la sede sarà stavolta Istanbul, con la Turchia che si dimostra in prima linea nell'impegno umanitario al confine con Damasco. Fabio Stella [email protected]

Una voce per la Siria

Si apre oggi un appuntamento fondamentale per le sorti future della situazione attuale in Siria, ormai precipitata verso un tunnel di violenze senza via d'uscita. La Conferenza degli Amici della Siria riunisce i rappresentanti dei Paesi membri della Lega Araba, dell'Unione Europea più Stati Uniti, India, Brasile e Turchia. Difficile che si raggiunga il consenso per un riconoscimento de facto del Consiglio Nazionale Siriano e dell'Esercito Libero, data l'evidente mancanza di coordinamento tra le varie istanze e il rischio di infiltrazioni terroristiche dall'Iraq e dal Libano. Occhi puntati quindi sull'evento, con la consapevolezza che l'inverno a Damasco durerà ancora molto, prima che qualcosa di consistente venga deciso per porre fine all'escalation del conflitto

DOVE TUTTO HA AVUTO INIZIO – Non avrebbe potuto svolgersi in uno scenario migliore la "Conferenza degli Amici della Siria". La Tunisia, ad oggi, resta il paese che meglio si è adattato al cambio di regime sull'onda della Primavera Araba. Nonostante le proteste dei giovani disillusi e dei disoccupati scontenti, il governo guidato da Mohamed Gannouchi sembra infatti stia riuscendo nella grande impresa di riportare la nazione alla normalità. La Primavera tunisina però si è conclusa in fretta portandosi via Ben Alì e buona parte del suo clan, aprendo la strada alle urne e ad un nuovo governo a maggioranza islamico-riformista. In Siria invece la popolazione è cresciuta all'ombra del quarantennale stato d'emergenza, e i massacri di civili non sono nuovi data l'elevata frammentazione etnico-religiosa e il monopartitismo baathista.

UNITI PER LA SIRIA? – Nonostante il forte impegno comune delle varie istanze nazionali per un maggior coinvolgimento nella soluzione del conflitto, a poche ore dall'inizio dei lavori sembrano accentuarsi differenze e divisioni tra le due bozze principali di dichiarazioni conclusive. Qatar e Regno Unito guidano le due istanze con gli uomini dell'onnipresente emiro Al Thani a premere per un sostegno concreto alle forze sul campo e i britannici, a guidare la diffidenza occidentale, a gettare ulteriori armi sul campo. Entrambi in realtà sarebbero pronti a supportare "il piano della Lega Araba per mettere fine alle violenze in Siria e lavorare per una transizione politica verso un paese pacifico e democratico". Si potrebbe richiedere anche "il rilascio di tutti i prigionieri politici detenuti arbitrariamente e il ritiro delle forze di sicurezza da tutte le città e i villaggi". Il Consiglio di Sicurezza dovrebbe continuare a rivestire un ruolo primario nella gestione della crisi umanitaria e mettere in atto misure concrete per fermare l'eccidio di civili e tutti i crimini contrari al diritto nazionale ed internazionale, ma qui termina la visione unitaria.

BENZINA SUL FUOCO – Negli ultimi giorni sempre più fonti hanno citato la volatilità dei vari attori dell'opposizione siriana, citando fonti d'intelligence che confermerebbero la presenza di cellule terroristiche di stampo sunnita o qaedista pronte a raccogliere la fatwa lanciata dall'erede di Osama bin Laden, l'egiziano Ayman Al-Zawahiri. A circa trent'anni di distanza si ripresenta negli Stati Uniti il dilemma che colpì il finanziamento segreto ai guerriglieri dell'Alleanza del Nord contro l'invasione sovietica dell'Afghanistan. Lo stesso scenario si è ripresentato in Libia, dove lo stato di diritto è assoggettato alle orde di fazioni armate più o meno convinte a continuare ad influenzare la vita politica del paese. Nessuno può sapere in anticipo e con certezza quali mani impugneranno i kalashnikov una volta giunti nel territorio siriano, contro la repressione del governo l'unione fa la forza e il beneficio della potenza di fuoco supera il rischio di trovarsi schierati fianco a fianco con gli estremisti islamici

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NO BOOTS ON THE GROUND – Con le elezioni imminenti in Francia e negli Stati Uniti, l'Italia già impegnata con più di mille uomini nella missione UNIFIL in Libano e la Turchia preoccupata a gestire la situazione al confine, l'ipotesi di un intervento militare umanitario sembra ancora poco credibile. Tuttavia, le recenti conclusioni della Commissione d'Inchiesta per la Siria, istituita dal Consiglio dei Diritti Umani e le morti tutt'altro che accidentali di due inviati occidentali hanno sicuramente messo in allerta la Comunità Internazionale. Dalla girandola d'incontri svoltisi a margine dell'incontro di Londra sul futuro della Somalia, il Segretario di Stato americano Hillary Clinton sembra aver registrato l'unanimità su alcune questioni di fondo. I vari governi dovrebbero finire col concordare su un ultimatum di 72 ore per dare a Bashar al-Assad l'ultima chance di garantire un cessate il fuoco garantito di due ore, pena un inasprimento delle sanzioni fino a livelli mai raggiunti prima. La tregua quotidiana sembra avvicinarsi alla proposta del CICR, il Comitato Internazionale della Croce Rossa, per garantire un immediato accesso alle cure per i feriti civili e per le categorie più deboli della popolazione.

CON O SENZA ORIENTE – Dopo la decisione di Mosca di non partecipare ad "una riunione schierata politicamente ed irrispettosa nei confronti dell'unità della Siria", manca solo Pechino all'appello degli invitati. La visita dell'inviato cinese a Damasco, pochi giorni, non ha suscitato la pressione diplomatica che si aspettava l'elite del PCC. Al termine degli incontri il vice ministro degli Esteri Zhai Jun si è detto favorevole a qualsiasi iniziativa multilaterale sostenuta dalla Lega Araba, rispettando perfettamente la tradizione cinese di non-interferenza nelle questioni regionali. In realtà le dichiarazioni rilasciate all'agenzia di stampa Xinhua dal portavoce del Ministero degli Esteri Hong Lei sembrano propendere per l'astensione dai lavori di Tunisi. Pechino teme l'assenza di un regime giuridico nell'incontro nonchè la possibilità di restare chiusa in un angolo mentre dichiarazioni non gradite vengono prese a maggioranza. Quello che è certo è la fine dell'idillio tra gli Assad e il dragone cinese, due veti consecutivi in poche settimane non si vedevano da tempo in Consiglio di Sicurezza e la questione dei diritti umani solleva già abbastanza problemi in Tibet e Sichuan.

Fabio Stella  [email protected]

Il gigante che balla la samba

Il Giro del Mondo in 30 Caffè 2012 – Ecco la seconda tappa del nostro viaggio in Brasile. Dopo aver parlato delle linee di politica estera, vediamo come la Presidente Dilma Rousseff sta consolidando i risultati ottenuti da Lula con politiche economiche che continuano a garantire crescita sostenuta insieme ad una crescente attrattività degli investimenti dall’estero, anche dall’Italia. Vi proponiamo un’intervista con Antonio Calabrò, Direttore della Fondazione Pirelli e co-autore del libro “Bandeirantes – Alla conquista dell’economia mondiale”

 

Se l’Europa è in crisi, dall’altra parte del mondo c’è chi invece vola. È il caso del Brasile, che a fine 2011 ha superato la Gran Bretagna diventando la sesta economia mondiale. Un Paese la cui crescita sembra ancora in grado di continuare: le prospettive per il 2012 descrivono un aumento del PIL pari al 3,5%. Dilma Rousseff ha raccolto con autorevolezza il “testimone” dal suo predecessore Lula e ha saputo superare il momento politico difficile legato agli scandali di corruzione che hanno portato alle dimissioni di alcuni ministri. Ne parliamo con Antonio Calabrò, Direttore della Fondazione Pirelli e co-autore (con Carlo Calabrò) del libro “Bandeirantes – il Brasile alla conquista dell’economia mondiale” (ed. Laterza, 2011).

 

Cominciamo dalla situazione attuale. Il 2011 si chiude in un panorama che non sembra più così in discesa per Dilma Rousseff. A partire dagli scandali politici, che hanno portato alle dimissioni di sette ministri del Governo in un solo anno. Quali sono le prospettive di stabilità politica per il Governo? Si potrebbe verificare il rischio di un esaurimento del “propellente” fornito dal lulismo, capace di fornire consensi elevatissimi? “Non credo si possa parlare di instabilità né di esaurimento della spinta riformista che viene da una lunga stagione, quella delle presidenze di Fernando Henrique Cardoso prima e di Lula dopo. Dilma sta tenendo fede al suo impegno di rinnovamento e di moralizzazione della politica, preso all’indomani della sua nomina. Le dimissioni di ministri coinvolti in scandali, semmai, rafforzano il potere della presidente. E’ chiaro che nel mondo politico legato ai “dimissionati” non c’è grande apprezzamento. Ma il sostegno dell’opinione pubblica è ancora abbastanza elevato. Dilma, inoltre, mantiene la presa anche sul mondo dell’industria pubblica, come dimostra la recente  nomina al vertice di Petrobras di Graca Foster, un’ottima manager vicina alla presidente”.

 

Anche l’economia, dopo aver “volato” nel 2010 e fino alla metà di quest’anno, negli ultimi mesi ha registrato una battuta d’arresto, con un PIL che non è cresciuto rispetto al trimestre precedente, a dispetto della notizia del “sorpasso” sul Regno Unito come sesta economia mondiale. Le recenti stime della Banca Centrale rivelano che nel 2012 l’economia crescerà “solo” del 3%: pensa che questo tasso sia comunque sufficiente per garantire al Brasile di proseguire sulla strada dello sviluppo e della riduzione delle disuguaglianze? “Un po’ tutto il mondo cresce meno. La crisi internazionale si fa sentire, naturalmente, pure in Brasile. Ma le prospettive sembrano comunque buone, legate alle dinamiche di crescita del mercato interno e al flusso costante di investimenti esteri. E il governo si sta muovendo bene nel cercare di tenere sotto controllo l’inflazione”.

 

Parliamo di commercio estero e diamo uno sguardo all’esterno. Nonostante il Brasile sia ancora un Paese decisamente protezionista, la competizione in arrivo dalla Cina si fa sentire. Che conseguenze ci potrebbero essere nel medio periodo? “Il protezionismo continua a essere forte. E il “rischio Cina” è avvertito, anche in settori industriali di punta, come quello dell’auto. Il governo Dilma si sta muovendo per  non essere più solo esportatore di materie prime verso la Cina, ma per produrre in casa, per esempio, acciaio, diventando competitor pure in quel settore. Mi sembra inoltre che il Brasile stia lavorando per allargare la gamma di interlocutori internazionali, sul piano economico”.

 

Relazioni internazionali: il Brasile è molto attivo sul fronte della cooperazione Sud-Sud, mentre le relazioni emisferiche con gli USA si sono raffreddate negli ultimi anni. Pensa che il ministro degli Esteri Antonio Patriota proseguirà su questa linea? “Non direi che le relazioni con gli Usa siano in una fase di freddezza. Il dialogo Lula-Obama aveva una certa consistenza, adesso la presidente Dilma è molto apprezzata sia alla Casa Bianca sia da parte della segretario di Stato Hillary Clinton. In ogni caso, ogni dialogo tra Usa e America Latina non può  non tenere conto del Brasile, vera potenza regionale. E agli Usa, a mio parere, conviene avere un interlocutore, come appunto il Brasile, che tenga aperte le porte del dialogo con paesi “difficili” come Cuba e Venezuela”.

 

Il Brasile e l’Italia: nel nostro Paese si parla ancora a “intermittenza” delle opportunità che questo Paese offre, spesso in occasione di avvenimenti che scuotono l’opinione pubblica come il caso Battisti. Quali prospettive vede per le relazioni bilaterali. “Caso Battisti a parte, credo che le relazioni siano in costante miglioramento, guidate dai comuni interessi in campo economico. Aumenta di molto il numero delle imprese italiane che guardano al Brasile sia per potenziamento delle esportazioni sia soprattutto per investimenti diretti.  Le grandi imprese, a cominciare da Fiat e Pirelli, rafforzano la loro presenza. Si muovono anche molte medie imprese e alcuni dinamici distretti industriali. E – ecco una novità –  arrivano in Brasile anche le banche italiane, tradizionalmente assenti, come dimostra il recentissimo accordo tra Centrobanca (gruppo Ubi) e Banco Votorantim, per seguire joint ventures e interventi di medie imprese manifatturiere: la prima iniziativa diretta di un istituto di credito italiano in quel paese. Altre attività finanziarie, ne sono certo, seguiranno”.

 

Il Brasile è uno Stato che offre opportunità per investimenti potenzialmente immense. Come mai, secondo lei, nel dibattito comune è ancora la Cina a fare la parte del leone, mentre si parla ancora relativamente poco delle possibilità presenti in Brasile ma anche nel resto del Sudamerica? Che cosa impedisce a questa regione di affrancarsi definitivamente dallo stereotipo di area esotica adatta solo al turismo? “Gli stereotipi sono duri a morire, naturalmente. Ma credo che, soprattutto nei settori politici ed economici italiani più qualificati, si stia diffondendo l’idea del Brasile come interlocutore essenziale, per affari e relazioni. Gioca positivamente, in questo senso, pure il buon lavoro fatto dalle rappresentanze diplomatiche italiane a Brasilia e a San Paolo. Anche i mezzi di informazione italiani cominciano ad avere, sul Brasile, un’attenzione meno episodica e più attenta e competente”.

 

Davide Tentori

Cambio di stile

Il Giro del Mondo in 30 Caffè 2012 – Passato ormai più di un anno dal suo insediamento alla guida del paese, è possibile tracciare un primo bilancio dell’operato di Dilma Rousseff in politica estera. Messi da parte gli eccessi e i protagonismi del suo predecessore Lula, la Rousseff ha inaugurato un corso dal profilo senz’altro più defilato, ma non per questo meno deciso nel reclamare un ruolo da protagonista assoluto per il Brasile e nel relazionarsi da pari a pari con le grandi potenze mondiali. Con il seggio di membro permanente del Consiglio di Sicurezza sempre nel mirino

 

L’EREDITÀ DI LULA – Nel suo primo anno da Presidente del Brasile, l’amatissimo (in patria) Capo di Stato brasiliano si era fatto immediatamente notare per le tantissime missioni all’estero, tali da trattenerlo fuori dai confini del proprio paese per ben 63 giorni. In generale, l’intero corso di Lula è stato segnato dagli stretti legami allacciati con realtà non proprio filo-occidentali quali Venezuela, Cuba e Iran, e dalle insistite iniziative e dichiarazioni in favore di un nuovo ordine mondiale più giusto e meno squilibrato nella distribuzione di ricchezza e potere tra nord e sud del globo. Atteggiamento, questo, che lo ha portato non di rado a scontrarsi frontalmente con gli Stati Uniti, come in occasione dell’accordo energetico stretto con lo stesso Iran nel 2010 e delle ripetute astensioni in sede di Consiglio di Sicurezza allorquando sempre il regime di Teheran si trovava nel mirino di Washington.

 

USA-BRASILE, UN NUOVO INIZIO? – Viceversa, la Rousseff ha ammorbidito non poco la posizione di Brasilia nei confronti delle questioni internazionali più sensibili, ponendo la causa dei diritti umani al centro della sua politica estera e prendendo le distanze da figure discusse ma nondimeno vicine in passato al colosso sudamericano. Si spiegano così le dure prese di posizione nei confronti di Gheddafi e della sua gestione della crisi libica, e i raffreddamenti dei rapporti con l’Iran, culminati nel voto in sede di Consiglio di Sicurezza che ha dato il via alle sanzioni contro Teheran (e d’altronde, non sarà sfuggito ai più attenti come Ahmadinejad abbia evitato di far tappa in Brasile nella sua recente tournée sudamericana). Sottolineato da più parti è stato anche il riavvicinamento – almeno formale – con Washington, sancito dalla visita di Obama nella capitale brasiliana appena 78 giorni dopo l’elezione della Rousseff. Evento tanto più importante da un punto di vista simbolico se si pensa che è stata la prima volta che un Presidente brasiliano neo eletto non si sia recato a far visita alla Casa Bianca per il primo incontro del proprio mandato, ricevendo invece la visita del suo omologo statunitense. Nonostante il suddetto incontro sia stato più che altro un innocente “pour parler”, il nuovo atteggiamento di Washington sembra testimoniare come il Brasile abbia ormai raggiunto lo status di potenza regionale incontrastata del Sudamerica. Un altro incontro tra i due capi di stato d’altronde è imminente – si terrà negli USA il prossimo marzo – e chissà che non sancisca ulteriori interessanti sviluppi nelle relazioni tra i due colossi americani.

 

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I RAPPORTI CON PECHINO – Ma la vera questione al centro della politica estera brasiliana è un’altra, ossia i rapporti economici con il colosso cinese, che nel 2009 ha superato proprio gli Stati Uniti divenendo il maggior partner commerciale di Brasilia. Quello che davvero impressiona è la velocità con la quale si è giunti a questo traguardo: a malapena un decennio fa, i due paesi scambiavano merci per un totale di soli 3 miliardi di dollari; ebbene, questa cifra è andata crescendo esponenzialmente negli anni successivi, raggiungendo i 56 miliardi nel 2010 e attestandosi sui 77 miliardi l’anno passato. Numeri semplicemente impressionanti. Un secondo dato che balza immediatamente all’occhio è la fattispecie di relazione commerciale che si è instaurata tra le due superpotenze: mentre il Brasile esporta in Cina per l’84% materie prime (principalmente soia e ferro), il tipo di merci che compiono il medesimo tragitto nel senso opposto sono per il 98% beni manufatti. Uno squilibrio che non è ovviamente sfuggito alla Rousseff, preoccupata di far diventare il Brasile qualcosa di più che non una semplice fonte di approvvigionamento per le inesauribile fauci del dragone orientale, e conscia che un abbassamento dei prezzi delle suddette materie prime o la presenza di nuovi partner commerciali per Pechino causerebbero difficoltà di non poco conto.

 

ALLA RICERCA DEL SEGGIO PERMANENTE – Quello di ottenere finalmente un ruolo di primo piano nel Consiglio di Sicurezza ONU è sicuramente il grande obiettivo di Brasilia: sarebbe questo il passo finale, il suggello che sancirebbe l’ingresso definitivo nel club ristretto ed esclusivo delle superpotenze mondiali. Passo che, ovviamente, è quanto di più complicato sia possibile compiere nel complesso mondo delle relazioni internazionali e della diplomazia. E mentre Regno Unito, Russia e Francia hanno dato il loro esplicito consenso ad un eventuale allargamento al Brasile del potere di veto, o quantomeno hanno lasciato intendere di non volersi opporre, va registrata la maggiore freddezza degli Stati Uniti in tal senso. Stati Uniti ai quali farebbe senz’altro più comodo un analogo ingresso nel Consiglio da parte dell’India – così da creare una forza in grado di contrastare l’inarrestabile ascesa cinese nell’area – e che non intendono entrare in contrasto con le altre realtà dell’America Latina (in primis il Messico) che naturalmente non vedrebbero la cosa di buon occhio. Insomma, la sensazione è che si sia ancora molto distanti da una soluzione, e che il Brasile dovrà tenere a bada ancora per diverso tempo le proprie crescenti ambizioni.

 

Antonio Gerardi

Un calcio al sottosviluppo

Il 12 febbraio lo Zambia ha conquistato la Coppa d’Africa sconfiggendo in finale la più quotata Costa d’Avorio. La competizione è stata organizzata da Gabon e Guinea Equatoriale, Paesi tra i maggiori produttori di petrolio, ma tragicamente connotati dalle precarie condizioni dei diritti umani. Il massimo campionato africano rappresenta lo spirito di un continente più di ogni altro analogo torneo internazionale: tra il volto festoso e accogliente da un lato e la tragedia dei conflitti dall’altro, ecco che il calcio diviene allo stesso tempo spettacolo e strumento di governo

LA COPPA D’AFRICA – Poche altre competizioni al mondo hanno la forte carica politica della Coppa delle Nazioni Africane. Certo: lo sport, soprattutto a livelli internazionali, ha sempre strette connessioni con la vita di un Paese, con la sua storia, con la sua vicenda sociale. Talvolta, sui campi da gioco trovano compensazione le rivalità secolari e gli antagonismi, non necessariamente in senso negativo. Non è raro che un successo rappresenti una vera e propria rivalsa, un riscatto di un popolo nei confronti di un altro: senza scomodare realtà geografiche lontane, questo è quanto accadde con le vittorie italiane sulla Germania del 1970 (l’epico 4-3) e del 1982 (il Mondiale). In Africa, il continente dilaniato dagli scontri etnici nelle varie declinazioni, il calcio è al contempo strumento di potere e rappresentazione di unità nazionali spesso labili e artificiali, prosecuzione – parafrasando una celebre definizione – dei conflitti con altri mezzi. Nei Paesi meno democratici, nei quali lo Stato tende a essere forte e invadente, le federazioni calcistiche sono spesso presiedute da elementi che, se addirittura non sono legati da vincoli di parentela con il vertice di comando (come nella Libia di Gheddafi), sono comunque a esso strettamente connessi, poiché incaricati di perseguire attraverso lo sport tappe politicamente importanti, quali la creazione di momenti di aggregazione nazionale o la superiorità sul nemico.

L’INTERAFRICANITÀLa Coppa d’Africa ha sempre avuto un carattere peculiare sin dalla prima edizione (Sudan, 1957), ossia la connotazione volutamente marcata di competizione continentale inter-africana dalla quale i Paesi stranieri, soprattutto i colonizzatori europei, dovessero restare fuori. Se questo aspetto può apparire poco aderente alla realtà osservando, per esempio, il volume degli investimenti francesi o britannici, diversa opinione si ha seguendo il campionato tramite la stampa locale e i forum dei tifosi, vigorosi nel respingere le critiche e i commenti degli osservatori esterni.

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GABON E GUINEA EQUATORIALE 2012 – L’edizione 2012 del trofeo è stata organizzata in comune da due Stati ricchi di petrolio che, nonostante i tentativi degli ultimi anni, accusano ancora gravi criticità nel rispetto dei diritti umani: il Gabon di Ali Bongo Ondimba e la Guinea Equatoriale di Teodoro Obiang Nguema Mbasogo. Nel primo caso qualche apertura è stata concessa, a partire dal riconoscimento dei partiti di opposizione; ancora, però, il potere resta nelle salde mani della famiglia Bongo, che lo gestisce dall’indipendenza dalla Francia (1960). In Guinea Equatoriale, terzo produttore petrolifero africano, la situazione è decisamente più complessa e preoccupante, con costante repressione violenta dei dissidenti, pratiche di tortura diffuse e mancanza totale di libertà d’espressione. Il presidente Mbasogo, salito al potere nel 1979 dopo aver spodestato lo zio, a sua volta macchiatosi dell’eccidio di quasi un quarto della popolazione, è ritenuto tuttora uno dei dittatori più duri in Africa e paragonato addirittura ad Amin Dada.

SUL CAMPO – Quanto all’aspetto sportivo, la Coppa d’Africa appena conclusa ha riservato sorprese e colpi di scena, a cominciare dalla vittoria dello Zambia in finale contro la favorita Costa d’Avorio e dal quarto posto del Ghana, per arrivare all’assenza di Camerun, Egitto e Sudafrica, passando per la rapida eliminazione di Marocco e Senegal. Grande risalto è stato dato sia alla Tunisia, considerata la nazionale della Primavera araba, la compagine sorta dal rinnovamento del 2011, sia alla Libia, che si presentava per la prima volta con la nuova bandiera. Le partite si sono susseguite avendo sullo sfondo i grandi drammi dell’Africa e l’evolversi delle dinamiche contemporanee, dai disordini a Dakar, alle tensioni tra il Sudan e il Sud Sudan, mentre lo stesso al-Bashir procedeva alla repressione nel Kordofan e i Tuareg si ribellavano in Mali, Ciad e Niger. Osservando gli stadi, si percepivano tutte le profonde contraddizioni dell’Africa e tutte le potenzialità emancipatrici e aggreganti del calcio, con alcune nazionali che avevano rappresentatività del proprio Paese solo perché legittimate dal campo, spalti costantemente in festa anche nella delusione, nomi divenuti illustri nei campionati europei. Sul pallone che rotolava sotto la battente pioggia di Libreville era rivolta tutta l’attenzione di un continente che, sospeso tra la forza di dolorose radici e la spinta verso il futuro, per un mese ha trovato nello sport la speranza di una nuova indipendenza.

Beniamino Franceschini [email protected]

Fermi sulla via della seta

Il Giro del Mondo in 30 Caffè 2012 – Il 2011 è stato un anno di relativa calma e stabilità per i cinque Paesi dell’Asia Centrale. Kazakhistan, Tajikistan, Turkmenistan, Uzbekistan e Kyrgyzstan hanno fronteggiato con discreta nonchalance i problemi oramai usuali della regione: politica incerta, economia barcollante, vicini turbolenti. Nonostante una posizione geografica strategica per molti equilibri geopolitici e importanti risorse da sfruttare, non si trova infatti unità d’intenti per superare, almeno, i principali scogli verso la stabilità e il benessere

 

I MAGNIFICI QUATTROSuper-Presidenti, o dittatori, ma comunque sopra le righe dei canoni istituzionali occidentali. Uzbekistan, Kazakhistan, Tajikistan e Turkmenistan (in foto, da sinistra a destra, i Presidenti dei primi tre Paesi) vedono sempre in sella i loro forti Capi di Stato, che superano indenni il rischio di “sommosse a cascata” della Primavera Araba e anzi sembrano consolidare le posizioni. Il Presidente kazako Nursultan Nazarbaev è stato rieletto per il suo quarto mandato consecutivo in Aprile, con oltre il 95% dei voti: l’opposizione ha boicottato il voto e l’OSCE ha preso atto di una condizione democratica non proprio ben sviluppata (leggi qui il report sulle elezioni), ma nulla di più è accaduto. Nazarbaev, inoltre, si è assicurato la possibilità di un leadership duratura ottenendo che la Costituzione fosse emendata ad personam, eliminando i limiti a sue future candidature. Inoltre, il 15 Gennaio 2012 si sono svolte anche le elezioni per il Parlamento: anche in questo caso i limiti istituzionali rilevati sono tanti, e il tentativo di democratizzazione rimane quantomeno superficiale (la pagina dell’OSCE dedicata a questa tornata elettorale). Il collega turkmeno Gurbanguly Berdymukhammedov ha fatto anche meglio pochi giorni fa, battendo i concorrenti (dello stesso partito) con il 97% dei voti e parecchie riserve degli osservatori internazionali. C’è però da dire che queste elezioni sono solo le seconde dal 2006, cioè dalla morte di Saparmyrat Niyazov (unico Presidente dall’indipendenza, conseguita nel 1990), le prime con più candidati.

I Presidenti di Tajikistan (Emomali Rakhmon) e Uzbekistan (Islam Karimov) non dovranno confrontarsi con elezioni rispettivamente prima del 2013 e del 2014 (ma forse l’uzbeko potrebbe dimettersi prima del termine, per motivi di età e salute, designando il successore). Solo il Kyrgyzstan ha mostrato una certa discontinuità, con le elezioni di Ottobre, che hanno visto vincere Almazbek Atambaev in una contesa elettorale ampia e combattuta. Ricordiamo che solo questo Paese ha vissuto di recente una rivoluzione, nel 2010, rimanendo però un centro di instabilità politica e sociale nell’area.

 

PRIMAVERA? NO, GRAZIE – Sebbene l’Asia Centrale soffra di problemi simili a quelli che hanno scosso e scuotono i Paesi del Nord Africa e del Medio Oriente (povertà e forte disagio sociale, corruzione, governi dal pugno duro, spesso dittatoriali, e non solo), questa regione non sembra prona a ripercorrere le orme e a subire il contagio delle tante “primavere” recenti. I precedenti di sommosse e contrasti in Kyrgyzstan, Ucraina, Georgia hanno già fornito delle lezioni ai governi locali (ed alla Russia, che rimane la potenza con maggiore influenza sulla regione) per prevenire esplosioni incontrollate. Inoltre ci sono interessi importanti che accomunano i Paesi dell’area: contenimento del fondamentalismo islamico, gestione delle risorse energetiche e naturali regionali, iniziative di mercato comune e di sicurezza e, non da ultimo, due grandi attori, due potenti – Russia e Cina – a contendersi i favori e sostenere i governi. Fattori stabilizzanti, insomma. Non bisogna però sottovalutare quello che è accaduto anche di recente, come le sommosse di Zhanaozen, in Kazakhistan, che nel Dicembre 2011 hanno causato 16 morti; in quell’occasione le violenze sono nate da una dura protesta di lavoratori contro un’azienda che estrae petrolio, protesta che ha presto coinvolto le istituzioni, in particolare rispetto al diritto di voto delle popolazioni locali alle elezioni parlamentari (tuttora limitato). Il fatto che in una zona relativamente ricca ci siano proteste è indice di un disagio che non era prima emerso. Sembra che in merito siano state avviate diverse iniziative (sia giudiziarie, nei confronti dei vertici politici e di polizia locali, che a livello centrale, per valutare soluzioni di “apertura democratica”), e che quindi la situazione sia dinamica anziché votata allo scontro. Da monitorare.

 

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E LA SICUREZZA, DOVE LA METTIAMO? – Non è un caso che il decimo anniversario della Shanghai Cooperation Organization (SCO), importante aggregazione regionale per la sicurezza guidata da Mosca e Pechino, si sia svolto ad Astana (Kazakhistan), e non è indifferente che la riunione abbia prodotto importanti novità dal punto di vista dell’espressione di posizioni comuni: una dichiarazione congiunta di opposizione al progetto di “scudo antimissile” americano in Europa, che è stata sottoscritta per la prima volta dalla Cina. Per la cronaca, c’era anche Ahmadinejad, in uno dei pochi consessi internazionali dove ha avuto parecchio spazio per esprimere i suoi concetti più estremi; c’è anche da notare che il Pakistan ha dichiarato di voler entrare a pieno titolo nel gruppo, segno comunque di un’aggregazione che evidentemente acquista peso e stabilità. E poi c’è l’Afghanistan, uno dei maggiori rischi per i Paesi dell’Asia Centrale, soprattutto in vista dell’uscita della NATO dal Paese nel 2014. Vi sono infatti i dubbi legittimi sulla tenuta di Karzai nel “dopo NATO”, timori fondati di crescente instabilità e mancanza di controllo del territorio, che inevitabilmente porterà a una più facile circolazioni di armi, oppio, gruppi di insorti ed estremisti (nel 2011 ci sono stati due attentati terroristici in Kazakhistan, il pericolo, insomma, è reale), oltre al rischio di contrasti interetnici. Prospettive tutt’altro che incoraggianti, anche perché, se dovesse accendersi un conflitto in Iran, la regione si troverebbe con un altro fattore esplosivo dietro casa, anzi, dentro casa.

 

COME VANNO GLI AFFARI? – La terra è il primo affare, della Cina ovviamente. Nel 2011 il Tajikistan ha chiuso una vecchia disputa territoriale con Pechino (circa 1000 kmq nei monti del Pamir ceduti alla Cina), facilitando il rilancio degli investimenti cinesi nel poverissimo Paese, soprattutto nei settori chiave dell’energia e delle infrastrutture. C’è poi il TAPI, Trans Afghan Pipeline, grande “progetto geopolitico” che dovrebbe portare il gas dal Turkmenistan in India, attraversando Afghanistan e Pakistan. Il progetto è stato lanciato nel 2010, ma al momento rimane nel novero delle belle speranze: nulla di rilevante nel 2011, e il 2012 non dovrebbe portare grandi novità. Ben più concreta e stabile è invece la “custom union” nata tra Russia, Bielorussia e Kazakhistan, a cui si è aggiunto di recente il Kyrgyzstan, con il Tajikistan in attesa. L’accordo consentirà una maggiore integrazione delle economie coinvolte, e quindi un più stretto legame alla Russia e a Putin che la promuove. Una curiosità può infine essere di interesse, se non altro per comprendere come la regione acquisti attenzione sulla scena internazionale: nel 2011, durante la raccolta del cotone in Uzbekistan (uno dei maggiori produttori al mondo), circa 60 tra le maggiori aziende mondiali che vendono prodotti in cotone (tra cui Walt Disney, H&M, Adidas) hanno deciso di boicottare la produzione uzbeka, pressando, insieme a iniziative delle Istituzioni europee, affinché i bambini non vengano impiegati sui campi.

 

IL MONTE DI PUTIN – Il Kyrghyzstan ha dedicato nel 2011 al Primo Ministro russo un picco di montagna, alto 4500 metri. Putin ha superato Eltsin (3500 metri), ma rimane ben dietro a Lenin (7000 metri). È un banale evento, certo, ma può essere anche una metafora della forza che la Russia può esprimere in questo momento storico nella regione. La Russia, come detto, rimane ancora l’attore principale dell’area. I cinque “Stan” però, che hanno festeggiato l’anno scorso i 20 anni di indipendenza dall’Unione Sovietica (1991), nel tempo hanno assunto posizioni via via più autonome dalla nuova Russia, sviluppando una politica multi-vettoriale, come spesso sottolineato dai loro leader. Sebbene dunque tale indirizzo caratterizzi le dichiarazioni politiche, non esiste al momento una cooperazione tale da rafforzare questi intenti, che sembrano spesso un modo per “alzare il prezzo”, a scapito di una maggiore integrazione che potrebbe aiutare la stabilità sia politica che economica. Attualmente sembra quindi mancare sia un “patronato” forte che un reale tentativo di indipendenza. La effettiva calma del 2011 può non essere scontata nel 2012: rimangono infatti aperte le “solite” questioni, rispetto alle quali il 2011 non ha segnato passi in avanti. Instabilità politica in Kyrgyzstan, economia estremamente precaria in Tajikistan, rischi di successioni non democratiche in Kazakhistan e Uzbekistan, insieme ad un contesto di vicinato imprevedibile (Afghanistan e Iran), sono dunque i maggiori punti di attenzione per l’anno in corso.

 

Pietro Costanzo

O mare nero

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Lo scontro tra le autorità civili e militari indiane e il governo italiano ha raggiunto il climax della tensione in seguito all'arresto dei due fanti di marina del battaglione San Marco, apparentemente coinvolti nella morte di due pescatori indiani. I due marò, distaccati con altri commilitoni sulla petroliera italiana Enrica Lexie dichiarano da parte loro di aver costretto alla fuga un barchino su cui si trovavano 5 uomini armati pronti ad assaltare la nave. Intanto un attentato, che coinvolgerebbe agenti iraniani e uomini di Hezbollah, che ha causato il ferimento della moglie di un diplomatico israeliano a New Delhi svanisce senza lasciare traccia nel dibattito politico indiano. 

IL BARCHINO DELLA DISCORDIA – Tra i pochi fatti accertati di questa vicenda che rischia di portare all'estremo il confronto tra la diplomazia indiana e italiana c'è la morte di 2 degli 11 pescatori imbarcati su un peschereccio che incrociava al largo delle coste del Kerala. Parallelamente il rapporto ufficiale del capitano della petroliera battente bandiera italiana, Enrica Lexie, in viaggio da Singapore all'Egitto, parla di un intervento dei due militari che avrebbero lanciato una scarica d'avvertimento ben davanti alla prua di un'imbarcazione sospetta, datasi immediatamente alla fuga. Le scariche, note come warning shots sarebbero state lanciate mentre il barchino si trovava prima a 500 poi 300 e infine 100 metri, quest'ultima a pelo d'acqua per innalzare una barriera di schizzi ben visibile dall'equipaggio. Le autorità portuali indiane parlano invece di una carena perforata da ben 16 proiettili mentre altri 4 avrebbero colpito i due pescatori, morti sul colpo. Tale ricostruzione implicherebbe una reazione spropositata e per questo inverosimile dei militari italiani che avrebbero puntato direttamente ad altezza uomo le loro armi contravvenendo a tutte le normative sulle regole d'ingaggio.

NELLA TANA DEL LUPO – Ma non è solo la ricostruzione dei fatti a suscitare reazioni al limite del manuale del giovane diplomatico, anche la decisione del capitano dell'Erica Lexie di entrare in acque territoriali indiane e da lì nel porto di Kochi solleva dubbi e sospetti. Secondo alcune fonti diplomatiche parlano di un vero e proprio tranello teso nei confronti dell'equipaggio italiano per impedirne l'allontanamento, peraltro giuridicamente legittimo. Le autorità locali dopo essersi sincerate dello scampato assalto da parte dei pirati avrebbero invitato il capitano a convergere nella baia di Kochi per partecipare al riconoscimento di un natante sequestrato insieme ad alcune armi, rivelatosi poi inesistente. Massimiliano Latorre e Salvatore Girone sono stati fatti sbarcare insieme al Comandante della petroliera per essere identificati in seguito nella guest-house del circolo degli ufficiali di marina. Insieme al Console Generale a Mumbai Giampaolo Cutillo sono poi stati scortati verso il distretto giudiziario di Kollam dove si è tenuta una manifestazione di protesta davanti alla casa del giudice incaricato del caso scottante.

FILO DIRETTO – Nemmeno la telefonata tra il titolare della Farnesina Giulio Terzi di Sant'Agata e il collega indiano Somanahalli Mallaiah Krishna, rinviato a giudizio il mese scorso per aver favorito una compagnia mineraria, è bastata a calmare simbolicamente le acque. Anzi proprio il colloquio diretto tra i due ha portato al mistero della scelta del Capitano, forzato alla cooperazione dalla polizia indiana, invitato a rimanere nel mare internazionale da Roma. Krishna ha chiesto a Terzi comprensione e rispetto per le pressanti richieste di giustizia da parte delle famiglie delle vittime e della comunità locale, anche se le uniche voci del popolo levatesi contro i marò restano quelle politicizzate dei partiti di Kollam. Intanto la magistratura indiana ha prolungato per altre 72 ore il fermo dei due "marines" in attesa di ulteriori accertamenti mentre una missine diplomatica italiana è giunta nella mattinata di ieri per trovare una soluzione negoziale ed evitare inutili tensioni.

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LA DURA LEGGE DEL MARE – Interrogato dai media italiani sulla vicenda, Natalino Ronzitti, esperto riconosciuto in tutto il mondo di diritto internazionale e negoziatore di numerosi trattati internazionali ha espresso la propria condanna nei confronti di quella che appare "un illecito internazionale dell'India nei confronti dell'Italia". I militari arrestati infatti erano a bordo della petroliera "misure anti-pirateria stabilite dalla Convenzione Onu sul diritto del mare del 1982 e da successive risoluzioni delle Nazioni Unite, alle quali nel 2011 ha aderito anche l'Italia". La sparatoria e la conseguente uccisione dei pescatori non sarebbe loro imputabile, non rientrando nella categoria dei crimini internazionali, poichè "tutti gli organi dello Stato beneficiano di immunità dalla giurisdizione straniera per gli atti compiuti nell'esercizio delle funzioni". Il principio dell'immunità statale (par in parem non habet iudicium) è stato recentemente affermato dalla Corte Internazionale di Giustizia nella controversia tra Germania e Italia sulle esecuzioni forzate in riparazione degli eccidi compiuti dalle SS in Grecia e in Italia. Se la soluzione diplomatica resta il faro per l'uscita dalla tempesta, non si esclude un ricorso al Tribunale Internazionale per il Diritto del Mare per la richiesta di "pronto rilascio di nave ed equipaggio".

QUESTIONE DI SGUARDI – Mentre Roma trema a Teheran avrà sicuramente sollevato soddisfazione la scarsa rilevanza data dai media indiani e dalle autorità del governo all'attentato terrostico che ha coinvolto una settimana fa l'Ambasciata israeliana a Nuova Delhi. Un piano ben orchestrato secondo indiscrezioni da una joint-venture iraniano-libanese che vedrebbe coinvolte cellule terroristiche in azione in Georgia, Thailandia e in India per replicare ai target killings contro gli esponenti del programma nucleare persiano. L'inchiesta portata avanti dalla polizia della capitale e dal Central Bureau of Intelligence, l'FBI indiana, non avrebbe coinvolto la National Security Guard, l'elite per quanto riguarda le indagini sul terrorismo. Alcuni politici del Partito del Congresso, attualmente al governo, avrebbero indicato l'ISI, il famosissimo servizio segreto pakistano, quale protagonista di un'operazione di false-flag per minare gli ottimi rapporti con Teheran. La polizia punta tutto su un attentatore locale mentre il Ministro per lo Sviluppo Urbano Kamal Nath ha bollato l'0accaduto come un incidente isolato.

MENO OVEST, PIU' EST – Viste sotto la luce che vi proponiamo le due vicende sembrano confermare una tendenza evidente nel corso degli utlimi sviluppi internazionali che ruotano attorno all'ormai onnipresente Iran. Dopo la sospensione delle vendite di greggio nei confronti di Francia e Regno Unito e la minaccia di coinvolgere anche gli altri membri dell'Unione Europea, in risposta all'embargo petrolifero stabilito per il luglio prossimo, l'unica via per il greggio iraniano sembra portare verso Nuova Delhi e Pechino. Solo la tigre e il dragone d'oriente con i loro tassi arrembanti di crescita economica possono assumersi l'onere di sostituire l'Europa nell'acquisto dei 2,5 milioni di barili dedicati all'export del secondo produttore del Medio Oriente. Da quando l'embargo europeo è iniziato a circolare sui tavoli di Bruxelles il greggio del Golfo Persico è aumentato di circa 20 dollari al barile e potrebbe raggiungere i 150 entro l'estate. La condiscendenza garantita ai piani di rivalsa nei confronti di Israele non può che confermare la volontà dell'elite politica degli shah a guardare verso la nuova alba per il futuro delle proprie scorte di oro nero.

Fabio Stella [email protected]

La sottile linea rossa

La settimana che si apre oggi è ricca di tensioni e problematiche che rischiano di portare ad un'altra primavera di scontri dopo quella araba dell'anno passato. Non cessa il duello diplomatico-mediatico tra Stati Uniti, Israele e Iran mentre è appena iniziata la seconda missione degli ispettori dell'AIEA tra i reattori di Teheran. Continua la repressione in Siria nonostante l'appello dell'inviato cinese a Damasco per una road map dettata dalla Lega Araba e l'imminente conferenza a Tunisi. L'Italia dopo gli exploit all'estero del neo-premier Monti è coinvolta ad est e ad ovest da due scottanti questoni diplomatiche mentre la tensione sulle falklands raggiunge livelli surreali. In attesa che si aprano le danze elettorali in tutto il mondo eccovi servito il "ristretto" di oggi.

EUROPA

Lunedì 20-Martedì 21Riaprono in settimana le porte di Bruxelles per i ministri dell'economia dei membri dell'Unione con il consueto doppio evento dell'Eurogruppo e del Consiglio per gli Affari economico-finanziari. Dopo la teleconferenza di settimana scorsa che ha visto l'accordo tra Angela Merkel, Lucas Papademos e Mario Monti, continua la battaglia per trascinare Atene fuori dal baratro in cui è piombata. Il vero obiettivo dell'incontro è, in realtà, il raggiungimento di un accordo generale sulle due bozze di regolamenti sulla governance economica proposti dalla Commissione lo scorso 23 Novembre. Ampio spazio sarà inoltre garantito alla conclusione di accordi di negoziato con i paradisi fiscali del vecchio continente che potrebbero portare all'approvazione di un prelievo patrimoniale sui depositi protetti dal segreto bancario. Il meeting sarà anche incentrato sulla preparazione dei lavori del Consiglio Europeo dell'1 e 2 Marzo, tappa fondamentale per l'uscita dalla economica.

GERMANIA – Sarò il 72enne Joachim Gauck il nuovo Presidente della Repubblica a causa delle dimissioni immediate del suo predecessore Christian Wulff, travolto dalle inchieste su un prestito di favore. Gauck, pastore protestante e attivista per i diritti umani nella scomparsa DDR era stato sconfitto dallo stesso Wulff nel 2010 per la nomina che si accinge a ricevere, quale candidato del Partito Socialista. Tra i fondatori del partito d'opposizione Neues Forum ha già ricoperto incarichi di prestigio e responsabilità come la gestione degli archivi della STASI dal 1990 al 2000. Proprio un accordo tra i parlamentari della CDU, il partito al governo, e dell'SPD avrebbe portato alla scelta finale di un candidato dall'indubbia trasparenza dopo l'ennesimo scandalo.

LETTONIA – Il russo continuerà a rimanere una lingua non ufficiale in quel di Riga, così hanno decretato le urne dopo un sabato elettorale dove i seggi hanno contato un'affluenza pari al 69% degli aventi diritto. Il 75% dei votanti si è opposto all'equiparazione tra il lettone, la cui padronanza è richiesta per ottenere la cittadinanza, e il russo, parlato e difeso da una cospicua minoranza. Vladimirs Lindermans, principale propugnatore del referendum e leader dell'associazione "Lingua Madre" è stato accusato di mire secessioniste dal presidente Berzins che aveva bollato l'iniziativa come "inutile e di scarsa rilevanza".

AFRICA

Mercoledì 23 – I Ministri e i Capi di Stato e di Governo di più di 40 paesi si ritroveranno a Londra insieme alle più importanti Organizzazioni Internazionali impegnate nella cooperazione economica per discutere del futuro della Somalia. L'Unione Europea sarà presente in prima linea, forte della qualifica di primo contributore negli aiuti alla Somalia, dove dal 2008 più di 600 milioni di euro sono stati investiti in aiuti umanitari e progetti di sviluppo. Pirateria, ricostituzione dello stato di diritto e controllo del territorio le questioni scottanti sul tavolo, mentre i leader mondiali cercheranno di trovare una strategia integrata per un approccio più globale all'attuale crisi locale. Il giovane Primo Ministro somalo Abdiweli Mohamed Ali, sarà impegnato in numerosi colloqui bilaterali a margine dell'incontro per convincere i partner ad un maggior impegno nel Corno d'Africa.

CONGO – Il complesso minerario-estrattivo di Kinsevere, che vanta giacimenti cupriferi stimati attorno alle 60000 tonnellate di rame, è passato sotto il controllo della compagnia cinese Minmetals. La società controllata dalla China Minmetals Nonferrous ha acquistato il 90% della canadese Anvils al prezzo di 1,3 miliardi di dollari. Pechino guarda da tempo al mercato africano delle materie prime, di cui ha un bisogno crescente e pressante, dopo l'impennata dello scorso anno del prezzo dell'oro rosso, la caccia al rame è diventata la chiave di volta della penetrazione economica nel continente. Grazie all'acquisto la Minmetals godrà inoltre dei diritti di sfruttamento del sito di Mutoshi, ricco di cobalto, materiale richiestissimo nelle produzioni hi-tech e ad alto valore aggiunto.

MALI – Indiscrezioni confermate dai rispettivi governi darebbero per certa la partecipazione di contingenti d'elite delle forze speciali canadesi e statunitensi nella preparazione e nell'addestramento dell'esercito governativo di Bamako. Tra le tante conseguenze della guerra in Libia, il ritorno dei tuareg riforniti di tutto punto e il successo dell'addestramento di piccoli contingenti da parte dei militari occidentali sembrano scatenarsi sulle province settentrionali del Mali, dove infuria la guerra con i ribelli dell'Azawad. Algeri intanto è coinvolta da vicino, nonostante gli accordi vigenti da lungo tempo tra governo e minoranza tuareg, la nascita di uno Stato blu lungo il suo confine meridionale potrebbe risvegliare il nazionalismo sopito.Nel frattempo il Presidente Toumani Touré sembra deciso a contrastare i legami latenti tra il movimento tuareg e gli estremisti di Al Qaeda nel Nord Africa, in vista di un possibile impegno occidentale contro il terrorismo.

AMERICHE

Lunedì 20 – Maretta tra i candidati repubblicani mentre si celebra il President's Day, la festività con cui si ricorda la nascita a Febbraio dei due presidenti più importanti per la storia degli States: George Washington e Abraham Lincoln. Domenica uno dei responsabili della propaganda di Romney in Arizona, dove si voterà lunedì prossimo, ha deposto le armi dopo aver ammesso una relazione omosessuale con un immigrato clandestino messicano. Paul Babeau, sceriffo noto per le sue posizioni anti-immigrazione, potrebbe rappresentare una spina nel fianco per Romney in vista di lunedì, anche l'Arizona potrebbe dichiarare la sua fede nel candidato dell'ultim'ora Rick Santorum portando il G.O.P. ad una sfida all'ultimo sangue. Intanto Barack Obama ha attaccato la produzione a basso costo delle imprese cinesi accusate di concorrenza sleale nel commercio internazionale, ma sembra aver trovato un nuovo slogan per la campagna contro l'avversario ignoto:"We don't quit", non molliamo.

Lunedì 20 – Il mistero della morte di Roberto Avelli irrigidisce le relazioni bilaterali tra Roma e l'Avana a 5 giorni dal volo nel vuoto del falegname bergamasco da un edificio di 2 piani di Holguin, quello che secondo indiscrezioni non confermate sarebbe un posto di polizia. Membri dell'Ambasciata italiana sull'isola incontreranno in giornata funzionari del Ministero degli Esteri per chiarire ogni dubbio sulla faccenda dai contorni surreali. In una telefonata interrotta bruscamente ad un amico Avelli avrebbe confessato di temere per la propria vita poichè qualcuno lo voleva morto. Intanto fremono i preparativi per l'imminente visita di Papa Benedetto XVI, in programma per fine marzo, mentre i blogger dell'opposizione al regime castrista e le damas de blanco ne chiedono l'immediato rinvio per i timori di ulteriori arresti e legittimazione internazionale.

ARGENTINA – Calcio, diplomazia e guerra non sono mai stati così legati dai tempi della Seconda Guerra Mondiale. La Federazione Argentina sembra infatti decisa ad intitolare il campionato di clausura all'Incrociatore General Belgrano, distrutto dalla Marina Britannica nella guerra delle Falklands dell'82. Già l'anno scorso il comitato Olimpico di Buenos Aires aveva presentato una divisa per la squadra Argentina diretta alle Olimpiadi di Londra con uno stemma recante la mappa delle isole e la scritta "Las Islas Malvinas son Argentinas", provocando lo stupore generale. Julio Grondona, vertice dell'AFA e vice-presidente della FIFA sembra rappresentare l'icona del piede in due staffe, con buona pace della Presidenta Kirchner Fernandez che cavalca l'onda di populismo belligerante. Purtroppo per gli ultràs argentini, né il calcio, né i proclama o le minacce cancelleranno l'onta della junta militare di Galtieri che con un'aggressione armata improvvisata ha probabilmente sancito per sempre il controllo britannico sull'arcipelago conteso.

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ASIA

INDIA – La vicenda della sparatoria tra la petroliera italiana Enrica Lexie e un'imbarcazione di pescatori avvenuta in acque internazionali al largo del Kerala rischia di mettere a dura prova le relazioni diplomatiche con Nuova Dehli. I due fanti di Marina del battaglione San Marco Massimiliano Latorre e Salvatore Girone sono stati posti sotto arresto per accertamenti ex art. 302 del codice penale indiano. Secondo il diritto internazionale tuttavia, i due militari appartenendo alle forze armate italiane e operando sotto tale bandiera in acque internazionali non sarebbero perseguibili per le loro azioni, ancora avvolte da una fitta nebbia. La legge indiana prevede l'ergastolo o addirittura la pena di morte per l'accusa di omicidio, anche se l'arresto da parte la polizia militare della marina e gli interrogatori delle autorità giudiziarie sembrano più un'azione dimostrativa a difesa dell'immagine del paese.

Lunedì 20-Martedì 21 – Continua il grand tour del futuro premier cinese Xi Jinping, che dopo l'incontro a Washington dove ha ottenuto l'appoggio di Barack Obama, fa scalo a Dublino per l'unica tappa europea del suo viaggio. Secondo il Primo Ministro irlandese Enda Kenny "l'Irlanda e la Cina hanno molto da offrire l'una all'altra, nel settore alimentare e in quello agricolo, nell'hi-tech, negli investimenti e nella ricerca". Nella tarda serata di domenica sono stati firmati due accordi per favorire gli scambi commerciali e gli investimenti finanziari, Dublino punta molto su pechino per l'uscita dalla crisi attuale e Xi Jinping nutre nei confronti del paese una reale simpatia sin dalla sua prima visita nel 2003. Tanto per fare un paragone nemmeno il viaggio di Angela Merkel a Pechino ad inizio febbraio aveva suscitato lo stesso interesse nelle sorti dell'Europa da parte dell'elite del PCC.

PAKISTAN – Si è concluso domenica il vertice a tre tra Afghanistan-Iran-Pakistan sulla lotta al terrorismo e al narcotraffico nella regione. I tre paesi hanno siglato una dichiarazione finale di condanna in cui si sono impegnati "a rafforzare la loro cooperazione per sradicare fondamentalismo e terrorismo, cercando di agire sulle cause di queste minacce e a condannare l'uccisione di civili e ogni tipo di omicidio". L'incontro è stato il palcoscenico perfetto per la star dell'anti-imperialismo occidentale Mahmud Ahmadinejad che ha invitato Asif Ali Zardari e Hamid Karzai a riconoscere che "tutti i problemi della regione vengono da fuori e questo perché ci sono potenze che interferiscono con gli affari interni della regione, mentre noi dobbiamo restare uniti per raggiungere i nostri obiettivi di crescita economica e di progresso della nostra gente". Durante il meeting è stato concluso l'accordo per la costruzione del criticato gasdotto per collegare i giacimenti di gas naturale iraniani ai porti sull'Oceano Indiano pakistani.

MEDIO-ORIENTE

Lunedì 20 – Sarà effettiva da oggi la decisione del Ministero degli Esteri di Teheran che ha imposto allle compagnie petrolifere iraniane la sospensione delle esportazioni di greggio nei confronti di Francia e Regno Unito. Esclusa dal provvedimento, per ora, l'Italia potrebbe continuare a godere delle partite iraniane fino a luglio, data fatidica dell'embargo europeo sull'oro nero persiano. La strategia degli ultimi giorni fatta di aperture, minacce e sanzioni commerciali sembra confermare il tentativo dell'elite iraniana di ribaltare il bastone e la carota di Washington, impegnata a frenare il pre-emptive strike di Tel Aviv. Sempre lunedì farà ritorno in patria il consigliere di Obama per la Sicurezza Nazionale Tom Donilon, dopo aver incontrato i vertici militari dell'IDF e dell IAF, descritti dall'inviato "decisi e pronti ad attaccare".

Venerdì 24 – Si apre a Tunisi la "Conferenza degli Amici della Siria", un meeting informale che raccoglie teste coronate e ministri degli esteri di tutti i membri dell'Unione Europea, della Lega Araba più Stati Uniti, India e Brasile per affrontare la questione siriana. Dubbi sulla partecipazione dei rappresentanti di Mosca e Pechino dopo che il sito "Voice of Russia" ha bollato l'iniziativa della Tunisia come contraria alla Carta ONU. Molto probabile l'adozione di una sorte di dichiarazione consensuale sull'apertura di corridoi umanitari e sostegno alla gestione dei flussi di rifugiati verso Turchia, Libano e Giordania. Ha scatenato non poche polemiche la decisione del Ministro degli Esteri tunisino, Rafik Abdessalem, di non invitare la leadership dell'opposizione al regime di Bashar Al Assad divisa tra Consiglio Nazionale Siriano e Coordinamento delle Forze per il Cambiamento Democratico. Più significativa sarebbe stata invece la partecipazione dei membri dei gruppi locali e dell'Esercito Libero Siriano, gli unici attori presenti ed impegnati sul campo.

Domenica 26Dopo la visita di Sergej Lavrov, ministro degli esteri russo, quella del week-end scorso dell'uomo di Pechino Zhai Jun, anche l'Iran conferma il suo appoggio ad Assad con l'arrivo nella tarda serata di ieri di due navi da guerra nella base navale di Tartus. Il caccia-torpediniere Shahid Qandi e il vascello d'appoggio Kharg hanno attraversato lo stretto di Suez, incrociando al largo delle coste israeliane provocando forti reazioni dal governo di Tel Aviv. Un anno dopo si ripete il viaggio della marina iraniana al largo dei confini del Medio-Oriente, parte del progetto per chiarire al mondo gli interessi vitali di Teheran nell'area e confermare la propria presenza nel Mediterraneo. In un clima surreale di terrore ed insicurezza gli aventi diritto al voto sono chiamati alle urne per approvare il progetto di Costituzione elaborato dalla Commissione nominata un anno fa dal Presidente Al-Assad. I seggi, sebbene sorvegliati dalle forze di sicurezza, potrebbero rappresentare luoghi ideali per le rappresaglie dell'Esercito Libero Siriano e dei Gruppi di coordinamento locale che nella giornata di ieri hanno assassinato un giudice e un pubblico ministero in un agguato ad Idlib.

Fabio Stella [email protected]

Pechino mostra i muscoli

Un recente rapporto del centro studi IHS Jane's ha rivelato che il budget per la Difesa speso dalla Cina potrebbe addirittura raddoppiare entro il 2015. Il continuo ammodernamento dei propri armamenti è in linea con la straordinaria crescita economica del Paese, ma non può non far pensare alla volontà cinese di aumentare sempre più la propria influenza nell'Oceano Pacifico. Con uno sguardo anche allo spazio

PECHINO RADDOPPIA – Il bilancio per la difesa della Cina potrebbe raddoppiare entro il 2015. La corsa all'aumento delle spese militari potrebbe essere un incentivo per le nazioni della regione a fare altrettanto. Anche in previsione di dispute per il controllo delle risorse naturali del Mar cinese meridionale e orientale. La Cina raddoppierà il proprio budget per la difesa entro il 2015. È quanto si legge nell'ultimo rapporto del centro studi IHS Jane's, specializzato in tematiche sulla sicurezza. Entro tre anni Pechino arriverà a spendere 238 miliardi di dollari superando i budget di tutti gli altri Paesi della regione messi assieme, che si attestano intorno ai 232 miliardi. Per dare una proporzione basti pensare che il bilancio cinese sarà quattro volte superiore a quello del Giappone, il secondo più consistente dell'area.

XI VA DA OBAMA – Previsioni diffuse nel giorno in cui il vicepresidente cinese, Xi Jinping (foto sotto) ha incontrato a Washington il presidente Barack Obama. Un appuntamento di San Valentino con cui l'amministrazione statunitense vuole capire chi sia realmente il politico che in autunno, salvo improbabili sorprese, prenderà le redini della Repubblica popolare. Tolti gli abiti da futuro capo di Stato e indossati quelli da vicepresidente della Commissione militare centrale, Xi avrà in agenda anche una visita al Pentagono, accompagnato dal segretario alla Difesa, Leon Panetta. Alla vigilia funzionari cinesi citati dal South China Morning Post avevano espresso la propria preoccupazione per la nuova strategia militare americana che pur riducendo le spese, concentrava la propria attenzione sull'Asia, provocando negli interlocutori un “calo di fiducia”. E di fatto entrando in competizione con Pechino, schierandosi accanto agli altri Paesi – Vietnam, Filippine su tutti- che si contendono con la Cina le risorse naturali del Mar cinese meridionale e orientale. La Cina ha sempre sostenuto che le proprie spese militari non costituiscono una minaccia per la sicurezza e al contrario rappresentano soltanto una piccola frazione del bilancio Usa, tre volte superiore. Sui numeri tuttavia non c'è uniformità di vedute.

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I NUMERI – Pechino ha annunciato che il bilancio per la difesa nel 2011 è aumentato del 12,7 per cento, arrivando a 91 miliardi. Aumenti che, ripetono i funzionari cinesi, riflettono l'andamento del Prodotto interno lordo. Gli esperti sospettano tuttavia che la somma sia molto più alta. Secondo IHS Jane's dovrebbe stimarsi attorno ai 119 miliardi e crescerà del 18,7 per cento annuo nei prossimi trentasei mesi. “Pechino può allocare una parte consistente del proprio budget nella difesa. Negli ultimi vent'anni lo sviluppo della propria capacità militare è stato costante”, ha detto Rajiv Biswas, capo economista per l'Asia e il Pacifico di IHS Global Insight, “Tutto questo continuerà finché non ci sarà una qualche catastrofe economica”. Gli investimenti sono in aumento in diversi programmi, sopratutto per quanto riguarda i mezzi e le attrezzature, come lo sviluppo degli aerei da combattimento Cheng J.10B, che ha drenato ingenti risorse. Un'altra grossa fetta va invece al programma spaziale, coronato con il lancio lo scorso settembre dello Shenzhou 8, primo tassello della futura stazione spaziale cinese, che a novembre ha poi effettuato con successo l'aggancio al modulo Tiangong-1. “La modernizzazione della difesa è indispensabile per la salvaguardia dell'unità e della sicurezza nazionale”, ha commentato lo Huanqiu Shibao, edizione in cinese del Global Times, espressione nazionalista del Quotidiano del popolo, organo ufficiale del Partito comunista. Che pur non contestando le previsioni di IHS Jane's, ha messo in guardia le potenze occidentali dal utilizzare i bilanci per sventolare lo spauracchio della minaccia cinese. Allargando lo sguardo, la corsa all'aumento del budget cinese potrebbe spingere gli altri Paesi dell'area a fare altrettanto, sempre per il controllo delle risorse naturali.

E GLI ALTRI? – L'India si dovrebbe attestare su un più 6,14 %. Mentre Vietnam e Indonesia, sottolinea il rapporto hanno già spese che superano il tasso di crescita del Pil. Nessuna delle nazioni del Sudest asiatico riuscirà invece a raggiungere la piccola e ricca  Singapore che nel 2015 spenderà per la difesa 12 miliardi di dollari. Ma per quella data a superare la città-Stato potrebbe essere Taiwan.

Andrea Pira [email protected]

La carretera della discordia

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L’arrivo a La Paz, lo scorso gennaio, di una seconda grande marcia in poco più di tre mesi ha ravvivato il conflitto sulla costruzione della carretera Villa Tunari – San Ignacio de Moxos che dovrebbe attraversare il Parque Nacional del Tipnis, porzione di foresta amazzonica in territorio boliviano. Ma il risvolto più preoccupante per il presidente Evo Morales è probabilmente quello politico, dato che la vicenda ha creato una spaccatura della base che ne ha decretato il successo elettorale, proprio quelle comunità indigene che hanno capeggiato, in questo caso, proteste di segno opposto

LA CONTROPROTESTA – “Esigiamo l’annullamento della legge che dichiara intoccabile il Parque Nacional del Tipnis, perché ci pregiudica e non è stata presa con il consenso della comunità locale” ha detto Gumercindo Pradel, leader indigeno di questa seconda marcia alla quale hanno partecipato un migliaio di persone circa e che è durata 45 giorni coprendo 600 km, da La Paz a la vicina El Alto. Lo scorso agosto era nato il movimento contrario alla costruzione di questa strada, con in testa alcune organizzazioni indigene locali tra le quali la Comunidad Indigena del Oriente Boliviano, ritenuta vicina ai partiti d’opposizione al governo Morales, che focalizzava la protesta sugli effetti dannosi dell’opera, come la divisione del territorio del Tipnis in due parti, l’invasione delle coltivazioni di coca ma soprattutto lo sfruttamento irrazionale delle risorse petrolifere, di cui la zona è ricca, che rappresenterebbe un catastrofe ambientale per gli abitanti del posto.

I PROTAGONISTI DELLA NUOVA PROTESTA – Questa volta i manifestanti, arrivati a La Paz il 30 gennaio, sostengono ragioni opposte. La maggior parte dei membri della protesta, i componenti del Consejo Nacional del Sur (Conisur) l’organo più rappresentativo delle comunità indigene del Parque Nacional Tipnis, chiedono l’abolizione immediata della Ley Corta 180, approvata lo scorso ottobre dal Congreso boliviano, che dichiara l’intangibilità del Tipnis e il divieto di costruzione di qualsiasi tipo di infrastruttura. A questo nucleo si sono unite federazioni di imprenditori e contadini nonché organizzazioni sindacali e operaie. Per queste rappresentanze sociali la strada Villa Tunari – San Ignacio de Moxos rappresenta una grande opportunità di sviluppo commerciale e produttivo di livello nazionale, del quale beneficerebbero i dipartimenti di Beni e Cochabamba. Il pieno appoggio alla costruzione della controversa carretera è considerata come “unica forma che consentirebbe di venir fuori dalla povertà economica e intellettuale delle popolazioni locali”. I manifestanti chiedono la costruzione della seconda parte della struttura, che avanza solo nelle sue parti esterne ed è di fatto paralizzato nella su parte centrale, i 177 km che attraversano proprio il Parque Tipnis. E chiedono la riaffermazione del diritto alla consultazione delle popolazioni che vivono in quei territori.

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COSA HA FATTO IL GOVERNO – “Il governo nazionale ha deciso la costruzione della Villa Tunari – San Ignacio de Moxos  solo applicando la legge e rispondendo alle richieste popolari” e non favorendo interessi di parte. Questa è stata la posizione da sempre sostenuta dal presidente Morales, che a settembre aveva decretato la sospensione della costruzione della carretera, attraverso la Ley Corta 180, annunciando inoltre di voler ricorrere alla consultazione popolare per risolvere la questione. E proprio giovedì scorso il Parlamento boliviano ha approvato una legge, la Ley de Consulta previa, che fisserebbe tra quattro mesi un referendum consultivo. Riaccendendo però gli animi del movimento contrario alla carretera, dato che la nuova norma cancellerebbe proprio gli effetti della sospensione della costruzione dell’opera decisa dal Parlamento lo scorso ottobre.

UNA CRISI POLITICA IRREVERSIBILE? – Questa vicenda sta assumendo dei risvolti politici importanti dato che, come detto, sta spaccando la base indigena, vale a dire l’autentica roccaforte elettorale di Morales, sindacalista di origini quechua. I protagonisti di questa seconda marcia, come il citato Consejo Nacional del Sur, costituiscono segmenti della rappresentanza non certo minoritari, dato che rappresentano circa 13 comunità su 64 nel solo Tipnis. E sono considerati, dunque, lo zoccolo duro del partito di maggioranza Movimiento al Socialismo. La reazione del oficialismo boliviano è stata quantomeno ambigua dato che sembra aver riservato lo stesso trattamento ad entrambi i movimenti di protesta. Anche in questo caso, infatti, i manifestanti hanno subito una dura repressione, a volte al limite della legalità, da parte della Policia Nacional. Esattamente come era successo ad agosto scorso, quando centinaia di persone erano partite da Trinidad diretti alla capitale La Paz, percorrendo i 250 chilometri di cammino per manifestare il loro dissenso alla realizzazione della carretera. La recente Ley de Consulta previa, quindi, non ha avuto per il momento l’effetto di sedare gli animi, assicurando soltanto che il conflitto del Tipnis sarà rimesso in futuro alla decisione popolare. Ci sono inoltre ancora da stabilire le modalità di applicazione, vale a dire se la consultazione sarà fatta a livello nazionale o se riguarderà solo gli abitanti dei dipartimenti interessati di Beni e Cochabamba. L’unica certezza è che la vicenda sta creando non pochi grattacapi a Morales che sta vivendo un calo di popolarità senza precedenti, sfociato nella richiesta di dimissioni proveniente da gran parte di quel mondo che fino ad ieri era considerato il suo pueblo.

Alfredo D’Alessandro [email protected]

Cambiare tutto perchè nulla cambi

Il Giro del Mondo in 30 Caffè 2012 – Lo scorso 12 gennaio si é celebrato il secondo anniversario del catastrofico terremoto di Haiti che ha provocato oltre 300.000 vittime e circa un milione di senzatetto. Due anni dopo la tragica fatalità, 500.000 persone vivono ancora negli accampamenti. Un rapporto del Programma delle Nazioni Unite per lo Sviluppo (UNDP) rivela che la quantità di macerie ancora da rimuovere potrebbe riempire lo spazio di 8.000 piscine olimpiche. Le grandi novità politiche, che avevano fatto sperare in un vero cambiamento, stanno in realtà perpetuando i vecchi schemi di corruzione e populismo

 

DOVE SONO FINITI GLI AIUTI? – In novembre, sotto l’auspicio di Bill Clinton, nominato Inviato Speciale dell’ONU per Haiti, é stato inaugurata a Capo Haitiano, la seconda città del paese, la costruzione di un nuovo parco industriale. Costato 257 milioni di Euro, secondo le autorità nazionali dovrebbe generare 80.000 nuovi posti di lavoro.  Ciononostante gli haitiani, di cui il 70% vive con meno di due dollari al giorno, aspettano ancora il rilancio economico ed il miglioramento delle loro condizioni di vita che il massiccio innesto di denaro degli aiuti internazionali aveva fatto presagire. All’indomani del terremoto, la Comunità Internazionale aveva infatti promesso 10 miliardi di dollari di aiuti, di cui 5 dovevano sborsarsi nei primi 18 mesi. Al momento attuale, però, solo il 40% dei fondi promessi è stato donato. Di tale ammontare, solo 1,3 miliardi è stato effettivamente speso. L’efficacia delle organizzazioni umanitarie è stata gravemente messa in dubbio alla luce degli scarsi risultati ottenuti. L’ex primo Primo  Ministro haitiano, Jean Max Bellerive, ha criticato che il 40% dei fondi venga utilizzato per pagare i salari dei funzionari internazionali, riducendo sensibilmente le risorse che beneficiano la popolazione. L’alternativa sarebbe che il denaro transitasse direttamente attraverso il governo nazionale. A discapito della tradizione di corruzione che esiste nella politica haitiana, sono in molti a pensare che i risultati sarebbero maggiori. La delusione della gente nei confronti della Comunità Internazionale è palpabile ed a ciò ha contribuito l’epidemia di colera – una malattia ancora sconosciuta in Haiti – esplosa nel 2010 – pochi mesi dopo il terremoto, e la cui origine dovrebbe essere un battaglione nepalese della forza militare di stabilità della ONU in Haiti, la MINUSTAH. L’epidemia ha provocato finora circa 7,000 morti ma nonostante le indagini abbiano confermato la responsabilità dei militari, la compensazione dei familiari delle vittime appare difficile visto lo status diplomatico di cui godono le missioni della ONU.

 

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FINTO CAMBIAMENTO IN POLITICA – In aprile intanto, la ex star della musica Michel Martelly, celebrerà un anno alla presidenza della piccola nazione caraibica ed anche su questo fronte l’auspicato cambio ventilato a suon di musica e spettacoli durante la campagna elettorale tarda ad arrivare. Sono stati infatti necessari oltre sei mesi per nominare un governo ed un nuovo Primo Ministro che è stato finalmente accettato dal parlamento lo scorso ottobre. Alcune iniziative emblematiche sono state comunque portate avanti come il progetto “Six-Seise” che prevede lo smantellamento dei sei principali accampamenti della capitale e la rilocalizzazione dei rifugiati in sedici quartieri d’accoglienza, ed il discusso progetto di ricostituire l’esercito nazionale dissolto nel 1996 con la volontà di limitare i rischi di possibili colpi di stato, come avvenuto spesso nella corta e travagliata storia della prima repubblica nera del mondo. I più critici comunque accusano Martelly di non dedicarsi sufficientemente ai veri problemi del paese e di proseguire una tradizione politica fatta di populismo e autoritarismo. Il conflitto tra Martelly ed il legislativo – controllato dall’opposizione del presidente uscnete René Preval, ha già raggiunto una soglia d’allerta alla fine del 2011 dopo che Michel Martelly ha revocato l’immunità parlamentaria al deputato, ex carcerato, Arnel Bélisaire, eletto agli ultimi scrutini, ma che avrebbe già scontato la pena secondo le leggi haitiane. In realtà, come lo segnalano in molti, la politica haitiana dovrebbe mettere fine ad un sistema di “clan” nel quale il vincitore prende tutto. A complicare il già fragile equilibrio politico, il 2011 ha inoltre fatto da sfondo al ritorno – sorprendente- degli ex criticati governanti, e per questo finora esiliati, Jean Bertrand Aristide e Jean Claude Duvalier, dai quali, secondo molti, continua a dipendere la maggior parte della politica haitiana.

 

PROSPETTIVE – Questo scenario potrebbe gettare ombre sulle prospettive di stabilità di cui il paese ha bisogno per rilanciarsi sulla strada dello sviluppo, e soprattutto per attrarre i capitali stranieri che appaiono indispensabili per alimentare una crescita che l’isola non é capace di fomentare in forma autonoma. Le Nazioni Unite prevedono che Haiti sarà il paese del continente americano a far registrare il maggior tasso di crescita nel 2012, attorno all’8%. Ciononostante tale performance sarà ancora basata sullo sforzo della ricostruzione, piuttosto che su un vero e proprio piano di sviluppo. Le azioni d’emergenza possono andare bene nelle circostanze appropriate. Ma le autorità haitiane ed internazionali devono incominciare ad ampliare la loro visione strategica se davvero si vuole fare uscire Haiti dal circolo vizioso della povertà.

 

Gilles Cavaletto

Le fiamme dell’inverno

I sette giorni che ci attendono risentono fortemente degli sviluppi del week-end che hanno portato la Lega Araba all'unità d'intenti e la Grecia sull'orlo del baratro. Tutto il mondo si raccolgie nelle proteste di Grecia, Siria e Maldive, situazioni completamente differenti che portano però a simili manifestazioni di piazza, violenze e vittime. Sul fronte americano le primarie tengono banco in Venezuela e negli Stati Uniti, l'Europa prosegue il tour asiatico con la tappa a Pechino e il Giappone fa i conti con lo yen. Il regime di Damasco sembra destinato a subire le influenze dell'Onu, chiamata a pronunciarsi ancora, sia in Assemblea che in Consiglio di Sicurezza mentre a Teheran va in scena l'ennesimo scandalo diplomatico.

EUROPA GRECIA – Collasso sventato per la Grecia di Lukas Papademos, chiamata ad ingoiare l'utlimo dei tanti bocconi amari serviti dalla Troika all'economia più traballante dell'area euro. Nella tarda serata di Domenica Atene si è letteralmente infiammata e per le proteste di piazza forti di almeno 100mila manifestanti e per i numerosi edifici dati alle fiamme lungo le arterie principali che portano al Parlamento. Le misure varate dal governo di coalizione prevedono ulteriori tagli alla spesa pubblica per 3,3 miliardi di euro, condizione necessaria per sbloccare l'ultima tranche di aiuti dall'FMI, 130 miliardi per salvare l'economia greca dal default definitivo. La vera sfida è però solo all'inizio, come riuscirà un'economia stremata dai tagli e dai piani di austerity a ripartire prima che la popolazione si ribelli alle misure imposte dall'esecutivo? SERBIA – Si conclude in uno stallo la missione a Belgrado del Fondo Monetario internazionale diretta da Zuzana Murgasova, che puntava a siglare già in settimana l'accordo di precauzione per salvare l'economia serba da un ulteriore downgrading. Vero nodo politico della questione restano le imminenti elezioni parlamentari di primavera, che potrebbero sancire un cambiamento della maggioranza attuale. Proprio il nuovo parlamento sarà chiamato ad esprimersi sulla revisione del bilancio 2012, mentre le stime per il deficit primario si attestano attorno al 4,25% del PIL e il debito pubblico costretto per legge al 45%. Il dato che preoccupa più di tutti però il Presidente Boris Tadic è la previsione del tasso di crescita, in flessione attorno allo 0,5% a causa delle difficoltà evidenti dell'area euro, che potrebbe chiamare l'esecutivo a nuovi tagli alla spesa pubblica. Mercoledì 15Il Consigliere federale svizzero Johann Schneider-Ammann è atteso a Varsavia per una missione economica diretta ad implementare accordi di cooperazione con il principale partner della Confederazione nell'Europa centrale. Non solo incontri bilaterali con i responsabili dell'economia polacca, ma soprattutto una visita nella zona economica speciale di Lodz, vero motore dell'industria, accompagnato dal vicepremier e ministro dell'economia Waldemar Pawlak. Scontato dire che la Svizzera punta molto sul sostegno alla modernizzazione dell'ex repubblica sovietica tramite una rete d'imprese proiettate oltre confine è pronta ad investire nel rilancio europeo dei paesi dell'est. Al termine della visita è in programma l'inaugurazione sponsorizzata dall'Ambasciata svizzera a Varsavia di un forum economico che raccoglierà discussioni, incontri e progetti sulle relazioni bilaterali dei due paesi. AMERICHE STATI UNITI – Il G.O.P stenta faticosamente a trovare l'uomo giusto per sfidare Barack Obama alle presidenziali di novembre mentre si avvicinano i primi appuntamenti decisivi per la resa dei conti delle primarie. Dopo la scioccante vittoria di Rick Santorum in Missouri e Minnesota, Mitt Romney torna in sella all'elettorato conservatore grazie ad un vantaggio di un solo punto percentuale nel caucus in Maine. Più che il primo gradino del podio davanti al libertario Ron Paul, è l'endorsement della CPAC, la Conservative Political Action Conference, uno dei forum più importanti per le associazioni conservatrici americane a rilanciare Romney, affossando Newt Gingrich al terzo posto. A tenere banco ora è il super Tuesday del 6 marzo in cui ben 11 stati, tra cui il fondamentale Texas, sono chiamati a sancire finalmente il favorito per la corsa alla casa bianca. Occhio all'ex speaker della Camera Gingrich, su questo appuntamento ha dedicato gran parte dei suoi sforzi, la Georgia, inclusa tra gli 11, è la sua patria, e i suoi slogan populistici potrebbero già aver allettato i conservatori duri e puri ben radicati al sud. Ottima occasione anche per Santorum, che grazie alla sua devozione creazionista potrebbe assicurarsi le grazie dei "catto-repubblicani" che furono alla base del successo di George W. Bush. CUBA – Le vie del petrolio sono infinite, ma almeno per quello echo en Cuba, non portano verso Washington. L'embargo economico sull'economia dell'isola che dura ormai da mezzo secolo tiene lontane le multinazionali statunitensi del greggio dai promettenti giacimenti della zona economica esclusiva cubana. Secondo le stime basate sul Sistema di Petrolio Totale le riserve nascoste nel fondale orientale si aggirebbero tra i 5 e i 20 miliardi di barili di greggio. Se veramente le estrazioni garantissero entro il 2016, come promettono da l'Avana, quota 530 mila barili al giorno l'economia e l'elite militare di Raul Castro godrebbero di benefici inauditi rispetto alle ristrezze in cui versano al momento. Tra i principali attori in scena nelle trivellazioni come Repsol, Gazprom, la cinese CNOOC e il colosso verdeoro PETROBRAS e la norvegese STATOIL agiranno anche le statali dei paesi alleati e amici del paese, mentre già si prospetta un balzo al vertice per Cuba nella produzione petrolifera del Sud America. VENEZUELA – Sarà Henrique Capriles, il giovane governatore dello stato di Miranda a sfidare l'attuale leader venezuelano Hugo Chávez nelle presidenziali del 7 Ottobre. Un vantaggio accreditato attorno al 20% garantisce a Capriles un margine sicuro nell'elettorato dell'opposizione che ha partecipato in massa alle primarie, tanto da costringere i seggi a prolungare l'apertura. Capriles si è rivolto direttamente a Chávez nell'ultimo dei dibattiti promettendo alla popolazione "meno chiacchiere e più rispetto della libertà", mentre appaiono chiari i riferimenti al modello brasiliano di crescita e sviluppo consapevole. La vittoria dell'opposizione in ottobre, che si preannuncia ardua, almeno per la pervasività del potere dell'esecutivo nella società, potrebbe allontanare il Venezuela dai rogue states e avvicinarsi all'influenza statunitense che punta forte sul paese. AFRICA CONGO – Muore in uno schianto aereo nei pressi della città di Bukavu, il Consigliere Capo del Presidente congolese Joseph Kabila, recentemente confermato dalle elezioni contestate dall'opposizione. Il velivolo appartenente alla compagnia aerea Hewa Bora Airlines, inclusa nella black-list europea, si sarebbe schiantato al suolo in fase d'atterraggio lasciando senza gravi conseguenze il resto dei passeggeri, tra cui il Governatore del Kivu del Sud Marcellin Cishambo e il Ministro delle Finanze Matata Ponyo Mapon. Augustin Katumba Mwanke, fedele consigliere e amico personale di Kabile, risultava tra le figure più influenti dell'inner circle presidenziale, la sua scomparsa si porta dietro voci d'intrighi e indiscrezioni, anche se gli incidenti aerei in Congo sono da sempre all'ordine del giorno. SOMALIA – Niente di nuovo sotto il sole del Corno d'Africa, tant'è che nemmeno l'annuncio dell'ingresso del gruppo islamista al-Shabaab nella rete di Al-Qaeda smuove particolarmente l'atmosfera asfissiante che vive la popolazione. Più preoccupate sembrano la CIA e i contingenti di marina impegnati nel pattugliamento dei mari infestati dalla pirateria, dato che per celebrare l'unione terrorirtica potrebbero presto giungere azioni dimostrative. La Somalia nonostante l'uscita dalla terribile carestia dell'estate scorsa, resta uno dei luoghi più pericolosi al mondo, senza alcun controllo centrale e con il governo federale relegato nella città-prigione di Mogadiscio, dove è attiva la misione AMISOM dell'Unione Africana. Anche le promesse di un maggior impegno delle Nazioni Unite per lo stato collassato rischiano di cadere nel vuoto a causa dell'alto livello di insicurezza diffusa in tutta la regione. MALI – Continua la marcia inarrestabile del movimento per la liberazione dell'Azawad nel nord del Mali, dopo che almeno 7 villaggi al confine sono caduti sotto i colpi dei tuareg. Intanto si innalzano le polemiche dei paesi vicini per l'enorme esodo dei rifugiati stimati intorno alle 30mila unità dall'UNCHR e diretti verso il Niger, il Burkina Faso e la Mauritania. Dopo le accuse lanciate contro un'alleanza con l'algerina Al-Qaeda nel Nord Africa, tornano con insistenza le voci, poco credibili, che vedono un sostegno francese quale causa di successo dei tuareg. Il Burkina Faso ha imposto controlli severi alle frontiere per evitare l'ingresso di armi nel paese, il governo del Niger invece si dice preoccupato per il sensibile calo dei raccolti stimato intorno alle 700mila tonnellate metriche. Intanto OXFAM ha lanciato un appello per gli aiuti umanitari in vista del probabile innalzamento del livello delle violenze.

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ASIA Martedì 14 – Dopo l'India e la soluzione di compromesso per gli accordi sul libero scambio, la triade composta dal Presidente della Commissione José Manuel Barroso, il Presidente del Consilgio Europeo Herman Van Rompuy e la Commissaria per il mercato Karel De Gucht fa tappa a Pechino per l'EU-China Summit. Nonostante le insistenti voci di un possibile ruolo cinese nella soluzione della crisi dell'area euro, gli incontri con la delegazione capeggiata dal Premier Wen Jiabao riguarderanno soprattutto l'apertura definitiva agli scambi con l'Europa dell'economia cinese. Il vero nodo, così come nel recente incontro a New Delhi, sono i dazi attivi nei confronti delle importazioni, nonostante l'ingresso al WTO infatti, Pechino ha sempore mantenuto quote di garanzie su un'ampia gamma di prodotti e servizi. Nonostante le condizioni precarie della popolazione delle campagne, le città costiere si sono rivelate dei veri e propri polmoni per le produzioni del lusso e del settore automobilistico. GIAPPONE – Dopo il colpo quasi mortale inferto dal sisma e dal relativo tsunami del marzo scorso, l'economia giapponese stenta ancora a ritrovare i fasti degli anni '80 a causa di un sensibile apprezzamento dello yen nei confronti del dollaro. Panasonic, Sharp e Honda, aziende leader nei settori high tech ed automobilistico hanno recentemente annunciato previsioni di perdite ingenti, le più alte dalla fondazione. Intanto la Banca Centrale ha rivisto la stima sulla crescita dell'economia portata dal 2,2 al 2%. Il Ministero delle Finanze ha promesso interventi rapidi e significativi per fermare la marcia inarrestabile della valuta del sol levante, solo una delle cause che costringe le imprese ad una lotta impari con le vicine economie a basso costo del lavoro. MALDIVE – L'atmosfera si fa sempre più terrea nell'arcipelago dell'oceano indiano, recentemente balzato nelle cronache mondiali per il colpo di stato orchestrato dalla polizia e dall'ex Presidente Maumoon Abdul Gayoom. Decisivo al fine di evitare un disatstro umanitario l'intervento indiano, paese che vanta forti interessi geopolitici nei confronti di Malè e che ha gestito in via informale il passaggio dei poteri all'ex vicepremier Mohammed Waheed Hassan, ora a capo dell'esecutivo. Mentre il deposto Nasheed implora la comunità internazionale di salvare il suo paese dalla violenza, gli scontri si diffondono anche negli atolli periferici, tanto che Nuova Dehli avrebbe già messo in allarme una nave da guerra e alcune vedette per costituire un ponte navale per i 30mila lavoratori indiani che lavorano nell'economia turistica locale. Almeno per ora restano lontane le ipotesi di un intervento umanitario indiano simile a quello guidato nell'88 da Rajiv Gandhi, ma l'opzione resta con ogni probabilità sul tavolo, in attesa di ulteriori sviluppi. MEDIO ORIENTE SIRIA – Si è concluso con un intesa di massima il vertice di domenica della Lega Araba tenutosi al Cairo, il Presidente Nabil Elaraby, ex giudice della C.I.G., richiamerà l'attenzione del Consiglio di Sicurezza per proporre l'invio di una forza di pace sotto l'egida ONU con il compito di attuare il cessate il fuoco tra le parti. Damasco, dopo aver attenuato l'assedio e i bombardamenti in corso ad Homs, ha bollato l'iniziativa come "atto ostile" e ha denunciato il tentativo espansionistico dei paesi del Golfo. La Tunisia intanto ha annunciato che ospiterà il 24 Febbraio una Conferenza degli Amici della Siria, per progettare e discutere piani di intervento e sostegno al Consiglio Nazionale dell'opposizione. Anche Al-Qaeda ha fatto la sua entrata d'effetto sullo scenario, dopo le voci di coinvolgimento negli attentati ad Aleppo, il leader egiziano Ayman al-Zawahiri ha annunciato il sostegno all'FSA che lotta contro Bashar al Assad. Dalla vicina Giordania, i Fratelli Musulmani chiamano la comunità islamica mondiale alla jihad contro Damasco mentre si inseguono le voci di truppe d'elite inglesi e qatarine presenti in Siria per coordinare le imboscate alle forze di sicurezza. IRAN – Con le promesse di annuncio dei recenti sviluppi dell'industria nucleare iraniana, la crisi politico-diplomatica con Israele e l'occidente continua sotto luci diverse. Mentre stampa specializzata e voci accademiche autorevoli affievoliscono le possibilità di un colpo a sorpresa da parte di Tel Aviv, anche in seguito al recente cambio al vertice delle Israeli Air Force, un nuovo scandalo coinvolge i palazzi di Teheran. La testata israeliana Haaretz ha pubblicato recentemente una serie di e-mail sottratte dalle caselle di autorità siriane dal gruppo hacker di Anonymous. I messaggi, se confermati, mostrano l'impegno delle autorità iraniane per sostenere la lotta di Assad contro le opposizioni tramite il rifornimento di armi e munizioni e l'acquisto per miliardi di dollari di beni di prima necessità tra cui olii e carni. La notizia di per se non costituisce una fonte di scandalo, dato che è noto il legame tra i due paesi, più intrigante è invece l'impegno di una cellula di hackeraggio in tematiche internazionali, quasi a cogliere l'eredità dell'ormai dimenticato Wikileaks. LIBANO – Le violenze in atto in Siria dilagano anche nel vicino Libano, fortemente legato a Damasco e già colpito al suo interno dalla lotta tra le varie etnie e religioni. A Tripoli, la vecchia Tarablus, seconda città per popolazione tre giovani sono morti negli scontri tra sostenitori e oppositori al regime di Al-Assad. Il pretesto è solo uno dei tanti dato che le minoranze alawita e sunnita da sempre si contendono il potere e l'influenza sulla maggioranza del paese, alawita è peraltro la famiglia Al Assad che da quarant'anni guida la Siria, paese a maggioranza sunnita. Ultimamente Beyrut è al centro delle dinamiche del Medio Oriente, ancordipiù dopo l'annuncio del leader del movimento Hezbollah, Hassan Nasrallah, di non dare per scontata una rappresaglia irregolare contro un possibile attacco israeliano contro i siti nucleari di Teheran. Le buone notizie scarseggiano dunque per il contingente italiano impegnato nella missione ONU UNIFIL presenti sul terreno per garantire il cessate il fuoco nel sud paese dopo la guerra del 2006 tra Hezbollah e Israele. Fabio Stella [email protected]