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L’ex Repubblica d’Ungheria

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La prima preoccupazione dei burocrati europei non è la docile Grecia ma l’imprevedibile Ungheria, che dieci anni fa bussava timidamente alle porte dell’Unione ed ora invece, dopo la svolta politica del 2010, che ha portato al potere nazionalisti e neofascisti, si comporta da figliolo ribelle. L’Ungheria ha scelto di seguire una via diversa, fatta di strenua difesa della sovranità nazionale, isolamento economico e finanziario ed orgoglio etnico-religioso. Vietato, in Europa, restare indifferenti

VITTIME DELLA STORIA – Sono lontani i tempi in cui la cosmopolita e tollerante borghesia mitteleuropea ispirava da Vienna e Budapest, elegantissime città imperiali, ogni rinnovamento artistico, politico e intellettuale del vecchio continente. Un secolo di comunismi, fascismi e umiliazioni postbelliche ha creato inasprimento e regresso e risvegliato antichi demoni nazionalisti che ora aleggiano minacciosamente sul futuro dell’Ungheria e dell’Europa unita. Nel 2010, dopo quarant’anni di comunismo, qualche intervento punitivo dell’Armata rossa e vent’anni di malgoverno socialista, gli elettori ungheresi hanno attribuito una larghissima maggioranza a ultraconservatori nazionalisti (Fidesz, la formazione politica dell’attuale premier Viktor Orban) e neofascisti (Jobbik, partito più volte paragonato alle SA di Ernst Rohm e pilastro fondamentale della coalizione di governo). Con 309 seggi sui 386 del Parlamento ungherese la nuova maggioranza ha potuto riformare radicalmente lo Stato nel segno di un marcato irrigidimento istituzionale e di una solenne sacralizzazione delle peculiarità etniche, linguistiche e religiose del popolo ungherese. Questa impetuosa onda rischia di allontanare nuovamente il piccolo Stato centroeuropeo dai principi di apertura e cooperazione sanciti dai Trattati europei ed assimilati nell’ordinamento giuridico ungherese al momento dell’ingresso nell’Unione che, pur avendo avuto luogo solo nel 2004, attualmente appare più che mai lontano. UNA COSTITUZIONE ANTICOSTITUZIONALE – Forte della sua schiacciante maggioranza, Viktor Orban ha subito provveduto a redigere una nuova, grandiosa, ungheresissima Costituzione che rimpiazza quella comunista risalente al 1949. Il registro linguistico è sopraffino, dannunziano, e ben si presta ad esaltare valori cardine come Dio, patria, etnia, famiglia, rigore morale; alla luce del nuovo testo costituzionale l’Ungheria non è più una repubblica e la nazione geografica, politica si sovrappone e identifica con quella etnica e con le medioevali radici cristiane. Se con il Trattato di Trianon del 1919, con cui si smembrò l’Impero austro-ungarico dopo il primo conflitto mondiale, l’Ungheria perse due terzi del suo territorio, la nuova Costituzione attribuisce il diritto di voto alle elezioni ungheresi ai cittadini slovacchi, romeni, austriaci, ucraini di etnia ungherese. Nulla si dice a proposito di minoranze etniche e religiose, vuoto disarmante. L’esecutivo ungherese non accetta che alcuno si metta di traverso sul suo cammino, per questo la Costituzione provvede con estremo pragmatismo ad asservire al potere magistratura ed informazione, il terzo e quarto potere: sono previsti meccanismi che permettano al Governo di reclutare i nuovi magistrati (ciò ha determinato le dimissioni del Presidente della Corte Suprema), la composizione della Corte Costituzionale è stata adattata alle esigenze dell’esecutivo, stampa, radio e televisione sono sottoposte a limitazioni e controlli, ad un organo governativo (l’Autorità di controllo sui media NMHH) è stata attribuita la facoltà di obbligare i giornalisti a svelare le loro fonti.

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ALTA FINANZA, NAZIONALISMO E UNIONE EUROPEA – Disse Viktor Orban nel 2011 di fronte al Parlamento europeo: ”noi non crediamo nell’Unione Europea, e la consideriamo da un punto di vista secondo cui, se facciamo bene il nostro lavoro, allora quel qualcosa in cui noi crediamo, che si chiama Ungheria, avrà il suo tornaconto”; più oltre si spinse Elod Novak, parlamentare del partito Jobbik che, il 14 gennaio 2012, al termine di una manifestazione di militanti invocante un referendum per uscire dall’Unione Europea, bruciò davanti alle telecamere una bandiera blu con le dodici stelle dorate. L’attuale strategia ungherese ha affinità con quella mussoliniana dei primi anni ’30: protezionismo, autarchia e rifiuto del paradigma finanziario europeo e mondiale e di qualunque ingerenza sulla sovranità nazionale, negli ultimi due anni Viktor Orban ha rifiutato i prestiti dell’Unione Europea e del Fondo Monetario Internazionale e fatto scappare dall’Ungheria molti investitori esteri, condannando di fatto il paese ad un isolamento economico che, congiuntamente alla crisi finanziaria mondiale ed all’endemica debolezza dell’economia ungherese, dopata da esagerati sussidi statali durante gli anni del socialismo, lo sta portando sull’orlo del baratro. Ma il Presidente continua imperterrito a ripetere pedissequamente lo stesso slogan, infischiandosene dei vincoli europei e mettendo in imbarazzo l’establishment continentale: nessuno può permettersi di interferire con le scelte ungheresi, sulle quali non si accettano compromessi. Inevitabile, prima di rinchiudere Viktor Orban nella categoria dei dittatori anti-europeisti, è porsi il seguente interrogativo: è meglio uno Stato soggiogato e commissariato dalle potenti istituzioni finanziare internazionali (che inevitabilmente ne minano anche la democraticità) od un altro immune da questi avvolgenti tentacoli a prezzo di un isolamento tendente all’autoritarismo? Difficile scagliare la prima pietra. Vittorio Maiorana [email protected]

Lotta per l’oro nero

Il Giro del Mondo in 30 Caffè 2012 – Il referendum tenutosi a gennaio dell’anno scorso, che aveva sancito la secessione del Sud Sudan dalla parte settentrionale del Paese, sembrava aver posto la parola fine ad un conflitto lungo decenni. In realtà, i problemi sono ben lungi dall’essere risolti: di mezzo, infatti, ci sono le ingenti risorse petrolifere di cui il Sud è dotato. L’unico gasdotto esistente ad oggi, però, deve passare dal Nord ed è stato costruito dalla Cina. A fare da contraltare c’è un progetto per una pipeline alternativa finanziata dagli USA. Ecco perchè il Sudan rischia di diventare una delle aree di frizione geopolitica più calde

 

NORD CONTRO SUD – Il Sud del Sudan e il Nord sono in uno stato di tensione permanente alternata a periodi di guerra vera e propria sin dal 1955, in un altalena continua tra “caos calmo” e momenti particolarmente drammatici. Gli accordi di  Naivasha sottoscritti nel Gennaio del 2005 dal Movimento per la Liberazione del Sudan e dal governo di Khartoum segnarono la fine (almeno teorica) della seconda guerra civile sudanese e furono una pietra miliare nel lungo conflitto tra Sud e Nord. Il patto accordò una forma di autonomia legale (e non solo sostanziale) al Sud che iniziò faticosamente a costruire la sua reale indipendenza, sancita poi formalmente dal Referendum sull’indipendenza del Gennaio 2011, a cui fu data una buona copertura mediatica anche a livello internazionale. Scontato il trionfo con percentuali bulgare dell’opzione separatista. La creazione del nuovo Stato ha però lasciato sul tavolo due questioni cruciali di difficile composizione: la definizione dei confini e la spartizione degli introiti derivanti dall’esportazione del petrolio. Accanto ad essi, sono rimasti sul tavolo altri due nodi di più facile soluzione ma che, in un contesto di tensione, hanno contribuito a complicare ulteriormente il quadro; la suddivisione del debito estero e la questione dei diritti di cittadinanza.

 

ANCORA SCONTRI – L’indipendenza del Sudan del Sud è stata ufficialmente sancita e celebrata il 9 Luglio dello scorso anno. Da Agosto a Dicembre sono ripresi gli scontri localizzati sull’area di confine tra sud e nord sud tra i gruppi  di ribelli vicini all’esercito popolare di Liberazione del Sudan (SPLM) ora al potere nel Sud Sudan e l’esercito del Nord. Gli scontri hanno causato morti soprattutto tra i civili, rimasti vittime dei raid aerei di Khartoum nella regione strategica del Sud Kordofan. Nel Sud Kordofan infatti è situato il distretto di Abyei, conteso tra nord e sud, che è uno dei due punti cruciali nella disputa tra Sud e Nord. Abitato sia dalla tribù nomade di origine araba dei Misseriya (alleata del governo di Khartoum) che dalla tribù nera cristiano-animista e stanziale dei Ngok Dinka (co-essenziuale all’SPLM), il distretto di Abyei è ricchissimo di petrolio ed è stato assegnato nel luglio 2009 da un arbitrato internazionale al Sudan del Sud. La decisione sul collocamento definitivo del distretto di Aybei era prevista tramite un referendum da tenersi simultaneamente al referendum sull’indipendenza del sud. Tuttavia, a causa di una contesa su chi debba essere effettivamente ritenuto “residente” e gli scontri che si sono di conseguenza succeduti, la consultazione è stato rinviata a data da destinarsi. Il nord vorrebbe fare votare anche i Misseriya, mentre il governo di Juba spinge perchè questa etnia nomade non venga inclusa: il che garantirebbe l’annessione di Abyei al nuovo stato del Sud.

 

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PROVENTI DEL GREGGIO – Gli accordi del 2005 prevedevano una spartizione equanime dei proventi del petrolio tra il Sud, dal suolo ricco di risorse, e il Nord, unico accesso al mare del vecchio stato unitario. Ora che il Sud è indipendente quegli accordi non sono più validi e vanno rinegoziati. L’escalation di violenza e la strategia della tensione che ha caratterizzato la seconda parte del 2011 è stato il modo da parte del governo di Khartoum di mostrare i muscoli per costringere il neonato stato al tavolo delle trattative. Il problema del governo sud-sudanese è la mancanza momentanea di alternative all‘utilizzo delle infrastrutture del Nord per raggiungere il mare. L’hub petrolifero di Port Sudan e l’oleodotto che lo alimenta (tutto di costruzione cinese) rimangono al momento la strada obbligata per il greggio Sud-sudanese. Il governo di Khartoum invece, con la nascita dello stato indipendente del Sud, si è visto di fatto sfilare da sotto il suolo l’80% delle riserve petrolifere nazionali. La notizia della firma dell’accordo tra il Sud Sudan e il Kenia per la costruzione di un oleodotto che colleghi i suoi campi petroliferi con il porto keniano di Lamu ha segnato un duro colpo, in realtà prevedibile e previsto, per Khartoum. Secondo il New York Times, Stati Uniti e Francia, grandi sostenitori dell’indipendenza del Sud Sudan, sarebbero i finanziatori dell’operazione che permetterebbe al governo di Juba di estrarre e raffinare il greggio tagliando fuori Khartoum. L’obiettivo di Washington è di isolare il presidente sudanese al-Bashir, amico e protettore negli anni ’90 di Osama Bin Laden e grande partner dei cinesi, che sono da tempo gli azionisti di maggioranza dei consorzi che controllano oleodotti e concessioni petrolifere in Sudan. Il governo di Pechino infatti è il più grande acquirente di petrolio del Sudan (nella sua interezza) con circa 13 milioni di barili l’anno. E, guarda caso, proprio i francesi di Total sono coinvolti nelle esplorazioni offshore di Lamu, che dovrebbe diventare un Hub petrolifero a gestione Franco-Statunitense.

 

IL RISCHIO DI UNA GUERRA – Nonostante gli incessanti negoziati e la mancanza di un accordo condiviso, il Sudan del Sud ha continuato ad esportare greggio anche dopo l’indipendenza senza tuttavia pagare i suoi conti, in mancanza di accordi validi, nei confronti di Khartoum. A novembre, secondo statistiche governative, Juba produceva circa 350.000 barili al giorno, Il conflitto sulle tariffe è la ragione dell’escalation: Khartoum chiede al Sudan del Sud un balzello di circa 35 dollari per ogni barile esportato (un terzo del valore del barile sui mercati internazionali), mentre Juba ha offerto ad al-Bashir una compensazione da 2,6 miliardi di dollari e una tassa fissa di 74 centesimi di dollaro al barile. Come contromossa, oltre agli attacchi militari sul confine, il governo di Khartoum ha ordinato a inizio gennaio ad una società cinese di esportare 650.000 barili di greggio sud sudanese senza il permesso del governo del Sud. Un carico, con un valore commerciale di oltre 650 milioni di dollari, sequestrato come indennizzo per l’uso illegittimo da parte del governo di Juba delle infrastrutture petrolifere di Khartoum. Il 17 gennaio sono stati tenuti dei colloqui ad Addis Abeba tra il governo di Juba e il governo di Khartoum, ma non è stato fatto alcun passo avanti. Khartoum ha annunciato un prelievo forzoso di un quarto del petrolio in transito sui propri oleodotti come forma di pagamento per i mancati introiti e il Sud Sudan ha rilanciato la posta con una mossa in verità abbastanza estrema, ovvero bloccando ufficialmente il 28 gennaio la produzione petrolifera (che costituisce la quasi totalità del PIL del paese) e annunciando che il blocco sarà tolto solo quando sarà firmato un accordo globale con Khartoum sui vari temi in agenda. Ad aggiungere confusione una trentina di operai cinesi sono stati “rapiti” dal SPLM-N nel Sud del Kordofan, liberati dopo pochi giorni, in una vicenda ancora da chiarire. Al-Bashir ha risposto al blocco della produzione da parte del Sudan del Sudan alzando ancora di più il tiro ventilando apertamente l’ipotesi di una guerra tra i due stati. Se non si troverà una soluzione rapida al problema e nessuna delle due parti farà marcia indietro, la possibilità di una guerra si fa sempre più reale.

 

Stefano Gardelli

Ci ‘veto’ doppio

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Il duplice “niet” posto da Russia e Cina in sede di Consiglio di Sicurezza per bocciare la risoluzione proposta da Paesi arabi e occidentali contro la Siria di Assad rivela delle implicazioni geopolitiche fondamentali. Pechino mantiene salda la propria linea di non interferenza negli affari interni degli altri Stati dimostrando però di possedere una maggior forza e decisione. Inoltre, si avvicina sempre di più a Mosca

 

LA DIVISIONE NEL CONSIGLIO DI SICUREZZA – C’è stata la Libia, ed ora potrebbe toccare alla Siria. Questa è l’atmosfera che che si respira nelle ultime ore, in un clima arroventato dalle uccisioni e dall’imperversare del bombardamento su Homs. Sul piano diplomatico, tuttavia, le cose sono decisamente diverse. Per l’intervento in Libia, infatti, la NATO aveva ricevuto il supporto delle Nazioni Unite, che nel caso siriano è invece venuto a mancare. Cina e Russia si sono opposte in modo netto, usando il loro veto per bloccare la risoluzione proposta da Paesi arabi ed occidentali. Ergo, il secondo assalto diplomatico ad Assad ha seguito la stessa sorte del primo –anch’esso paralizzato dall’intesa Mosca-Pechino- e c’è da chiedersi se non siamo prossimi ad un intervento più “materiale”, unilateralmente sponsorizzato dall’Occidente.

 

NON-INTERFERENZA E GEOPOLITICA – Il doppio veto comporta due tipologie di considerazioni, alcune su scala locale, altre su scala globale. Le prime riguardano il problema siriano nella sua dimensione interna. Cosa cambia (o non cambia) per la Siria il giorno dopo il voto? Bloccando la proposta si è di fatto impedito alle Nazioni Unite di porsi a supporto dei ribelli, sui quali la pressione militare si sta intensificando. Significa aver aiutato il regime ed esserne, qualora questo dovesse sopravvivere all’ondata della rivolta, i benefattori. Oppure, nel caso in cui gli insorti abbiano successo, vuol dire trovarsi ad essere gli odiati alleati del defunto dittatore. Significa anche aver deluso le aspettative degli altri Paesi della regione che speravano nel cambio di regime. Le motivazioni sono varie. In primis, i due “vetanti” condividono il rispetto del principio di non-interferenza negli affari interni di altri Paesi. Tradotto in parole povere, qualsiasi sia la situazione, finchè le conseguenze sono esclusivamente interne a stati terzi, essi non accettano interventi da parte della comunità internazionale. Questo è vero specialmente per la Cina, la quale ha eretto tale principio a vero e proprio Vangelo della propria politica estera. Il che è perfettamente logico, se si guarda alla sua esperienza storica, ancora influenzata dal peso della passata semi-colonizzazione. Mosca, dal canto suo, non gradisce la politica dei diritti umani made-in-US, tanto più dopo le proteste registrate in patria e le accuse rivolte dal governo ai media stranieri per il modo tendenzioso nel quale avrebbero coperto la campagna elettorale. Se poi l’intervento è contro un Paese amico –come la Siria, alla quale il governo russo fornisce armi e sul cui territorio detiene una base navale- la diffidenza è scontata. Per di più, entrambi i Paesi hanno recentemente avuto modo di osservare il comportamento della NATO in Libia, dove la risoluzione dell’ONU è stata interpretata in modo così estensivo da consentire la costruzione della “no-fly zone” senza la quale i nemici di Gheddafi difficilmente l’avrebbero spuntata. Perfetto esempio della violazione del principio di non-intervento, devono essersi detti in quel di Mosca e Pechino. In tal senso, il caso può forse essere interpretato da Washington e Bruxelles come un invito alla multilateralità. Oggi ignori le mie posizioni, domani io ignorerò le tue.

 

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UN INDIZIO PER IL FUTURO? – Nonostante l’esito del voto non sia stato poi così sorprendente, non se ne possono ignorare i risvolti più ampi. Esso non cambia le linee generali delle relazioni fra i protagonisti ma costituisce comunque un segnale. Innanzitutto indica che la politica estera cinese sta diventando più confidente con l’espandersi dei suoi mezzi economici. La Cina aveva già mostrato un atteggiamento meno flessibile in materia estera nel caso del Mar Cinese Meridionale e in occasione dell’incidente che aveva coinvolto le due Coree, quando fallì nel condannare il nord per le sue azioni irresponsabili. Il veto giunto l’altro giorno riconferma che Pechino si sente più sicura di sé e che è sempre meno disponibile ad accettare passivamente le altrui decisioni. Sarebbe appropriato anche chiedersi se esista un collegamento con il ritrovato interesse americano per il Pacifico, che Pechino interpreta come una forma di contenimento. In tal senso, la Cina potrebbe aver alzato la posta in gioco dopo aver osservato l’America rilanciare nei mesi scorsi. “Se a Washington qualcuno vuole fare il duro, qui troverà pane per i suoi denti”, potrebbe essere una complementare interpretazione. Il secondo elemento che vale la pena di sottolineare è come Russia e Cina si stiano avvicinando sempre di più. Un trend preoccupante per chi vuole salvare la primazia della politica estera occidentale nel mondo e l’ammissione di un fallimento dopo vent’anni di ex-Unione Sovietica. Grazie a nuovi rapporti economici, ad una visione politica simile e ad un rapporto spesso ambiguo con Stati Uniti ed Europa, Pechino e Mosca hanno trovato sempre più terreno in comune. Il che, essendo questi due Paesi estesi su tutta l’Eurasia e avendo entrambi un seggio permanente nel Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, rischia di diventare un boccone amaro per i Paesi sviluppati. Uno di quelli, per intenderci, che possono causare forti dolori addominali.

 

Michele Penna

Chi più spende…meglio spende (2)

Abbiamo visto nella prima parte della nostra analisi come la spesa pubblica in educazione e sanità sia cresciuta sensibilmente negli ultimi anni nei Paesi latinoamericani. E le spese militari? Anche il capitolo Difesa è generalmente cresciuto, ma in maniera decisamente inferiore. Gli estremi sono rappresentati da Cile e Colombia da una parte, più inclini a spendere per le proprie Forze Armate, e dal Costa Rica dall'altra, che addirittura non possiede un esercito. In mezzo, un continente che ha forse capito che è il momento di puntare soltanto sullo sviluppo economico e sociale

(2. continua) BURRO O CANNONI? – Era, questa, una domanda ricorrente nella retorica dei regimi conservatori e autoritari a cavallo tra la fine dell'800 e i primi decenni del '900. In altre parole, gli Stati come avrebbero dovuto spendere le proprie risorse? Privilegiando “servizi sociali” (intesi nel senso più trasversale possibile e tenendo ben presente che ai tempi non esisteva un “welfare State” come lo si intende oggi) oppure destinando più fondi per la Difesa? A quei tempi, molto spesso, era la seconda opzione a prevalere. Questo breve cappello introduttivo serve per spiegare con una efficace metafora un concetto abbastanza semplice: un dollaro speso in armamenti non è “fungibile”, ovvero non può essere riutilizzato per scopi di pubblica utilità. E viceversa: un dollaro speso in più nella sanità, o nell'educazione dei propri cittadini, comporterà la rinuncia ad un dollaro per l'acquisto di un nuovo “cannone”. Tale problema può essere mitigato in periodi di rapida crescita economica: grandi entrate nelle casse statali, che possono derivare da forti rendite petrolifere o dallo sfruttamento di altre materie prime (di cui appunto gli Stati sono monopolisti) oppure da maggiori introiti fiscali che derivino da continui surplus commerciali (tasse sull'export o altre barriere), consentono di aumentare la spesa pubblica in ogni settore, raggiungendo così lo scopo di non scontentare nessuno. È un po'quello che è avvenuto in America Latina nell'ultimo decennio: la crescita sostenuta ha infatti consentito ai Governi di aumentare la spesa in salute, educazione, ma anche per la Difesa.

ALL'ARMI? NON PROPRIO… – Vi abbiamo spiegato questa dinamica nella prima parte della nostra analisi. Ora ci concentriamo sull'andamento delle spese militari in America Latina, basandoci essenzialmente su un'analisi condotta dal SIPRI (Stockholm International Peace Research Institute) volta a determinare le priorità nella spesa pubblica dal 1995 ad oggi. Il primo risultato è che la spesa è cresciuta in tutti i settori presi in considerazione (sanità, istruzione, Difesa), ma in quest'ultimo settore l'aumento è stato complessivamente molto meno importante. Se per i primi due le risorse destinate ammontano tendenzialmente al 4% del PIL di ciascun Paese, le spese militari non superano in genere un ben più modesto 1,5%, registrando un trend pressochè piatto che ha registrato una ascesa solo dopo il 2003, quindi in linea con la stabilizzazione della crescita economica. Un altro importante risultato è che la spesa destinata a scopi militari non ha creato effetti distorsivi, deviando risorse utili per gli altri settori di spesa sociale. La spiegazione può dunque essere ascritta solamente a ragioni “fisiologiche”?

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CILE E COSTARICA… MARTE E VENERE? – Il paragone può sembrare senz'altro ardito, ma serve per dare un'immagine immediata di due Stati che, nella regione, destinano rispettivamente ingenti e scarse risorse pubbliche per la Difesa. Santiago riserva circa il 4% delle risorse statali per finanziare questo settore, mentre dall'altra parte San José non investe neppure un centesimo: già, perchè la piccola repubblica centramericana è totalmente sprovvista di un esercito. In realtà, è fondamentale analizzare i dati in profondità per scoprirne il reale peso. Il Cile oggi non è affatto un Paese “bellicoso” e, a dispetto di alcune tensioni sociali che hanno avuto luogo nel 2011 a causa delle proteste studentesche, è una delle nazioni più stabili e prospere di tutta l'area. Allora come si spiegano tutti questi soldi per la Difesa? Da una parte non va dimenticato il tuttora esistente retaggio del regime militare di Pinochet, che implica l'applicazione di un trattamento “privilegiato” per i militari, i quali ricevono pensioni molto sostanziose. Inoltre viene catalogata come spesa per la Difesa anche la gestione del corpo dei Carabineros che, al pari dei carabinieri italiani, pur facendo parte delle Forze Armate si occupano in realtà di ordine pubblico. Diverse sono invece le situazioni di Colombia e Messico. In questo caso le necessità di investire in spese difensive sono più pressanti, non per contrastare eventuali aggressori esterni bensì per combattere nemici interni, che sono rappresentati dai cartelli del narcotraffico e, nel caso colombiano, dai guerriglieri delle FARC. Tuttavia, la spesa militare relativa in rapporto al PIL non è elevata come si potrebbe pensare: intorno al 4% per la Colombia, addirittura inferiore all'1% per il Messico.

CONCLUSIONI – In definitiva, a nostro avviso si possono trarre due conclusioni principali dall'analisi del SIPRI. La prima: l'America Latina sta imparando a investire maggiormente in spesa sociale. La seconda: le spese militari non sono considerate prioritarie, nemmeno da quegli Stati a cui piace, di tanto in tanto, “mostrare i denti” con i vicini, come il Venezuela di Hugo Chávez. La stabilità politica ed economica, trovata dopo decenni di tribolazioni, ha indubbiamente fornito il clima ideale per l'innestarsi di questa dinamica, che potrà influire positivamente sullo sviluppo e l'inclusione sociale delle fasce disagiate della popolazione latinoamericana.

Davide Tentori [email protected]

Chi più spende…meglio spende (1)

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Recentemente, l'America Latina ha assistito ad un graduale aumento del ruolo dello Stato nell'economia, in contraddizione con i dettami del Washington Consensus che ne avevano dettato le regole di sviluppo economico negli anni '90. Una delle tendenze principali in questo senso è il graduale aumento della spesa pubblica nell'intera regione. Brasile e Venezuela, i principali modelli economici della regione, hanno fatto della spesa sociale e dell'attenzione verso le fasce più disagiate della popolazione i propri cavalli di battaglia: ciononostante, negli ultimi anni anche la spesa militare è sensibilmente aumentata, quantomeno in senso assoluto, ponendo dubbi circa la possibile concorrente diminuzione della spesa sociale

L'AUMENTO DELLA SPESA PUBBLICA – Nel corso degli ultimi venti anni, la spesa pubblica in America Latina è cresciuta considerevolmente, sulla spinta di una crescita economica sostenuta, che ha permesso anche maggiori entrate fiscali: tra 2002 e 2007, subito prima della crisi finanziaria, queste sono cresciute mediamente di un valore pari al 4,5% del PIL nei paesi esportatori di petrolio (Ecuador, Venezuela e Messico) e al 3,5% nel resto del continente. La spesa pubblica media ha avuto un andamento temporalmente ondivago, con una contrazione tra 2001 e 2004, ma a partire dal 2004 ha evidenziato un trend di aumento costante, passando dal 25% al 30% del PIL. Uno dei principali motivi di questa evoluzione va ricercato nell'evoluzione politica del continente: mentre la tradizionale ricetta neoliberista del Washington Consensus prevedeva la contrazione del ruolo dello Stato, Venezuela e Brasile, i due principali modelli economici della regione, condividono un'attenzione particolare per il ruolo dello Stato, inteso come principale organizzatore dell'attività economica nazionale. A questo proposito, il settimanale inglese “The Economist”, bibbia della visione liberale tipica del capitalismo anglosassone, ha recentemente dedicato uno speciale a questo tema, analizzando fra gli altri il Brasile come principale esempio. Questa diversa impostazione è chiara anche analizzando la diversa reazione dei paesi latinoamericani e di quelli europei di fronte all'attuale crisi economica: mentre i paesi della zona euro hanno messo in atto cure da cavallo per la riduzione della spesa pubblica, varando misure di austerity con chiari effetti recessivi, i Paesi latinoamericani hanno reagito con politiche fiscali e sociali espansive, promuovendo il ruolo dello stato come difensore degli interessi economici dei cittadini ed incrementando la spesa pubblica per favorire l'impiego e l'assistenza sociale. D’altro canto, questa visione dello Stato non è nuova per l’America Latina: fino agli ’80 il modello economico prevalente nella regione era l’ISI (Industrializzazione come sostituzione delle importazioni)), basato proprio sulla concezione dello Stato come principale motore e organizzatore dello sviluppo economico.

LA SPESA SOCIALE – A giocare la parte del leone nell'aumento della spesa pubblica è stata senza alcun dubbio una maggiore spesa sociale, diretta quindi a migliorare educazione, salute e assistenza sociale: tra 1990 e 2008 questa è passata dal 12,3 al 18,4% del PIL, dal 45% al 65% della spesa pubblica complessiva. Se analizzato in termini assoluti, questo aumento della spesa sociale è ancora più significativo: i Paesi dell'America Latina spendono mediamente 880 dollari a persona, contro i 445 del 1990. Un'analisi settoriale della spesa sociale conferma la rilevanza delle decisioni politiche progressiste degli Stati latinoamericani: tra 1990 e 2008 la spesa per la sicurezza e l'assistenza sociale è infatti aumentata di un valore pari al 3% del PIL. Anche la spesa per educazione e salute è cresciuta,anche se in misura minore: la spesa media per l’educazione è passata dal 3,1% del PIL del 1990 al 4,2% del 2008, valori simili a quelli della spesa per la salute. Se analizzato in termini reali, però, questo aumento è ancora più significativo: oggi gli Stati latinoamericani investono mediamente nell’educazione 171 dollari a persona, contro gli 86 del 1990. Programmi come “Bolsa Familia” in Brasile o “Barrio Adentro” in Venezuela, così come i vari programmi assistenziali e di aiuto ai poveri nei Paesi del continente, hanno sicuramente favorito questo aumento. D’altro canto la disuguaglianza estrema e le condizioni di vita di ampie fasce della popolazione rimangono le piaghe maggiori del continente, e richiedono interventi diretti da parte dello Stato: il livello di disuguaglianza è fra i più alti al mondo, tanto che 16 fra i 20 stati più diseguali sono latinoamericani. Il coefficiente di Gini medio della regione (il valore compreso tra 0 e 1 che indica il livello di uguaglianza) è superiore a 0,50, contro lo 0,40 dell’Asia. Non deve stupire quindi che a fronte di maggiori entrate ed economia in crescita gli Stati latinoamericani aumentino la propria spesa pubblica diretta alla protezione sociale.

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LE SPESE MILITARI – Ciononostante, negli ultimi anni anche la spesa militare è gradualmente cresciuta: secondo i dati del SIPRI (Stockholm International Peace Research Institute, dal 2003 gli Stati latinoamericani hanno aumentato i fondi destinati alla difesa del 8,5% ogni anno, fino a raggiungere una spesa complessiva di 69,7 miliardi di dollari annui. Questo aumento ha però seguito in parte la crescita dell’economia della regione, incidendo poco a livello relativo: dal 2003 al 2010 la spesa militare è passata solo dal 1,23% del PIL al 1,51%. Varie critiche si sono levate per questo trend: dato il persistente stato di indigenza di buona parte della popolazione, spendere risorse pubbliche in armamenti potrebbe sembrare uno spreco. Confrontando i dati relativi alla spesa militare con quelli per la spesa sociale, appare però chiaro come non vi sia sostanziale trade-off, come confermato proprio dai dati del SIPRI: pur in un momento di spesa militare crescente, la spesa sociale è aumentata in misura sensibilmente maggiore, seguendo le politiche sociali dei governi latinoamericani. Chiaramente le spese militari implicano sempre una mancata spesa in altri settori: un dollaro speso in armi non potrò essere speso in medicine. Ciononostante, l’attenzione dei governi della regione sembra chiaramente focalizzata sulla necessità di migliorare le condizioni di vita della popolazione attraverso una spesa sociale crescente, anche in momenti di crisi economica.

(1. continua)

Francesco Gattiglio [email protected]

Oba-mah…

Il Giro del Mondo in 30 Caffè 2012 – Con il discorso del 24 gennaio sullo stato dell’Unione è iniziata la campagna elettorale di Barack Obama. Tra successi e fallimenti il presidente deve riconquistare un’America disincantata che deve risollevare la propria economia e ripensare al suo ruolo nello scenario globale. La necessità di ridurre il debito pubblico rende le scelte dell’amministrazione ancora più delicate, anche in vista delle elezioni presidenziali del prossimo autunno

 

LO STILE – Non esiste alcun dubbio circa le abilità oratorie dell’attuale presidente degli Stati Uniti, la voce profonda, il carisma, l’autorevolezza e la familiarità con cui si mostra al popolo americano restano la sua arma vincente. In questo campo è quasi imbattibile. Il discorso sullo stato dell’Unione ne ha dato l’ennesima prova. Lo stile è squisitamente obamiano, esponendo i fatti in modo chiaro, con dati semplici ed evocativi, ricordando ciò che è stato fatto e ciò che si farà. Delinea così il metodo di azione, inscrivendolo in uno scenario di ampio respiro ma senza dimenticarsi dell’uomo comune: questa volta è toccato a Jackie, madre single e disoccupata che è tornata sul mercato del lavoro grazie al sistema educativo made in USA, a Bryan che ha trovato occupazione grazie allo sviluppo delle energie pulite, e alla segretaria di Buffett, costretta a pagare più tasse del suo capo per colpa dell’amministrazione precedente. Infine arriva il momento della speranza, che caratterizza l’eccezionalità americana, con la celebrazione della lezione impartita dai padri (i veterani che hanno ricostruito il paese dopo la seconda guerra mondiale) e l’appello all’unità e allo sforzo comune, citando l’esempio dei SEALs (le forze speciali della Marina il cui blitz ha portato alla cattura di Osama bin Laden) che, lavorando come una squadra e non da solisti, hanno eliminato il nemico numero uno degli Stati Uniti.

 

LE EREDITA’ DI BUSH – Probabilmente l’uccisione di Osama Bin Laden è stato il più grande successo in politica estera dell’amministrazione Obama. L’incursione delle forze speciali nel villaggio di Abbottabad in territorio pakistano, nel maggio scorso, ha permesso di decapitare una delle maggiori organizzazioni terroristiche e di dare una svolta, perlomeno mediatica, alla guerra al terrore. Altro risultato di sicuro impatto mediatico è il ritiro delle truppe regolari statunitensi dall’Iraq. Infatti la “fine della guerra in Iraq” era uno degli obiettivi programmatici dichiarati nel 2008, durante la campagna elettorale. In Iraq sono ancora presenti parecchie compagnie di sicurezza privata, pagate anche dai contribuenti americani, ma l’aver portato a casa i propri ragazzi ha sicuramente giovato all’immagine del presidente. Ovviamente questi risultati sono stati evidenziati in più passaggi del discorso sullo stato dell’Unione, evitando invece i temi più spinosi. In particolare Obama ha solo accennato alla questione afghana (il ritiro delle truppe è previsto entro il 2014 secondo l’ultima exit strategy) e non ha sapientemente trattato di un altro dei suoi cavalli di battaglia del 2008, la chiusura del campo di detenzione di Guantanamo, ben lontano da essere portato a termine per questioni sia politiche sia giuridiche relative allo status dei prigionieri.

 

USA NEL MONDO – La politica estera americana sta cercando di trovare una nuova dimensione poiché i tagli al budget della difesa (tra il 2013 e il 2023 si potrebbe arrivare ad un taglio di quasi 1000 miliardi di dollari, anche se per ora ci si è accordati su una riduzione temporanea di “soli” 350 miliardi) e il pericolo di overstretching, che già contribuì a condannare l’impero britannico alla scomparsa, obbligano la prima potenza mondiale a ripensare il suo impegno nei numerosi teatri in cui è coinvolta. L’amministrazione Obama, su questo fronte, ha dato però segnali contraddittori. Da un lato sta cercando di definire dove e quali siano gli interessi vitali della nazione. In questo senso il passaggio del discorso di Obama in cui dichiara “we have made it clear that America is a Pacific power e l’articolato intervento del Segretario di Stato Clinton sul periodico Foreign Policy permettono di capire in che direzione nel medio e lungo periodo la politica estera americana sarà orientata. Dall’altro lato l’operazione Odyssey Dawn, seppur non abbia portato ad un dispiegamento diretto delle forze militari americane sul suolo libico, e il sostegno dato dal governo statunitense ai movimenti insurrezionali nel mondo arabo, che hanno portato al rovesciamento dei regimi autocratici, storicamente vicini agli Stati Uniti e garanti della stabilità mediorientale, si allontanano dal principio di razionalizzazione degli sforzi verso gli interessi vitali americani. Tanto che la copertina dell’ultimo numero di The national interest ha sullo sfondo la figura di Obama e l’eloquente titolo Triumph of the new wilsonism, a voler criticamente sottolineare come la politica estera obamiana si basi più su principi etici che sul perseguimento degli interessi statunitensi. Queste contraddizioni potrebbero far pensare che non esista una vera e propria strategia generale che guidi le mosse del presidente americano, sullo scacchiere internazionale. In realtà la grand strategy di Obama è bene riassunta da Drezner sul numero di luglio di Foreign Affairs. Drezner sintetizza in due espressioni la concezione della politica estera di questa amministrazione: multilateral retrenchment e counterpunching. Il primo fattore indica la condivisione dei costi economici e politici di un impegno in teatri lontani dal suolo americano. Un valido esempio è stato l’intervento in Libia del maggio 2011. A differenza di quelli precedenti gli Stati Uniti hanno volutamente ricoperto un ruolo secondario di supporto, lasciando maggiori responsabilità alle potenze regionali dell’area interessata (Regno Unito e Francia). Questo metodo si riconferma nel caso di un maggior coinvolgimento turco nella normalizzazione della situazione mediorientale, in particolare dell’Iraq e, in un futuro non molto lontano, della Siria. Il secondo fattore, il counterpunching, è strettamente legato al primo e indica la volontà di promuovere attivamente l’influenza e gli ideali americani quando sfidati dalle potenze emergenti, sempre attraverso il rafforzamento del rapporto con gli alleati nella regione o la creazione di nuove partnership.

 

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CINA E USA… IN ROTTA DI COLLISIONE? – Il caso più eclatante è la presenza cinese nel quadrante del Pacifico che rischia di minacciare la supremazia americana. Per tutto il 2011 sia il segretario di Stato Clinton che il presidente Obama si sono impegnati in tour asiatici per rinsaldare le relazioni con alleati come il Giappone, la Corea del Sud e l’Australia oppure per stringere nuovi trattati economici e strategici come con l’India. La ferma volontà di mostrare la presenza attiva degli Stati Uniti è dovuta anche alla più assertiva politica di Pechino che, attraverso l’incremento poderoso del budget relativo alla difesa, all’innovazione tecnologica in campo militare e le diverse esercitazioni militari dell’esercito cinese, minaccia l’influenza americana e dei suoi alleati nel quadrante asiatico-pacifico. Se il Pacifico sarà sicuramente il futuro, anche prossimo, su cui si concentrerà lo sforzo americano, non si può comunque tralasciare l’area del Vicino e Medio Oriente, con le implicazioni che ne derivano per i rapporti tra USA e Israele. Uno dei punti focali del programma di Obama era la ripresa del processo di pacificazione nella questione israeliana e palestinese. Anche quest’aspetto della politica obamiana non ha avuto i risultati sperati; anzi, la primavera araba, sostenuta politicamente anche dal governo statunitense, è stata un fattore di destabilizzazione dell’area. Inoltre lo sviluppo del programma nucleare iraniano sta provocando un ulteriore stato di allarme nella regione. Le sanzioni internazionali comminate all’Iran sono state solo il primo passo verso l’isolamento internazionale della potenza persiana e alcuni autorevoli strateghi americani non escludono un attacco circoscritto ai siti di arricchimento dell’uranio e ad alcuni obiettivi militari, con lo scopo di evitare che Teheran si doti dell’arma atomica. Come già accennato le prossime scelte in campo internazionale dipendono, per gli Stati Uniti, dal rischio dato dall’overstretching ma soprattutto dalle scelte economiche interne. Si rivela importante, nel calcolare i prossimi equilibri internazionali, la posizione che Obama ha preso e intende prendere sulle questioni domestiche. E qui arrivano le note più dolenti.

 

POLITICA INTERNA – Prima di entrare nel merito di qualsiasi considerazione è necessario tenere presente che i margini di manovra sono molto stretti per via del debito pubblico americano (circa 15 mila miliardi di dollari). Il Congressional Budget Office (CBO) ha preventivato inoltre una riduzione del budget federale di circa 1.200 miliardi di dollari in dieci anni, restringendo parecchio l’autonomia di spesa governativa. Durante il discorso sullo stato dell’Unione il presidente Obama ha spiegato che i cardini su cui vuole incentrare la ripresa americana sono l’industria made in USA, il sistema scolastico, la tecnologia e l’autosufficienza energetica. Tutti temi già affrontati nel 2008 ma che non hanno ancora fatto ripartire la macchina economica americana. I progetti sono ambiziosi: sgravi fiscali per chi investe nel settore manifatturiero negli Stati Uniti, una maggior flessibilità per le scuole e un miglioramento della condizione del corpo insegnante, insieme ad un sistema educativo che non deve essere un lusso per i cittadini ma una base solida per costruire il futuro americano. È evidenziata poi la necessità dell’innovazione tecnologica come motore trainante dell’economia e in particolare la sua applicabilità nello sfruttare le risorse energetiche presenti nel territorio americano e nello sviluppo di energie pulite, anche in termini di aumento dell’occupazione. Il vero problema è la sostenibilità economica delle riforme. Basti pensare all’unica vera e propria riforma implementata, quella del sistema sanitario nazionale, la cosiddetta Obamacare. Se è vero che il CBO ha previsto un risparmio del Medicare, il sistema assicurativo governativo per gli anziani, di circa 150 miliardi di dollari è anche vero che ha calcolato una spesa netta per i contribuenti americani di circa 800 miliardi di dollari nei dieci anni successivi l’entrata a regime del nuovo sistema e ha stimato la perdita di circa 650 mila posti di lavoro. La riforma rende obbligatoria l’assicurazione per tutti, mentre prima la salute era affare dell’individuo e non dello Stato (anche se da metà anni ’60 il presidente Johnson introdusse il Medicare e il Medicaid, affievolendo questo principio). Le assicurazioni rimangono private ma i prezzi sono garantiti a livello politico, in modo tale che la maggior parte dei 30 milioni di americani non coperti da assicurazione sanitaria possano stipulare una polizza con una compagnia. In questo senso molti critici della riforma hanno evidenziato come il provvedimento somigli più a un enorme sussidio alle compagnie di assicurazione piuttosto che alla rivoluzione del sistema sanitario percepita in Europa.

 

O”BIS”AMA? – La tenuta dei conti americani non è stato l’unico fattore che ha impedito l’applicazione rigorosa del programma di Obama. Infatti le elezioni di midterm dell’autunno 2010, con il trionfo del Grand Old Party che ha raccolto i voti anche di molti democratici scontenti, hanno portato a una maggioranza repubblicana alla Camera dei Rappresentanti, rallentando di fatto il processo legislativo federale. Il presidente Obama sta cercando di sfruttare al massimo questa paralisi, come già fece Clinton nel 1996, in modo da addossare la maggior parte delle mancate promesse all’ostruzionismo del parlamento nei suoi confronti. Le prossime elezioni presidenziali hanno, per ora, un esito incerto. L’attuale presidente non ha migliorato sensibilmente le condizioni di vita della classe media, la disoccupazione è rimasta a livelli molto alti (anche se nell’ultimo discorso Obama dica di aver creato più di tre milioni di posti di lavoro) e il tasso di crescita stenta a decollare. Insomma l’America che andrà a votare a novembre è delusa e disillusa. Dall’altra parte però non sembra esserci un candidato con le stesse qualità comunicative di Obama e nemmeno un partito repubblicano con una ricetta solida che porti alla svolta decisiva gli Stati Uniti, i quali nei prossimi anni dovranno affrontare sfide regionali e globali, sostenibili solamente da un paese con ferme basi politiche ed economiche.

 

Davide Colombo

Il golpe annacquato

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Il presidente delle Maldive, Mohamed Nasheed, il primo eletto in modo democratico, è stato costretto alle dimissioni dalle dure proteste che hanno assediato il palazzo del governo. Il fronte dei rivoltosi è composto da un gruppo eterogeneo di forze d’opposizione, poliziotti, militari e islamici, probabilmente ispirati dall’ex capo di Stato Abdul Gayoom. Il potere è passato nelle mani del vicepresidente Mohamed Waheed, estraneo ai fatti

LE DIMISSIONI DEL PRESIDENTE – Martedì 7 febbraio, Mohamed Nasheed, Presidente delle Maldive, ha rassegnato le dimissioni dal proprio incarico in seguito alle dure proteste che da settimane attraversano la capitale Malè con il sostegno delle forze di polizia e dell'esercito. Poche ore dopo, il vicepresidente Mohamed Waheed ha giurato quale nuovo capo di Stato dell’arcipelago. Le Isole Maldive sono un Paese di fondamentale importanza strategica per il controllo dell’Oceano Indiano, ma, al contempo, sono in condizioni critiche quanto a tutela delle libertà e dei diritti umani, con imposizioni stringenti dettate dalla costituzione islamica. Tuttavia, il Presidente Nasheed, il primo democraticamente eletto dal 1965, è stato insignito di numerosi premi per il suo impegno nella difesa dell’ambiente (l’Onu lo ha nominato “Champion of the Earth”), è inserito nella lista dei più influenti pensatori del 2010 da “Foreign Policy” e vanta importanti amicizie tra i vertici mondiali.

STORIA RECENTE – Le proteste che, dalla fine del 2011, stanno attraversando le Maldive hanno profonde radici nella vicenda storica del Paese: esasperare il ruolo, seppur evidente, della componente islamica nell’avvicendamento di vertice non è sufficiente a spiegare gli avvenimenti. Le Isole sono formalmente indipendenti dalla Gran Bretagna dal 1965. Sostituito il sultanato nel 1968, il Paese è stato governato dal Primo Ministro Ibrahim Nasir per altri dieci anni. Nel 1978 salì al potere Maumoon Abdul Gayoom il quale, nonostante tre tentativi di golpe, vinse sei elezioni consecutive, restando in carica fino al 2008 senza che alle opposizioni fossero permessi l’associazione in forma partitica e la libertà di espressione. Dopo le violente proteste del 13 agosto 2004 durante il cosiddetto “Venerdì Nero”, Gayoom acconsentì all’approvazione in Parlamento del diritto di costituire legalmente i partiti. Il primo di essi fu il Partito Democratico delle Maldive, il cui candidato, Mohamed Nasheed, già prigioniero politico, vinse le elezioni del 2008. Tra le altre formazioni, sorsero, nell’area conservatrice, il Partito del Popolo Maldiviano e il Partito Repubblicano, mentre d’ispirazione musulmana furono il Partito Democratico Islamico e il Partito della Giustizia. Il presidente Nasheed si è impegnato in una campagna per difendere le Maldive dalle conseguenze dei cambiamenti climatici, arrivando perfino a convocare una seduta del Consiglio dei Ministri sott’acqua. Al contempo egli ha tentato di limitare il peso della religione nella società e nella politica del proprio Paese: secondo la Costituzione, infatti, non solo l’Islam è religione di Stato e la sharî‘a legge fondamentale alla quale ogni altro provvedimento debba essere conforme, ma, addirittura, non è possibile ottenere la cittadinanza senza essere musulmani, né esercitare pubblicamente un’altra fede, a rischio della pena di morte. Nasheed, inoltre, si è dovuto confrontare sin dall’inizio con il potente cartello delle opposizioni, composto sia dai fedelissimi di Gayoom, che aveva ancora influenza sugli apparati di sicurezza, sia da alcuni dei più importanti imprenditori delle Maldive, insieme con i movimenti islamici anche radicali.

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LE PROTESTE – Già nel 2010, Nasheed aveva subito contestazioni per l’arresto di un parente di Gayoom implicato in supposti casi di corruzione parlamentare. Dalla fine dell’anno scorso, poi, alcuni gruppi musulmani si erano uniti contro la politica tendenzialmente laica di Nasheed, soprattutto dopo che il Presidente aveva moderatamente accolto la dura critica dell’inviato Onu per i diritti umani contro la fustigazione delle donne accusate di adulterio. Altre problematiche emergevano nel frattempo, ossia l’aumento dei prezzi e il ricorso a misure economiche per il ripianamento del bilancio nazionale, oltre alle trattative con l’India per la gestione dell’aeroporto internazionale delle Maldive, manovra in controtendenza rispetto alla storica politica di equilibrio con gli Stati asiatici dell’Oceano Indiano. A far scattare la scintilla della rivolta è stato l’ordine impartito da Nasheed per l’arresto del Presidente della Corte Penale, al quale si contestava di aver scarcerato senza reali motivazioni un oppositore del governo vicino all’ex presidente. Nasheed, in stato d’assedio, ha comunicato al Paese che le dimissioni fossero ormai inevitabili di fronte alla prospettiva di mantenere il potere con la forza: «la nostra reazione, – ha detto il Capo di Stato, – potrebbe ferire molti cittadini, e io non voglio governare col pugno di ferro».

PROSPETTIVE: RISCHIO RADICALISMO ISLAMICO? – Gayoom è considerato da molti il costruttore delle Maldive moderne, il Presidente capace di creare il circuito turistico sul quale si basa oggi l’economia dell’arcipelago. Non è escluso che, contando sull’appoggio della popolazione e delle Forze Armate, egli o un suo fedele possa tornare alla guida del Paese con le elezioni del 2013. L’eterogeneo fronte d’opposizione è comunque motivo di preoccupazione, soprattutto per la presenza di gruppi islamici che reclamano con voce sempre più forte il ritorno all’integrità del dettato shariatico, all’applicazione della legge religiosa al di sopra di ogni altra forma di amministrazione secolare. Qualora le loro istanze riuscissero a penetrare nella popolazione – eventualità forse improbabile, ma sicuramente da non sottovalutare – il turismo stesso potrebbe essere messo in dubbio e la politica internazionale maldiviana d’equilibrio potrebbe subire una profonda modificazione.

Beniamino Franceschini [email protected]

Stesso slogan, vent’anni dopo

Il Giro del Mondo in 30 Caffè 2012 – Un caffè lungo, intenso e un po’ “tecnico”, ma fondamentale per districarsi nel 2012 degli Stati Uniti. “It’s the economy, stupid!” era il motto di Clinton per le elezioni del ’92. Due decenni dopo, lo slogan è quanto mai attuale per Obama. L’economia statunitense fluttua ora tra segnali di ripresa (fondamentale quello sul fronte occupazione) e gravi scompensi e incertezze. Cerchiamo insieme di analizzarne criticità e sviluppi

 

 

UNA BUONA NOTIZIA – Il declino del tasso di disoccupazionesi consolida mese dopo mese (attualmente 8.5%), e mette in evidenza una espansione della base produttiva e della domanda di lavoro da parte delle imprese, e non più semplicemente una contrazione del mercato del lavoro. In realtà il fenomeno, il ritirarsi di sempre più persone dalla ricerca di un impiego, si è manifestato negli anni della recessione e non è cessato negli anni di post-crisi (non si può parlare di vera e propria “ripresa economica” con occupazione e salari reali stagnanti o addirittura in regresso), e si teme che il mercato di lavoro possa assestarsi stabilmente su questo nuovo plafond (normalità), come avvenne nelle economie dell’Europa occidentale all’inizio degli anni’80. Per intanto l’effetto è di portare il tasso di disoccupazione quasi tre punti percentuali sotto il livello che avrebbe a parità delle altre condizioni.  La notizia buona è che sotto questo (lento) recupero sarebbe in corso un importante aggiustamento strutturale, una inversione di rotta rispetto alla deindustrializzazione degli ultimi trenta anni, con le imprese manifatturiere che tornano a investire e aprire stabilimenti negli Usa. Si tratta di un movimento reale, e potrebbe segnare una svolta epocale per l’economia nordamericana, oltre a dare solidità e prospettiva all’aumento dell’occupazione e alle possibilità del Presidente Obama per le elezioni di novembre. Il ritorno a uno sviluppo più focalizzato sulla manifattura avrebbe implicazioni socioeconomiche di vasta portata,  potrebbe invertire il trend storico (più che trentennale) di caduta relativa della remunerazione del lavoro e arginare il processo di impoverimento/declino della middle class.

 

 

L’ECONOMIA USA CAMBIA IN POSITIVO – Rimaniamo al condizionale, perché si deve verificare da cosa è mossa e in che termini avviene la re-industrializzazione. Si tratta anzitutto di un recupero di competitività degli Usa, sostenuto da un consolidato trend al rialzo dei salari operai (incrementi nominali + maggiore inflazione) in Cina, dall’aumento del cambio reale renminbi (moneta cinese)/dollaro, dai maggiori costi di trasporto (drastico rialzo del greggio), dalla strenua competizione fiscale e (de)regolatoria tra gli Stati dell’Unione per creare un ambiente più favorevole agli investimenti diretti, dalle nuove relazioni industriali (che hanno imposto salari drammaticamente più bassi per i nuovi assunti), e da importanti guadagni di produttività realizzati negli ultimi anni. Un’altra importante direttiva di reindustrializzazione deriva dalla forte spinta che il downstream (raffinazione e sintesi chimica) degli idrocarburi sta ricevendo dal boom estrattivo in corso nel paese e in Canada: la ripresa delle trivellazioni nel Golfo del Messico, l’intenso sfruttamento delle sabbie bituminose dell’Alberta (Canada), lo sviluppo delle estrazioni di petrolio non convenzionale e di gas degli strati scistosi negli Usa, delineano sviluppi di vasta portata geopolitica per i prossimi anni e decenni (la chimera dell’indipendenza energetica diventa un obbiettivo concreto, realizzabile nel giro di un quindicennio), ma intanto alimentano intensi investimenti nella raffinazione e nella chimica della materia grezza.

 

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I MERITI DELLA POLITICA – L’economia nel suo complesso ha sicuramente reagito pure all’arsenale di politiche espansive, fiscali e monetarie, ortodosse e non convenzionali, che l’amministrazione Obama e la Fed hanno messo in campo in questi tre anni per rianimare e poi sostenere la domanda aggregata. Un effetto collaterale, sicuramente gradito, delle manovre di espansione è stato il deprezzamento del cambio, che pure ha contribuito a rilanciare decisamente l’export (nel 2010 gli Usa hanno superato la Germania – economia più piccola ma molto più export driven – come seconda potenza esportatrice). Nonostante la (relativa) debolezza del cambio, gli Usa e il dollaro hanno dato una spettacolare prova di forza nell’anno appena trascorso, sostenendo senza affanno il downgrade deciso ad agosto da Standard & Poor: la domanda per i Treasury Bonds non è mai stata così sostenuta, lo status di dollaro e titoli del debito federale come “porto sicuro” ne è uscito decisamente confermato e ha contribuito ad attrarre nel Gran Paese risorse finanziarie in fuga da altre tempeste (Eurozona in primis).  Questo ha sicuramente giovato al bilancio federale, garantendo un certo margine di manovra alle politiche espansive, ma ha pure contribuito alla sostanziale tenuta di Wall Street.

 

TUTTO BENE? NO! – Non è un quadro rassicurante. Nel complesso emerge molto più la capacità (di un paese e di una amministrazione) di fare ricorso a tutto un ampio ventaglio di risorse: dai tradizionali strumenti di intervento macroeconomico a politiche espansive non convenzionali, dalle relazioni internazionali al “credito imperiale” della superpotenza, dallo sfruttamento intensivo del sottosuolo energetico al contenimento salariale, dalla concorrenza fiscale e deregolativa tra gli stati all’annacquamento del dollaro, non c’è misura o vantaggio strategico che non sia stato messo in campo per rilanciare l’economia, l’occupazione e il suo cuore industriale. Data questa costellazione gli esiti appaiono decisamente modesti, molto poco rassicuranti. La spinta alla creazione di nuovi posti di lavoro appare consistente, ma in buona parte frustrata da carenze dell’offerta, mancano lavoratori adeguatamente qualificati, e forse la capacità stessa nel sistema di tenere il passo con le richieste formative di un’economia industriale più complessa e mutevole che in passato. Il capitalismo più dinamico del mondo, dove l’elevatissimo turnover di imprese garantiva sempre nuove opportunità di lavoro e segnalava la frenetica capacità adattiva di capitali, progetti e uomini ai segnali del mercato, segna il passo. La disoccupazione, da breve fase di passaggio tra un lavoro e l’altro, tende a diventare di lunga durata, con una modalità tipicamente europea. La macchina della “distruzione creativa” sembra in affanno. La diminuzione nel numero di nuove imprese generate ogni anno dalla creative destruction (il saldo netto tra aperture e fallimenti) spiega buona parte dei problemi occupazionali di oggi: è dalle nuove aziende che ormai da molti anni veniva la creazione di nuovi posti di lavoro.

 

ALTRI PROBLEMI – Altri limiti o effetti collaterali della Grande Mobilitazione di risorse per il lavoro: a) La concorrenza fiscale tra stati genera dumping fiscale (deficit pubblico): le autorità locali rinunciano a entrate importanti per favorire le imprese, e minano la sostenibilità dei propri bilanci. La crisi di bilancio degli Usa ha un livello statale molto importante, oltre all’elevatissimo deficit federale; b) Il contenimento, anzi il drastico taglio dei salari operai limita di molto l’impatto della nuova occupazione sul reddito disponibile, e dunque sulla domanda aggregata e sul circolo virtuoso che ne deriverebbe; c) non si è ancora trovata una via per governare il tasso di innovazione tecnica a favore dell’occupazione: per ora si tratta più che altro di innovazioni di processo che tagliano occupazione e costi, creando nuovi lavori (ma il saldo netto non sembra positivo) che richiedono nuove competenze. Non è ancora una vera rivoluzione tecnologica, in grado cioè di creare nuovi mercati, nuove industrie (come l’auto, o la stessa ferrovia) e relativo boom nella domanda di lavoro; d)i consumi sono anche decisamente frenati dalla fase di deleveraging (riequilibrio tra mezzi propri e indebitamento) in corso: dopo il crack finanziario partito dai mutui subprime le famiglie e le istituzioni finanziarie puntano a ristabilire un più corretto equilibrio tra redditi (o disponibilità) e indebitamento. Non sarebbe poi un male, se il maggior risparmio alimentasse nuovi investimenti produttivi e infrastrutturali, il problema è che gli investitori rimangono estremamente cauti. Scopriamo così che gli stessi fattori cui si deve gran parte della formidabile tenuta del dollaro e dei T-bonds minano alle fondamenta le possibilità di una solida ripresa  americana: la destabilizzazione dell’Eurozona potrebbe arrivare al collasso, e travolgere nel contagio la stessa economia statunitense; la feroce tensione sul Golfo Persico, che probabilmente spiega un certo ritorno al (ciclo del) petrodollaro, può degenerare in blocco di Hormuz, violenta crisi energetica, conflitto militare su vasta scala. Sono quasi tutte problematiche di lungo periodo. Su alcune di esse, come sanità e sistema finanziario, l’amministrazione Obama è intervenuta con riforme di ampio respiro, anche se molto limitate in alcuni aspetti. In ogni caso, è evidente che il mandato presidenziale si compie in un anno di grandi incertezze.

 

Andrea Caternolo

Via col veto

I 7 giorni della settimana che ci aspettano, si discostano dalla consuetudine delle relazioni e della politica internazionale che vi abbiamo raccontato nei mesi precedenti. Nonostante il doppio veto russo-cinese, la questione siriana sembra giunta al capolinea, l'Europa volta le spalle alla crisi e punta alla cooperazione in Asia, le primarie repubblicane negli Stati Uniti sanciscono il candidato favorito e la Palestina ritrova l'armonia tra le varie spinte nazionalistiche. Tuttavia restano ancore le tracce delle questioni peculiari del primo mese dell'anno chiusosi con l'eterno ritorno delle tensioni sulle Falklands/Malvinas, l'inverno arabo in Egitto e gli scontri tra governo centrale e ribelli nell'Africa occidentale. Il ristretto di oggi lancia a voi lettori il dado della sfida, in attesa dei primi appuntamenti elettorali, siete pronti a seguirci verso l'ignoto?

EUROPA

Lunedì 6-Venerdì 10 – Altra settimana di impegni internazionali per il Presidente del Consiglio italiano Mario Monti. Nella mattinata di lunedì l'ex Commissario europeo riceverà a Roma il Segretario dell'OCSE Angel Gurria, per trattare della cooperazione allo sviluppo e degli impegni economico-internazionali da portare avanti nel corso dei prossimi mesi. Mercoledì Monti accompagnato dal titolare della Franesina, Giulio Terzi di Sant'Agata giungerà a Washington in visita ufficiale presso la Casa Bianca, in seguito all'invito del Presidente barack Obama. Oltre ad un intervento presso il Peterson Institute è in programma anche un colloquio presso il palazzo di vetro di New York con il Segretario delle Nazioni Unite Ban Ki Moon e il Presidente dell'Assemblea Generale Al Nasser. Le prime pallide luci di una ripresa economica made in Rome garantiranno argomenti da spendere anche durante l'importante vertice con gli operatori finanziari del New York Stock Exchange a Wall Street per favorire la credibilità del debito pubblico italiano.

Lunedì 6 – E' in programma a Parigi il 14esimo vertice interministeriale tra Francia e Germania, i leader Nicolas Sarkozy, in lizza per le presidenziali di aprile, e Angela Merkel, reduce da una visita a Pechino, discuteranno delle relazioni bilaterali tra i due paesi. Sul tavolo non solo le misure anti-crisi e l'integrazione europea ma anche questioni di cooperazione economico-industriale nelle regioni di frontiera. Ha suscitato ilarità in tutta la stampa mondiale la trovata geniale del premier francese che per ovviare al sensibile calo di consensi che lo affligge ha pensato bene di rivolgersi alla nazione con un intervista per France 2 alla fine del meeting in parallelo all'intervento della Merkel sul canale tedesco ZDF.

RUSSIA – Il gelo siberiano degli ultimi giorni non è l'unico problema che accomuna i disagi europei a quelli della sterminata Russia, infatti i colloqui tra Commissione Europea e il colosso post-sovietico del gas Gazprom si sono conclusi con l'accordo per la riduzione dei rifornimenti verso ovest di circa il 30%. I bisogni interni di Mosca aumentati a causa dell'inverno rigido hanno privato Italia, Polonia, Slovacchia, Austria, Romania, Bulgaria e Grecia di una voce fondamentale nelle entrate energetiche. Intanto la visita del Segretario di Stato Clinton in Bulgaria ha alimentato le polemiche per le richieste pressanti di diversificazione delle fonti di energia che legano strettamente Sofia a Mosca. Il premier Borisov ha confermato il suo impegno per garantire alla Chevron, multinazionale americana, l'esplorazione di alcuni giacimenti di gas scisto nel paese, nonostante le polemiche per il rischio di inquinamento ambientale.

AMERICHE

STATI UNITI – Il candidato repubblicano Mitt Romney ottiene la terza vittoria nelle primarie del G.O.P. giungendo ad un totale di 95 delegati contro i 30 conquistati dallo sfidante Newt Gingrich. In vista dei prossimi appuntamenti in Maine, Colorado, Minnesota e Missouri dove i seggi si chiuderanno martedì il miliardario mormone, che ha recentemente ottenuto l'endorsement del compagno di ricchezze Donald Trump, è riuscito a spostare il mirino delle polemiche dai suoi sfidanti all'inquilino della Casa Bianca, Barack Obama. Nonostante le tre vittorie ottenute in New Hampshire, Florida e Nevada i principali politologi americani si trattengono dai verdetti definitiva in attesa delle vere sfide negli stati popolosi come New York, California e Texas dove i delegati in ballo sono numerosissimi. Le ampie capacità di auto-finanziamento e la conquista di una buona fetta dell'elettorato fedele al movimento del Tea Party hanno tuttavia sancito un netto distacco dalle possibilità del boccheggiante Gingrich che accusa il suo sfidante di falsità.

ARGENTINA – Continuano le tensioni tra Londra e Buenos Aires per l'arrivo, preannunciato da mesi, del Principe William nell'arcipelago delle Falkland/Malvinas. Il secondo erede al trono inglese in linea di successione resterà nella base di Mount Pleasant per almeno 6 settimane, durante le quali svolgerà un periodo di esercitazioni come elicotterista di soccorso aereo. Oltre alle scontate accuse di "provocazione da conquistatori" del governo argentino, questa volta si sono sommate le dichiarazioni del Presidente ecuadoregno Rafael Correa in visita a Caracas dall'amico Hugo Chávez. I magnifici due in occasione del ventesimo anniversario del golpe fallito del leader venezuelano hanno proposto alla Presidenta Kirchner Fernández un piano di sanzioni a livello sud-americano contro la Gran Bretagna, citando l'esempio di un recesso collettivo dal Trattato Interamericano di Assistenza Reciproca.

VENEZUELA – Fastose celebrazioni hanno preso luogo presso la base militare di Fort Tiuna in onore del fallito golpe contro l'ex Presidente Carlos Andres Perez che lanciò il progetto socialista di Hugo Chavéz. Sotto gli occhi della cerchia di amici latino-americani il leader ha presentato una parata d'onore dei reparti speciali, delle guardie pretoriane e di numerosi jet ed elicotteri da combattimento. Invitati allo spettacolo erano il presidente di cubano Raul Castro il boliviano Evo Morales, il presidente del Nicaragua Daniel Ortega e quello di Haiti Michel Martelly, tutti particolarmente interessati alla cooperazione per la sicurezza e la difesa e membri dell'ALBA, l'alleanze bolivariana promossa dallo stesso Chavéz che ha tenuto un meeting straordinario a Caracas nel week-end.

AFRICA

MALI – Potrebbe precipitare gravemente verso un conflitto civile la situazione instabile nel paese dell'Africa occidentale colpito dalla ribellione armata del movimento secessionista per la liberazione dell'Azawad. Nonostante il discorso pubblico del Presidente Amadou Toumani Toure invitasse la popolazione a non accusare l'etnia araba e touareg degli attacchi armati, nella capitale Bamako si sono moltiplicati i casi di aggressione a famiglie arabe, estranee alla lotta armata. Secondo il Comitato Internazionale della Croce Rossa almeno 15000 persone avrebbero abbandonato il Mali alla volta dei confinanti Niger e Mauritania, tra cui numerosi militari e appartenenti alle minoranze arabe. La ragione principale dell'esplosione delle violenze sarebbe il ritorno dalla Libia dei mercenari assoldati dal regime di Gheddafi per far fronte alle avanzate del CNT, gli uomini catturati e in seguito rilasciati sarebbero riusciti a trafugare un numero imprecisato di armi pronte ad essere impiegate contro il governo centrale.

LIBIA – Ha preso il via Domenica davanti alla Corte Militare di Bengasi il primo processo contro alcuni sostenitori del regime di Gheddafi catturati lo scorso luglio. I 40 imputati sarebbero tutti civili coinvolti in atti criminali contro le istituzioni e le autorità del CNT, in particolare avrebbero organizzato e portato a termine operazioni terroristiche, sequestri e sabotaggi grazie al sostegno di membri dei servizi segreti. Intanto si amplia la legittimazione internazionale del nuovo governo grazie alla visita del Ministro degli Esteri, nonchè vice-premier albanese Edmond Haxhinasto che ha promesso all'omologo Ashour Ben Khaial cooperazione economico-industriale e un impegno per la ricostruzione di complessi infrastrutturali e nel campo dell'edilizia. Ha destato polemiche invece la dichiarazione del Ministro dell'Interno Fawzy Abdilal che ha fissato entro venti giorni la data del processo al figlio del raìs Saìf al Islam, che non avrebbe richiesto l'assistenza di alcun avvocato.

NIGERIA – Si risveglia anche la tensione presso il delta del Niger, dove da sempre è attivo il movimento indipendentista Mend, che si batte per l'emancipazione dalle multinazionale del petrolio. In un attacco compiuto sabato sera sarebbe andato distrutto proprio un oleodotto dell'italiana AGIP, da anni impegnata nell'estrazione di greggio, accusata dai ribelli di inquinamento amnientale. Intanto nonostante l'arresto di uno dei leader del movimento estremista Boko Haram, tale Abu Qaqa membro della Shura della setta, gli Stati Uniti hanno annunciato un'ulteriore stretta alla concessione di visti d'ingresso per i cittadini nigeriani, visto l'elevato rischio di attentati. É sempre più in bilico il controllo del governo centrale sulle varie spinte separatiste mentre la tensione interreligiosa è ormai compromessa dopo gli attentati di Natale e le continue violenze nelle regioni periferiche.

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ASIA

Venerdì 10 – Sono attesi a Nuova Dehli per l'EU-INDIA Summit il Presidente della Commisione Europea José Manuel Barroso, il Presidente del Consiglio Europeo Herman Van Rompuy e il Commissario per il mercato europeo Karel De Gucht. Il Presidente indiano Mrs. Pratibha Devisingh Patil e il Primo Ministro Mahoman Singh dibatteranno i contenuti dei famigerati Free Trade Agreements che tengono banco tra le controparti dal 2007. il vero obiettivo delle cariche europee è quello di garantire alle industrie del vecchio continente vantaggi in mercati fondamentali, come quello automobilistico dove sono in ballo tariffe protezionistiche ostili all'ACEA, l'unione dei produttori di auto europei. Sul fronte opposto si prevede adamantina la tenuta nella politica di confronto sulla questione dei medicinali che oppone le case farmaceutiche in una battaglia su prezzi, licenze e brevetti. Il mercato indiano garantirebbe senza dubbio una boccata d'aria fresca per le boccheggianti industrie europee, con un miliardo e duecontomila consumatori e un tasso di crescita stimato dalla Banca Mondiale intorno al 6,8% per il 2012-'13, ma Nuova Delhi sembra intenzionata a vendere cara la pelle.

Domenica 12 – Il Commissario europeo per la Cooperazione allo Sviluppo Andris Piebalgs si recherà in visita ufficiale in Birmania per implementare l'azione di sostegno alla road-map democratica e alle riforme offerta da Bruxelles a Naypyidaw. Oltre alla capitale dove incontrerà il Presidente Thein Sein, Piebalgs visiterà Yangoon e la residenza della leader della LND Suu Kyi per parlare delle prossime elezioni che la vedranno probabilmente entrare per la prima volta in Parlamento. L'azione dell'Unione Europea sarà al centro della Conferenza sulle politiche di Sviluppo che si terrà durante il viaggio e cui prenderà parte tra gli altri anche il Ministro tedesco per la Cooperazione Economica Dirk Niebel. Inutile dire che l'Europa punta molto sul futuro della Birmania, che, spinta dai timori di colonizzazione economico-industriale da parte di Pechino potrebbe gettarsi nelle braccia di Bruxelles, ritenuta un partner più credibile e senza mire espansionistiche.

CINA – Le immolazioni dei monaci buddhisti appartenenti alla minoranza tibetana continuano a mettere a disagio le autorità del governo centrale nella regione sud-occidentale del Sichuan. Radio Free Asia, emittente filo-occidentale, ha diffuso il sacrificio di tre religiosi nella Contea di Seda, consegnatisi alle fiamme dopo aver chiesto libertà per il Tibet e la fine dell'esilio del Dalai Lama. Intanto sul fronte economico ha suscitato dibattiti la conferma del piano dell'Ufficio Brevetti Cinese, denominato "Strategia Nazionale per lo sviluppo dei brevetti", che punterebbe alla cifra impressionante di 2 milioni di brevetti entro il 2015. L'obiettivo, criticato e ridimensionato dagli osservatori occidentali, non comprenderebbe solo nuove invenzioni, ma il solo annuncio ha fatto rabbrividire l'economia statunitense che potrebbe vedersi scalzata dal gradino più alto del podio della proprietà intellettuale entro il 2017.

MEDIO-ORIENTE

Lunedì 6 – Riprenderanno in mattinata i colloqui tra le due entità di governo palestinesi Al Fatah e Hamas, svoltisi nel week-end a Doha, in Qatar, con i buon auspici dello Sceicco Al Thani. Abu Mahzen e il suo omologo Khaled Mashaal si sono detti favorevoli all'istituzione di un esecutivo di transizione che guidi i territori palestinesi verso le elezioni di maggio. Hamas controlla la Striscia di Gaza mentre Fatah dagli uffici di Ramallah è relegata alla Cisgiordania, l'accordo tra le due fazioni necessita tuttavia del benestare di altri movimenti palestinesi come sostenuto dal portavoce di Abu Mazen, Azzem al-Ahmed. In caso di soluzione della controversia intestina alla causa palestinese, i tentativi israeliani di sabotare i tavoli delle trattative di pace potrebbero suscitare l'opposizione della Comunità Internazionale, proprio all'apice della crisi con l'Iran e delle tensioni interne tra mondo secolare e opposizione laica.

Martedì 7 Il veto congiunto di Cina e Russia alla bozza di risoluzione di condanna per le violenze del regime di Al-Assad garantirà alle forze di sicurezza altro tempo prezioso per la soluzione definitiva del problema disertori-opposizione. Sembra ormai diventata routine la preventiva missione esplorativa di Mosca nelle aree destinate alle operazioni di peace-keeping delegate dal Consiglio di Sicurezza al Segretario ONU. Questa volta toccherà al Ministro degli Esteri Sergei Lavrov e dal Capo dell'Intelligence per l'Estero Mikhail Fradkov trattare a Damasco una caduta controllata della quarantennale dinastia degli Assad. Il tentativo, simile alle missioni di Yevgeny Primakov nel 1999 nella Belgrado di Milosevic e nel 2003 a Baghdad da Saddam Hussein, entrambe conclusesi in un fallimento. Stavolta l'obiettivo è evitare a tutti i costi non solo un intervento umanitario occidentale, ma soprattutto una possibile espansione dei tentacoli del GCC, l'organismo che raccoglie i paesi del Golfo Persico guidato dallo Sceicco qatarino Al Thani. Il New York Times ha parlato recentemente di un possibile ruolo nella transizione del delfino di Bashar, il vice-premier Farouk Al Shara, ex ministro degli Esteri ed ex Ambasciatore a Roma, ma le dinamiche siriane potrebbero anche scivolare verso esiti meno prevedibili.

EGITTO – Continuano le tensioni tra la giunta militare attualmente al potere in Egitto e i paesi occidentali, impegnati nella road-map verso le elezioni presidenziali. Secondo fonti giudiziarie 44 membri di una ONG operante al Cairo potrebbero essere processati davanti alla Corte Penale Egiziana per finanziamento illegittimo. Secondo gli accusatori l'organizzazione avrebbe tentato di istituire rami di organizzazioni internazionali nel territorio egiziano senza il consenso dell'esecutivo, la decisione sarebbe scaturita in seguito ai raid che hanno colpito le sedi di istituzioni americane in Egitto appartenenti al Partito Democratico e al G.O.P. Le inchieste, iniziate a luglio dopo le dichiarazioni dell'Ambasciatrice americana in egitto Anne Patterson sul finanziamento alle ONG nel periodo successivo alla caduta di Hosni Mubarak, evidenzierebbero chiare attività sovversive secondo lo stesso Feldmaresciallo Tantawi.

Fabio Stella [email protected]

Acque pericolose

Il Giro del Mondo in 30 Caffè – Ancora oggi la pirateria, in particolare nelle acque di fronte al Corno d’Africa, costituisce una seria minaccia per il commercio internazionale. Le grandi portacontainer, così come le petroliere, che seguono la rotta che attraverso Suez e il Mar Rosso collega l’Asia e l’Europa devono far fronte al rischio costante di un attacco da parte proveniente da piccoli barchini guidati da pirati armanti di armi leggere. Le statistiche testimoniano una diminuzione del numero di attacchi, grazie all’adozione di contromisure di una certa efficacia, ma il problema appare ancora lontano da una definitiva soluzione. Soprattutto perché tale soluzione presuppone, secondo la maggior parte degli analisti, una sistemazione nella caotica situazione interna somala.

 

DATI INCORAGGIANTI – In generale il 2011 non è stato un anno fortunato per i fuorilegge dei mari. Per la prima volta da 5 anni le statistiche dell’International Marittime Bureau mostrano una diminuzione, per quanto modesta, del numero degli attacchi: 439 contro 445. Questa diminuzione del fenomeno è apparsa più consistente nel Mar Cinese, e al largo delle coste del Bangladesh mentre in controtendenza per quanto riguarda il numero di episodi rimangono l’area del Corno d’Africa, l’Indonesia e l’Africa Occidentale.

Per quanto riguarda l’attività dei pirati somali­ – che tutt’ora rappresentano la minaccia più importante al commercio e alla sicurezza dei mari, con il primato di 237 attacchi nell’anno appena trascorso – è stata registrata anche una sostanziale diminuzione del raggio d’azione. Se infatti i pirati africani nel 2010 si spingevano con i loro attacchi fino in prossimità delle coste indiane, nel 2011 si sono mantenuti in zone più vicine alle loro basi operative. Questo cambiamento di strategia è indubbiamente una conseguenza della sostenuta attività di repressione intrapresa dalle forze navali indiane.

 

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LE STRATEGIE DI RISPOSTA – Per quanto non sia ancora il momento di trarre conclusioni definitive, queste statistiche sembrano suggerire che le nuove strategia di difesa adottate dalla comunità internazionale e dalle compagnie di armatori possano bastare a sventare la minaccia. Di fronte al crescere del fenomeno negli ultimi anni, attori privati e istituzionali hanno approntato diverse contromisure da adottare in caso di tentativi di abbordaggio: dalle tecniche di resistenza passiva (ad esempio barricandosi in cabine blindate), all’uso di armi non letali (armi soniche, schiuma immobilizzante, cannoni ad acqua ad alta pressione), all’ingaggio di contractors da imbarcare sulle navi nei tratti di mare più pericolosi. Navi da guerra di diversi paesi sono inoltre coinvolte in imponenti operazioni di pattugliamento antipirateria.

Sebbene rivelatesi utili in molti casi, queste contromisure mostrano i loro limiti. Per quanto consistente, la mobilitazione militare internazionale deve far fronte all’estrema estrema vastità del teatro operativo coinvolto dal fenomeno piratesco, che va dalle coste dell’Africa fino a quelle dell’India. È difficile quindi che la protezione delle unità militari sia costante sui grandi numeri. Mantenere navi da guerra operative così lontano da casa per lungo tempo inoltre grava non poco su bilanci statalisempre più risicati in tempi di crisi, ed è quindi per lo meno dubbio che queste missioni possano trovare i necessari finanziamenti per prolungarsi sul lungo periodio.

 

COSTI DELLA SICUREZZA PRIVATA – I contractors imbarcati sui mercantili rappresentano una buona garanzia, ma i loro servizi sono pagati profumatamente: un team di 4 esperti di sicurezza ha un costo medio di 1400-1600 dollari. Per ridurre questi costi le compagnie di assicurazione e gli armatori hanno avviato progetti per allestire flottiglie di imbarcazioni armate che dovrebbero operare come scorte dei convogli in transito per le acque pericolose. Ma al di là dei dubbi di natura giuridica su questo genere di iniziative e il timore di possibili escalation di violenza da parte dei criminali, si tratta sempre di contromisure utili a livello singolo, ma poco influenti rispetto ai grandi numeri dei flussi commerciali che ogni giorno interessano Suez, lo stretto di Bab-el Mandeb e il Golfo di Aden (il 75 % delle navi attraversano queste acque prive protezione armata).

 

DALLA TORTUGA AL PUNTLAND – Dagli albori della navigazione imbarcazioni pirata hanno costantemente infestato i mari internazionali, in maniera più intensa in determinati periodi storici ed aree geografiche. La pirateria conobbe il suo “periodo d’oro” tra il 1600 e il 1700 nelle calme e calde acque caraibiche. In questi anni e in questi luoghi chi voleva darsi alla vita del fuorilegge dei mari poteva contare sulle due condizioni indispensabili per svolgere la lucrosa attività: importanti rotte commerciali e una terraferma (le selvagge isole caraibiche), libera dal controllo delle autorità, su cui rifugiarsi e porre le proprie basi.

Queste due indispensabili condizioni si sono verificate in anni recenti nell’area del Corno d’Africa nelle cui acque incrociano navi container piene di merci in viaggio tra l’Asia e l’Europa e tanker che trasportano l’indispensabile petrolio mediorientale verso l’occidente e l’oriente industrializzato. La mancanza di un’autorità stabile ed effettiva entro i confini della Somalia fornisce l’indispensabile impunità ai pirati per stabilire le proprie basi operative e logistiche, ubicate in particolare nella regione nord orientale autonoma del Puntland. L’instabilità politica, che da vent’anni ha sprofondato il paese in una continua guerra civile e la conseguente povertà diffusa forniscono inoltre mano d’opera in quantità alle organizzazioni che si dedicano a questa attività criminale. La Somalia è diventata quindi tristemente famosa come santuario della moderna pirateria, superando la fama di altri tratti di mare conosciuti ai naviganti di lungo corso per la loro pericolosità come lo Stretto di Malacca, le coste indonesiane e dell’Africa Occidentale.

 

PERICOLO IN MARE E DISPERAZIONE SULLA TERRA FERMA – Ancora oggi la navigazione nelle acque del corno d’Africa risulta pericolosa. Bisogna ricordare che per quanto le iniziative di repressione crescano in intensità e durezza non rappresentano un deterrente efficace a fronte degli alti guadagni che questa attività criminale può garantire. Per fare un esempio, il riscatto che secondo fonti giornalistiche sarebbe stato consegnato per la liberazione del cargo Rosalia D’amato ammonterebbe a circa 12 milioni di dollari. Una cifra che spingerebbe alla delinquenza molte persone senza scrupoli in tutto il mondo, e che è ancora più convincente per chi, come gli abitanti della Somalia, vive da trent’anni nella povertà più nera ed è abituato dal costante stato di guerra ad avere a che fare con la violenza e le armi. Una soluzione al problema della sicurezza del commercio marittimo passa evidentemente per una soluzione al problema del caos politico e sociale che continua a regnare in Somalia. Ma un iniziativa di questo tipo non appare all’orizzonte della politica internazionale. La pirateria è il prezzo che la comunità internazionale continua a pagare per la sua incompetenza e indifferenza rispetto alla tragedia di questo estremo angolo d’Africa.

Acque pericolose

Il Giro del Mondo in 30 Caffè 2012 – Ancora oggi la pirateria, in particolare nelle acque di fronte al Corno d’Africa, costituisce una seria minaccia per il commercio internazionale. Le grandi portacontainer, così come le petroliere che seguono la rotta che attraverso Suez e il Mar Rosso collega l’Asia e l’Europa, devono far fronte al rischio costante di un attacco da parte proveniente da piccoli barchini guidati da pirati armati di armi leggere. Le statistiche testimoniano una diminuzione del numero di attacchi, grazie all’adozione di contromisure di una certa efficacia, ma il problema appare ancora lontano da una definitiva soluzione. Soprattutto perché tale soluzione presuppone, secondo la maggior parte degli analisti, una sistemazione nella caotica situazione interna somala.

 

DATI INCORAGGIANTI – In generale il 2011 non è stato un anno fortunato per i fuorilegge dei mari. Per la prima volta da 5 anni le statistiche dell’International Marittime Bureau mostrano una diminuzione, per quanto modesta, del numero degli attacchi439 contro 445. Questa diminuzione del fenomeno è apparsa più consistente nel Mar Cinese, e al largo delle coste del Bangladesh mentre in controtendenza per quanto riguarda il numero di episodi rimangono l’area del Corno d’Africa, l’Indonesia e l’Africa Occidentale. Per quanto riguarda l’attività dei pirati somali­ – che tutt’ora rappresentano la minaccia più importante al commercio e alla sicurezza dei mari, con il primato di 237 attacchi nell’anno appena trascorso – è stata registrata anche una sostanziale diminuzione del raggio d’azione. Se infatti i pirati africani nel 2010 si spingevano con i loro attacchi fino in prossimità delle coste indiane, nel 2011 si sono mantenuti in zone più vicine alle loro basi operative. Questo cambiamento di strategia è indubbiamente una conseguenza della sostenuta attività di repressione intrapresa dalle forze navali indiane.

 

 

LE STRATEGIE DI RISPOSTA – Per quanto non sia ancora il momento di trarre conclusioni definitive, queste statistiche sembrano suggerire che le nuove strategia di difesa adottate dalla comunità internazionale e dalle compagnie di armatori possano bastare a sventare la minaccia. Di fronte al crescere del fenomeno negli ultimi anni, attori privati e istituzionali hanno approntato diverse contromisure da adottare in caso di tentativi di abbordaggio: dalle tecniche di resistenza passiva (ad esempio barricandosi in cabine blindate), all’uso di armi non letali (armi soniche, schiuma immobilizzante, cannoni ad acqua ad alta pressione), all’ingaggio di contractors da imbarcare sulle navi nei tratti di mare più pericolosi. Navi da guerra di diversi paesi sono inoltre coinvolte in imponenti operazioni di pattugliamento antipirateria. Sebbene rivelatesi utili in molti casi, queste contromisure mostrano i loro limiti. Per quanto consistente, la mobilitazione militare internazionale deve far fronte all’estrema estrema vastità del teatro operativo coinvolto dal fenomeno piratesco, che va dalle coste dell’Africa fino a quelle dell’India. È difficile quindi che la protezione delle unità militari sia costante sui grandi numeri. Mantenere navi da guerra operative così lontano da casa per lungo tempo inoltre grava non poco su bilanci statali sempre più risicati in tempi di crisi, ed è quindi per lo meno dubbio che queste missioni possano trovare i necessari finanziamenti per prolungarsi sul lungo periodo.

 

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COSTI DELLA SICUREZZA PRIVATA – I contractors imbarcati sui mercantili rappresentano una buona garanzia, ma i loro servizi sono pagati profumatamente: un team di 4 esperti di sicurezza ha un costo medio di 1400-1600 dollari. Per ridurre questi costi le compagnie di assicurazione e gli armatori hanno avviato progetti per allestire flottiglie di imbarcazioni armate che dovrebbero operare come scorte dei convogli in transito per le acque pericolose. Ma al di là dei dubbi di natura giuridica su questo genere di iniziative e il timore di possibili escalation di violenza da parte dei criminali, si tratta sempre di contromisure utili a livello singolo, ma poco influenti rispetto ai grandi numeri dei flussi commerciali che ogni giorno interessano Suez, lo stretto di Bab-el Mandeb e il Golfo di Aden (il 75 % delle navi attraversano queste acque priva protezione armata).

 

 

DALLA TORTUGA AL PUNTLAND – Dagli albori della navigazione imbarcazioni pirata hanno costantemente infestato i mari internazionali, in maniera più intensa in determinati periodi storici ed aree geografiche. La pirateria conobbe il suo “periodo d’oro” tra il 1600 e il 1700 nelle calme e calde acque caraibiche. In questi anni e in questi luoghi chi voleva darsi alla vita del fuorilegge dei mari poteva contare sulle due condizioni indispensabili per svolgere la lucrosa attività: importanti rotte commerciali e una terraferma (le selvagge isole caraibiche), libera dal controllo delle autorità, su cui rifugiarsi e porre le proprie basi. Queste due indispensabili condizioni si sono verificate in anni recenti nell’area del Corno d’Africa nelle cui acque incrociano navi container piene di merci in viaggio tra l’Asia e l’Europa e tanker che trasportano l’indispensabile petrolio mediorientale verso l’occidente e l’oriente industrializzato. La mancanza di un’autorità stabile ed effettiva entro i confini della Somalia fornisce l’indispensabile impunità ai pirati per stabilire le proprie basi operative e logistiche, ubicate in particolare nella regione nord orientale autonoma del Puntland. L’instabilità politica, che da vent’anni ha sprofondato il paese in una continua guerra civile e la conseguente povertà diffusa forniscono inoltre manodopera in quantità alle organizzazioni che si dedicano a questa attività criminale. La Somalia è diventata quindi tristemente famosa come santuario della moderna pirateria, superando la fama di altri tratti di mare conosciuti ai naviganti di lungo corso per la loro pericolosità come lo Stretto di Malacca, le coste indonesiane e dell’Africa Occidentale.

 

 

PERICOLO IN MARE E DISPERAZIONE SULLA TERRA FERMA – Ancora oggi la navigazione nelle acque del corno d’Africa risulta pericolosa. Bisogna ricordare che per quanto le iniziative di repressione crescano in intensità e durezza non rappresentano un deterrente efficace a fronte degli alti guadagni che questa attività criminale può garantire. Per fare un esempio, il riscatto che secondo fonti giornalistiche sarebbe stato consegnato per la liberazione del cargo Rosalia D’amato ammonterebbe a circa 12 milioni di dollari. Una cifra che spingerebbe alla delinquenza molte persone senza scrupoli in tutto il mondo, e che è ancora più convincente per chi, come gli abitanti della Somalia, vive da trent’anni nella povertà più nera ed è abituato dal costante stato di guerra ad avere a che fare con la violenza e le armi. Una soluzione al problema della sicurezza del commercio marittimo passa evidentemente per una soluzione al problema del caos politico e sociale che continua a regnare in Somalia. Ma un’iniziativa di questo tipo non appare all’orizzonte della politica internazionale. La pirateria è il prezzo che la comunità internazionale continua a pagare per la sua incompetenza e indifferenza rispetto alla tragedia di questo estremo angolo d’Africa.

 

Jacopo Marazia

La stagione dopo la primavera

Il Giro del Mondo in 30 Caffè 2012 – Un piccolo viaggio attraverso la lunga stagione del 2011 nel mondo arabo; un anno per molti versi glorioso, e per molti altri tragico. Un anno indubbiamente turbolento e di svolta per una parte del mondo importante sotto il punto di vista politico, economico, demografico. La grande onda del cambiamento ha colpito alcuni paesi e altri no, ma non ha certo esaurito la sua spinta. Il pericolo della risacca è però ancora forte.

 

INVERNO – Correva l’anno 2011 e i primi segni della lunga primavera araba che si sarebbe protratta per tutto l’anno, arrivarono dirompenti in Tunisia, poi in Egitto, poi negli altri paesi. Dal Maghreb all’Egitto, dal Mashreq alla Penisola Araba, il contagio rivoluzionario si propagava assumendo nei singoli stati caratteristiche proprie, per il carattere delle rivendicazioni e l’intensità, per le reazioni dei regimi e le soluzioni raggiunte. La rapidità e l’imprevedibile concatenamento degli eventi, dal suicidio di un giovane tunisino alla fine cruenta del rais libico, dalla cacciata di Ben Ali e Moubarak all’infiammarsi della Siria e dei piccoli stati petroliferi, hanno fatto nascere la speranza e l’illusione di un futuro immediatamente roseo in tutta la regione. E’ molto probabile che queste fossero le aspettative degli osservatori occidentali che si trovano sempre molto a disagio quando poi i partiti di ispirazione musulmana raccolgono un forte consenso elettorale come è accaduto nelle elezioni in Tunisia, Marocco e Egitto. Ma erano soprattutto le speranze dei rivoluzionari che hanno mostrato un’immagine laica, giovane, moderna, mediatica e tecnologica e che ora, ad un anno di distanza, sono ben coscienti della necessità di non abbassare la guardia per non rivivere inverni rigidi.

 

TRA RIVOLUZIONE E CONTRORIVOLUZIONE – E’ questo soprattutto il caso di Tunisia ed Egitto, laddove si può parlare di vere e proprie rivoluzioni e tentativi di controrivoluzione. Negli altri paesi il processo sembra aver avuto fuochi di paglia, accelerate, frenate e normalizzazioni, come in Bahrein, Algeria, Marocco, Giordania. Due realtà a parte sono rappresentate da Libia e Siria. Se in Egitto, Tunisia e Yemen le rivoluzioni hanno pagato un prezzo relativamente poco caro in termini di vite umane anche perché le polizie e gli eserciti dopo un po’ di esitazione sono passati nel campo dei rivoltosi e hanno accompagnato le rivoluzioni fino alla caduta dei raìs, in Libia e Siria ci si è trovati di fronte a due regimi molto duri e determinati che avrebbero portato inevitabilmente alla guerra civile. Il prezzo di circa 15.000 vittime in Libia proviene da una lotta di liberazione in un paese praticamente senza istituzioni e fortemente tribale che ha fatto della primavera una lotta tra bande con l’intervento decisivo della Nato. Quanto alla Siria il quadro ancora incerto mostra da una parte un nocciolo duro del regime che instaura un terrore di stato spietato e la tenacia del popolo siriano nei confronti della dura repressione.

 

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LE GRANDI NAZIONI DEL NORDAFRICA – Nei due grossi paesi del Maghreb, Marocco ed Algeria, la primavera è stata un po’ più fredda. In Algeria l’ancien régime non ha vacillato. In febbraio 2011 alcuni sommovimenti hanno spinto le autorità a togliere lo stato d’emergenza in vigore da 19 anni, ma le forze armate e i servizi di sicurezza non hanno ceduto né hanno subito attenzioni e pressioni da parte della comunità internazionale. Gli osservatori attribuiscono questa situazione al fatto che gli algerini conservano un ricordo doloroso degli eventi degli anni ’90 e del conflitto tra il regime e gli islamisti radicali, che la grigia classe dirigente da cinquant’anni dimostra fermezza e compattezza nella gestione del tesoro petrolifero e che la comunità internazionale e soprattutto la Francia si sono tenute in disparte. La vita democratica algerina avrà una verifica molto importante con le elezioni legislative del prossimo maggio, il cui esito si prevede vedrà anche qui la vittoria degli islamisti moderati. In Marocco, come anche in Giordania con re Abdellah II, la monarchia ha avuto l’abilità di rispondere immediatamente alle richieste della piazza. Il re Mohamed VI dopo le prime manifestazioni ha temporeggiato soltanto due giorni prima di annunciare delle riforme costituzionali. Il 20 febbraio 2001 a Casablanca, Rabat e in altre città migliaia di persone manifestavano contro la corruzione e per la limitazione dei poteri della monarchia, si verificavano incidenti gravi e qualche vittima. Il 22 febbraio sia il primo ministro sia il re annunciavano tempestivamente riforme e cambiamenti nelle politiche del paese. Uguale atteggiamento dimostrava il re giordano durante le fasi più convulse. Alcuni mesi dopo Mohamend VI favorisce un progetto di riforma costituzionale che sottopone a referendum nel luglio 2011 e che ottiene un consenso plebiscitario. La nuova carta prevede, senza troppo osare, qualche passo in avanti verso una monarchia costituzionale. Le successive elezioni legislative anticipate di novembre 2011 vedono la vittoria schiacciante del partito islamico moderato PJD (Parti de la Justice et du Développement) il cui leader Abdelilah Benkirane, assume la carica di primo ministro e insedia il nuovo governo. In definitiva in Marocco la primavera non è stata altro che una breve stagione del progetto che ormai da anni il re Mohamend VI porta avanti e cioè di concessioni lente e graduali. Ora tutto è alla prova dell’azione di questo nuovo governo per la prima volta in Marocco con una maggioranza parlamentare di ispirazione religiosa.

 

LA PENISOLA ARABA – In Bahrein la primavera non ha avuto che qualche sussulto immediatamente soffocato da una dura repressione grazie all’aiuto degli stati confinanti. Il 14 febbraio 2011, giorno di festa a Manama e nel resto del paese per il nono anniversario della transizione da emirato autocratico a monarchia costituzionale ad opera del principe Hamad Ibn Issa numerosi manifestanti di confessione sciita, nel paese la maggioranza della popolazione, scendono in piazza per chiedere le riforme democratiche che lo stesso monarca aveva messo in cantiere. La repressione è dura e senza l’aiuto militare del re dell’Arabia Saudita la crisi avrebbe potuto far vacillare prepotentemente il regime di Hamad Ibn Issa che fino a quel momento godeva di una forte popolarità nel mondo arabo per le sue idee progressiste. A parte il caso dello Yemen di una forte lotta tra ribelli e il regime di Saleh, negli altri paesi della Penisola qualche soffio di primavera ha spirato, persino in Arabia Saudita, ma queste realtà presentano ancora una forte impermeabilità a trasformazioni repentine.

 

COSA VIENE DOPO LA PRIMAVERA? – Ogni paese del mondo arabo nordafricano e arabo mediorientale ha potuto risvegliarsi ognuno nella propria primavera durante il 2011. Ora la realtà dovrà fare i conti con i tentativi controrivoluzionari, con l’opportunismo politico, con le possibile alleanze reazionarie senza dimenticare il ruolo che potrà giocare l’esercito. Nonostante le incertezze, gli errori commessi e i timori il fatto nuovo nel mondo arabo è stata l’esperienza di pluralismo, il dibattito, il rischio anche fisico, la domanda di libertà che le popolazioni hanno vissuto e che sperano ancora di vivere, possibilmente con un clima dolce.

 

Rocco Troisi