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La faccia triste dell’America?

Il Giro del Mondo in 30 Caffè 2012 – Tra pochi mesi si svolgerà l’evento politico più importante dell’anno per la regione latinoamericana: la popolazione messicana andrà alle urne per eleggere il nuovo Presidente. Chi succederà a Felipe Calderón, esponente del centrodestra? Le opposizioni, rappresentate dal centrista PRI e dalla compagine di sinistra PRD, sentono di avere una possibilità. Un esito contrario al volere di Washington potrebbe comportare un cambiamento radicale nelle relazioni con gli Stati Uniti e con gli altri Paesi della regione. La politica sembra però avere fallito: criminalità e narcotraffico sono aumentati a dismisura, mentre l’economia non cresce come nel resto della regione

 

IL MESSICO CAMBIA ROTTA? – Congiuntamente a quelle statunitensi, che si svolgeranno 5 mesi dopo, le elezioni presidenziali e parlamentari messicane si presentano come l’evento geopolitico più importante di tutta l’America Latina nel 2012. Il gigante centroamericano tornerà ad eleggere il suo presidente dopo il risultato contestato del 2006 che vide sconfitto per una manciata di voti il populista di sinistra Andrés Manuel López Obrador, del PRD (Partido de la Revolución Democrática), a favore del conservatore Calderón (Partido de Acción Nacional), in uno scenario diverso da quello di 6 anni fa: gli USA paiono appoggiare le svolte democratiche in vari paesi, anche se con una preferenza per i paesi arabi. Il Messico è controllato dal narcotraffico, vero dominatore del territorio con rami che raggiungono Stati Uniti e Centroamerica. Il Brasile sta spingendo per una più stretta alleanza economica tra i principali stati latinoamericani, in questo momento guidati da presidenti simpatizzanti a sinistra, anche per contrastare l’allargamento dell’Alternativa Bolivariana per le Americhe (ALBA) di Chávez che sta mietendo successi nelle repubbliche andine. Recentemente il Messico si è distinto per la vigorosa spinta ad un altro accordo economico di paesi latinoamericani, questa volta maggiormente orientato verso il centrodestra, per rimarcare le differenze politiche che esistono nella regione.

 

TRA GLI USA E IL BRASILE – Chiaramente, il vincitore delle prossime elezioni presidenziali determinerà la posizione messicana in questa intricata rete di accordi economici dei paesi dell’America latina e in caso di vittoria del candidato della sinistra, che è ancora López Obrador, potrebbe essere molto probabile la costituzione di una sorta di “asse” con il Brasile in una nuova rete di alleanze che raggruppa le principali economie della regione e conta con il recente appoggio petrolifero venezuelano. Tuttavia potranno gli Stati Uniti accettare che la loro riserva petrolifera ufficiosa, il Messico, intrecci accordi che non prevedano necessariamente il soddisfacento del proprio interesse nazionale? Viceversa, gli stati latinoamericani saranno in grado di accordarsi in maniera compatta per la prima volta nella loro storia per  formare un unico blocco autonomo dagli Stati Uniti?

 

IL FAVORITO? – Probabilmente invece, il candidato centrista, Enrique Peña Nieto (foto sotto), del PRI (Partido Revolucionario Institucional), partito che ha dominato la “democrazia” messicana per tutto il XX secolo, ritornerà alla presidenza dopo dodici anni di cambiamento nei quali la destra conservatrice, il PAN di Calderón, ha aumentato il potere politico delle forze militari e ingaggiato una lotta contro il narcotraffico che ha prodotto peò come risultati un aumento esponenziale della violenza e il rafforzamento di alcuni cartelli, che ora agiscono come uno Stato nello Stato. Nonostante il fumo della campagna elettorale messicana, dove non si parla di proposte ma i vari discorsi dei candidati sono vuoti esercizi retorici, sembra che Peña Nieto ritornerá alla tradizionale politica estera priista dove le relazioni con gli Stati Uniti rimangono salde ed economicamente imprescindibili, mentre quelle con i paesi dell’America Latina si conformano di appoggi politici e amicizia dalla firma facile.

 

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IL PESO DEL NARCOTRAFFICO – Sicuramente un peso inappropriato in queste elezioni è determinato dai cartelli del narcotraffico che non possono perdere il loro controllo territoriale conquistato nell’ultima decade e sono interessatissimi alle facili speculazioni dal rapido guadagno, sulla stessa traiettoria seguita negli ultimi anni nell’Estado de México, stato della repubblica federale messicane tra i più popolosi e governato da Peña Nieto dal 2005 al 2011, dove sono innumerevoli i casi di mala costruzione di autostrade, progetti turistici ed ecologici e case di cui i cittadini si stanno accorgendo solamente adesso, come per esempio le migliaia di persone sfrattate a causa delle periodiche inondazioni dell’acqua delle fogne. Infatti, tutti i candidati si stanno affrettando a riconoscere l’importanza dell’iniziativa imprenditoriale privata e promettono meno vincoli. Altro fattore fondamentale è il peso del Sindacato dei Lavoratori della Scuola e della sua leader Elba Esther Gordillo, chi nel 2006 ha deciso di votare l’attuale presidente Calderón, regalandogli la possibilità di lottare per la presidenza. Quest’anno, a parte i mediatici annunci, l’ultimo dell’altro giorno, in cui cerca di distrarre l’attenzione, la signora Gordillo sembra non avere dubbi di voler tornare al usuale bacino di pertinenza politica votando quel PRI che per anni le ha assicurato il potere nel più potente sindacato messicano.

 

IL PARTITO DI CALDERÓN NON HA ANCORA DECISO – A destra invece, il PAN, sembra continuare a brancolare nel buio senza una vera guida, rassegnato ai prossimi 6 anni di opposizione. I tre precandidati alla presidenza non si distinguono certamente per le proposte: Ernesto Cordero, l’attuale Ministro dell’Economia, con ampia esperienza internazionale, si presenta per seguire la linea di Calderón nei prossimi anni, quella stessa che hanno fatto del Messico l’unico paese dell’America Latina in recessione economica. Josefina Vázquez Mota invece spera con le sue frasi ad effetto, l’ultima “dobbiamo continuare a sognare, che in Messico tutto è possibile”, di convincere le classi medio basse a votare per il suo partito. Santiago Creel Miranda vuole invece imporsi come l’alternativa alla politica militare calderonista, senza però dire alla cittadinanza come vuole essere diverso. Chi sceglierà chi sfiderà PRD y PRI alle elezioni presidenziali? Le fantastiche agenzie di ricerca elettorale che diranno quale dei tre piace di più al pubblico. In questa campagna elettorale non mancano i colpi bassi personalistici, mentre scarseggiano proposte concrete per risolvere i problemi economici, di fame e sete, e di sicurezza che attanagliano da anni i messicani. Per esempio, i candidati e gli attuali membri dei partiti che vogliono presentarsi alle elezioni parlamentari non hanno perso l’occasione per lanciare l’ennesima campagna di aiuti agli indigeni della Sierra Tarahumara che da qualche lustro ogni inverno vivono nella siccità e farsi fare la foto da prima pagina. Non sorprende quindi che l’astensionismo sia stato il vero vincitore delle ultime elezioni regionali, con buone possibilità che si ripeta nelle elezioni del prossimo luglio 2012.

 

Andrea Cerami (da Città del Messico)

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Chi ha paura della Cina?

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Dopo la crisi del sistema bipolare con il crollo dell'Urss e gli scricchiolii del ventennio di unilateralismo statunitense, il 2012 sembra proprio essere l'anno dell'ascesa definitiva della Cina nel contesto asiatico. Dopo secoli un paese non bianco, non occidentale e non democratico sta diventando incredibilmente potente agli occhi del mondo. E noi, che non ci siamo più abituati, troviamo il fenomeno alquanto doloroso o perlomeno preoccupante per gli equilibri geopolitici. L'intervista a Michael Barr, autore di Who’s afraid of China?, ci aiuta a comprendere meglio cosa ci aspetta, anche se la Cina è uno specchio in cui vediamo riflesse le nostre paure, in realtà il Dragone non morde.

Tratto da  "China Files" 

SOFT POWER: POTERE E PRESTIGIO – È un libro che tenta di sfatare un po’ di luoghi comuni sul Celeste Impero, quello di Michael Barr, docente di Politica internazionale all’università di Newcastle. Affronta in Who’s afraid of China? (chi ha paura della Cina?) i vari aspetti del “Beijing consensus”, quella formula (coniata in Occidente), che descrive la conquista del nostro immaginario da parte di Pechino. Spesso i media occidentali ne parlano come dell’ennesima avvisaglia di un imperialismo che spazia dalla conquista dei mercati al riarmo militare per arrivare, appunto, agli aspetti ideologici e culturali. Soft Power – spiega Barr – è “la capacità di modellare le preferenze degli altri attraverso la forza d’attrazione dei propri valori e della propria cultura”. Un potere che dipende soprattutto dalla “reputazione” di chi intende esercitarlo. Ma la Cina non gode di buon marketing all’estero, anzi, è spesso un capro espiatorio pronto all’uso. Quindi, in che cosa consiste il suo presunto soft power?

C’è una tesi che percorre tutto il suo libro: gli allarmi che alcuni ambienti occidentali lanciano rispetto alla forza del soft power cinese sono eccessivi e forse strumentali. Insomma, si grida “al lupo”, ma la Cina non è ancora in grado di minacciare il predominio culturale e ideologico di Washington. È un’interpretazione corretta del suo pensiero?

Credo che la nostra percezione del “pericolo cinese” abbia più che altro a che fare con una paura più generale dell’ignoto, della gente diversa da noi, e quindi spiega soprattutto la perdita di potere e di sicurezza dello stesso Occidente. Il soft power cinese non fa così paura. Prendiamo il cibo cinese. Noi occidentali lo amiamo e non c’entra nulla con il Partito comunista, eppure si tratta pur sempre di cultura che si diffonde nel mondo. Preferiamo però concentrarci sulla minaccia cinese perché abbiamo una grande confusione in testa su come rapportarci alla Cina.

“Come pensate di diffondere la vostra cultura?” A questa domanda, una donna cinese ha risposto che siamo noi occidentali a farlo, a esercitare il soft power della Cina, semplicemente parlandone. Cosa ne pensa?

Mi sembra una grande risposta. Questo è forse il motivo per cui il governo di Pechino è ben contento che sempre più occidentali studino il cinese ed è sicuramente l’idea che sta dietro agli Istituti Confucio. Studiando il cinese, diventiamo una sorta di ambasciatori della Cina. La natura del soft power è che si diffonde secondo una reazione a catena.

Viaggia sulle ali della globalizzazione, insomma. E nel libro lei vede un legame stretto tra una funzione esterna e una interna del soft power…

Il governo cinese si sente insicuro e il Partito comunista vuole restare al potere. Quindi il soft power promosso dall’alto è una sorta di autopromozione verso l’esterno ma anche verso la propria gente. Un esempio sono state le grandi pubblicità luminose a New York che ritraevano noti personaggi cinesi. Ma la maggior parte dei passanti non li riconosceva neppure, mentre i cinesi vedevano che a New York risplendevano eccellenze cinesi. Era un messaggio rivolto sia all’esterno sia all’interno. Lo stesso discorso vale per le Olimpiadi del 2008: non sono state tanto uno show per il mondo esterno, quanto per gli stessi cinesi. Anche l’Expo di Shanghai andava nella stessa direzione. Il messaggio era: “possiamo portare il mondo in Cina e il mondo vuole venire in Cina”. Dietro questi messaggi bidirezionali c’è il Partito comunista che ricorda alla propria gente che in quarant’anni ha trasformato un Paese povero e senza potere in uno sempre più ricco e sempre più potente. Anche la promozione della lingua cinese ha questa funzione duale. All’interno, la diffusione del putonghua[“lingua comune”, è il cinese che viene insegnato a scuola e che in occidente viene chiamato “mandarino”,ndr] ha il compito di raffreddare le tensioni etniche e di creare un sentimento nazionale comune.

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In Occidente molti pensano che dietro queste operazioni ci sia un tentativo “imperiale” e un atteggiamento aggressivo…

Bisogna considerare i tempi. Negli anni Ottanta la Cina ha cominciato a crescere e negli anni Novanta ha addirittura preso il volo. Poi c’è stato l’11 settembre, quando l’Occidente ha cominciato a interrogarsi su se stesso e gli Stati Uniti, ma forse ancor più l’Europa, si sono posti domande sul proprio ruolo nel mondo. Hanno messo in dubbio l’universalità delle proprie idee e qualcuno ha assunto un atteggiamento cinico verso l’economia di mercato e il sistema democratico. Nel frattempo siamo stati testimoni del boom della Cina, che non è democratica. La messa in discussione dei valori liberali non è nuova in assoluto, ma per la prima volta ci chiediamo che cosa ne sarà del nostro futuro mentre un Paese non bianco, non occidentale, sta diventando incredibilmente potente. E non ci siamo più abituati da secoli, per cui lo troviamo molto doloroso.

Possiamo dire che la Cina è una specie di specchio di noi stessi?

I cinesi di fatto non sono molto diversi dalla maggior parte di noi: vogliono pace e prosperità. A volte proiettiamo l’immagine di noi stessi nella descrizione della Cina: le nostre idee, speranze, paure, tra cui quella dell’ignoto, dell’altro, di una lingua che non capiamo, del governo che ci sta dietro. Penso che sia decisamente uno specchio molto utile.

La strategia del soft power cinese sembra molto “quantitativa”. Si investe sull’agenzia di stampa Xinhua, sulla televisione Cctv, le si fa diventare colossi multinazionali. Si creano più di 350 Istituti Confucio in tutto il mondo. In economia funziona, ma per quanto riguarda la conquista di cuori e menti è lo stesso?

Ci vorrà più tempo. Parte del problema risiede nella lingua, perché l’inglese continua a essere la più parlata nel mondo. Ma ci deve essere anche una trasformazione interna, perché la stessa Cina sta vivendo la propria crisi. Ai Weiwei scrive un bestseller ed è amato dalla gente, gli lasciano esprimere certe idee eretiche per anni e poi lo mettono in prigione. Il Paese, che va così veloce, deve quindi capire in fretta in che cosa crede e come vede il proprio futuro. Penso che il soft power cinese non avrà un grandissimo impatto finché la Cina non si sentirà più sicura e stabile al proprio interno, finché non risolverà i propri problemi di identità. La Cina attuale assomiglia un po’ agli Stati Uniti di inizio Novecento: una nuova potenza che cerca di capire quale dev’essere il proprio ruolo nel mondo. Ho l’impressione che la lunga transizione del potere da Occidente a Oriente – perché oltre alla Cina va considerata anche l’India – sia già in corso. Forse noi stiamo assistendo al suo inizio.

Henry Kissinger dice che si va verso un mondo multipolare più che verso un mondo segnato da una sola superpotenza.

Forse ha ragione, ma secondo me, parlando di “poli” pensa soprattutto a Cina e India. E quello, appunto, è l’Oriente.

Quali aspetti della cultura cinese sono più facilmente esportabili?

Ogni cultura è sempre sincretica. La stessa Cina sta assorbendo elementi delle culture occidentali: valori liberali, un po’ di cristianesimo e così via. È un processo dinamico. Personalmente, vorrei che avesse successo nel mondo uno degli aspetti più tipici della cultura cinese: l’idea olistica, cioè che le cose sono interconnesse e che ogni azione ha delle conseguenze a livello di sistema. È molto importante, lo comprendiamo se osserviamo per esempio la crisi ambientale. A mio avviso questo aspetto è molto più potente del confucianesimo.

Gabriele Battaglia [email protected]

Via il gatto… i topi ballano?

Il giro del mondo in 30 Caffè – Dopo 9 anni e mezzo di occupazione militare e costi esorbitanti per i contribuenti USA (circa 800 miliardi di dollari secondo i dati diffusi dal Congresso statunitense), lo scorso 31 dicembre, l’Amministrazione Obama ha disposto il ritiro completo delle ultime unità delle United States Forces dall’Iraq. Il Paese, stretto nella morsa delle violenze settarie, sembra essere ben lontano da un’effettiva pacificazione. Infatti, solo venti giorni dopo il ritiro USA, gli incidenti nel Paese sono ricominciati con più veemenza rispetto al passato, causando oltre 220 morti tra i civili. Il rischio di una nuova escalation interna su base settaria potrebbe, dunque, produrre gravi ripercussioni anche sul contesto regionale

 

TENSIONI RELIGIOSE E POLITICHE ANCHE NEL GOVERNO – L’Iraq post-Saddam Hussein è stato caratterizzato da un’alta instabilità sociale a causa della grande frammentarietà e debolezza politica dei governi succedutisi negli anni. Benché il processo di ricostruzione sia ben avviato, la pacificazione nel Paese è, da un lato, ancora fortemente frenata da una serie di fattori di carattere politico-sociale e, dall’altro, dalle tensioni regionali con l’influente vicino iraniano. Il recente ritiro statunitense ha soltanto evidenziato le lotte di potere esistenti tra le varie entità etnico-religiose in seno al governo di unità nazionale e che vede come principali protagonisti il Premier sciita Nouri al-Maliki e il Vice Presidente sunnita Tareq al-Hashemi. Infatti durante il mese di dicembre al-Maliki ha fatto emettere un mandato di arresto nei confronti di al-Hashemi, accusato di essere il mandante di una serie di atti terroristici contro la popolazione sciita del Sud del Paese. Per tutta risposta la componente sunnita ha immediatamente boicottato le riunioni di governo aprendo di fatto una crisi politica, mentre Al-Hashemi, ha negato le accuse e si è rifugiato nel Nord del Paese grazie all’aiuto che gli sarebbe stato fornito dal Presidente iracheno, il curdo Jalal Talabani. Le tensioni nel governo, però, non sono altro che un riflesso degli scontri inter-etnici che potrebbero alzare vertiginosamente il limite delle violenze con il rischio di “traghettare” il Paese verso una nuova guerra civile. Quindi l’impasse politica irachena e i pericoli rappresentati dal contesto regionale rimangono fattori di profonda inquietudine per le sorti del Paese.

 

L’IRAQ UNA PROVINCIA “SCIITA”? – La progressiva “settarizzazione” della politica irachena ha aperto il Paese alla crescente ingerenza delle potenze confinanti, in particolare all’influenza del vicino regime iraniano. La caduta di Saddam Hussein ha infatti offerto a Teheran l’opportunità unica di reimpostare le proprie relazioni con Baghdad e, allo stesso tempo, di estendere la propria influenza sulla regione tramite un Iraq a maggioranza sciita. Oggi il governo al-Maliki è fortemente dipendente dalla componente sciita e, in particolare, dalle sue ali più radicali strettamente legate alle alte gerarchie di Teheran. Tra esse spiccano le fazioni fedeli al mullah Moqtada al-Sadr, leader dell’omonimo movimento politico che in Parlamento occupa 41 seggi su 325 totali. Alla luce della crisi in seno al governo iracheno, al-Sadr e tutte le altre fazioni sciite radicali potrebbero tentare di unirsi e creare un movimento politico sullo stile di Hezbollah in Libano riflettendo dunque in modo molto più marcato gli interessi iraniani in Iraq e avvicinando il Paese arabo nella totale sfera di influenza di Teheran. Infatti, oggi più che mai, la Repubblica Islamica ha bisogno dell’Iraq come solido alleato anche perché, nel contempo, rischia di perdere la Siria, suo storico partner strategico.

 

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USA E CCG TEMONO L’IRAN – La paura di una nuova destabilizzazione irachena favorita dall’importante intrusione iraniana nella vita pubblica del Paese, preoccupa non poco gli USA e i suoi alleati arabi del Golfo. Già da tempo Washington ha rafforzato la propria presenza nella regione attraverso un aumento dei contingenti militari stanziati in Bahrain ed in Qatar, basi militari ritenute altamente strategiche insieme a quelle in Arabia Saudita e negli Emirati Arabi Uniti. Non a caso la presenza USA in Iraq ha costituito uno strumento utile a limitare le mire espansionistiche e l’influenza iraniana verso i Paesi del Golfo, il Medio Oriente e Israele, mentre il territorio iracheno è stato usato come base operativa per limitare le attività di al-Qaeda verso la Penisola Arabica. Dopo il ritiro statunitense dall’Iraq, il timore delle monarchie arabe del Golfo è che la Penisola Arabica possa divenire nuovo obiettivo del perenne scontro politico-confessionale tra il Sunnismo saudita e lo Sciismo iraniano. In quest’ottica le monarchie arabo-sunnite sarebbero propense ad agire militarmente, in coabitazione con il fidato alleato statunitense, attraverso il proprio organismo regionale (Consiglio di Cooperazione del Golfo – CCG) al fine di frenare l’attivismo iraniano nell’area. Infatti, qualora l’Iran riuscisse ad aumentare la propria influenza in Iraq, gli equilibri del Golfo potrebbero subire un drastico mutamento producendo, dunque, inevitabili ripercussioni politiche nell’intera regione. 

 

 

QUALE QUADRO EMERGE? – L’Iraq è sicuramente un Paese non ancora stabilizzato e profondamente diviso sul piano interno, in cui le alleanze politiche sono fragili e non consolidate e le violenze di questi mesi, in particolar modo nel Nord del Paese e nel Sud sciita, sono ben lungi dal potersi considerare terminate. Nonostante la continua professione di indipendenza e di sicurezza nelle capacità dello Stato da parte di al-Maliki, in molti in USA e nello stesso Iraq temono che nel ritiro statunitense possa nascondersi anche un problema per la sicurezza interna e regionale. Una situazione che vedrebbe l’Iraq in balìa di provocazioni o intrusioni del suo potente vicino iraniano e con il rischio guerra civile sempre pronto a sbucare da dietro l’angolo.

 

Giuseppe Dentice

Ancora dieci mesi

Tanto sarebbe rimasto da vivere a Hugo Chávez, che secondo alcune fonti di intelligence non sarebbe riuscito a debellare il cancro che lo ha colpito alcuni mesi fa. Ma dieci mesi è grosso modo il periodo che lo vedrà ancora al potere prima delle elezioni presidenziali in programma in autunno, dove l'opposizione si presenterà per la prima volta unita e con chances di sconfiggere l'uomo che da più di dieci anni è divenuto il leader pressochè incontrastato della repubblica sudamericana

DIECI MESI – Sarebbe questo il periodo che resta da vivere a Hugo Chávez, presidente del Venezuela. La notizia, che se fosse vera implicherebbe conseguenze davvero clamorose per il futuro della repubblica sudamericana, non ha trovato ovviamente alcuna conferma ufficiale, eppure sembra provenire da fonti di intelligence attendibili, come citato dalla rivista di geopolitica “Stratfor”. In pratica, le cure contro il cancro alla prostata cui Chávez si è sottoposto nei mesi scorsi a Cuba lasciando il potere per un breve periodo potrebbero essere state inefficaci: dopo la scoperta della malattia, avvenuta a gennaio 2011, il Presidente avrebbe atteso troppo a lungo prima di decidere di curarsi, timoroso di dover abbandonare il timone di un Paese che governa con autoritarismo e dove il rischio di instabilità è sempre latente. LE ELEZIONI ALL'ORIZZONTE – Vere o no, le voci sul presunto aggravamento dello stato di salute di Chávez non fanno altro che aggiungersi all'attesa verso un evento che potrebbe davvero rappresentare un cambiamento decisivo per il Venezuela: a ottobre 2012, infatti, si svolgeranno le elezioni presidenziali. Il “caudillo” di Caracas è ovviamente intenzionato ad ottenere la terza riconferma dalle urne, che in passato non aveva fatto fatica a conseguire potendo far leva sulla frammentazione dell'opposizione, che si era persino dissolta in una riedizione “in salsa latina” dell'Aventino parlamentare concedendo al partito di Chavez, “Alianza Popular”, di godere dell'unanimità nell'assemblea legislativa. Questa volta, però, l'opposizione sembra aver capito la lezione e ha deciso di correre compatta per cercare di sconfiggere il Presidente in carica. Due, al momento, sono i maggiori “indiziati” a concorrere per la candidatura: si tratta del governatore dello Stato di Miranda, Henrique Capriles Radonski (foto sotto), e di Diego Arria, diplomatico di lungo corso. Capriles e Arria, insieme ad altri quattro candidati, si sfideranno per le elezioni primarie in programma il 12 febbraio e che decideranno chi sarà lo sfidante di Chávez.

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PROSPETTIVE – I sondaggi, nonostante la crisi economica (il Venezuela è l'unico Paese dell'America del Sud che è stato in recessione negli ultimi anni ed è praticamente a crescita zero), sembrano premiare ancora una volta Chávez, che potrebbe essere riconfermato con il 57% dei consensi. In più, il Governo ha recentemente approvato un bilancio che prevede una nuova espansione della spesa pubblica, ovviamente al fine di guadagnare ulteriori consensi. In ogni caso, i prossimi mesi saranno caratterizzati da una profonda incertezza: per la prima volta l'opposizione compatta potrebbe rappresentare un serio ostacolo a Chávez e la salute precaria di quest'ultimo potrebbe accrescere l'imprevedibilità dell'esito di questo processo. Il Venezuela potrebbe conoscere un nuovo periodo di instabilità politica ed economica, dato che il modello di sviluppo adottato in quest'ultimo decennio, basato esclusivamente sullo sfruttamento del petrolio e l'espansione della spesa pubblica a scopi assistenzialisti, sta portando l'economia del Paese verso una crisi che presto si farà sentire, se nessuno interverrà. Davide Tentori [email protected]

Prova di forza

Il Giro del Mondo in 30 Caffè – Il 2011 può essere considerato un anno di moderati successi per la politica estera russa. Le tre direttive principali degli affari esteri – sicurezza, economia, cooperazione – hanno infatti operato in modo relativamente efficiente e portato al Cremlino vari risultati positivi: il tanto atteso accesso all’OMC, nuovi accordi economici con gli stati dell’Asia Centrale, nuovi accordi di cooperazione con la Cina, una più stretta collaborazione con l’Europa. I problemi più grossi che la Russia ha dovuto affrontare in questo 2011 sono sorti sulla delicata questione dello scudo antimissilistico in Europa che NATO e Stati Uniti sono pronti a dispiegare. Una prova di forza di Mosca nei confronti di Washington?

 

UNIONE EUROPEA, ECONOMIA E OMC– L’UE è il principale partner commerciale della Russia con una quota di scambi complessiva pari al 45,8% nel 2010. Durante il 2011 sono proseguiti i lavori per raggiungere un nuovo accordo che sostituisca gli accordi di partenariato e di cooperazione (APC) con una Partnership per la modernizzazione che favorisca ancora di più il commercio e gli investimenti tra Russia ed attori europei. Mosca sa che i suoi piani per la modernizzazione dell’economia dipendono in buona parte dalle relazioni con l’UE e i rapporti tra Mosca e Bruxelles si sono mantenuti buoni durante tutto il corso dello scorso anno: la cooperazione energetica è proseguita con progressi sui gasdotti North Stream e South Stream e i summit di Nizhny Novgorod e Bruxelles hanno visto progressi sulla cooperazione finanziaria ed economica, la Partnership per la Modernizzazione e progetti per la tutela dei diritti umani nella Federazione Russia. L’Unione Europea è stata una grande sostenitrice, insieme agli Stati Uniti, dell’accesso russo all’Organizzazione Mondiale del Commercio, avvenuto lo scorso 10 novembre dopo 18 anni di negoziati. L’accesso all’OMC avrà effetti estremamente positivi sull’economia della Federazione: si stima che grazie all’ingresso l’economia russa guadagnerà una crescita annua del PIL di un punto percentuale, e beneficerà di una riduzione della corruzione e un aumento nella trasparenza.

 

STATI UNITI E SCUDO MISSILISTICO – Il reset nelle relazioni tra Russia e Stati Uniti, raggiunto con grande plauso della comunità internazionale nel 2010, non è stato sufficiente a mantenere buoni rapporti tra Mosca e Washington anche nel 2011. L’inizio dell’anno è stato segnato dell’entrata in vigore, il 5 febbraio, del Nuovo START (Strategic Arms Reduction Treaty), che sancisce la riduzione degli arsenali nucleari di entrambi i Paesi. Questo successo è stato però oscurato, verso la fine dell’anno, da grossi problemi riguardanti il dispiegamento da parte statunitense dello scudo antimissilistico in Europa, sistema che secondo Mosca mina la sicurezza russa. La risposta di Washington – secondo cui il sistema ABM ha come obiettivo proteggere l’Europa e gli Stati Uniti da un potenziale attacco iraniano o nordcoreano – non ha soddisfatto il Cremlino e il Presidente Medvedev, che lo scorso novembre ha annunciato, in un video distribuito a tutte le emittenti televisive russe, le misure che la Russia prenderebbe in risposta ad un effettivo dispiegamento. Ad una attenta analisi, però, le minacce suggerite nel discorso non rappresentano un reale pericolo per gli Stati Uniti o l’Europa in generale. La costruzione di un radar nella regione di Kaliningrad in grado di fornire un allarme precoce (“early warning”) in caso di attacco nucleare non è in grado di neutralizzare la difesa missilistica della NATO, mentre un effettivo dispiegamento di missili Iskander a Kaliningrad e Krasnodar in grado di attaccare Polonia e Romania avrebbe un effetto controproducente per la Russia stessa: quello di far apparire Mosca come una minaccia concreta per l’Europa e dunque fornire un’ulteriore giustificazione alla NATO per un allargamento che la Russia ha da sempre opposto. Nonostante i toni forti, ci sono varie ragioni per credere che la tensione emersa nei rapporti USA – Russia negli ultimi mesi dello scorso anno sarà, nel 2012, meno grave di quanto hanno lasciato trasparire le parole di Medvedev. Tra i vari fattori che suggeriscono questa conclusione due sono i più importanti: il discorso è stato consegnato alla televisione nazionale (e non pronunciato ad un vertice politico) proprio prima delle elezioni della Duma e, in tempi di elezioni, antiamericanismo e prove di forza aiutano a raccogliere voti; in secondo luogo, la convinzione diffusa tra gli analisti politici russi che l’attuale amministrazione statunitense non sarà rieletta, in combinazione con l’imminente cambio di leadership al Cremlino, può giustificare la lettura del discorso di Medvedev come un tentativo di forzare i rapporti tra Stati Uniti e la Russia in tempi in cui Mosca non crede di poter ottenere più nulla dall’amministrazione americana.

 

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CIS E ASIA CENTRALE – Mosca non ha mai rinunciato alla propria influenza sugli stati vicini e anche il 2011 non è stato da meno. Due novità principali hanno segnato i rapporti tra Mosca e i Paesi della Comunità degli Stati Indipendenti: la prima riguarda il tentativo – per ora mal riuscito – di implementare un’area di libero scambio tra Mosca e i paesi della CSI.  L’area di libero scambio eliminerebbe i dazi e le quote doganali tra i Paesi firmatari e aiuterebbe il Cremlino a raggiungere due obiettivi: mantenere i Paesi post –comunisti vicini a sé e rafforzare l’immagine di presunta unità tra la Russia e i suoi vicini anche vent’anni dopo il crollo dell’URSS.  Tuttavia, sottoscrivere l’area di libero scambio significherebbe per molti dei paesi dell’Asia Centrale non potere utilizzare dazi e quote doganali come strumenti di politica estera, pratica ad oggi molto diffusa nella regione. L’iniziativa non ha avuto successo, dato che lo scorso ottobre, Azerbaigian, Turkmenistan e Uzbekistan hanno rifiutato di firmare l’accordo, che non può entrare in vigore senza la firma di tutti gli Stati della CIS.

 

Tuttavia, se l’area di libero scambio non ha registrato un grande successo, un’altra iniziativa russa per la cooperazione economica ha invece fatto un enorme balzo in avanti: due anni fa Mosca, Astana e Minsk avevano raggiunto un accordo per la creazione di un’unione doganale tra i loro territori. Lo scorso ottobre Putin ha suggerito di procedere ulteriormente verso l’integrazione delle tre economie, passando dall’Eurasec (Comunità Economica Eurasiatica), alla creazione di una vera e propria Unione Eurasiatica (EAU). I presidenti russo, bielorusso e kazako hanno dunque firmato un accordo che ha posto le basi per la creazione dell’EAU entro il 2015, e stabilito la creazione di una Commissione Eurasiatica (modellata sulla Commissione Europea) e uno Spazio Economico Eurasiatico (SES), entrambi entrati in vigore il 1 gennaio 2012. L’impatto di queste nuovi istituzioni dipenderà dall’entità della loro estensione, sia geografica che economica, ossia da quanti e quali stati decideranno di partecipare e fino a che punto si spingerà l’integrazione. Altri stati – in particolare l’Ucraina – hanno infatti già manifestato il loro interesse.

 

2012: PROMESSE ECONOMICHE E UN DELICATO EQUILIBRIO SULLA SICUREZZA – Il 2012 sarà un anno interessante per testare l’impatto che l’ingresso nell’OMC e i progetti di integrazione economica che la Russia ha recentemente cominciato avranno sul Paese, le sue relazioni e il suo benessere. Molto importante e più delicato sarà lo sviluppo dell’interazione tra Mosca e Washington sullo scudo antimissilistico: se le preoccupazioni russe per la propria sicurezza sono comprensibili, è anche importante che il Cremlino non perda di vista la minaccia iraniana, e la necessità di cooperare con la comunità internazionale per prevenirla.

 

Tania Marocchi

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Superpotenza o Terzo Mondo?

Il giro del mondo in 30 Caffè – Il 26 Gennaio la Repubblica Indiana ha compiuto il suo sessantaduesimo compleanno. L’anno che si è appena concluso è stato, per la più grande democrazia al mondo, un anno di grandi eventi che hanno definito un nuovo equilibrio nell’assetto geopolitico della regione, ma che hanno visto il subcontinente indiano sopraffatto dalle solite, enormi, problematiche interne

I MONDIALI DI CRICKET – Il 2011 è stato, in primo luogo, l’anno dei campionati mondiali di cricket, che, ospitati tra Delhi, Mumbai e Calcutta, sono stati l’occasione per l’India di eccellere e di ostentare la propria prosperosità economica agli stati del Commonwealth. La vittoria indiana nella semifinale contro il Pakistan, storico rivale sportivo (e non solo) dell’India, ha di gran lunga avuto più risonanza della vittoria nella finale contro lo Sri Lanka. La cosiddetta cricket diplomacy, celebrata rigorosamente in occasione dei mondiali, non lasciava certo presagire quanto sarebbe accaduto successivamente, nella calura estiva di un Luglio a Mumbai. GLI ATTACCHI DI MUMBAI – Martedì 13 Luglio, infatti, il cuore di Mumbai è stato colpito da un triplice attentato terroristico che ha visto la morte di 21 persone, oltre ad un centinaio di feriti. Tre ordigni sono esplosi nel quartiere dei Dadar, roccaforte del partito induista Shiv Sena, presso il Zaveri Bazaar, principale arteria commerciale della città, e nell’area attorno all’Opera House, zona favorita dai grandi industriali indiani. Mumbai, città-simbolo della vertiginosa crescita economica indiana, era stata teatro di atroci attacchi già nel 1993 e nel 2008, quando cellule terroristiche di Islamabad ne avevano rivendicato la responsabilità. Nel caso degli attentati del 2011, tuttavia, non vi sono state rivendicazioni. I principali sospetti ricadono su nuclei fondamentalisti pakistani, ma anche su organizzazioni interne al territorio indiano, tra cui i Mujaheddin Indiani, gli Studenti Islamici ed altre, molto più affermate, quali Laskhar e Toiba o Jash Mihammed.

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LA CINA – A livello regionale, l’India è pressata dal ruolo egemonico che la Cina sta via via assumendo. Storica alleata di Pakistan, Afghanistan e Myanmar, la Cina, infatti, sta cercando di isolare la repubblica indiana, fidelizzando stati minori ed eliminando progressivamente aperture filo-occidentali dall’intera regione. Lo Sri Lanka, per esempio, reduce da una sanguinosa guerra civile durata trent’anni, ha trovato nella Cina quegli aiuti finanziari ed economici che gli Stati Occidentali, in nome delle ripetute violazioni dei diritti umani perpetrate dal Presidente Rajapaksa, gli negano, venendo così a minare il ruolo egemonico che sin dalla decolonizzazione l’India aveva sempre esercitato. Il Mare Cinese Meridionale, per il cui controllo l’indiana Oil and Natural Gas Corporation sta stringendo accordi con il Vietnam, sembra ora divenire il nuovo teatro di una rivalità che, ben oltre ad essere politica, è soprattutto economica. Se notoriamente il territorio di scontro tra le sue superpotenze asiatiche era la catena himalayana ed in particolare il Tibet, un confronto marittimo potrebbe assumere proporzioni e pratiche finora inesplorate. IL CENSIMENTO – Infine, il 2011 è stato l’anno del grande censimento. Lo studio ha rivelato una popolazione che cresce ad un tasso del 1,58%, a fronte di una crescita economica, che dopo aver assunto picchi del 10% negli anni precedenti, si è ora assestata, durante l’ultimo trimestre del 2011, intorno al 6,8%. Le cifre rivelano ancora oggi uno Stato affetto da gravi problemi di povertà, soprattutto nelle zone rurali ed extra-urbane, di analfabetismo e da una consistente immigrazione dal Bangladesh e dal Nepal, probabilmente alimentata dalla crescente visibilità internazionale della penisola. Le sfide cui si trova di fronte la democrazia indiana sono, quindi, quanto mai importanti: da un lato, si trova a dover fronteggiare un avversario come la Cina capace di indebolire persino potenze consolidate come Stati Uniti ed Europa, oltre ad una pericolosa e storica rivalità con il Pakistan (la zona del Kashmir rimane ad alta tensione) e dall’altro deve combattere livelli di povertà e di disuguaglianza che le impediscono di elevarsi dalla condizione di Paese del Terzo Mondo. Gloria Tononi [email protected]

L’anno del Drago

Il Giro del Mondo in 30 Caffè – La Cina si conferma sempre più come principale potenza in ascesa. Lo stile di Pechino, però, è decisamente peculiare e non punta all'aggressività, bensì ad un uso sapiente e misurato del soft power. Dai rapporti sempre più stretti a livello finanziario con gli Stati Uniti, fino alle politiche insospettabilmente all'avanguardia in tema ambientale, la Cina sta gettando basi sempre più solide per essere in grado, un giorno, di dominare nel gioco delle potenze globali  

IL DRAGONE SI E' SVEGLIATO – “Quando la Cina si sveglierà, il mondo tremerà”. Così, meditò Napoleone dopo aver letto i diari di Macartney, respinto senza successo dalla Corte Celeste dopo esser stato inviato nel 1793 in missione in Cina dal Re Giorgio, per essere accreditato come ambasciatore britannico permanente. All’indomani delle guerre dell’oppio, con la stipula dei trattati “iniqui” di Nanjing e Tianjin, nessuno avrebbe scommesso sull’avveramento della profetica e lungimirante sentenza napoleonica. Per tutto il XIX  e XX secolo, alla possibilità di un ritorno della supremazia cinese non ci avrebbero mai creduto neppure Gran Bretagna, Francia, Russia e Stati Uniti, impegnate ad estorcere vantaggiose concessioni economiche e a costringere la Cina a riconoscersi quale attore periferico, a margine di un nuovo ordine mondiale non più sinocentrico. Eppure, lungo la spina dorsale del Dragone, quietato da un sonno apparentemente mortale, per duecento anni è sempre fluito un midollo vitale, quello del grande Zhong Guo, il Paese di Mezzo con i suoi cinquemila anni di storia, imperante sul tianxia, su “tutto ciò che sta sotto il cielo”.

ASCESA PACIFICA – Nel corso del primo decennio del XXI secolo, definito dagli analisti di tutto il mondo come “il secolo cinese”, abbiamo assistito al risveglio del Dragone in campo economico e militare. Tuttavia, nel 2011, appena lasciato alle spalle, siamo stati testimoni dei primi tentativi di realizzazione del suo progetto di “ascesa pacifica” nell’agone politico internazionale come futura grande potenza regionale e globale. Mai, come in questi ultimi mesi, mentre la crisi del debito imperversa irrefrenabile nel Vecchio Continente e negli Stati Uniti, i cinesi, detentori delle più cospicue riserve valutarie al mondo (stimate intorno ai 3200 miliardi di dollari)  e del 25,67% (1152,5 miliardi di dollari) del debito americano, hanno ribadito la necessità di costruire un ordine mondiale pacificato, hexie shijie. Il nuovo sistema internazionale “alla cinese” dovrebbe essere governato dall’armonia e dall’equità, così da rinforzare i legami interstatali di partnership e di confidence-building, accrescere il livello di cooperazione bilaterale e multilaterale e neutralizzare il rischio di una deriva dell’interdipendenza economica e della globalizzazione. Presentata per la prima volta durante il Forum di Bo’ao nel 2003, l’ascesa pacifica del Paese, heping jueqi come la chiamano i cinesi, è divenuta ora la pietra angolare della dottrina strategica di Pechino, finalizzata a riscattare la vecchia percezione esterna della Cina come “minaccia” per l’Occidente proponendone una nuova di responsible stakeholder, accortamente integrato nel sistema mondiale e nelle organizzazioni regionali e internazionali, capace di fidelizzare, conquistare la credibilità e riscuotere il consenso dei partners vicini e lontani.

SOFT POWER E IL RITORNO DELLA TRADIZIONE – In che modo Pechino intende rinforzare il Beijing-consensus e accrescere la propria influenza nel mondo? Se è vero che una grande potenza si distingue per il duplice esercizio dell’hard power e del soft power, del potere della minaccia e degli incentivi, (quello del bastone e della carota per intenderci) e di quello invisibile ma penetrante della fascinazione culturale, allora possiamo riconoscere questo status senza alcuna difficoltà alla Cina. Anzi, molto di più. Dalle eminenze grigie nei palazzi del potere di Pechino giungono i moniti e il richiamo allo sforzo di accrescere proprio le risorse di soft power (il Zhongguo ruan shili) come la diplomazia, la cultura, gli ideali, i valori e le pratiche politiche del Paese di Mezzo, le uniche capaci di consolidare il consenso esterno e interno, attraverso l’attrattiva e l’influenza. L’essay culturale del Presidente Hu Jintao, pubblicato a gennaio sul giornale del Partito Comunista Cinese, conferma la scelta dei dirigenti di Pechino di esercitare maggiormente il soft power, come prospettiva di sviluppo per il 2012, per valorizzare la cultura e migliorare la competitività della Cina a livello mondiale. “A livello internazionale, [..] la valorizzazione della cultura e del soft power per migliorare la competitività di base del paese è una strategia fondamentale […] Solo chi ha un soft power ed una influenza culturale forte sarà in grado di vincere la competizione internazionale”. Quello che Hu non dice manifestamente ma sottintende è che per vincere questa competizione internazionale occorre prima esercitare il potere dell’attrattiva entro i confini nazionali, ritornare alla “vecchia cultura” e agli antichi valori confuciani dell’autorità morale (zhi) e della rettitudine (yi). È necessario rinvigorire il Beijing-consensus, messo a dura prova negli ultimi mesi dalle rivolte dei migranti rurali di Wukan e degli operai di Chongqing, stremati per l’alto tasso di inflazione (+6%), i bassi salari, l’aumento dei prezzi dei beni alimentari, il sequestro e la privatizzazione delle terre.

LA CRISI DEL CREDITO NEL MERCATO DOMESTICO – Il ritorno alla disciplina confuciana e la costruzione di un ordine sistemico armonico, secondo i leaders di Pechino, devono essere applicati soprattutto al mercato finanziario internazionale e domestico. Il 2011 è stato l’anno delle brusche frenate e del rallentamento della crescita “dell’economia socialista di mercato”. Nonostante l’impegno per tutelare il mercato interno dalle bufere finanziarie internazionali e il suo noto gradualismo nell’apertura del Paese ai capitali ed investimenti esteri, la Cina ha iniziato a sentire i primi contraccolpi della crisi economica globale che tormenta i mercati europei, primi partners commerciali con i quali Pechino ha concluso accordi commerciali per 2,13 miliardi di dollari. A preoccupare i cinesi non è solo la crisi del debito sovrano nei paesi dell’Eurozona ma la crisi del credito che opprime il mercato finanziario domestico, conseguenza non voluta proprio dello sviluppo economico accelerato e del boom del mercato immobiliare, che ha fatto lievitare vertiginosamente i prezzi delle case. La politica di contrazione dei prezzi disposta dal governo non è finora riuscita a stabilizzare il mercato e al contrario accresce la possibilità di una implosione della bolla speculativa.

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CINA, POTENZA REGIONALE – Per ascendere al rango di grande potenza globale è necessario che la Cina acquisisca prioritariamente la supremazia regionale. È sullo scacchiere geopolitico del sud-est asiatico e dell’Asia centrale che Pechino proietta i propri interessi strategici, lungo le rotte marittime che percorrono il bacino del Mar cinese meridionale ed orientale fino all’Oceano Indiano, nei corridoi terrestri dell’antica via della seta e nel fondo marino che custodisce ingenti risorse energetiche di idrocarburi e minerali. La chiave di volta della politica regionale cinese è stata definita recentemente dal premier Wen Jiabao durante il 14° Summit  Cina-ASEAN. Il partenariato strategico, il rafforzamento della cooperazione e della politica di buon vicinato, sono la forza motrice dello sviluppo economico e della stabilità sociale in Asia, l’area più dinamica al mondo. Il 2011 verrà ricordato come l’anno in cui la Cina ha manifestato apertamente di aver scelto, come first-best option, la via della diplomazia multilaterale e della partecipazione nelle organizzazioni regionali per imporsi nell’arena politica mondiale, sottolineando la necessità di stabilire relazioni collaborative e non conflittuali per accelerare il ritmo della crescita economica e risolvere pacificamente le controversie regionali. La realpolitik di Pechino ci induce ad escludere l’intenzione di imminenti offensive militari nel Mar Cinese Meridionale, inopportune e controproducenti proprio ora che il Paese sta tentando di conquistare la credibilità internazionale e il nucleo dirigente del PCC si prepara a passare il testimone del potere alla quinta generazione di nuovi leaders. A ben osservare, il recupero della centralità della Cina nello scenario mondiale, quale arbitro dell’equilibrio finanziario, solutore finale della crisi del debito in occidente e custode della sicurezza regionale nello scacchiere geopolitico dell’Asia-Pacifico, ricorda l’unicità del Paese di Mezzo nel vecchio sistema sinocentrico, oggi come allora perno della “Grande Armonia”.

PROVE GENERALI DI MULTILATERALISMO –  La RPC non pare a suo agio nello stereotipo di ‘pericolo giallo’ o ‘minaccia che avanza’ in cui l’Occidente l’ha relegata, e vuole veicolare un’altra immagine di sé: quella di un interlocutore affidabile, di una Cina responsabile, che cresce nella ricchezza ma non si rende estranea ai fori della politica multilaterale, Nazioni Unite in testa. La crescente presenza cinese nelle operazioni di peacekeeping testimonia proprio questa volontà della Cina di collaborare a pieno titolo alle azioni della comunità internazionale, peraltro in un momento storico in cui le missioni di supporto alla pace diventano sempre più complesse e costose, sia in termini di personale impiegato che in termini di risorse necessarie per raggiungere gli obiettivi. Infatti, se i paesi occidentali continuano a contribuire al peacekeeping da un punto di vista finanziario, il personale che questi stessi paesi mettono a disposizione delle operazioni di pace va sempre più riducendosi. La Cina sopperisce a queste carenze, al punto da essere ormai il primo membro permanente del Consiglio di Sicurezza per la percentuale di peacekeepers inviati in missione. Ciò dimostra come la RPC non sia più un paese isolato come al tempo di Mao o, più recentemente, all’indomani delle proteste di Tiananmen, bensì un paese ormai perfettamente integrato nelle dinamiche politiche internazionali. Nel giro di trent’anni la RPC è passata dalla ferma condanna del peacekeeping ad una piena partecipazione a missioni intrusive come quella in Kosovo o a Timor Est. Se negli anni Settanta Pechino riteneva inaccettabile qualsiasi tipo di intervento militare all’estero, oggi l’impegno sotto l’ombrello ONU in materia di peacekeeping e peace-building è uno dei perni attorno al quale ruota la nuova politica estera cinese e dal quale sorgono anche innumerevoli benefici pratici, dalla protezione degli interessi economici cinesi all’estero (grazie ai contatti con gli host countries delle missioni, soprattutto in Africa) alla creazione di nuove reti d’influenza alla conferma della diplomazia della ‘superpotenza responsabile’.

GO GREEN, PRIMA DI USA E INDIA – Ma l’agenda multilaterale di collaborazione Cina-ONU non si ferma al peacekeeping, come mostrato dalla recente apertura di Pechino al vertice ONU sui cambiamenti climatici di Durban. Mentre gli USA restano incerti sul going green, uno dei capi della delegazione cinese, Xie Zhenhua, ha reso note le condizioni secondo le quali la Cina sarebbe pronta a un impegno vincolante sui tagli delle emissioni dannose. Il lancio del China’s National Climate Change Forum (CNCCF) garantisce che non si tratta di promesse approssimative: la Cina starebbe lavorando per frenare le sue emissioni, quasi il 24% di quelle prodotte annualmente da tutto il pianeta, e la pagella annuale di Climate Action Network Europe ha lodato gli sforzi fatti da Pechino nel 2011. Alcuni osservatori hanno parlato di impegno “verde” della RPC a fini geopolitici, in ambito sia globale che regionale. La Cina vorrebbe imporsi come nuova potenza nella ricerca e produzione di green technologies prima che questo ruolo venga assunto dall’India, e allo stesso tempo mostrarsi più affidabile degli USA. 

LA SFIDA DELLA SCO – Negli ultimi anni la fiducia dell’esecutivo di Pechino nelle dinamiche  multilaterali è aumentata notevolmente, tanto che la Cina si presenta – o vorrebbe presentarsi- anche come paese trainante in ambito della Shanghai Cooperation Organization. La SCO è una porta aperta verso l’Asia Centrale, area oltremodo significativa per l’approvvigionamento energetico della RPC, e una piattaforma politica dove la Cina incontra la Russia. Mosca, potenza da sempre influente nella regione eurasiatica, si trova oggi a dividere la scena con Pechino, che è diventata leading investor in Asia Centrale, approfittando della debolezza del settore bancario dei paesi ex satelliti URSS. Un esempio? L’ingresso di Bank of China e di Chinese Industrial and Commercial Bank in Kazakistan hanno portato all’acquisto di diverse gas corporations da parte della China Petroleum Corporation, e al lancio del colossale progetto di gasdotto Beineu-Bozoi-Akbulak. Tutto ciò, chiaramente, ha eroso l’influenza politica della Russia in Eurasia.  All’ultimo summit della SCO, che nel 2011 ha celebrato i suoi primi 10 anni sulla scena, Pechino e Mosca non sono neppure riuscite a instaurare un vero dialogo: la prima parlava di ambiziosi progetti di integrazione economica e ulteriori vantaggi commerciali in materia energetica, mentre la seconda cercava di riequilibrare la rotta della SCO verso un vero multilateralismo, appoggiando un bid di ingresso da parte dell’India. Il mese scorso, in occasione della visita ufficiale del primo ministro indiano Singh in Russia, Medvedev ha ribadito che l’India ha il pieno appoggio di Mosca e che le procedure per farla passare da osservatore a paese membro devono essere accelerate, al fine di introdurre nella SCO una ‘nuova dimensione’ e garantire una ‘più ampia cooperazione regionale’.

ARMAMENTI E AMBIZIONI – Un ulteriore nodo di frizione nel quadrilatero USA-Russia-Cina-India deriva dalla recente – e silenziosa- svolta cinese in materia di armamenti. Negli ultimi anni l’esercito e la marina cinesi sembrano aver compiuto un vero e proprio balzo in avanti, presentato dalle fonti ufficiali del Partito Comunista come semplice ammodernamento di una forza militare concepita a fini difensivi.  Eppure, il confine tra la necessità di difendersi il desiderio di supremazia nell’area Asia-Pacifico è tutt’altro che chiaro. Il giornale cinese Global Times, voce del governo di Pechino, ha spesso descritto la corsa agli armamenti con toni piuttosto aggressivi, soprattutto negli ultimi 12 mesi. I cinesi si sono imposti all’attenzione globale, e del Pentagono in primis, grazie a due episodi di notevole rilevanza: quello dei caccia J-11 e quello della portaerei Shi Lang. Il primo è un caso di “made in China” di un vecchio modello di caccia russo, il Su-27, che la Cina aveva importato per la prima volta negli anni tra il 2000 e il 2004. Solo tre anni più tardi, la Cina aveva rivelato al mondo il suo J-11, una versione largamente ispirata al modello russo, ma migliore da diversi punti di vista. Da lì al nuovissimo modello JF-17 è bastato poco, e  oggi la Cina è diventata esportatrice di caccia, tanto da contendersi il mercato egiziano e quello birmano proprio con la Russia. Uno scenario del genere sarebbe stato impensabile fino a dieci anni fa, quando la stessa Pechino comprava vecchi aerei sovietici. Shi Lang è un caso ancor più preoccupante per gli americani, dato che si tratta di un’enorme portaerei che potrebbe inaugurare una stagione di ambizioni e rivendicazioni cinesi nel Pacifico. Come si comporterà la RPC quando Shi Lang non sarà più un caso isolato ma sarà ben integrata in una rinnovata potenza navale cinese? Washington preferisce non pensarci. Quel che è certo è che il nome della modernissima portaerei cinese non promette nulla di buono. Shi Lang è il nome dell’ammiraglio Manciù che, nel 1681, invase e conquistò il regno di Tungning, un’isola che oggi si chiama Taiwan. Maria Dolores Cabras e Anna Bulzomi [email protected]

Benvenuti al Sud

Il Giro del Mondo in 30 Caffè 2012 – Non solo Brasile. L'America Latina sta vivendo un periodo di grande crescita economica e sta sperimentando una generale stabilità politica e sociale mai viste prima d'ora. Non è tutto oro ciò che luccica, tuttavia: l'economia regionale soffre ancora di scarsa produttività e di una insufficiente differenziazione, a quasi esclusivo vantaggio del settore primario. L'integrazione regionale, infine, non ha prodotto progressi concreti nonostante i proclami e le dichiarazioni di intenti

MAI COME OGGI – A partire dal 2003, l’America Latina ha attraversato una fase di crescita economica talmente solida da  resistere alla crisi economica del 2007/8. La regione sta infatti vivendo forse uno dei migliori momenti della sua storia: se 25 anni fa era ritenuta responsabile delle condizioni economiche avverse, attualmente i ruoli sembrano essere cambiati e le colpe ricadono su altri attori (nello specifico, i paesi industrializzati). La crescita economica dell’America Latina e dei Caraibi durante il 2011 è rimasta positiva (4,3%), anche se inferiore ai livelli del 2010 (5,9%). L’odierna situazione dell’economia mondiale, caratterizzata dalla maggiore volatilità finanziaria (che colpisce principalmente l’Europa) e i cambiamenti nel commercio mondiale, non solo si sono fatti sentire nel corso dell’anno appena finito, ma si stima che si ripercuoteranno negativamente sulla regione anche durante il 2012.

VIVA LA DEMOCRAZIA – A livello politico, si evince una notevole stabilità in termini di consolidamento della democrazia come forma di governo, caratteristica che definisce il presente e il futuro dell’America Latina, nonostante le divergenze  esistenti tra le varie sub-regioni (è nel Cono Sud dove si trovano attualmente le democrazie più istituzionalizzate). Il XXI secolo ha portato anche con sé un rinnovato interesse per il ruolo dello Stato nella vita economica e politica dei rispettivi Paesi, contrastando le tendenze neoliberali in voga durante gli anni ’90. Oltre alla stabilità della democrazia, è possibile individuare altri elementi di altrettanta importanza per il panorama politico latinoamericano, come per esempio la grande incorporazione di nuovi attori politici e sociali con posizioni di potere e con capacità di influenzare la direzione dei rispettivi Paesi. La convivenza tra meccanismi di politica istituzionale ed il fenomeno dei movimenti sociali ha portato a diverse concezioni della democrazia nella regione. La forte mobilitazione per l’inclusione sociale e la creazione di nuovi assetti istituzionali si sono cristallizzati, in alcuni casi,  in nuove costituzioni, riforme legali e maggiori meccanismi di democrazia diretta.

NON MANCANO I PROBLEMI – Anche se l’America Latina è uscita relativamente indenne dalla crisi del 2007/8, l’attuale situazione fa presupporre una lenta crescita economica nei prossimi anni, tant’è che, seppur positive, le condizioni in cui si trova oggi l’America Latina non sono sicuramente rosee come potevano esserlo quattro anni fa. Nonostante i successi dell’ultimo decennio, uno dei principali rischi sarebbe cadere nell’indulgenza. Anche se l’America Latina ha ottenuto una soddisfacente performance economica, la regione non è stata all’altezza di altre zone emergenti, quale l’Asia. Come sottolineato dalla CEPAL, l’America Latina ha bisogno, non solo di un numero maggiore di investimenti ma anche di una più alta qualità degli stessi, tale da consentire un incremento di produttività. Inoltre, nonostante povertà ed estrema povertà siano ai loro livelli più bassi degli ultimi 20 anni, il problema delle diseguaglianze economiche e sociali rimane un serio ostacolo da affrontare da parte di tutti i governi. Se, da una parte, la regione si è concretamente attivata in termini di maggiore assistenza sociale, dall’altra, vi è stato un minore livello di trasformazioni strutturali. Escludendo ad esempio i casi di Argentina e Brasile, (entrambi con una pressione tributaria del 35%) e dell’Uruguay (30%), il resto dei Paesi registra una pressione tributaria molto bassa. 

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LE SFIDE – A tal fine, diventa necessaria la definizione di un’agenda integrale sullo sviluppo che includa efficienza macroeconomica, equità sociale ed equilibrio ambientale. Qualora l’America Latina desiderasse ottenere una reale convergenza ed un maggiore sviluppo economico di tipo sostenibile, dovrà necessariamente puntare a tassi di crescita più elevati. Una  notevole sfida arriva dal lato della struttura produttiva, ambito in cui, ad oggi, non si sono registrati cambiamenti importanti: l’America Centrale e il Messico  hanno focalizzato le loro strategie commerciali sull’esportazione di prodotti industriali con poco valore aggiunto (le cosiddette maquilas), mentre America del Sud sta “ri-primarizzando” la sua struttura produttiva (concentrandosi sulle esportazioni agricole e di altre commodities). È soltanto grazie all’introduzione di maggior innovazione che sarà possibile modificare la struttura produttiva della regione. Tuttavia,  si tratta di un processo che non nasce spontaneamente e che, al contrario, richiede un notevole apporto di impegno politico ed economico, nonché una saggia lungimiranza strategica. Tale scommessa  acquisisce oggi ancor più importanza,  poiché parliamo di una regione con una struttura produttiva fortemente incentrata sul settore primario e che, per tal motivo, richiederebbe un numero di investimenti in R&S ancor più elevato. Premesso quanto detto, è possibile raggruppare in tre grandi temi alcune delle sfide che l’America latina dovrà affrontare: – Le risorse naturali: se da un lato  hanno rappresentato uno degli elementi fondamentali per la crescita di alcune economie della regione (principalmente del Sudamerica), l’eccessivo sfruttamento delle risorse naturali può potenzialmente creare grandi rischi, accentuando la vulnerabilità dell’ambiente. Oltre ai rischi della “riprimarizzazione” dell’economia (con il conseguente pericolo della cosiddetta “malattia olandese”), la crescita economica latinoamericana pone attualmente una sfida concreta dettata dal cambiamento climatico. – L’infrastruttura: malgrado sia una regione altamente inurbata, le città non sono adeguatamente strutturate (edilizia, strade, fognature). E’ possibile innovare, promuovere e migliorare il sistema di trasporto pubblico, realizzare riqualificazioni urbane, ecc.  Da sottolineare che gli investimenti in infrastrutture volti ad aumentare i canali di comunicazione tra i Paesi della regione (e tra essi e il resto del mondo), a favore degli scambi commerciali, richiedono uno sforzo in termini di investimento non indifferente. – Diseguaglianze: L’America Latina registra attualmente poco meno di 200 milioni di poveri e in diverse parti del suo territorio esistono zone senza diritto né legge, che mettono a repentaglio lo sviluppo dell’intera regione. Malgrado il successo di alcuni programmi di trasferimenti condizionati come Progresa (Messico) e Bolsa familia (Brasile), la regione si trova oggi nella condizione di non poter in alcun modo garantire, a chi è uscito in questi anni della povertà, di poter mantenere lo status acquisito. In un’ottica di una società più giusta, la lotta alla povertà e all’estrema povertà devono necessariamente essere accompagnate da misure più concrete e decise per contrastare l’iniqua distribuzione del reddito.

(DIS)INTEGRATA? – Infine, resta l’interrogativo di quale sarà il futuro dell’integrazione regionale. Malgrado l’ottimismo regnante al momento, basato sui successi economici e politici degli ultimi anni, la regione sudamericana (non già latinoamericana) affronta diversi problemi e sfide nel futuro prossimo, come per esempio: la divisione e balcanizzazione, con forti debolezze nell’ambito infrastrutturale (come per esempio, nel settore energetico); l’ineguale sviluppo interno; i livelli di povertà e ineguaglianze economiche e sociali; e lo sviluppo nazionale asimmetrico. A sua volta, esistono una serie di questioni di natura maggiormente politica che l’integrazione regionale dovrebbe affrontare: – L’aumento dell’asimmetria che caratterizzerà i rapporti tra Brasile, Argentina e Colombia, che esige l’individuazione di meccanismi per attenuarla; – L’assenza di una vera cultura dell’integrazione, delle istituzioni dedicate a canalizzare l’integrazione; – L’esistenza di meccanismi d’integrazione maggiormente flessibili, con l’asse nella costruzione dell’infrastruttura e dello sviluppo energetico; – Il ruolo di maggior rilievo che dovranno occupare i processi d’integrazione produttiva in futuro; – La lotta alle droghe e la politica di difesa (in cui l’Unasur possiede un ruolo rilevante). All’inizio di ogni anno si suole sottolineare le importanti sfide che un Paese o una regione devono affrontare ma il compito dei governi latinoamericani dovrebbe concentrarsi sul replicare i successi ottenuti durante l’ultimo decennio e puntare a produrre delle trasformazioni che portino finalmente la regione verso la strada della convergenza con gli standard produttivi e di vita dei Paesi industrializzati. Ignacio F. Lara (ricercatore presso ASERI – Alta Scuola di Economia e Relazioni Internazionali – Università Cattolica del Sacro Cuore – Milano)

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Quo Vadis?

La settimana che ci apprestiamo ad affrontare si apre con l'incontro informale dei capi di stato e di governo dell'Unione Europea per sancire il futuro dell'integrazione fiscale e del fondo salva stati, intanto in America si attende il responso dei repubblicani della Florida sull'eterno scontro Gingrich-Romney mentre si trascina il confronto tra Londra e Buenos Aires sulle Falklands. La Siria raggiunge livelli di violenza inaudita mentre il Consiglio di Sicurezza è chiamato a decidere in merito e gli ispettori dell'AIEA compiono la prima visita a Teheran dal 2008. Con il primo mese del 2012 che arriva al capolinea occhi puntati alle istituzioni internazionali per capire verso quali tendenze si accinge ad incamminarsi la comunità internazionale.

EUROPA

Lunedì 30 – I capi di stato e di governo dei paesi membri dell'Unione Europea si incontrano a Bruxelles per un meeting informale del Consiglio Europeo. Sul tavolo le trattative per concludere un accordo di cooperazione rafforzata in materia di fiscalità e bilancio. Il Fiscal Compact, che potrebbe essere firmato entro marzo, introdurrà una maggiore severità nelle sanzioni che saranno automatiche e un occhio vigile sulle politiche economiche deficitarie. I contrasti sono ormai arcinoti, Cameron e i paesi dell'est da una parte, il trio Monti-Merkel-Sarkozy dall'altra in una battaglia tra surplus d'integrazione e controllo da una parte e la difesa della sovranità dall'altra, mentre la Grecia rimane isolata nella sua battaglia contro il tempo. Ci sarà anche spazio per un dibattito su progetti per la liberalizzazione del mercato del lavoro a livello comunitario, l'implementazione dei programmi di apprendimento all'estero e le vitali politiche di crescita economica per uscire dalla crisi attuale.

Lunedì 30-Mercoledì 1– L'Italia torna definitivamente nel mondo come testimoniano le agende degli uomini del nuovo governo tecnico. Il Primo Ministro somalo Abdiweli Mohamed Ali sarà a Roma per incontrare il ministro degli Esteri italiano Guido Terzi di Sant'Agata, il meeting sarà dedicato al ruolo italiano nell'internazionalizzazione della situazione del corno d'africa, giunta ormai oltre le possibilità della missione AMISOM dell'Unione africana. Sempre in mattinata ci sarà spazio per un incontro tra il titolare della Farnesina e il suo omologo polacco Radoslaw Sikorsky, dove si parlerà principalmente della cooperazione a livello comunitario e dei rapporti bilaterali tra i due paesi, che vantano ottimi trascorsi. Ma il vero appuntamento della settimana è fissato per mercoledì quando giungerà a Roma il Comandante in capo della missione ISAF che vede il contingente italiano in orbita NATO schierato in prima fila nella provincia di Herat. Il Generale John R. Allen parlerà delle innumerevoli sfide per il futuro dell'Afghanistan e del piano del ritiro generale in programma per il 2014.

FRANCIA – Profumo di elezioni in quel di Parigi, sembra che sia proprio la chiamata alle urne per i francesi la vera ragione della boutade del premier Nicolas Sarkozy sul ritiro entro il 2013 dall'Afghanistan. Dopo l'uccisione di cinque soldati francesi da parte di una recluta dell'ANA, l'esercito afghano, il governo aveva già annunciato la sospensione delle operazioni nel teatro per evidenti ragioni di sicurezza. Ma l'ultimatum lanciato durante la visita in Francia del Presidente afghano Hamid Karzai rischia di peggiorare ulteriormente il rapporto con gli altri alleati impegnati nella missione ISAF e con la NATO stessa, cui parigi partecipa solo a livello politico. Nonostante i timori per gli evidenti limiti delle neocstituite forze di sicurezza di Kabul sembra che il contingente francese sia pronto a passare il comando nella regione di Kapisa, cogliendo al balzo la proposta dello stesso Karzai riguardo un ritiro immediato di tutte le truppe straniere.

AFRICA

SUD AFRICA – Non è tutto oro quello che luccica, soprattutto in terra d'Africa, dove promesse di sviluppo si stemperano a suon di crescita demografica e disoccupazione. Secondo le ultime indiscrezione rilasciate dal Ministro dell'Economia di Pretoria, Pravin Gordhan, il prodotto interno lordo del paese simbolo del continente potrebbe infatti superare le stime dell'FMI e della Banca Centrale che lo fissavano intorno al 2,5-2,8%. Si parla invece di un tasso del 3,4% stimato in base agli ultimi dati del governo, sicuramente una buona notizia anche se si rimane ben lontani dal 7% richiesto all'economia sudafricana per sanare la grave piaga della disoccupazione che colpisce un terzo circa della popolazione attiva. Si prevedono numerosi progetti per opere pubbliche faraoniche e un piano di facilitazioni per l'ingresso nel mondo del lavoro per procedere sull'onda emotiva che aveva accolto la nomination per i mondiali di calcio del 2010.

SOMALIA – Non cessano le violenze del movimento qaedista Al Shabaab che è arrivato a colpire ben 3 volte in meno di un mese l'ufficio del Programma per lo Sviluppo delle Nazioni Unite (UNDP) a Mogadiscio. Cinque granate lanciate nella sede dell'organizzazione internazionale hanno causato svariati feriti tra i civili mentre un portavoce dei mujaheddin del corno d'Africa, tale Sheikh Al Nucman Alhudeyami, rivendicava in nome di Allah gli attacchi "all'agenzia cristiana dell'ONU". Dopo la notizia dell'apertura di un ufficio dell'ONU nella capitale somala, le promesse di ulteriori attacchi non fanno che aggravare la posizione dei qaedisti, già bersagliati dall'offensiva delle truppe kenyote e dai raid congiunti di Stati Uniti e Francia.

MALI – Si fa sempre più spietata la lotta tra le forze di sicurezza di Bamako e i ribelli delle tribù tuareg del Front National de Libération de L'Azawad (MNLA) che si battono per l'istituzione di uno stato indipendente nel nord del paese, ricco di risorse energetiche. Numerose le città al confine col Niger conquistate dai guerriglieri alleati del movimento integralista di Al Qaeda nel Maghreb, con cui condividono l'obiettivo d'instaurare una teocrazia fondata sull'islam e sulla sharìa. In passato fu proprio Muhammar Gheddafi a sponsorizzare e finanziare la lotta contro il governo centrale, nel tentativo di creare uno sterminato Impero del Sahel che si affiancasse ai già alleati Niger e Ciad. I tuareg sono tribù diffuse in tutto il Nord Africa, nomadi e pastori per tradizione, solo negli ultimi cinquant'anni hanno iniziato a gestire traffici clandestini, rapimenti e a legarsi all'integralismo islamico per ottenere un riconoscimento politico.

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AMERICHE

Martedì 31 – Gli elettori del G.O.P dello stato della Florida sono chiamati ad esprimersi sul candidato da opporre alla riconferma di Barack Obama come inquilino della Casa Bianca. Il dibattito televisivo di giovedì svoltosi a Jacksonville ha evidenziato le falle di Newt Gingrich, che si è dimostrato per lo più incapace di tenere il ritmo martellante del più telegenico Mitt Romney che nei sondaggi stacca di circa dieci punti percentuali l'ex speaker della camera. Nonostante l'endorsement di numerosi economisti al programma federalista del medico Ron Paul, è il cattolico ultraconservatore e creazionista Nick Santorum a conquistare il terzo gradino nel podio repubblicano. Se Romney dovesse battere pesantemente Gingrich potrebbe guadagnare un vantaggio quasi incolmabile contando anche sulle maggiori capacità di funraising e sulla visibilità mediatica.

Martedì 31 – Il Presidente brasiliano Dilma Rousseff sarà a l'Avana per incontrare i vertici politici del regime castrista e per confermare le aperture al credito per l'uscita dalla crisi economica dell'isola caraibica. Secondo le ultime indiscrezioni non ci sarebbero sul tavolo soltanto 200 milioni di dollari per la modernizzazione dell'agricoltura e per le colture di bio-combustibili, ma soprattutto un progetto di circa 800 milioni per l'ammodernamento del porto di Mariel vera tappa forzata per i traffici tra Brasile e Stati Uniti. Il crocevia potrebbe accogliere fino al 40% delle merci dirette verso l'America portando benessere e sviluppo in un'area in cui il progetto di free trade zone ha in realtà deluso le aspettative. La visita diplomatica sarà anche l'occasione per sbloccare la vicenda personale della blogger Yoani Sanchéz che è in attesa di un visto per il Brasile, salita alla ribalta dei media globali per l'opposizione al regime e la lotta per la libertà d'opinione.

ARGENTINA – Non si stemperano le tensioni tra Londra e Buenos Aires per la questione Falklands/Malvinas, nemmeno dopo il ritorno in cattedra della Presidenta Cristina Fernández de Kirchner dopo i falsi timori per un cancro alla tiroide, in realtà inesistente. Il vero nodo della discordia resta la missione simbolica nell'arcipelago del secondo erede al trono britannico, il Principe William, che entro Febbraio giungerà con uno squadrone della Royal Air Force nella base aerea di Mount Pleasant. La Kirchner appena tornata sugli schermi ha invitato l'ONU a far rispettare la risoluzione che richiede una conclusione diplomatica della situazione e ha attaccatto il governo britannico che starebbe depredando il popolo argentino della pesca e dei giacimenti petroliferi, che però de facto restano sotto la giurisdizione inglese.

ASIA

GIAPPONE-RUSSIA – La visita del Ministro degli Esteri russo Sergey Lavrov a Tokyo sembra aver suscitato ottime intenzioni nel governo giapponese che si è detto pronto ad avviare una discussione diplomatica e senza provocazioni sulla questione dell'arcipelago delle Curili. Le isole al centro delle tensione dalla fine del secondo conflitto mondiale sono in realtà solo la punta dell'iceberg delle tensioni sulla cooperazione economico-commerciale e sui visti tra i due paesi. Il Ministro degli Esteri giapponese Koichiro Gemba ha sottolinetao l'importanza della soluzione pacifica delle controversie sui territori contesi e dell'immediata conclusione di un trattato di pace che latita da più di sessant'anni. Intanto prosegue il lento declino dell'economia giapponese, il 2011 infatti ha fatto registrare il primo deficit commerciale dal 1980 per l'export verso l'estero, calato dell'8% rispetto all'anno scorso a causa dell'ipervalutazione dello yen imperiale.

CINA – La repressione delle proteste delle minoranze tibetane nel sud-ovest cinese torna a preoccupare la stampa internazionale, che sottolinea le somiglianze con le rivolte del marzo 2008. 7 manifestazioni ostili a Pechino, 16 suicidi e immolazioni di monaci buddhisti e circa 140 arresti tra la popolazione, questi i numeri di una vera e propria guerra intestina per la sovranità e l'integrità del grande Impero del dragone. Su questo fronte è facile intuire l'inamovibilità assoluta dei vertici politici e statali cinesi che sulla questione delle marche confinarie non transige, anche a costo di apparire liberticida agli occhi dell'opinione pubblica globale. L'ONG Human Rights Watch ha chiesto di far luce sulle uccisioni perpetrate dalle forze dell'ordine stanziate nelle province di Qinghai e del Sichuan e di aprire le zone interessate dalle proteste ad osservatori neutrali.

AFGHANISTAN – Potrebbe essere proprio il pantano dello scenario di guerra afghano ad offrire l'alternativa vitale per i governi europei al greggio di Teheran, che dal primo luglio sarà off-limits per i membri dell'unione. Il governo centrale di Hamid Karzai ha infatti aperto dal 2012 all'esplorazione degli innumerevoli giacimenti mai sfruttati presenti sotto il territorio afghano e potrebbero essere proprio le imprese occidentali i candidati papabili per le trivellazioni. Le condizioni palesemente arretrate dell'economia di Kabul, sommate alla necessità di garantire l'occupazione della popolazione coinvolta suo malgrado nella contro-insorgenza che perdura da circa dieci anni. Potrebbe risultare fondamentale anche la cooperazione del Turkmenistan, altro stato simbolo per la produzione di greggio nell'area, dato che le regioni interessate dal provvedimento statale sarebbero localizzate nel Nord-Ovest del paese.

MEDIO-ORIENTE

Martedì 31 – Alla ripresa dei lavori parlamentari a Baghdad, il partito sunnita Iraqiya metterà fine al boicottaggio delle sessioni del governo e degli organi legislativi, che hanno portato l'Iraq nel caos all'apice dello scontro tra etnia sunnita e sciita. Proprio un incontro tra il leader dell'alleanza sunnita Iyad Allawi, lo speaker del Parlamento Osama al-Nujaifi, il Ministro delle Finanze Rafie el-Esawi e il vice-premier Saleh al-Mutlaq, ha sancito la fine del blocco aventiniano dei lavori degli organi democratici. Rimangono sul tavolo le discussioni per garantire equa rappresentanza alle istanze etnico-religiose delle componenti sunnite, sciite e curde che continuano a trincerare le varie formazioni politiche contro la leadership del Presidente sciita Nuri al-Maliki.

SIRIA – Con la missione degli osservatori della Lega Araba sospesa in via cautelativa e sottratta dei suoi membri provenienti dalle monarchie del Golfo Persico e dall'Arabia Saudita, il regime di Bashar al-Assad potrebbe sfruttare fino in fondo l'occasione di fare piazza pulita dell'opposizione armata dell'FSA, grazie al granitico supporto di Mosca. Nabil Elaraby, il capo della Lega Araba ha raggiunto New York dove dovrà condurre un'intensa opera di convincimento dei paesi membri del Consiglio di Sicurezza per giungere ad una risoluzione che garantisca la fine delle violenze in Siria. Voci di una bozza arabo-occidentale hanno fatto infuriare i rappresentanti siriani alle Nazioni Unite e lo stesso Ministro degli Esteri di Mosca Sergey Lavrov, che condanna ogni tentativo d'intervenire militarmente nel paese alleato. Più dubbia la posizione della Cina, che rifacendosi alla politica di non-interferenza, potrebbe appoggiare una risoluzione bilanciata se espressione della volontà degli stati arabi garantendo la propria astensione dal veto.

GIORDANIA – Un evento storico, così è stato accolto dai Fratelli Musulmani l'incontro tra il leader di Hamas Khaled Meshaal e il Re Abdullah sponsorizzato ed incoraggiato dallo Sceicco del Qatar Tamin bin Hamad Al Thani. Con il crackdown del regime di Damasco il movimento islamico che si batte per l'indipendenza della Striscia di Gaza ha optato per la Turchia e la stessa Giordania come sedi per i suoi nuovi uffici, stringendo rapporti e alleanze concrete con i governi dei due paesi. Lo stesso Meshaal è nato sotto la giurisdizione di Amman e si trovava proprio in Giordania nel 1997 quando due agenti israeliani del Mossad tentarono di avvelenarlo all'uscita del suo ufficio. L'incontro sembrerebbe garantire l'appoggio alla monarchia hascemita da parte dei gruppi islamici che ne avevano contestato la legittimità sull'onda delle proteste della Primavera Araba che hanno portato alla sostituzione del Primo Ministro Samir Rifai.

IRAN – Durerà fino a Martedì la visita in Iran del team d'esperti dell'AIEA guidata dall'ispettore capo Herman Nackaerts e dal consigliere speciale del direttore Yukiya Amano, Rafael Grossi. Il programma dovrebbe comprendere incontri col negoziatore capo per la materia nucleare Saedi Jalili e con il capo del programma atomico Fereydoun Abbasi. La visita non sarebbe però volta all'ispezione del nuovo sito sotterraneo di Fordow, ma solamente al rilancio delle trattative e dei colloqui ufficiali con l'agenzia interrotti bruscamente nel 2008. Particolare attenzione sarà rivolta ai tentativi di spin-off militare di vari impianti per l'arricchimento dell'uranio formalmente rivolti alla produzione civile ed energetica. 

Intrigo cinese alle Seychelles

Tra conferme e rettifiche, il progetto cinese di una base navale alle Seychelles ha agitato New Delhi e Washington, timorose, rispettivamente, dell’accerchiamento nell’Oceano Indiano e dell’influenza di Pechino sul Corno d’Africa. Tuttavia, dato che l’ammodernamento della flotta cinese richiede ancora ingenti risorse, la Repubblica Popolare potrebbe costruire un hub marittimo per la sicurezza delle proprie rotte nella regione, privilegiando la presenza economica a quella militare

LA CINA ALLE SEYCHELLES – Nel dicembre del 2011, l’annuncio da parte del ministro alla Difesa cinese, Liang Guanglie, in merito alla costruzione di una base militare alle Isole Seychelles destò grande preoccupazione in India e negli Stati Uniti. La Repubblica Popolare illustrò il progetto alla luce della «prassi internazionale di rifornire le flotte impegnate in missioni a lunga distanza presso il porto più vicino di uno Stato attiguo (alle rotte)». Nonostante le rettifiche di Pechino, i timori indiani sono cresciuti al diffondersi di alcune indiscrezioni riguardo alla possibilità che il porto nell’isola di Mahé potesse consentire l’approdo di una portaerei della nuova flotta blue-water cinese. La Cina ha infatti individuato nelle Seychelles un punto strategico fondamentale sia per il controllo e l’approvvigionamento delle linee attorno al Corno d’Africa, sia per l’esplorazione dei fondali, non dimenticando il disturbo causato alla proiezione indiana. Tuttavia, occorre compiere un passo ulteriore per la lettura delle dinamiche, poiché la base navale, in realtà, non avrà specifica vocazione offensiva, né tantomeno sarà in grado di mutare sensibilmente gli equilibri nella regione. LA PRESENZA MILITARE IN AFRICA ORIENTALE – La presenza cinese alle Isole Seychelles non è una novità: i rapporti di cooperazione tra le Forze Armate di Pechino e di Victoria sono cominciati formalmente nel 2004, ma le relazioni diplomatiche tra i due Paesi furono instaurate nel 1976. Altre basi cinesi sono già in Gibuti, Yemen e Oman, e nessuna di esse ha la forma dell’avamposto puramente militare. Alle Seychelles è presente anche un aeroporto statunitense inquadrato nello US Africa Command (AFRICOM) e dotato di droni per il controllo delle coste orientali del Corno d’Africa; altre installazioni di Washington (anche logistiche) si trovano a ridosso della regione, tra Gibuti, Somalia e Kenya. L’India, da parte sua, ha radar e postazioni d’ascolto in Madagascar.

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LA LOTTA ALLA PIRATERIA – La problematica di maggior rilevanza internazionale nella regione è la pirateria, la quale, insieme con l’instabilità somala, è uno dei motivi dell’elevata presenza militare. In questo senso, la Cina considera la lotta ai pirati un passaggio essenziale della propria politica estera e militare, operando attivamente sia per mostrare alla comunità internazionale un atteggiamento affidabile, sia per proteggere direttamente i propri traffici navali. Pechino ha l’assoluta priorità di garantire la sicurezza delle imbarcazioni che transitano dalle acque dell’Oceano Indiano occidentale provenendo da due mercati fondamentali per l’economia della Cina, ossia l’Africa e l’America meridionale. Le Isole Seychelles sono il primo punto d’approdo per le navi cinesi in navigazione al largo del Corno: non a caso, il ministro Guanglie, annunciando il progetto del porto vicino a Victoria, si è specificamente riferito alla prassi internazionale circa il rifornimento delle flotte, come citato all’inizio dell’articolo. LA BASE CINESE: UN PERICOLO IMMEDIATO? – È indubbio che la Cina abbia interesse a servirsi delle Seychelles quale punto d’appoggio per il rafforzamento della propria proiezione in Africa e nell’Oceano Indiano, così come è innegabile che l’India, osservando i porti favorevoli a Pechino a ovest (Golfo di Aden) e a est (Golfo del Bengala), percepisca il rischio dell’accerchiamento. Tuttavia, la base navale cinese nell’arcipelago non è, di per sé, in grado di mutare sensibilmente l’equilibrio nella regione principalmente per due ragioni. In primo luogo, la presenza della Repubblica Popolare in Africa non risentirà particolarmente di un avamposto a solo sostegno delle rotte marittime: è probabile, infatti, che i pirati desistano in una certa misura dall’assaltare navi cinesi, ma è difficile che da tale eventualità Pechino tragga un vantaggio in grado di alterare in modo incisivo il flusso commerciale. In secondo luogo, la base cinese sarà un’installazione logistica, uno strumento di soft power economico e infrastrutturale. Il progetto di ammodernamento della flotta e la politica di “Far Sea Defense”, ossia la capacità di proiettare la potenza marittima a grande distanza, sullo stile dei gruppi navali statunitensi, sono ancora lungi dalla realizzazione. La Cina non è in grado al momento di sostenere grandi basi all’estero, considerato che, al di là del naviglio ancora in fase di costruzione, la spinta aggressiva di Pechino si sta rivolgendo verso l’Oceano Pacifico: ne è prova l’atteggiamento nel Mar Cinese, da leggersi quale tentativo di porre in sicurezza le acque entro il primo arco insulare. L’Oceano Indiano è una via marittima su cui le navi della Repubblica Popolare possano transitare in sicurezza, non (ancora) una regione per la quale sia prevista l’apertura di un nuovo fronte di scontro. Beniamino Franceschini [email protected]

I tentacoli di Pechino su Islamabad

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Pechino tesse la sua trama approfittando dell'attuale crisi politica pachistana che vede contrapposti politica, giustizia e militari. Dallo scorso novembre cerca di dare una spallata definitiva al rapporto Usa-Pakistan, sempre più incrinato. Con i vertici politici di Islamabad sotto scacco, l'apertura verso oriente potrebbe portare nel paese una boccata d'aria mentre svanisce l'ipotesi del colpo di stato e lo spettro delle elezioni anticipate prende il sopravvento. 

Tratto da “China Files”

DIPLOMAZIA TRIANGOLARE – Un quarto elemento si unisce ai tre che costituiscono l'asse portante della politica pachistana. Non più soltantoAllah, Esercito e America”, tra i nuovi attori c'è anche la Cina, enfatizzano i commentatori della stampa indiana, attenti alle mosse di Islamabad, governo vicino geograficamente e rivale fin dall'indipendenza della Gran Bretagna nel 1947. Pechino è stata, suo malgrado, il quarto attore anche nella disputa politica che vede opposti potere politico, giudiziario e Forze armate. Da una parte il primo ministro Yusuf Raza Gilani, accusato di oltraggio dalla Corte suprema pachistana per essersi rifiutato di richiedere alla Svizzera un'indagine sui presunti casi di corruzione che coinvolgono Asif Ali Zardari, vedovo di Benazir Bhutto e soprattutto attuale capo di Stato, che dunque gode dell'immunità. Dall'altra il cosiddetto Memogate, lo scandalo legato ad un memorandum riservato del governo civile che lo scorso mese di maggio paventava il rischio di un colpo di stato militare, con l'esercito stanco delle difficoltà nelle operazioni contro i guerriglieri nelle aree tribali e irritato per il blitz statunitense ad Abbottabad che portò all'uccisione di Osama bin Laden

NESSUNO E' PROFETA IN PATRIA – È in questo scenario che il premier pachistano, in un'intervista alla stampa cineseha attaccato il capo delle Forze armate, generale Ashfaq Parvez Kayani, e il capo dell'Isi, i potenti servizi segreti, generaleAhmad Shuja Pasha, accusando entrambi di agire contro la Costituzione. Parole pronunciate durante la visita in Cina di Kayani con Pechino nel ruolo di intermediario tra i due contendenti. La scelta dei tempi “non è stata una coincidenza”, ha scritto l'Hindustan Times. Più che al generale, il messaggio era rivolto proprio ai cinesi “nel timore che Kayani cercasse di portate Pechino dalla propria parte in vista di un golpe o di un cambiamento al potere”, sostiene l'analista Najam Sethi. L'utilizzo della stampa straniera per lanciare messaggi interni, ha sottolineato il quotidiano indiano, è una costante nella politica pachistana. Lo stesso Memogate scoppiò dopo un commento dell'uomo d'affari Mansoor Ijaz sulle colonne del Financial Times, ed è continuato con interventi di Zardari sul New York Times e sul Washington Post. Dal canto suo la stampa cinese non ha enfatizzato troppo l'accaduto, limitandosi a riportare dispacci d'agenzia, senza entrare in analisi dettagliate. Pechino ha avuto cautela nel non schierarsi né con il governo né con i militari, ha sottolineato l'Institute for Defence Studies and Analyses, centro di ricerca vicino al Ministero della Difesa di New Delhi. 

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INCONTRI RAVVICINATI – Durante la sua visita Kayani ha incontrato il premier Wen Jiabao, il titolare della Difesa, Liang Guanglie, il capo di Stato maggiore, generale Chen Bingde. Ma non il presidente Hu Jintao. Il viaggio di cinque giorni è tuttavia servito a rafforzare l'asse sino-pachistano alla luce della crescente, reciproca diffidenza tra i militari di Islamabad e Washington. Un solco allargatosi dopo l’attacco Nato del 26 novembre scorso, un “errore” costato la vita a 24 soldati pachistani. La Cina ha già influenza sull'apparato statale e sulla burocrazia del “Paese dei puri”. Con il deteriorarsi dei rapporti con gli Usa, ha scritto Chrstina Lin della Jamestown Foundation, “Islamabad sta tentando di giocare la carta cinese come alternativa”, sebbene nel breve periodo l'opzione non sia paragonabile a quella statunitense. 

GLI SCAMBI SULLA VIA DELLA SETA – Secondo l'ultimo rapporto del Center for Global Development, tra il 2004 e il 2009 Pechino ha garantito al Pakistan 9 milioni di dollari in aiuti contro i 268 milioni Usa. Mentre sul piano militare gli accordi sino-pachistani non sono comparabili con i 2,5 miliardi forniti da Washington nel 2010. Da parte cinese c'è invece una necessità sempre maggiore di garantire i propri interessi all'estero, come dimostrano anche i militari inviati a pattugliare il Mekong a protezione dei pescherecci o le unità spedite nelle aree tribali del Pakistan nella campagna contro i militanti uiguri che in queste zone trovano riparo. La stabilità nello Xinjiang, regione strategica per la Cina, in cui la minoranza uighura – musulmana e turcofona – rivendica da tempo autonomia in difesa della propria lingua e cultura, è una delle grandi sfide per la legittimità del Partito comunista cinese. Tanto più mentre Pechino mira, con l'istituzione di una zona economica speciale nella città di Kashgar – culla della tradizione uigura e teatro di attacchi e scontri la scorsa estate – a rendere la regione uno degli snodi della nuova Via della Seta e dei propri rapporti con l'Asia centrale.

Andrea Pira [email protected]

Da soli non si può, uniti sì (2)

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Ecco la seconda parte della nostra analisi dedicata alla realtà centramericana, fatta di Paesi potenzialmente ricchi ma che instabilità politica, violenza e criminalità stanno condannando a una realtà ancora sottosviluppata. Che fare allora? La soluzione ai problemi della regione va ricercata in un approccio condiviso dagli Stati e nell'aiuto efficace da parte di soggetti terzi. Ecco perchè le iniziative del SICA (Sistema di Integrazione Centro Americana) e dell'accordo con l'Unione Europea possono essere un primo passo in avanti

Seconda parte L’APPOGGIO INTERNAZIONALE A UN APPROCCIO REGIONALE – Sembra inevitabile che s'imponga nella regione un nuovo approccio al problema, più coordinato e multifattoriale: recentemente, i paesi centroamericani hanno finalmente deciso di lanciare un'iniziativa comune (Estrategia de Seguridad para Centroamérica), presentata in Guatemala nel giugno di quest'anno, al fine di coordinare i propri sforzi con l'aiuto della comunità internazionale, superando inerzie e difficoltà che favoriscono solo i delinquenti. Il nuovo piano, cui hanno aderito un gruppo di amici, cui appartengono gli Usa, l'Unione Europea, vari dei suoi stati membri, il Messico, la Colombia, il Canada, il Giappone, la Corea e l'Australia (tutti i principali partner per lo sviluppo della regione), oltre agli organismi finanziari internazionali (BID, FMI, Banca Mondiale), ha elaborato un piano d'azione fondato su quattro assi: lotta contro il crimine, prevenzione della violenza, riabilitazione, reinserimento e sicurezza penitenziaria e rafforzamento istituzionale. In tutte queste aree sono stati identificati dei progetti comuni, finalmente centroamericani e non meramente nazionali, attorno a cui si dovrà strutturare l'azione dei governi, coordinati dal segretariato del SICA (Sistema de Integración Centroamericano) e con il contributo finanziario dei partner internazionali, che potranno scegliere in questo meno i progetti che preferiscono appoggiare. Di un totale di ventidue progetti ne sono già stati identificati otto, che dovrebbero iniziare nel 2012: le aree riguardano la cooperazione tecnologica per lo scambio di informazioni in tempo reale, la sicurezza transfrontaliera (area in cui è particolarmente attiva l'UE, che ha molta esperienza in materia a seguito del processo di Schengen); la prevenzione sociale della violenza tra i giovani, il rafforzamento della capacità dei municipi per affrontare i problemi della violenza e della sua prevenzione sui loro territori (altro settore in cui è attiva l'UE, ad esempio mediante il progetto Projóvenes in El Salvador); la modernizzazione dei sistemi penitenziari nella regione (un punto nero, poiché è dalle prigioni che si controllano le bande delinquenziali e si ordinano i delitti da eseguire); la professionalizzazione delle polizie e dei corpi di sicurezza (non solo il loro armamento). Per questi otto progetti iniziali sono stati identificati dei bisogni finanziari di circa 350 milioni di dollari, cui dovrebbero contribuire in larga misura i "paesi amici".

È ancora incerto l'esito di tale nuova strategia regionale, che sarà difficile da mettere in esecuzione e cui i paesi amici potrebbero avere difficoltà ad aderire con fondi freschi in un momento di gravi difficoltà finanziarie, ma la sua mera esistenza evidenzia due progressi importanti, entrambi piuttosto recenti: la presa di coscienza della dimensione regionale del problema da parte dei paesi implicati, e l'interessamento da parte dei partner fondamentali della regione (Usa, UE, paesi asiatici) dell'importanza d'aiutare l'America centrale in difficoltà in un momento di grande bisogno. Tra l'altro, la regione centroamericana è quella che più ha risentito della crisi globale, legata com'è a filo doppio agli Usa tramite il commercio (CAFTA) e i flussi migratori (le rimesse degli emigranti negli Usa ammontano al 16% del PIB salvadoregno): crisi negli Usa significa drammatico aggravamento della precarietà nell'istmo, con tutte le conseguenze negative legate ai fattori elencati a inizio articolo. IL QUADRO POLITICO NELLA REGIONE – In questo quadro, si sono inseriti la crisi politica dell'Honduras, che ha emarginato il paese dalla comunità internazionale tra il 2009 e il 2010, e i recenti processi elettorali in Guatemala e Nicaragua. In Guatemala, confermando la regola nazionale secondo cui sempre s'impone il candidato sconfitto nelle elezioni precedenti, il generale in pensione Otto Pérez Molina, leader del Partido Patriota, si è imposto sul candidato – sorpresa Manuel Baldizón, emerso inaspettatamente dopo l'eliminazione da parte delle autorità elettorali della moglie del presidente uscente, Álvaro Colom. Durante il mandato di quest'ultimo, il paese è scivolato verso una sempre maggiore violenza e impunità, vanificando anche gli sforzi della CICIG (Commissione Internazionale contro l'Impunità in Guatemala), commissione internazionale avente per obiettivo di aiutare il sistema giudiziario guatemalteco a superare le sue inefficienze e distorsioni, quasi endemiche. La dimissione del giudice spagnolo Carlos Castresana nel 2010 è venuta a dimostrare un certo fallimento dell'esperimento CICIG, che non è riuscita a intaccare i meccanismi perversi del sistema giudiziario guatemalteco nonostante abbia raccolto qualche successo significativo, quale la soluzione del caso Rosenberg. La presidenza Colom è stata attiva nel campo sociale, ma non ha scalfito il problema dell'impunità e l'escalation del narcotraffico, che non ha fatto che aumentare negli ultimi anni. Il generale Pérez Molina, che ha un passato questionato in materia di rispetto dei diritti umani durante la guerra civile, è stato eletto per l'aspettativa degli elettori che il suo approccio di mano dura avrà successo (quando non l'ha avuto altrove): augurabile che tale fermezza dia risultati, ma altrettanto importante che non si perda di vista la strategia regionale, l'integrazione degli sforzi con i vicini e gli insegnamenti di altri casi di "mano dura" (vedi Messico). La repressione da sola non basta per far diminuire la violenza. In Nicaragua, il presidente uscente Daniel Ortega è stato appena rieletto in un'elezione criticata dagli osservatori internazionali (missioni OEA e UE) per le molte irregolarità e arbitrarietà commesse dal governo uscente e dalle autorità elettorali: la principale anomalia è stata l'accettazione da parte della Corte Suprema della possibilità del presidente uscente di farsi rieleggere quando la costituzione lo proibisce espressamente (sulla base del dubbiosissimo argomento che tale clausola violerebbe ingiustamente il principio d'uguaglianza tra i cittadini a sfavore del cittadino Daniel Ortega…) Se la vittoria di Ortega non è di per sé in dubbio, l'ammissibilità della sua candidatura certamente lo era: Ortega deve buona parte della sua popolarità ai consistenti aiuti economici fornitigli dal Venezuela nell'ambito dell'ALBA, che potrebbero sparire in caso di sconfitta di Chávez nelle prossime elezioni presidenziali venezuelane. Se lo scenario politico – istituzionale nicaraguense è quindi migliorabile, almeno questo paese ottiene buoni risultati quando la sua situazione in termini di criminalità viene paragonata ai vicini del Nord: sembra importante in questo dato l'impatto relativamente più modesto del narcotraffico, il cui transito sembra evitare il paese, probabilmente a causa dell'attenzione delle forze di sicurezza. El Salvador è stato recentemente scelto dagli Stati Uniti come partner strategico nel quadro dell' Associazione per la Crescita, un nuovo programma americano avente per obiettivo stimolare la crescita in paesi con attenzione alla problematiche sociali (il centro dell'azione del governo dell'indipendente di sinistra Mauricio Funes) ma difficoltà economiche strutturali. Gli altri paesi partner degli Usa sono Filippine, Ghana e Tanzania. Il programma, inteso come un gemellaggio teso a creare sinergie pubblico – private tra i due paesi, e non un tradizionale programma di cooperazione Nord – Sud, vuole aiutare El Salvador a sciogliere i nodi strutturali che bloccano la  crescita economica, la più bassa in America centrale e America latina: la violenza, la bassa produttività, le insufficienze del sistema educativo. Problemi di fondo che richiedono risposte a medio – lungo termine. Uno degli assi di tale nuovo programma strategico è il supporto al sistema giudiziario e alla polizia, che si spera dia risultati in un paese disperato per l'alta criminalità. Il resto della comunità internazionale impegnata nella regione, a cominciare dall'UE, primo partner assieme agli Usa anche grazie al peso della cooperazione spagnola, oltre che di quella comunitaria, centra la propria azione su obiettivi simili: prevenzione della violenza, educazione, coesione sociale, sviluppo economico nel quadro regionale. È chiaro che l'Accordo d'Associazione tra l'Unione Europea, l'America e Panama, firmato a Madrid nel 2010, che entrerà in vigore nel 2012, potrà contribuire a tale sforzo solo nella misura in cui si ridurrà il clima di violenza e potrà ripartire significativamente l'attività economica.

UNA REGIONE CHE NON VA LASCIATA SOLA – Al di là di questi sforzi, è importante rendersi conto che i paesi centroamericani non possono fronteggiare da soli l'effetto combinato di crisi economica globale, cambio climatico e vulnerabilità territoriale (altro tallone d'Achille della regione) e violenza. La cooperazione serve, ma ancor di più il rafforzamento di strumenti regionali d'approccio a problemi comuni e alcuni cambiamenti fondamentali al di fuori della regione: se negli Usa non si modifica in qualche modo l'atteggiamento permissivo verso il consumo di droga, magari proprio mediante una legalizzazione delle droghe leggere che potrebbe tagliare le gambe ai traffici, così come lo fece l'abolizione del proibizionismo negli anni venti, e non si controlla con più rigore il traffico di armi, difficilmente l'America centrale potrà risollevarsi. D'altro canto, l'esodo attuale dell'emigrazione priva i paesi centroamericani delle loro risorse umane, provocando problemi sociali gravissimi (vedi l'emergenza delle maras, nate negli Usa e alimentate dalle costanti espulsioni di illegali dal territorio statunitense, quadruplicatesi durante la presidenza Obama). Sono quindi necessarie decisioni strategiche anche internazionali affinché l'America centrale possa uscire dalla delicata situazione in cui si trova. Risposte parziali (repressione di polizia, criminalizzazione dell'emigrazione) e poco lungimiranti non bastano. Si può pensare che di fronte alla crisi globale, poco importi la situazione di una regione per certi versi marginale negli equilibri globali: la storia insegna però che i problemi cui non si presta attenzione solo quelli che poi moltiplicano i loro effetti negativi qualche anno più tardi. Importante che la comunità internazionale sostenga l'America centrale nel suo sforzo per un futuro migliore. Stefano Gatto [email protected]