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La rinascita del Sol Levante

Il Giro del Mondo in 30 Caffè 2012 – Il Giappone si sta già lasciando alle spalle il terribile tsunami che ha devastato parte delle sue coste quasi un anno fa. La grande forza degli abitanti ha fatto sì che la ricostruzione sia già in una fase avanzata: ciò potrà aiutare ad affievolire gli effetti della crisi economica e ad evitare una recessione. Anche la situazione regionale sembra abbastanza tranquilla, grazie ad una fase di relativa distensione con la storica rivale Pechino

 

UN 2011 DA DIMENTICARE – Un annus horribilis segnato dal sisma più potente mai verificatosi per il Sol Levante: oltre 15mila i morti, e quasi 5mila i dispersi. Un’economia piegata da una catastrofe naturale, che è però riuscita a reagire, cercando nuovi stimoli, ricostruendo ed investendo proprio in quelle aree che sembravano essere distrutte e compromesse. Il 2011 per il Giappone è stato di certo un anno difficile, ma la sua economia rimane ancora vitale: nonostante il crollo seguito allo tsunami di Fukushima, il 2012 sembra annunciarsi come un anno in cui la finanza giapponese riacquisterà la sua forza, grazie alla spinta delle zone non direttamente colpite dal disastro. La previsione del Fondo Monetario Internazionale vede però , per gli anni a venire, l’affievolirsi della crescita del paese per un valore pari a circa l’1%. Rimane comunque la forte incertezza sul futuro del Giappone, i cui interessi primari rimangono la ricostruzione delle aree colpite, il soddisfacimento del fabbisogno energetico, il rafforzamento del mercato dell’export insieme a quello del valore dello yen, e, da un punto di vista della geopolitica regionale, le questioni aperte con Cina, Corea del Nord e Thailandia.

 

IL DISASTRO DI FUKUSHIMA E L’ENERGIA – Non tutti sanno quanto il Giappone si stia impegnando per la ricostruzione dopo il disastro dell’11 marzo scorso: si procede ad un ritmo grazie al quale la quasi totale ultimazione dei lavori vedrà la luce con la fine del 2012, rimandando il resto al massimo per il 2013. L’impegno delle imprese della prefettura di Miyagi, dove si è generato il sisma, ravviva un’economia definita al collasso: una crescita sostenibile in stile giapponese, dove l’ambiente naturale ben si ricollega allo spazio urbano. Ciò che rimane una questione aperta è il problema del fabbisogno energetico: la distruzione degli impianti nucleari ha generato un dibattito acceso sulla scelta del tipo di energia da impiegare per soddisfare la richiesta della popolazione. In più, è la stessa ricostruzione a richiedere un maggiore apporto, disatteso dalle reali disponibilità del paese. Prima del terremoto, i 54 reattori nucleari presenti sul territorio giapponese producevano circa il 30% dell’energia del Sol Levante. Dopo l’11 marzo, tutti i reattori colpiti dal sisma sono stati spenti per le ispezioni. Da maggio 2012, verrà messo un punto definitivo all’intera produzione nucleare giapponese, sebbene ciò dipenderà dalle politiche energetiche approvate. In questo modo, tuttavia, l’attività industriale e manifatturiera del paese subirà una forte limitazione.

 

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L’ECONOMIA E LO YEN – Il problema delle esportazioni rimane un grosso punto di domanda per l’economia giapponese: esse rispondono per circa il 13% dell’intero Pil del paese, e l’incertezza causata dalla crisi economica mondiale costituisce una preoccupazione maggiore. La buona notizia per Tokyo è che invece l’Europa, di certo l’area più a rischio dell’intera economia globale, e il suo export soddisfano questo dato approssimativamente solo per il 10%. Ma le reazioni a catena non tarderanno ad arrivare, considerando la dipendenza di mercato dell’Asia dell’Est dall’importatore europeo. E’ così che anche il Giappone si trova a combattere gli effetti della crisi finanziaria europea. Il valore dello yen, invece, sembra apprezzarsi, non solo nei confronti dell’euro, ma anche rispetto al dollaro. Il fenomeno riguarda anche le altre monete dei paesi asiatici, ma la valuta giapponese è decisamente la capofila per solidità, essendo considerata una sorta di ancora di salvezza durante la crisi economica mondiale. Lo yen è infatti più forte del 25% rispetto al suo valore nel 2007, fattore che riduce la competitività giapponese sul mercato globale. Gli USA, inoltre, guardano ancora al Giappone come ad uno dei partner commerciali preferiti, dato che sembra confermarsi anche per il 2012 ed il 2013.

 

LA GEOPOLITICA REGIONALE – Ed infine i vicini di casa: quanto accaduto in Thailandia, ha dato una forte battuta d’arresto all’economia giapponese, ma il problema rimane non solo da un punto di vista finanziario. Toyota, Hitachi e Canon avevano infatti stabilito delle sussidiarie nelle zone colpire dalle inondazioni in Thailandia, con una percentuale di investimenti che si attesterebbe a circa il 60% del totale. Queste sussidiarie erano però arrivate a sostituire totalmente le industrie presenti nella madre patria, e fino a che l’inondazione non sarà rientrata del tutto, non si potrà realmente affermare che il Giappone abbia contenuto le sue perdite. Se invece si fa attenzione a Cina e Corea del Nord, si può notare come dopo la morte del dittatore Kim Jong-il, tra Tokyo e Pechino ci sia stato quasi un riavvicinamento, forse dettato dalla paura che un nuovo disordine politico-regionale dopo la scomparsa del reggente nord-coreano risucchi Cina e Giappone in un buco nero di tensione. Non manca poi la minaccia nazionalista causata da una eventuale, per quanto remota attualmente, riunificazione della Corea, che potrebbe esprimere a sua volta rivalse politiche e territoriali verso Cina e Giappone, dove vivono significative minoranze coreane. Ecco spiegato l’accordo di scambio diretto concluso tra yuan cinese contro yen giapponese, un’intesa che supera cocenti controversie sul confine marittimo delle isole Senkaku e sui giacimenti di gas.

 

Da soli non si può, uniti sì (1)

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Alti livelli di violenza caratterizzano una regione che negli Ottanta salì alla ribalta internazionale a causa delle sue guerre civili, e oggi lo fa per l’elevata criminalità e l’influenza destabilizzante del narcotraffico. La povertà, l’emigrazione sistematica e una governance spesso difficoltosa complicano la situazione generale. Una politica puramente repressiva non può bastare senza cambi fondamentali nella politica antidroga nei mercati consumatori, in primis gli Usa. Ma un approccio regionale e un maggior interesse della comunità internazionale stanno emergendo. L’America Centrale non può essere lasciata sola in questo frangente

 

UNA REGIONE IN PREDA ALLA VIOLENZA – La regione centroamericana si è caratterizzata negli ultimi anni per un drammatico aumento della criminalità, legato in parte ma non solo ai nuovi flussi del narcotraffico. L’istmo centroamericano è composto da paesi a reddito medio – basso, con la parziale eccezione della Costa Rica e di Panama, paese in pieno boom economico grazie agli introiti derivanti dal Canale, in mani nazionali dal 1999. Il paese più povero è il Nicaragua, che però paradossalmente presenta livelli di violenza e criminalità significativamente inferiori a quelli dei suoi tre vicini del Triangolo Nord: Guatemala, El Salvador e Honduras. Questi tre paesi si contendono il dubbio onore di essere, secondo le statistiche, i paesi più violenti al mondo: secondo recenti dati ONU, che hanno confermato una tendenza ben consolidata, l’indice di omicidi per abitante dell’Honduras (82 per 100.000 abitanti), di El Salvador (66 / 100.000) e Guatemala (41 / 100.000) è tra i più alti al mondo, rivaleggiando solo con l’Iraq. Il Messico, paese sotto la ribalta dei riflettori, ha un tasso di diciotto, che s’innalza su livelli centroamericani in certe zone del nord, specialmente Ciudad Juárez; gli Usa 5, l’Italia 1,23.

 

LE RAGIONI DELLA VIOLENZA – Il livello di violenza nei tre paesi citati è sempre stato alto, sin dai tempi delle guerre civili guatemalteche e salvadoregne, che si sono concluse negli anni novanta, ma si sono ulteriormente innalzati negli ultimi anni, a causa di molteplici fattori: l’eredità appunto delle guerre civili, con la relativizzazione del valore attribuito alla vita umana; la scarsa crescita economica con relativa altissima disoccupazione e sottoccupazione; la pessima distribuzione della ricchezza (questi paesi sono tra i peggiori in questa categoria secondo l’indice di Gini che misura i livelli di diseguaglianza in un sistema economico); l’altissimo tasso d’emigrazione, che sgretola l’unità familiare e che lascia i giovani rimasti a casa in situazione precaria; la debolezza dei governi e l’inefficacia tanto dei sistemi repressivi (polizia) che di quelli giudiziari, che si traducono in livelli d’impunità quasi assoluta (attorno al 98 per cento dei delitti rimangono irrisolti). A tutti questi fattori, di per sé gravissimi, si è venuto aggiungere in questi ultimi anni la presenza crescente del narcotraffico: i successivi Piani Colombia e Mérida, di stampo puramente militare, hanno colpito i cartel prima colombiani e poi messicani, spostando il centro di gravità del traffico verso il primo mercato mondiale di consumo di stupefacenti (gli Usa) da questi paesi a quelli dell’istmo centramericano, che sono divenuti il principale asse di transito dai paesi produttori (Colombia, Bolivia, Perù, il Brasile amazzonico) a quelli consumatori (gli Usa appunto). Chiusa la rotta caraibica, che convogliava la droga in aereo e imbarcazioni verso la Florida, punto d’entrata principale (ricordate Miami Vice?), il traffico ora si fa via terra. I paesi centroamericani, di per sé deboli per tutte le ragioni sovraesposte, si sono trovati alla mercé dei cartel messicani, i veri padroni della nuova rotta di sangue. I cartel principali sono quelli degli Zeta e di Sinaloa, ma la guerra dichiarata dal presidente Calderón con l’aiuto del Piano Mérida, oltre a elevare drammaticamente il numero delle vittime del conflitto armato nel nord del paese, ha spezzettato i clan senza però distruggerli e ha avuto per effetto d’allargare il raggio della violenza ad altre parti del paese, in una spirale che sembra inarrestabile. I cartel messicani si sono anche progressivamente spostati verso paesi deboli, nei quali i loro enormi poteri economici e di corruzione hanno potuto fare facile presa: in primis il Guatemala, paese dalle istituzioni debolissime nel quale intere zone (il Petén, nel nord) sono sotto il controllo diretto dei trafficanti e nei quali lo stato fatica a farsi presente. Recentemente, i cartels hanno cominciato a infiltrarsi anche in Honduras e in El Salvador, mediante accordi con le bande giovanili (maras) che controllano i quartieri meno abbienti delle città e strade – chiave nella “triplice frontiera” tra i tre paesi, attraverso le quali passa la droga. Negli ultimi tempi sono state individuate molteplici tecniche usate dai cartels per far pervenire la droga in Honduras o El Salvador via mare, evitando il Nicaragua, paese nel quale la lotta contro il narcotraffico ha avuto più successo, e da lì risalire verso nord.

 

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GLI EMIGRANTI, VITTIME DESIGNATE – Gruppi delinquenziali si servono dei numerosi emigranti che dall’America Centrale risalgono il Messico per cercare di penetrare negli Usa come burritos“, portatori di droga: l’alternativa a tale servizio è la morte, come succede ogni giorno sulla tragica rotta seguita dagli emigranti: il caso più eclatante fu la strage di Tamaulipas nel 2010, 72 emigranti massacrati in un capannone perché non volevano prestarsi a questo gioco mortale. Ma sono eventi purtroppo frequenti. L’esodo di migliaia di centroamericani verso la terra promessa statunitense lascia dietro di sé una striscia di sangue, violenze d’ogni tipo, soprusi. L’istmo centroamericano e il Messico sono diventati scenari di profonde ingiustizie e sofferenze, una realtà che non può lasciare indifferente la comunità internazionale. L‘approccio armato del presidente messicano Calderón non ha risolto pressoché nulla, dimostrando che la sola repressione non sconfigge i traffici illegali (ma aumenta vertiginosamente la spirale di violenza). L‘amministrazione Obama si è resa conto che il Piano Mérida ha avuto come effetto quello di spostare la pressione sui paesi dell’America centrale, e ha deciso di deviare una parte dei fondi, per la verità piuttosto limitata (200 milioni di dollari su 1,6 miliardi) ai paesi dell’istmo (iniziativa CARSI). Ma al di là delle risorse, il problema è che la repressione da sola, o la mano dura, com’è conosciuta nella regione non basta: non è bastata in Messico e non sarà sufficiente in America Centrale.

 

MA LA MANO DURA NON PUÒ BASTARE – Anche supponendo che i paesi della regione riuscissero a utilizzare al meglio e in forma coordinata questi fondi, comunque scarsi, rimarrebbero infatti aperte due anomalie fondamentali:

  1. gli Usa rimangono un mercato di forte consumo di stupefacenti: contro tale consumo, in crescita, è del tutto improbabile che si lanci una vera offensiva: l’attrazione esercitata dal paese più ricco e forte consumatore di droga non può non solleticare gli appetiti dei cartelli delinquenziali, pronti ad affrontare qualsiasi opposizione;
  2. al tempo che primo importatore di droga, gli Usa sono anche il primo esportatore di armi da fuoco, che si acquisiscono con enorme facilità e passano la frontiera con il Messico quasi impunemente, gettando benzina sul fuoco già dirompente delle guerre tra clans. Recenti tentativi dell’amministrazione Obama di limitare questo traffico illegale o di stabilire una tracciabilità delle armi, soprattutto i famigerati AK – 47 utilizzati dai narcos, dal nord verso il sud sono sostanzialmente falliti, boicottati dai grandi interessi occulti e dalle politiche liberistiche in materia a nord del Rio Grande, considerate da molti cittadini Usa un diritto sacro e irrinunciabile. (I. continua)
  3.  

Stefano Gatto [email protected]

EUROvina?

Il Giro del Mondo in 30 Caffè – L’Europa sta affrontando un periodo di profonda crisi. Le problematiche di carattere economico-finanziario affrontate durante il 2011 (e non ancora risolte) non solo hanno dimostrato che l’Eurozona, sotto il profilo della credibilità internazionale, soffre di pesanti debolezze; quanto piuttosto hanno messo a nudo l’esilità dello “scheletro” istituzionale, sociale e culturale, lo stesso che dovrebbe sostenere l’enorme macchina politica che chiamiamo Unione Europea. E’ questo il segno di un esperimento ambizioso giunto al capolinea? Oppure l’Europa (unita) ha ancora la forza per ritornare a giocare un ruolo essenziale nel panorama internazionale?

 

25 MARZO 1957 – Sono passati ormai 55 anni da quel giorno. Giorno in cui sei degli attuali paesi membri dell’Unione Europea diedero vita all’ambizioso (nonché innovativo) progetto di una comunità economico-politica che potesse essere il fondamento di un regime di cooperazione permanente tra gli Stati del centro Europa. Dopo secoli di atroci conflitti e rivalità, finalmente il vecchio continente, non senza qualche indecisione, si trovava a gettare le basi per una coesistenza pacifica (sotto il profilo della sicurezza) e mutualmente proficua (dal punto di vista commerciale). Nell’arco di mezzo secolo, l’influenza di questa istituzione transnazionale è andata estendendosi a macchia d’olio da occidente verso oriente, inglobando anche molte di quelle repubbliche che, poco alla volta, uscivano dalla sfera d’influenza dell’Unione Sovietica ormai in declino, trascinate dall’appeal della democrazia rappresentativa e del libero mercato. Con l’allargamento a 27 paesi membri, un unione monetaria (UEM) che ha coinvolto 17 paesi e oltre 320 milioni di cittadini europei, e un sistema giuridico comune in pieno sviluppo, il grande progetto della UE sembrava procedere, sebbene lentamente e con qualche difficoltà, nella giusta direzione.

 

UNA MACCHINA INCOMPLETA – Nonostante le proiezioni degli analisti mostrassero già da tempo come l’Europa, nel medio e lungo periodo, avrebbe potuto risentire di problemi legati all’invecchiamento progressivo della sua popolazione, alla forte concorrenza di economie in pieno sviluppo e alla sempre crescente domanda di energia, nessuno pensava che nel giro di quattro anni, dallo scoppio della “bolla” immobiliare americana (e la successiva contaminazione dei crediti in occidente), l’economia e la stabilità dell’Eurozona sarebbero state ad un passo dal cedere. Nessuno immaginava che la paura generata dal serio rischio di default di paesi europei fortemente indebitati (e con una bassa crescita) avrebbe prodotto un effetto domino tanto devastante sulle piazze finanziarie internazionali. Nessuno ipotizzava un declino tanto repentino. Non avremmo mai creduto che nell’arco di soli quattro anni avremmo sviluppato un così profondo senso di sfiducia verso le istituzioni comunitarie fino al punto di credere (come molti hanno ipotizzato) che saremmo stati meglio mantenendo il vecchio sistema di valute differenti e tassi di cambio variabili. Eppure il 2012 si apre proprio all’insegna di questa sfiducia. La diffidenza in un processo, come lo definisce il  direttore di “Limes” Lucio Caracciolo, “a tempo indeterminato e geografia imprecisata, noto come integrazione europea. Un work in progress scaduto a work in regression”. Uno stato d’animo che non è più prerogativa solo dei cittadini ma che ormai sembra aver preso il sopravvento anche nelle istituzioni. Il rianimarsi di sentimenti nazionalisti e  anti-europeisti – dal Belgio all’Ungheria di Viktor Orbán  – è solo uno dei segnali che dimostrano come l’obiettivo di realizzare uno spazio europeo forte (e unito) si stia man mano allontanando da una prospettiva possibile. Nel frattempo, le previsioni per i prossimi mesi non lasciano trapelare nulla di buono: stagnazione dei consumi, recessione e disoccupazione diffusa sono diventate il cliché degli analisti. Può l’Europa reggere l’impatto di una crisi economico-finanziaria così duratura? Gli stati membri percepiscono ancora il meccanismo della UE come vantaggioso, o hanno cominciato a considerarlo superfluo? Quanto davvero sarebbe sensato tornare ad un’Europa di stati nazione? In breve, l’Unione Europea è a rischio di crollo?

 

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UN LEGAME INDIVISIBILE – Sebbene le previsioni, come abbiamo visto, non siano delle più rosee, la possibilità che il 2012 ci riservi la sorpresa di vedere il definitivo affondamento della UE o l’abolizione della moneta unica, rimane molto bassa. In primis, la dissoluzione di questo organismo porterebbe caos politico (nonché economico) in un contesto nel quale la priorità è ripristinare la stabilità. I rischi sarebbero altissimi: non dimentichiamo che tra le cause concorrenti dello scoppio del secondo conflitto globale c’era proprio la questione legata ai tassi di cambio della moneta “fluttuanti”. Ancora più importante poi, è l’aspetto legato al ruolo genuinamente geopolitico che l’Europa gioca oggi nel sistema internazionale. La sua ipotizzata dissoluzione non solo acuirebbe le possibilità di destabilizzazione in scenari quali i Balcani o il Caucaso (legati sempre più all’influenza di Bruxelles) ma potrebbe addirittura far cessare quel fenomeno di “emulazione democratica” al quale si sono ispirati molti dei movimenti che hanno scosso il Maghreb nello scorso anno. In questo senso, la revisione dei Trattati in discussione durante questi giorni (peraltro molto contestata) è la prova che le istituzioni stanno cercando di posticipare  l’imposizione delle regole più rigide per gli stati (soprattutto in materia di deficit) in modo da assicurare “la tenuta” del sistema. Infine, è bene ricordare che la maggior parte dei paesi membri dell’Unione, nonostante siano economie “che contano”, non hanno la capacità di imporsi singolarmente sul mercato globale, e questa realtà è ben nota a Bruxelles. La stessa Germania (che conserva un attivo esorbitante in esportazioni e rimane la prima economia d’Europa) sarebbe fortemente penalizzata dalla caduta del mercato comune europeo (o dalla reintroduzione del Marco tedesco) visto che cinque dei suoi sei maggiori partner commerciali sono proprio stati del vecchio continente. Ciò che risulta ancora problematico però, resta la scarsa volontà ad intraprendere misure condivise di coordinamento politico e, in particolar modo per quanto concerne la sicurezza comune. Il congenito problema dell’Unione non cessa di esistere, nemmeno in momenti di profonda crisi collettiva. La difficoltà a sentirsi parte di una comunità unica, l’incapacità di agire in maniera coordinata e coerente (anche quando lo richiedono situazioni di massima urgenza) rimangono la radice del problema e, allo stesso tempo, la peggiore delle conseguenze. Resta da sperare (almeno sotto il profilo dell’integrazione) che le fatiche che attendono l’Unione favoriscano, per ciò che sarà possibile, una sempre maggiore collaborazione tra le parti. L’Europa potrà superare la crisi solo attraverso l’unità e, se così sarà, forse domani saremo testimoni della nascita di un organismo più efficiente e più credibile, in grado davvero di interpretare il ruolo che l’eredità europea (alla base della cultura politica dell’Unione) gli conferisce.

 

Paolo Iancale

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Le elezioni? Seguile a colpi di tweet!

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Parliamo ancora delle elezioni presidenziali a Taiwan. Oggi vi raccontiamo di come sono state seguite dall'altra sponda dello stretto, ovvero in Cina, con la quale la piccola isola prosegue una controversia geopolitica lunga decenni. Al termine di una campagna elettorale rovente, il 14 gennaio quasi 18 milioni di taiwanesi si sono recati alle urne per eleggere il nuovo presidente. Un esercizio di democrazia che i cinesi della mainland hanno osservato e commentato su Weibo, il Twitter mandarino. Curiosità, invidia o perplessità?

UN CAMMINO DI PACE – Il popolo taiwanese ha scelto. Ma Ying-jeou si conferma alla guida del paese, ottenendo il 51,6% dei voti, contro il 45,7% della candidata dell’opposizione, Tsai Ing-wen. “Questa vittoria rappresenta la continuazione per Taiwan di un cammino di pace e prosperità. – ha detto il leader del Kuomintang – Grazie per avermi concesso un altro mandato, non vi deluderò”. L’agenda di Ma ha come perno il proseguimento di quel percorso di pace inaugurato da lui stesso nel precedente mandato: una stagione di “buoni rapporti” con la Cina continentale, per far sì che tra le due Cine si instauri finalmente un clima di armonia e cooperazione, soprattutto in ambito commerciale. Un’agenda che piace molto a Pechino, che certamente apprezza gli sforzi compiuti dall’attuale dirigenza del Kuomintang per riavvicinare l’ “isola ribelle” alla sua madre continentale. Ma piace anche a Washington, per ragioni strategiche. La Casa Bianca vuole evitare di essere coinvolta nell’ennesima controversia tra Repubblica di Cina e Repubblica Popolare Cinese, e non vede l’ora di accantonare i propri obblighi derivanti dal Taiwan Relations Act, una legge varata dal Congresso nel 1979 che impegna gli USA a fornire armi a Taipei. Soprattutto, Ma piace al suo popolo, e questo è il dato più importante. Per quanto piccola, minata da episodi di corruzione e tagliata fuori dal mondo a causa della one-China-only policy, Taiwan è una democrazia sana e vibrante. Basta passeggiare per le strade di Taipei per capirlo: qui i media non subiscono censure ne’ restrizioni, l’aria che si respira è quella di una competizione free and fair, e ciò che a Pechino è tabù qui è realtà. Un esempio? In onore alla libertà d’espressione, il Museum of Fine Arts della capitale taiwanese ha recentemente ospitato le opere di Ai Weiwei, artista-icona nemico del Partito Comunista Cinese.

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I TAIWANESI AL VOTO, I CINESI SU WEIBO – La Cina continentale, sorella di lingua e cultura dell’isola ribelle, è costretta ad osservare tutte queste differenze, e lo fa con un’infinita sequenza di messaggi su Weibo, il Twitter cinese. Nell’era del micro-blogging tutto è più vicino, più accessibile, e anche se nessun cittadino della RPC ha diritto al voto a Taiwan, i tweet dedicati al confronto tra Ma e Tsai non si contano. Migliaia di cinesi in tutto il continente hanno seguito e commentato le elezioni con il fiato sospeso, utilizzando i 140 caratteri a disposizione per descrivere le sensazioni più disparate: ansia, perplessità, invidia, curiosità… Uno dei post più famosi, che ha fatto il giro della mainland nei giorni scorsi, è un collage di immagini: da una parte ci sono i due candidati taiwanesi che si avvicinano sorridenti all’elettorato, dall’altra cittadini cinesi che si inchinano di fronte ad alti ufficiali del Partito Comunista. “Con il voto, il popolo ha il controllo. Senza il voto, il popolo è schiavo” – recita l’iscrizione che affianca l’immagine. Inutile dire che questo fotomontaggio ha scatenato un thread chilometrico, dove la gamma dei commenti varia dal furioso “Anche la Cina dovrebbe essere una democrazia!” al cauto “Non paragoniamo una ricca isola di 23 milioni di abitanti [Taiwan] con un immenso paese in via di sviluppo di 1,3 miliardi di abitanti [la RPC]” al categorico “Troppa democrazia potrebbe arrecare gravi danni al nostro paese”. Infine, sono molti gli utenti che si sono cimentati con la complessa – ma urgente – domanda: la democrazia è compatibile con la cultura cinese? Taiwan ha già trovato la sua risposta, e forse il fatto che questa abbia il volto di Ma o quello di Tsai poco importa.

Anna Bulzomi [email protected]

Chi vincerà al Cairo?

Il Giro del Mondo in 30 Caffè 2012 – A quasi un anno dall’anniversario dell’intifada egiziana (il 25 gennaio) che portò alla capitolazione dell’ex presidente Hosni Mubarak, l’Egitto è un paese che ha decisamente cambiato volto. I tre turni elettorali per il Majlis al Sha’ab (l’Assemblea del Popolo o Camera Bassa) hanno, infatti, sancito una clamorosa rivincita delle forze islamiste, sovrastando definitivamente l’identità ‘pan-arabista’ che Nasser aveva dato al paese oltre 50 anni fa

VINCONO I FRATELLI MUSULMANI – Il Partito al-horreyya wa al-‘adala (Libertà e Giustizia) dei Fratelli Musulmani, seguito da al-Nour (la Luce) dei Salafiti, si appresta a occupare la maggioranza dei 498 seggi (circa il 45% per gli Ikhwan – i Fratelli – e il 25% per al-Nour). Il percorso per l’elezione dei membri del Majlis al-Shoura (la Camera Alta), anch’esso in tre turni, è cominciato il 23 gennaio ma già si prevede una replica dei risultati appena ottenuti. Tutto questo con buona pace delle forze politiche liberali e secolari, figlie della Rivoluzione del 2011, che da protagoniste del cambiamento si ritrovano adesso ai margini del quadro politico. La divisione che indeboliva queste ultime già prima del voto, inoltre, sembra essere adesso accentuata dalla divergenza interna tra chi vorrebbe percorrere la via del dialogo con gli islamisti e chi è invece chiuso in una perseverante islamofobia. I Fratelli Musulmani si sforzano di mostrare il loro volto moderato, hanno assicurato la libera espressione, la protezione delle minoranze cristiane copte nel paese, hanno una visione economica che non rifiuta il liberismo e non hanno chiuso le porte all’Occidente. Proprio negli ultimi giorni – anzi – il vice Segretario di Stato statunitense Burns ha incontrato i capi della Fratellanza nel loro quartiere generale al Cairo. Gli USA non vogliono evidentemente perdere il loro storico e principale alleato nella regione, uno dei due unici paesi arabi ad aver firmato la pace con Israele (l’altro è la Giordania). I Fratelli dal canto loro, in questo momento di grave crisi economica, non sono nelle condizioni di alienarsi il supporto economico statunitense. E se nel dibattito interno il rispetto degli accordi di Camp David rimane avvolto nel dubbio, secondo un comunicato del dipartimento di Stato americano la dirigenza degli Ikhwan avrebbe già assicurato l’America sul mantenimento della pace con Israele.

E I SALAFITI? – La variabile salafita, invece, vera sorpresa del nuovo assetto politico, oltre a far paura all’Occidente per il suo linguaggio distante dai parametri della modernità politica (più votato, cioè, alla missione morale di salvare la società dalla decadenza), sembra essere una spina nel fianco anche per i Fratelli stessi, che – contrariamente ai primi – hanno sempre unito la predicazione al pragmatismo politico. È escluso, dunque, che ci possa essere un’alleanza tra i due attori, che insieme costituiscono circa i due terzi del parlamento; i Fratelli potrebbero invece puntare a formare una coalizione strategica con al-Wafd o con i liberali.

IL RUOLO DEI MILITARI – La questione cruciale e largamente irrisolta all’interno del nuovo Egitto – ciò che rende ancora Piazza Tahrir un luogo di frammentazione e non di ricomposizione – è invece il ruolo che i militari avranno nel futuro del paese. Se l’intuizione strategica dell’esercito di proporsi come protettore e garante della rivoluzione di un anno fa era stata decisiva nell’assicurare ai militari la legittimità per guidare la transizione, essa è stata, tuttavia, disintegrata dalla scarsissima lungimiranza politica con cui il Consiglio Superiore delle Forze Armate ha governato il paese nei mesi successivi alla caduta del vecchio raìs. Limitazioni alla libertà di stampa e di espressione, perpetuazione di un sistema corrotto e abusi dei diritti umani sono stati la cifra della nuova amministrazione. Negli ultimi mesi sembra che la strategia dei militari sia stata quella di mantenere alto il livello d’insicurezza interna per ricattare le forze sociali avverse: mostrando che solo chi detiene il monopolio della forza può fornire sicurezza ai cittadini – e che, dunque, dei militari la società non può fare a meno – l’esercito ha cercato di placare l’ostilità della piazza nei suoi confronti. La formula tuttavia non ha funzionato: le forze rivoluzionarie sono tornate a manifestare a metà novembre per chiedere le dimissioni del presidente ad interim Tantawi, il disfacimento dell’alta giunta militare e la consegna immediata del paese nelle mani di un governo civile. I militari non hanno ancora ceduto alle richieste dei manifestanti, promettendo che abbandoneranno il potere soltanto il primo luglio 2012, dopo le elezioni presidenziali. Se l’ambizione recondita di trasformare l’Egitto in una sorta di dittatura militare sembra essere ormai sfumata dopo il voto (che ha invece palesato e legittimato il processo d’islamizzazione dello stato), la prospettiva di un ritiro definitivo delle forze armate dalla scena politica resta alquanto inconsistente. Proprio questo ha, infatti, spinto il candidato alla presidenza Mohammed El Baradei, ex numero uno dell’Agenzia Internazionale per l’Energia Atomica, a ritirarsi dalla corsa elettorale “fino a quando non saranno chiare le modalità di uscita di scena dei militari”.

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INTESA ISLAMISTI – ESERCITO? – Il dubbio in realtà è che tra questi ultimi e i Fratelli Musulmani ci sia un’intesa informale. Dopo un’alternanza di rotture proclamate e riavvicinamenti, a novembre i Fratelli hanno formalmente preso le distanze dalla piazza che chiedeva lo scioglimento del Consiglio Superiore delle Forze Armate. L’obiettivo era quello di concentrarsi sulle elezioni ma proprio dopo il successo incassato alle urne i segni di un’alleanza fredda ma inevitabile sono emersi in modo più lampante: la Fratellanza sa che non potrà acquisire una legittimità durevole in uno stato d’insicurezza perenne, in cui i militari giocano un ruolo determinante. Questi ultimi sembrano aver accettato il condominio con gli islamisti, persino lasciando loro il ruolo di protagonisti. La condizione è ovviamente la conferma e messa in sicurezza degli immensi privilegi accumulati dalla casta militare fin dai tempi di Nasser.

DIFFICOLTA' ECONOMICHE – Il consolidamento del binomio militari-islamisti resta in realtà nebuloso, prima di tutto per l’opposizione marcata di alcuni stessi membri del Partito Giustizia e Libertà. In secondo luogo esso dovrà vincere il braccio di ferro con la piazza che non è affatto rassegnata all’accettazione del nuovo status quo. C’è, infine, un fattore cruciale che sarà determinante per l’equilibrio del paese: mentre il conflitto sociale sta cronicizzando l’instabilità politica, la situazione economica si sta aggravando drammaticamente. Il debito estero egiziano ha ormai superato i 35 miliardi di dollari, con un incremento del 3,6% rispetto all’anno passato e lo stesso Ministero delle Finanze ha dichiarato nelle ultime settimane che il paese è a rischio default. Gli Stati Uniti hanno appena abbuonato un miliardo di dollari per il suo rimborso ma in realtà il debito estero non rappresenta che il 15-20% del debito totale egiziano. E’ il debito interno ciò che, infatti, più pesa sulle spalle del paese: il risultato di anni e anni di sperperi dell’amministrazione Mubarak. Del resto l’incertezza della stabilità politica rende il paese poco attraente agli investitori, oltre ad aver già profondamente danneggiato uno dei settori vitali per l’economia egiziana – il turismo – che in media rappresentava oltre il 10% delle entrate dello Stato e che nel 2010 dava lavoro ad un egiziano su sette. In un paese a forte crescita demografica, con un tasso di disoccupazione e di povertà elevatissimi, la situazione economica rischia di incollarsi all’instabilità politica trascinando il paese in una spirale assai vorticosa. Questa sarà probabilmente la vera sfida per le nuove forze islamiste: al di là delle aspettative di una restaurazione morale della dimensione pubblica, l’imperativo impellente per i futuri governi riguarda la crescita e lo sviluppo; questo a sua volta si traduci in una maggiore aderenza tra domanda politica e offerta politica. L’ampiezza di questo gap è stata per decenni letteralmente ignorata dalle élites al potere; queste ultime hanno, tuttavia, conosciuto quanto dirompente possa essere un milione di persone nel cuore del Cairo. Gli egiziani ormai conoscono bene la strada per piazza Tahrir ed è forse questo, sopra ogni altra cosa, ciò che la politica non può più permettersi di ignorare. Marina Calculli [email protected]

Stiamo più vicini

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Il 14 gennaio scorso si è votato a Taiwan. Un voto delicato per gli equilibri della regione e per le relazioni sino-statunitensi. Il vincitore è l’attuale presidente Ma Ying-jeou, che rimarrà in carica per altri quattro anni. Era il candidato dei buoni rapporti con Pechino, ma soprattutto di Hu Jintao. Anche gli Usa tirano un sospiro di sollievo. Tutti contenti dunque? Non esattamente

RESTA AL POTERE IL KUOMINTANG (KMT) – “Ma Ying-jeou, ti amo!” urlava la folla raccoltasi a Taipei City, quando poco dopo le 8 di sera di sabato 14 gennaio (ora locale), il vincitore delle elezioni presidenziali è salito sul palco di fronte ai suoi sostenitori rispondendo che: “Questa non è una vittoria di Ma Ying-jeou, questa è una vittoria del popolo taiwanese”. E ancora: “Le relazioni con la Cina saranno ancora più armoniose, abbiamo bisogno di un ambiente pacifico” ha continuato Ma. Ha vinto la sua linea. È riuscito a convincere i taiwanesi che i buoni rapporti con Pechino hanno un ritorno positivo per l’economia e la prosperità dell’isola. Non era facile. Solo pochi giorni prima del voto, l’esito non era scontato. Ma manteneva un lieve vantaggio su Tsai Ing-wen (la candidata dell’opposizione), tanto che nelle prime proiezioni di voto la Tsai era data persino in vantaggio. Alla fine, però, Ma ha ottenuto un ampio margine, superando qualsiasi previsione della vigilia: quasi il 52% delle preferenze, contro il 45,6% della Tsai (il terzo candidato James Soong ha ottenuto il 2,8%). Buon risultato, quindi, ma inferiore a quello del 2008, quando Ma raccolse il 58% dei voti. Nelle legislative il suo partito ha vinto 64 dei 113 seggi in parlamento, mantenendo una comoda maggioranza. Ha vinto il centro nord contro il sud; le grandi imprese (e chi investe in Cina) sui contadini; i blu sui verdi; la “One China policy” del “consenso del 1992” sostenuto dai Nazionalisti, sul “Taiwan consensus” dei Democratici. Ha vinto Ma contro la Tsai. I buoni rapporti coltivati da Ma con Pechino hanno espanso i rapporti commerciali tra le due sponde: il China Daily riporta come nei primi 11 mesi del 2011 il flusso commerciale tra i due Paesi abbia raggiunto quasi i 150 miliardi di dollari (in crescita dell’11% sullo stesso periodo dell’anno precedente), facendo diventare la Cina il primo partner commerciale di Taiwan. Alla fine del 2011, circa 80 mila imprese taiwanesi avevano investito più di 200 miliardi di dollari in Cina. Una cifra ragguardevole. Ma non solo, circa un milione dei 23 milioni di cittadini taiwanesi vive in Cina. Era perciò impossibile tenere separate le questioni economiche da quelle dei rapporti con la Cina.

LA REAZIONE DI PECHINO – Quasi superfluo sottolineare come il Dragone guardi favorevolmente alla riconferma di Ma. Nella serata di sabato, non appena i primi risultati semi-ufficiali sono stati rilasciati, l’ufficio cinese per le relazioni con Taiwan (Taiwan Affairs Office), ha rilasciato un comunicato nel quale si diceva come “I fatti degli ultimi quattro anni hanno provato come lo sviluppo pacifico delle relazioni nello stretto è stata la strada giusta e ha ottenuto l’approvazione da parte della maggioranza dei compatrioti di Taiwan”; aggiungendo che i rapporti tra le due sponde devono basarsi sul consenso del 1992 e il contrasto “all’indipendenza di Taiwan”. Molti analisti hanno fatto notare come il risultato delle elezioni sia soprattutto una vittoria del presidente Hu Jintao, della sua “politica dello stretto”. Hu è stato il primo leader cinese a cambiare linea nei confronti di Taipei, seguendo un approccio ‘soft’. Infatti, sembrano lontani i tempi (almeno per il momento) in cui Pechino in vista delle elezioni a Taiwan minacciava di usare la forza militare per influenzare l’esito delle votazioni, con il risultato di allontanare ancor di più Taipei. Hu è riuscito dove altri avevano fallito: riavvicinare la ‘provincia ribelle’ alla madrepatria. Sembra perciò ragionevole aspettarsi buone relazioni tra Pechino e Taipei nei prossimi anni, ma qualche dubbio, anzi molti, esistono sulla prospettiva di lungo periodo. Prima o poi le “due Cine” dovranno sedersi ad un tavolo negoziale e iniziare a discutere della questione politica dello stretto, ossia lo status internazionale di Taipei. Non sarà per nulla facile. Basta porsi un paio di domande per capire quanto cruciale e difficile da risolvere sia la questione: che ruolo avrebbe il KMT in Cina? Si terranno libere elezioni a Taiwan dopo l’unificazione? O verranno abolite? Come ha spiegato molto bene Yvonne Su sull’Asia Times qualche giorno fa, le preoccupazioni di lungo periodo potrebbero materializzarsi molto prima e diventare un problema di breve periodo, anzi brevissimo, qualora Pechino spingesse il piede sull’acceleratore per iniziare le negoziazioni politiche prima che Hu passi il testimone al suo successore. In questo caso, già nei prossimi 2-3 mesi. Ipotesi che allarma Richard Bush Direttore del Center for Northeast Asian Policy Studies (Brookings) che in una recente conferenza ha espresso la sua preoccupazione proprio riguardo all’inizio prematuro del dialogo sulla questione politica che potrebbe interrompere bruscamente l’idillio.  

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IL RUOLO DEGLI USA – Gli Stati Uniti hanno da poco dichiarato ufficialmente la loro svolta strategica verso il Pacifico, in realtà in corso da almeno un decennio. Taiwan è la questione più delicata nella politica estera cinese (anche se Pechino la considera come un ‘core interest’, ossia come politica interna). Gli Usa sono impegnati nella vendita di armi all’isola per garantirne la propria difesa. Sicuramente altri quattro anni di Ma era il risultato più favorito da Washington, che può solo avvantaggiarsi da una situazione relativamente tranquilla sul fronte Pechino-Taipei.

CONCLUSIONE – La riconferma di Ma crea molte più prospettive di stabilità tra Pechino e Taipei, di quelle che avrebbe creato una vittoria di Tsai. Il presidente Ma è disposto a proseguire la linea politica seguita negli ultimi 4 anni, ma come abbiamo visto, Pechino potrebbe aspettarsi molto dai Nazionalisti in termini di avanzamento del dialogo politico.   Secondo Francesco Sisci (sinologo italiano), la direzione è quella dell’unificazione e dell’inevitabile democratizzazione della Cina, pur riconoscendone le difficoltà e i punti di attrito più acuti. Tra quattro anni Taiwan sarà ancora più integrata e vicina alla Cina, rendendo più difficile e improbabile un ritorno delle tensioni. Sisci, vede nell’atteggiamento tenuto da Pechino un insegnamento che va ben oltre le relazioni con Taipei, per abbracciare l’intera politica estera cinese, che se portata avanti con toni meno duri crea meno preoccupazioni negli altri Stati. Resta comunque il dilemma dello status internazionale di Taiwan e del quale dei due Stati sia la vera Cina, che non potrà rimanere irrisolto all’infinito. I più pessimisti ne vedono una possibile rottura già nel corso del 2012 qualora la Cina in cambio di vantaggi economici farà pressioni per iniziare un negoziato politico.   Se così non fosse, il problema (che comunque resta) sarebbe posticipato a data a destinarsi e i successori di Hu e Wen – Xi Jinping  e Li Keqiang – impiegheranno un po’ di tempo prima di delineare la loro linea sulla questione. Che, ad oggi, non è nota.

Marco Spinello [email protected]

La nebbia dell’incertezza

Da sempre la comunità internazionale è il regno dell'anarchia, ma le attuali tendenze, gli scontri e i punti di tensione affiancati dagli sconvolgimenti politici in corso costituiscono i caratteri fondamentali dell'attuale paradigma, su cui è difficile esprimere giudizi di lungo periodo. I nuovi sviluppi della telenovela iraniana, la rottura tra Lega Araba e Siria, la situazione preoccupante in Somalia e Nigeria accompagnano le primarie repubblicane negli Stati Uniti e una serie di vertici in Europa. Intanto l'America Latina riscopre il conflitto dimenticato delle Falklands, il Messico raggiunge livelli inauditi di violenza e la Cina festeggia l'inizio dell'anno del dragone.

EUROPA

Lunedì 23 – I Ministri degli Esteri dei 27 paesi membri si riuniscono a Bruxelles, dove l'Alto Rappresentante Catherine Ashton proporrà un'implementazione delle misure restrittive contro Teheran. Il Consiglio per gli Affari Esteri affronterà altre tematiche scottanti per la sicurezza e lo sviluppo democratico come la situazione in Siria e il processo elettorale in corso in Egitto. I ministri discuteranno anche dei possibili sviluppi del dialogo per la pace in Medio-Oriente, delle recenti aperture in Myanmar, della tensione tra Serbia e Kosovo e delle condizioni critiche in Bielorussia e Sud Sudan. Nella stessa occasione si terrà anche un Consiglio di Stabilizzazione ed Associazione con i rappresentanti della Macedonia. Martedì 24 – Preceduto come d'abitudine dall'Eurogruppo, si riunisce il Consiglio per gli Affari Economici e Finanziari, dove i Ministri saranno chiamati a fare il punto su crescita e crisi dell'economia europea. Contemporaneamente la Presidenza di turno danese enuncerà i punti del programma economico che intende portare avanti nei prossimi 6 mesi e verrà rivisto il patto di stabilità e crescita nei confronti di Belgio, Cipro, Ungheria, Malta e Polonia. Ci sarà spazio anche per la stesura di regolamenti sul mercato finanziario e per l'approvazione dei due progetti sulla governance economica. Dalle ultime indiscrezioni sembra che Francia e Germania concordino nel proporre un ammorbidimento delle regole sulle banche, una misura che dovrebbe svincolare nuovi capital per il rilancio del credito all'economia reale. Mercoledì 25-Domenica 29 – Come di consueto Davos ospita il meeting annuale del World Economic Forum che raccoglie i rappresentanti dei governi e delle multinazionali provenienti da tutto il mondo. Lanciata nel 1971 su iniziativa del professor Klaus Schwab, dell'Università di Ginevra, l'organizzazione internazionale promuove il progresso globale cercando di indirizzare e modellare le agende politco-economiche. Il tema fissato per quest'anno è la "Grande Trasformazione", un maggiore impegno dei leader mondiali per le future generazioni e per un'efficace redistribuzione delle ricchezze tra Nord e Sud del mondo.

AMERICHE STATI UNITI – Ancora stordito dalla batosta elettorale subita da Newt Gingrich nelle primarie in Sud Carolina, Mitt Romney, tra i candidati più ricchi nella storia del G.O.P., corre ai ripari promettendo di rendere pubblica entro mercoledì la sua dichiarazione dei redditidel 2010 e una stima di quella del 2011. Il mormone ex-governatore del Massachussets parteciperà anche ai dibattiti per la tappa in Florida delle primarie, cui aveva deciso di sottrarsi. Se è vero che per la prima volta tre volti diversi hanno vinto nelle prime tre tornate, resta ineguagliato il divario tra la macchina propagandistica di Romney e quella degli sfidanti, costretti a continui appelli per la raccolta fondi. Inoltre nonostante le sconfitte subite il milionario resta l'unico che si è impegnato veramente nella critica strutturale al programma dell'amministrazione uscente. Solo il tempo potrà dirci chi sarà lo sfidante di Barack Obama, per un giudizio complessivo che esuli dagli esiti altalenanti che hanno contraddistinto le scorse settimane. ISOLE FALKLANDS – L'arcipelago conteso rimane al centro della tensione tra Londra e Buenos Aires dopo la chiusura dei porti di Brasile e Uruguay alle navi battenti bandiera britannica in servizio da e verso le isole. La sfida era stata lanciata dal premier David Cameron con l'accusa rivolta alla Presidenta Christina Kirchner di condurre una politica colonialista nei confronti del territorio britannico. La guerra del 1982, un' autentica onta nella storia argentina, ha sancito la militarizzazione di un conflitto politco-diplomatico in corso da anni e i 2000 soldati britannici tra esercito, marina e aviazione stanziati nell'arcipelago sono considerati un insulto alla sovranità dell'intero Sud America. Più volte il Governo inglese ha rifiutato trattative per una pacifica conclusione dell'occupazione che dura dal 1833, quasi a vendicare l'offesa incaccellabile sancita dall'aggressione armata da parte della dittatura militare del Generale Leopoldo Galtieri. MESSICO – Mentre stime non ufficiali segnalano nello stato settentrionale di Chihuahua una mortalità della popolazione civile superiore a quella in Afghanistan nel periodo gennaio settembre 2011, continua la sanguinosa guerra tra Stato centrale e Cartelli della droga. E' di domenica la scioccante notizia dell'ultimo di una serie infinita di atti di efferata violenza, tre uomini armati avrebbero fatto irruzione in un oratorio dello stato di Guerrero nel sud del paese. 7 le vittime tra i fedeli che recitavano il rosario, i feriti sarebbero 5 ma versano in condizioni gravissime, altro elemento poco rassicurante è la telefonata anonima con cui i responsabili dell'azione hanno informato la polizia, quasi a lanciare una sfida alle istituzioni per il controllo del territorio. Intanto nello stato agricolo del Chiapas, già instabile per le tensioni sociali tra governo e contadini, è stato registrato un sisma di magnitudo 6.2 che ha interessato anche lo stato limitrofo di El Salvador senza però provocare perdite ingenti.

AFRICA

SOMALIA – I droni, i gioielli della CIA e dell'esercito americano, sono ormai una visione comune anche sopra i cieli della Somalia da quando la missione dell'Unione Africana AMISOM a Mogadiscio è stata affiancata dall'invasione kenyota nel sud-ovest del paese. Nell'ultimo degli attacchi mirati è rimasto ucciso il leader di Al Qaeda libanese ma con passaporto britannico Bilal Al Barjawi, mentre si spostava in auto da Almada. Il contrasto all'estremismo islamico nel continente africano è infatti al centro della strategia americana di contrasto al terrorismo globale. Intanto fonti locali rivelano il rapimento da parte di Al-Shabaab di circa 200 bambini a soli 30 kilometri dalla capitale, i minori, destinati con ogni probabilità ad imbracciare kalashnikov sono stati prelevati dalla città di Afgoye, sotto il pieno controllo delle milizie. NIGERIA – Continua la guerriglia efferata del movimento islamico dei Boko Haram nel nord del paese, l'attacco nella città di Kano ha infatti causato 160 vittime sancendo la militarizzazione definitiva della lunga campagna terroristica. Proprio il nord, dedito alle pratiche musulmane, è diventato il crogiolo delle alleanze e delle infiltrazioni tra politica, forze dell'ordine e terroristi, che hanno beneficiato dell'odio profondo per il presidente cristiano Goodluck Jonathan. Gli appoggi internazionali al movimento che si batte contro l'educazone occidentale, provenienti dall'algerina AQMI dai somali di Al-Shabaab e dall'area tribale tra Pakistan e Afghanistan fanno pensare ad un incremento delle violenze contro lo Stato nei prossimi mesi. Intanto è riuscito a fuggire uno degli arrestati per la Strage di Natale in cui morirono 37 cristiani, secondo la stampa locale sempre a causa di connivenze con gli apparati di sicurezza. Se la guerra al terrorismo islamico sembra aver lasciato i progetti strategici degli Stati Uniti, in Nigeria è appena iniziata. MADAGASCAR – E' bastato che l'ex Presidente Marc Ravalomanana annunciasse il proprio rientro nell'isola per scatenare nuovamente tensioni nella giunta militare che appoggia l'attuale "Presidente ragazzino" Andry Rajoelina, ex sindaco della capitale Antananarivo. Ravalomanana venne condannato nel 2009 per l'uccisione di una trentina di manifestanti davanti al palazzo presidenziale ai lavori forzati a vita, il suo ritorno in patria è sancito da un accordo, ma non gli è stata garantita alcuna amnistia. Il governo della quarta isola più grande del mondo è fortemente osteggiato dall'Unione Europea, Unione Africana e Nazioni Unite che criticano l'eliminazione o l'arresto di tutti gli oppositori del giovane Rajoelina e la propensione politica delle forze armate che gestiscono de facto il governo del paese. Anche Francia e Stati Uniti stanno a guardare, la politica estera di Ravalomanana aveva sancito infatti un pieno allineamento del Madagascar alle istanze occidentali, favorendo l'ingresso del paese nel libero mercato internazionale.

ASIA

CINA – Dopo lo storico sorpasso degli abitanti delle città nei confronti di quelli delle campagne, la Cina arriva al capodanno rituale, in programma proprio lunedì tra tensioni sociali e nuovi timori. É ancora lo sfruttamento nelle fabbriche il tema che infiamma la cronaca interna, a Wuhan, la Chicago cinese, 150 operai hanno minacciato di suicidarsi nel caso non ottenessero miglioramenti nelle condizioni di lavoro. Intanto sale la paura per il famigerato virus H1N1, l'influenza aviaria, che nel weekend ha causato la morte del secondo infetto in meno di un mese. Infine sembra finita per sempre la corsa verso la ricchezza della tycoon cinese Wu Jing, proprietaria del gruppo Zhejiang Bense Holding e responsabile della distrazione di fondi per un totale di 122 milioni di dollari. L'enorme numero di fallimenti e di suicidi causato dalla maxi-frode ha portato l'alta Corte dello Zhejiang a emettere una sentenza capitale che costituisca una pena esemplare nella lotta alla corruzione. PAKISTAN – Nonostante le spre tensioni tra Washington e Islamabad i droni continuano a sfrecciare nei cieli del Waziristan, l'area tribale crogiolo dell'ideologia talebana. E' della tarda nottata la notizia dell'ennesimo attacco ad un convoglio che avrebbe causato 4 morti tra le fila dei ribelli islamici. Intanto permane il blocco dei rifornimenti ai contingenti in Afghanistan grazie all'accordo temporaneo tra il Presidente Asif Ali Zardari e il capo delle forze armate Ashfaq Parvez Kayani che intendono proporre in Parlamento una votazione sulla questione. Anche l'area del Baluchistan solleva preoccupazioni dopo la notizia del rapimento dei due cooperanti internazionali, è probabile un'imminiente richiesta di riscatto, vero movente del gesto che rende gli stranieri nelle aeree a rischio vere occasioni di finanziamento al terrorismo. INDIA – Nonostante il probabile inasprimento delle sanzioni nei confronti di Teheran, Nuova Delhi sembra decisa a continuare a ricevere i rifornimenti di crude oil dall'Iran, che garantiscono il 12% del suo fabbisogno interno. Un nuovo accordo tra i ministri dell'energia ha sancito che il pagamento delle forniture di greggio avverrà d'ora in poi in rupie e non in dollari, a causa dei provvedimenti contro la proliferazione nucleare degli Ayatollah e delle difficoltà di compensazione tra le due valute. Anche Ankara figura nell'accordo grazie alla mediazione della banca turca "Halkbank" che garantisce il pagamento dei lavoratori delle raffinerie. Intanto l'Iran ha accettato di aumentare le importazioni indiane di beni primari come farina, oli vegetali, riso e the per pareggiare almeno in parte la bilancia commerciale. Potrebbe proprio essere il mercato indo-cinese del petrolio la salvezza dei giacimenti iraniani se, come si annuncia da tempo, entro l'estate dovesse essere varato dall'occidente l'embargo sul greggio degli ayatollah.

MEDIO-ORIENTE

SIRIA – Il piano della Lega Araba per mettere fine alla situazione che scuote Damasco da mesi è stato rifiutato con decisione dal governo del Presidente siriano Bashar al-Assad. La richiesta di fermare le violenze sui manifestanti, indire elezioni politiche e formare un gabinetto emergenziale hanno fomentato i timori di violazioni della sovranità del regime di Damasco, cui restano solo Teheran e Mosca come alleati fidati. Intanto la Lega Araba riunitasi nella serata di domenica a Il Cairo ah approvato la risoluzione dell'emiro del Qatar Al-Thani per il coinvolgimento del Consiglio di Sicurezza ONU nella questione araba. La missione degli osservatori sotto la guida del generale sudanese al-Dhabi è stata prorogata per un altro mese con la promessa di ispezionare altre località. Proprio durante la riunione dell'organizzazione è giunta la notizia del ritiro degli inviati sauditi dalla missione a causa dei continui e ripetuti inadempimenti di Damasco che secondo il Ministro degli Esteri di Ryadh, Saul el Feisal, fanno temere per la sicurezza della missione. IRAN – Nonostante le minacce di chiusura, il passaggio inoffensivo della portaerei americana USS Abraham Lincoln non ha suscitato né aggressioni né proteste, mentre continuano le esercitazioni militari congiunte tra pasdaran e marina nello stretto di Hormuz. Fonti locali riferiscono che il passaggio di navi militari statunitensi è considerato mera routine data l'influenza regionale dell'eterno nemico, le indiscrezioni sembrerebbero confermare l'attuale tendenza verso il raffreddamento dello scontro grazie all'apertura di canali diplomatici non-ufficiali. Il Presidente Mahmud Ahmadinejad si è detto sicuro dell'ineffettività delle sanzioni in arrivo da Bruxelles e promette provvedimenti di rappresaglia economica mentre si dice sicuro della soglia di sopportazione dei suoi cittadini, abituati a vivere nelle difficoltà. Sia Barack Obama che il suo avversario si giocheranno la riconferma sulla questione che raccoglie al suo interno implicazioni geopolitiche, strategiche e di propaganda, mentre potrebbe essere la mediazione del Ministro degli Esteri turco Ahmet Davutoglu portare i paesi rivali al tavolo negoziale. YEMEN – Il Presidente uscente Ali Abdallah Saleh ha lasciato ieri il paese diretto verso l'Oman dove era atteso dal figlio, comandante della Guardia Repubblicana e da altri famigliari. Nonostante il viaggio, che dovrebbe terminare negli Stati Uniti per delle cure cardiache, fosse in programma da tempo, la coincidenza con l'approvazione dell'amnistia per il vertice politico potrebbe sancire denitivamente l'uscita di scena di Saleh dal futuro del paese. Sembra essersi concluso con successo l'intervento diplomatico congiunto di Washington e Ryadh per la soluzione della situazione politica nel paese anche grazie ai buoni uffici dell'inviato speciale dell'ONU Jamal Bin Omar che ha già lasciato il paese. Resta solo la guerriglia islamico-secessionista a turbare il percorso yemenita verso le elezioni presidenziali in programma per il 21 Febbraio, mentre sale a quattro il numero di dittatori estromessi dal potere sull'onda della Primavera Araba.

Fabio Stella [email protected]

366 giorni in un ristretto(ne)

Il Giro del Mondo in 30 Caffè – Il "sette giorni in un ristretto" di ogni lunedì si trasforma all'interno del nostro speciale in una grande agenda globale del 2012, con un particolare focus sulle elezioni di un anno eccezionale, perchè pieno come in poche altre occasioni di grandi appuntamenti elettorali in tutti i continenti. Il 2012 oltre a farsi carico di tutte le aspettative tradite negli anni precedenti raccoglie le eredità della Primavera Araba e si prepara ad ospitare la campagna elettorale più importante, quella per la Presidenza degli Stati Uniti. Anche il vecchio continente è chiamato al banco di prova con le elezioni in Francia e una politica monetaria e fiscale da rivedere in piena crisi

EUROPA

UNIONE EUROPEA – Nonostante i continui scontri tra agenzie di rating, Commissione Europea, BCE e leadership tedesca, l’Eurozona è destinata con tutte le probabilità a passare indenne il 2012, con l’unico dubbio amletico per quanto riguarda le sorti di Atene. La campagna elettorale costringerà necessariamente Nicolas Sarkozy a lasciare al cancelliere tedesco Angela Merkel e al primo ministro-professore Mario Monti la guida del timone europeo attraverso la tempesta. Nonostante gli sforzi per inasprire ancor di più il regime di controlli sui bilanci statali introdotto dalFiscal Compact, l’opzione di un’ulteriore perdita di sovranità creerà tensioni tra i partner di Bruxelles tra cui la già ritiratasi Gran Bretagna e probabilmente gli stati dell’est. Il Fondo Salva-Stati (EFSF) verrà rafforzato, probabilmente con l’aiuto dell’FMI, per garantire una credibile scialuppa di salvataggio ai debiti sovrani colpiti dalla scure della speculazione finanziaria. Paradossalmente non sembra essere in vista alcun implementazione della cooperazione in tema di diplomazia e difesa, materia su cui l’integrazione latita senza speranza lasciando senza risposta il celebre quesito di Henry Kissinger: ”che numero devo comporre per parlare con Bruxelles?”.

22 Aprile, 10-17 Giugno – La Francia affronterà uno dei momenti decisivi per il suo futuro di potenza del vecchio continente, sono in calendario infatti sia le lezioni Presidenziali che quelle per i seggi dell’Assemblea Nazionale. I due principali sfidanti saranno Nicolas Sarkozy, l’attuale leader del movimento popolare e François Hollande, il candidato scelto dai socialisti nelle primarie del 2011. Mentre i sondaggi continuano a certificare la precipitosa caduta dei consensi del Presidente in carica, aggravata anche dal downgrading del debito pubblico di Parigi, lo spettro del Fronte Nazionale della figlia d’arte Marie Le Pen potrebbe erodere parte dei consensi della destra ultra-nazionalista. Difficile che già a fine Aprile esca dalle urne un responso chiaro e definitivo, più probabile la sfida all’ultimo voto con il ballottaggio fissato al 6 Maggio anche se il pacato Hollande parte già favorito rispetto ai candidati socialisti delle ultime elezioni.

4 Marzo – La Russia è chiamata ad eleggere il suo nuovo Presidente, che, nonostante una tornata legislativa poco trasparente e le successive proteste da parte delle opposizioni, sarà il leader del Partito-Stato Russia Unita Vladimir Putin. Oltre alla totale assenza di figure carismatiche paragonabili tra gli sfidanti comunisti e liberaldemocratici, il futuro inquilino del Cremlino gode di un sostegno popolare non indifferente grazie anche al voto assicurato da parte dei membri dell’apparato statale e delle forze di sicurezza. La Primavera non porterà, questa la nostra previsione, alcun vento nuovo nella sterminata Federatsiya il cui popolo, almeno nella gran parte riconosce di non essere ancora pronto per un regime pienamente democratico. Tutto ciò non toglie che la campagna elettorale sarà probabilmente una delle più accanite dal crollo della dittatura sovietica, che i nostalgici e gli anziani richiamano quale simbolo di grandezza. La verità è che anche tra i giovani serpeggia il malcontento contro il duopolio Putin-Medvedev ma l’elemento mancante è la capacità di coinvolgere le masse chiamate ad esprimere il voto decisivo, che resta il vero punto di forza del partito dei due gerarchi.

AMERICA 6 Novembre – I cittadini americani sono chiamati alle urne per eleggere un terzo dei seggi del Senato e tutta la Camera oltre che il Presidente degli Stati Uniti d’America. Nonostante l'aspra lotta con lo sfidante Newt Gingrich sarà probabilmente il magnate mormone Mitt Romney lo sfidante scelto dagli elettori repubblicani per giocarsi contro l’uscente Barack Obama la chance per la Casa Bianca. Le palesi differenze che lo caratterizzano dai precedenti candidati, le convinzioni religiose che lo dalla tradizione repubblicana e le scarse concessioni populistiche che lo distinguono dagli sfidanti alle primarie, ne segneranno, a meno di un vero miracolo, l’amara sconfitta. Nonostante l’opposizione che ha suscitato la riforma del sistema sanitario nell’elettorato repubblicano, Barack Obama rimane il presidente che ha firmato sia la condanna a morte del nemico pubblico n°1, Osama Bin Laden, sia il foglio di via per migliaia di reduci con il ritiro dall'Iraq. L’amministrazione ha gestito con efficacia e consapevolezza le sfide che gli si sono presentate, sia in politica estera, che in politica economica, anche grazie al compromesso al Senato con l’opposizione, sancendo così una probabile riconferma per altri 4 anni.

1 Luglio – Anche il Messico, altro stato federale dell’America del Nord è chiamato alle urne per eleggere il futuro Presidente e 628 membri tra Camera e Senato in una situazione di tensione che sconvolge la vita quotidiana della popolazione. Mentre il partito di governo PAN stenta ancora a trovare il proprio candidato, il Partito Rivoluzionario Democratico rilancia Andrés Manuel López Obrador e il Partito Rivoluzionario Istituzionale il volto pulito della politicaEnrique Peña Nieto. Obrador venne sconfitto nella criticatissima tornata elettorale del 2006 e sembra rappresentare il vero cambiamento per la maggioranza dei messicani, Nieto ha ottenuto il consenso popolare da Governatore del distretto federale grazie ad opere pubbliche colossali. Con il Partito di Azione Nazionale destinato a lasciare il posto ad uno dei due "rivoluzionari" la guerra per il controllo del territorio e contro gli 11 cartelli della droga resterà comunque il leitmotiv del prossimo governo. Tuttavia solo una vera politica regionale condivisa di soppressione della domanda di stupefacenti garantirebbe un futuro meno opprimente ai cittadini messicani.

7 Ottobre – Sfida decisiva tra il Polo Patriótico e la Coalizione dell'Unione Democratica, le due formazioni politiche che raggruppano i principali partiti venezuelani. Hugo Chàvez, al potere dal 1999 avrà il piacere di scoprire chi tra 5 candidati sarà il suo diretto sfidante solo dopo le primarie unitarie del 12 Febbraio. I sostenitori delle opposizioni sono chiamati a scegliere tra Diego Arria, ex rappresentante venezuelano presso le Nazioni Unite, Henrique Capriles Radonski, ex Presidente della defunta Camera dei Deputati, Marina Corina Machado leader dell'ONG Sùmate, Pablo Pérez Alvarez governatore dello Stato di Zulia e Léopoldo Lopez ex sindaco di Chacao, leader di Voluntad Popular. I papabili sono in realtà l'unica donna candidata e il vero tormento di Chavez, ovvero il giovane Lopez che nonostante una sentenza vincolante della Corte Interamericana dei Diritti Umani, resta bandito dai pubblici uffici grazie ad un'accusa di corruzione montata ad hoc dal governo. Come tutte le elezioni in regimi non democratici, quelle di ottobre restano un vero punto di domanda, solo un candidato che smuova perentoriamente l'opinione pubblica ammansita potrebbe sconfiggere il fantasma di probabili brogli ed irregolarità alle urne.

ASIA CINA – Il diciottesimo Congresso del Partito Comunista Cinese si terrà in autunno e nominerà il suo nuovo segretario, l'attuale vicepresidente Xi Jinping. Come stabilito secondo la rigida prassi della successione al potere lo stesso Xi sarà nominato Presidente della RPC nel 2013. Nello stesso anno l'attuale vicepremier esecutivo Li Keqiang, giurista ed economista di fama mondiale, succederà all'attuale premier Wen Jiabao e coordinerà le attività del Comitato Centrale dove continueranno a sedere gli alti funzionari Li Yuanchao, Bo Xilai e Wang Qishan. La girandola di nomi può sembrare caotica in sé ma rispecchia decisioni prese in realtà nelle stanze dei bottoni di Pechino atte ad evitare lotte intestineche caratterizzarono gli anni bui della Rivoluzione Culturale. Solo funzionari di carriera statale o militare giunti nella fascia tra i 60 e i 70 anni possono ambire ai posti chiave del regime comunista, una somma di primavere che garantisce un riparo da scelte avventate e politiche dissennate. I due cavalli di razza del futuro istituzionale di Pechino, la quinta generazione, sono in realtà i protegé di Wen Jiabao e Hu Jintao, l'uno favorevole a politiche di redistribuzione delle ricchezze dalle città alle campagne, proiettato al dinamismo economico delle coste il secondo. 1 Aprile – Suu Kyi correrà per le elezioni politiche birmane che mettono in palio per le opposizioni solo 48 seggi dei 664 totali che restano affidati per il 25% ai militari di carriera e per la restante parte ai membri del Partito-Stato del Consiglio della Pace e dello Sviluppo. La complessa formula elettorale, mutuata dal sistema indonesiano ideato da Suharto, garantisce alla dittatura militare di Naypyidaw un riparo sicura dalle proteste di massa generatesi dopo le elezioni del 1992 in cui la Lega Nazionale per la Democrazia ottenne circa l’80% dei consensi. Questa volta, ne siamo sicuri, il regime non permetterà alcuna sorpresa e anche la leadership LND sembra convinta di poter ottenere al massimo qualche decina di seggi, che le permetterebbero comunque un ruolo di garante e maggiore visibilità. Aprile – Dicembre – Il 2012 sarà un anno fondamentale per la politica sud coreana, non solo per la rituale coincidenza delle elezioni legislative e presidenziali, ma per la futuribile trasformazione del sistema di Seoul verso il bipolarismo. La formula di Duverger introdotta nell’ultima legge elettorale dovrebbe portare ad una divisione dei 299 seggi in ballo tra il tradizionale Grand National Party (GNP) e il Democratic Unified Party (DUP) dati entrambi al 30% dei consensi dall’ultimo sondaggio. Il dissenso è però diffuso tra i coreani e si prospetta che candidati indipendenti abbiano ampi spazi di manovra, con i votanti indecisi stimati intorno al 32%. La leader del GNP Park Geun-hye sembra dividersi il trono di front runner con Ahn Cheol-soo, il brillante professore nonché fondatore della Ahnlab Inc. ma entrambi restano invisi a buona parte della popolazione. La Park ha pubblicato in estate un saggio sulla nuova politica di conciliazione con Pyongyang, denominataTrustpolitik, che appare una versione aggiornata della metafora del bastone e della carota, dato che offre benefici e aperture contrapposte ad immediate rappresaglie in caso di provocazioni.

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AFRICA 26 Febbraio – Il Presidente uscente Abdoulaye Wade cercherà una riconferma alle imminenti elezioni presidenziali dopo aver scatenato proteste di piazza nel giugno scorso con il tentativo di far passare una riforma elettorale per garantirsi la successione del figlio Karim. Wade dovrà vedersela con la contestazione del movimento giovanile scaturito dalle proteste M23 che ha trovato, grazie alla popolarità della leadership costituita principalmente da cantanti rap, ampio sostegno nella popolazione. Gli sfidanti sono l'eterno rivale e leader del Parti Sociaiste Ousmane Tanor Dieng e il famosissimo cantante Yossou Ndour nonchè imprenditore mediatico, i più noti di una ventina di altri candidati tra cui anche l'ex funzionario ONU Ibrahima Fall e il giornalista d'assalto de "La Gazette" Abdou Latif Coulibaly. Intanto il destino di Wade è ancora in bilico, solo il 27 gennaio il Consiglio Costituzionale si potrà pronunciare sulla legittimità di tutte le candidature e quella del Presidente uscente sarebbe illegittima stando alle leggi in vigore e all'opinione delle opposizioni. Le ingerenze francesi e statunitensi sembrerebbero optare per un ritiro dell'appoggio all'85enne presidente cui Washington ha chiesto di farsi da parte con una lettera del 14 dicembre. Intanto Parigi si appresta a ridurre ulteriormente il suo contingente a Dakar, passato da 1200 a 400 uomini, saranno solo 300 gli Elementi Francesi in Senegal (EFS) nel 2014. Marzo – Resta ancora sconosciuta la data e la sorte delle prossime elezioni presidenziali promesse dalla giunta militare del Feldmaresciallo Muhammed Hussein Tantawi dopo la cacciata di Hosni Mubarak. Una settimana fa, il candidato di Piazza Tahrir, l’ex Presidente dell’AIEA Mohamed el-Baradei ha rinunciato definitivamente alla corsa per il seggio presidenziale, in parte per l’assenza di democrazia nell’attuale regime, in parte per la consapevolezza dello strapotere delle formazioni islamico-moderate come i Fratelli Musulmani, accreditati al 46% circa dei consensi. La stessa scelta ha portato Naguib Sawiris magnate copto della compagnia telefonica Wind, a ritirare dalla corsa il suo partito “Egiziani Liberi”, che avrebbe garantito alla minoranza cristiana una speranza di rappresentanza politica. La situazione nel paese resta appesa ad un filo, con la voce delle proteste soffocata da un regime tanto liberticida quanto il precedente, con i leader liberal-democratici fuori dalla corsa, restano solo i partiti islamici compresi i salafiti di “al-Nour” ad offrire scenari lontani dalla dittatura militare. Maggio – Non lascia molto tempo l'ultimatum sancito dalla Conferenza Consultiva Nazionale Costituzionale della Somalia del 21-23 Dicembre scorso. Al meeting tenutosi a Garowe capitakle del Puntland hanno partecipato Agostino Mahiga, rappresentante speciale del Segretario Generale per la Somalia, il Presidente Transitorio della Repubblica somala, lo sfiduciato ex-speaker del Parlamento Sheikh Sharif Hassan, il Primo Ministro e il Presidente del Puntland Abdirahman Farole. Entro maggio i firmatari dei ribattezzati "Principi di Garowe" si impegnano a stilare entro maggio una carta costituzionale per le istituzioni dell'intera Somalia, che sarà in seguito sottoposta a referendum. Inoltre il Parlamento sarà ridotto della metà dei suoi membri, che passeranno da 550 a 225, un 20% dei deputati dovrà essere di sesso femminile. La Conferenza oltre a condizionare l'applicazione della formula 4.5 riducendo il dissenso nei confronti dei due sceicchi Sharif Hassan e Sharif Ahmed, garantirà maggior peso ai rappresentanti islamici rispetto alle minoranze etncihe dei clan. Dello stesso avviso sembra essere l'ex Presidente somalo fino al giugno 2011 Mohamed A. Mohamed che ha criticato il documento in primis per la partecipazione dello sfiduciato speaker del parlamento ma soprattutto per l'assenza di rappresentanze della società civile, dello Stato autonomo del Somaliland e delle controparti moderate di Al Shabaab, con cui occorre iniziare un dialogo di pace per garantire l'uscita del paese dall'instabilità.  LIBIA – E’ in programma per l’estate la tornata elettorale per la composizione di un Comitato Generale Nazionale, un’assemblea che avrà il compito di scrivere la nuova Costituzione del paese. Mentre sembra scontato un 10% di seggi destinati a rappresentanti di sesso femminile, non sono ancora chiari argomenti più scottanti quali la formazione di partiti politici, assenti per legge nel regime, la formula elettorale e la divisione in circoscrizioni del paese, comprese le modalità di tutela delle minoranze. Molto probabilmente i funzionari statali di Gheddafi saranno esclusi dalla competizione alle urne così come i membri dei comitati rivoluzionari e i condannati per reati gravi. La creazione la scorsa settimana del primo partito islamico a Bengasi, chiamato “Riforme e sviluppo”, sembra prospettare anche per la Libia post CNT un futuro di riformismo islamico moderato. Pur di salvare Tripoli dalla frammentazione politica in emirati, gli alleati occidentali potrebbero essere pronti a sostenere qualsiasi esito elettorale riesca a garantire al paese un futuro nell’unità nazionaleMEDIO-ORIENTE 21 Febbraio – Con l'approvazione parlamentare della legge sull'immunità del Presdente spodestato Ali Abdullah Saleh si fa più certa la data delle elezioni presidenziali, in programma nell'ultima decade del mese prossimo. L'accordo tra le opposizioni ha portato alla formazione del General People's Congress (GPC) che appoggerà la candidatura dell'attuale Presidente ad interim Abd Rabbuh Mansur Al-Hadi che resterà probabilmente senza avversari. Spetterà al vincitore la scelta del Primo Ministro e dei 111 membri del Consiglio della Shura. Le notizie che giungono sul fronte della lotta all'estremismo islamico, come la presa da parte di Al Qaeda della città di Rada'a a soli 150 km dalla capitale, e le minacce all'unità del paese restano le vere ombre sulle elezioni. Il Ministro degli Esteri Abu Bakr al-Qirbi si è detto preoccupato della situazione e ha proposto un rinvio per motivi di sicurezza, il Premio Nobel per la Pace Tawakkul Karman ha invece denunciato di recente i legami tra il precedente regime e le formazioni qaediste, utilizzate e comandate per ottenere il sostegno della comunità internazionale. 29 Marzo – Nel mezzo della guerra diplomatica conl'occidente la Repubblica Islamica dell'Iran apre le urne per rinnovare i 290 seggi dell'Assemblea Consultiva Islamica. 5 seggi sono garantiti per legge alle minoranze religiose mentre i restanti sono attribuiti secondo la formula del voto multiplo non trasferibile, tanti voti per elettore quanti seggi da assegnare per distretto. Le due alleanze, Conservatori e Riformisti, raggruppano ciascuna 5 formazioni, alcune speculari anche nel nome e candidano rispettivamente Ali Larjani della Società Islamica degli Ingegneri e Mohammad Ali Najafi a capo del partito più vicino all'ex Presidente Akbar Hashemi Rafsanjani. Un altro ex Presidente, il riformista Mohammad Khatami aveva chiesto ufficialmente la liberazione degli sfidanti di Ahmadinejad alle Presidenziali del 2009 Mousavi e Karroubi entrambi ai domiciliari per aver partecipato alle proteste di piazza. Le scorse legislative, tenutesi nel 2008 sancirono una vittoria schiacciante dei conservatori che ottennero 195 seggi e il 67% dei consensi, sembra che da qui a marzo sia in programma una campagna di arresti mirati tra i riformisti che potrebbero perdere uomini di punta in vista dello scontro elettorale.  Marzo-Maggio – Nonostante il clima surreale di drôle de guerre, il Presidente Bashar al-Assad ha annuciato il 10 gennaio l’ennesimo rinvio delle elezioni legislative in programma per Febbraio. Solo dopo il referendum per l’approvazione della nuova Costituzione, che si terrà a metà marzo, si potrà votare per la scelta dei 250 membri del Consiglio del Popolo. Nonostante gli scarsi risultati sull’escalation di violenze della missione degli osservatori della Lega Araba è probabile che venga prorogata per almeno un altro mese, visto il consenso espresso dai vertici di Damasco. Intanto a fine mese il Dipartimento di Stato americano ha annunciato la chiusura dell'Ambasciata americana a Damasco per motivi di sicurezza, in realtà la mossa sembra essere un ulteriore tentativo di pressione politico-diplomatica sul governo di al-Assad. Le sorti di uno dei paesi guida del mondo arabo sono appese al filo delle azioni del Consiglio Nazonale Siriano e del suo braccio armato, l'Esercito Libero Siriano, che continuano nella loro strategia di guerriglia forti del sostegno turco e di legami con le forze di sicurezza. Più volte la lega Araba ha respinto le richieste di coinvolgimento del Consiglio di Sicurezza ONU che resta bloccato sulla questione siriana, dalle minacce di veto di Cina e Russia.  4 Maggio – L'Autorità Nazionale Palestinese si avvia verso le elezioni presidenziali e legislative, in programma ad inizio maggio nella Striscia di Gaza e in Cisgiordania . Le elezioni del 2006 portarono ad una separazione de facto dei territori palestinesi, con Hamas al potere a Gaza e Fatah nella West Bank, i tentativi di mediazione tra le due frange hanno subito un'accelerazione dalla richiesta di ammissione all'ONU decisa unilateralmente da Abu Mahzen. Con l'arresto nella scorsa settimana di Abdel Aziz Dweik speaker del defunto Parlamento Palestinese Israele sembra confermare la strategia di contrasto ai colloqui tra i due movimenti. Intanto Khaled Meshaal, leader di Hamas ha dichiarato di non volersi riproporre per la guida del politburo. Il movimento islamico di resistenza ha annunciato che 200 impiegati dell’ufficio di Hamas hanno già lasciato Damasco per Turchia, Libano, Qatar, Sudan e Egitto, diaspora frutto dell'allontamento dal regime di Bashar al-Assad e dall'alleanza con Ankara sostenuta dal Ministro degli Esteri turco Ahmet Davutoglu. L'ANP intanto stenta a trovare il suo uomo per le elezioni dato che il popolare Marwan Barghouti, detenuto in Israele da 10 anni, non è stato rilasciato nel maxi-scambio per la liberazione di Gilad Shalit. Fabio Stella [email protected]

L’India latina

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Dopo Pechino, Delhi sembra essere l’altro gigante dei BRIC che potrebbe rafforzare i propri rapporti commerciali con i paesi dell’America Latina e Caraibi. La patria di Gandhi supererà, infatti, entro il 2050 i cinesi nel numero di abitanti. Da qui è facile prevedere una crescita del fabbisogno di materie prime e risorse naturali e la necessità, quindi, di cooperare economicamente con attori internazionali di rilievo come i paesi del continente americano

UN PIATTO RICCO – Quello dell'America Latina e dei Caraibi è un mercato ghiotto fatto di 33 paesi, con una popolazione di 580 milioni di persone e un PIL regionale di 4900 miliardi dollari. Più di cinque volte superiore a quella dell'India e con un volume commerciale di circa 1,6 miliardi di dollari, pari al 6% del totale mondiale. Dopo una flessione di 1,7 punti percentuali nel 2009, l’economia del continente latinoamericano è cresciuta nel suo complesso del 6,1% nel 2010, con la maggior parte dei paesi della regione che hanno tenuto botta alla crisi economico-finanziaria iniziata nel 2008. COME LA CINA? – Al contempo l'India ha registrato significativi cambiamenti strutturali. La quota dei servizi è aumentata, mentre quello del settore agricolo è diminuita. In India il rapporto commercio – PIL  è aumentato considerevolmente negli ultimi dieci anni, ma il suo livello di integrazione commerciale internazionale resta basso rispetto a quella di altri paesi asiatici. Il trend sta comunque cambiando e, secondo un recente studio della Cepal, l'economia indiana sta diventando sempre più orientata all'esterno, con la quota delle esportazioni (beni e servizi) in aumento dal 7% nel 1990 al 19% nel 2010. A farla da padrone nelle relazioni bilaterali sono comunque paesi come Corea o Cina e quindi l’India al momento ha ancora ampi margini di crescita. SCAMBI COMMERCIALI IN CRESCITA – Analizzando i dati il valore medio annuo dell’import/export indiano durante il biennio 2009-2010 è passato dai 215 ai 329 miliardi di dollari. Il continente di casa, l’Asia, è ovviamente la destinazione preferita dei prodotti indiani, con cui scambia il 55% delle esportazioni e il 61% delle importazioni totali. L'Unione Europea ha rappresentato, invece, quasi il 19% e 13%. In questo contesto, l’America Latina ed i Caraibi non possono ancora considerarsi un importante attore economico per gli indiani. Il flusso di prodotti scambiati si aggira infatti intorno ad un scarso 4% e perde il confronto anche con l’Africa, che ammonta quasi al doppio. C’è comunque da considerare che il commercio con l'India era trascurabile fino a dieci anni fa, mentre nel 2010 le importazioni hanno raggiunto un volume stimato in 10 miliardi di dollari e il valore delle esportazioni della regione verso l'India ammonta a 9 miliardi di dollari. UN GRANDE IMPORTATORE … – Anche se in misura minore rispetto alla Cina, l'India è un grande importatore e consumatore delle materie prime di cui l'America Latina è ricca. Il paese asiatico, ad esempio, è un importante produttore e consumatore mondiale di grano, riso, cotone e zucchero, ma la sua quota d’importazione di olio di soia è piuttosto elevata. Di contro la produzione, il consumo e quindi l’importazione di minerali, metalli e petrolio greggio è molto inferiore a quello dei prodotti agricoli. Tuttavia, l'India sta cercando di diversificare i suoi fornitori e in questo senso, il continente latinoamericano deve competere con altre regioni del mondo per la fornitura di materie prime. Entrando nel dettaglio delle statistiche fornite dalla Cepal, il commercio della regione con l'India è concentrata ad un ristretto numero di paesi. I quattro maggiori esportatori, Brasile, Cile, Messico e Argentina, rappresentato quasi il 90% delle esportazioni, i paesi dei Caraibi invece rappresentano l’1,3%.

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ED ESPORTATORE – In futuro il gigante asiatico potrebbe anche diventare fonte strategica della domanda della regione latinoamericana. Oltre alle posizioni dominanti che la Cina ha consolidato in alcuni settori industriali, Brasile e India, e in misura minore, la Federazione Russa, sono diventati infatti anche grandi produttori di manufatti. In questo contesto l’India si classifica tra i primi 15 paesi produttori nel tessile, prodotti chimici, metalli di base e strumenti elettronici. Messico, Argentina e Colombia rimangono tra i più importanti destinatari delle importazioni indiane, ma a farla da padrone è il Brasile con quasi il 40% del totale della regione. Inoltre l'India offre mercati significativi per i prodotti agroalimentari di un continente, quello latinoamericano, che è ricco d’acqua e di superfici coltivabili con 885 milioni di ettari di terra che potrebbero essere utilizzati per la produzione, pari a un terzo del totale mondiale. Sulla base delle proiezioni di crescita della popolazione mondiale, serviranno 1 miliardo di tonnellate di grano e 200 milioni di tonnellate di carne per sfamare la popolazione mondiale nel 2050. L’America Latina ha un'abbondanza di risorse naturali che rappresentano un asset strategico anche per paesi emergenti come l’India. IN COSA INVESTE L’INDIA – Infine c’è la grossa fetta degli investimenti privati. In questo senso le economie sviluppate sono state le principali destinatarie dei capitali indiani. Nel periodo 2002-2009, l'Europa ha ricevuto più di 30 miliardi di dollari dall'India, assorbendo oltre il 40% del totale. Tra le regioni in via di sviluppo, l'Asia è in crescita quale regione ospitante gli investimenti diretti dell'India (IDE), assorbendone quasi il 30% del totale. L'America Latina e i Caraibi hanno ricevuto, invece, quasi il 4% di tali investimenti tra il 2002 e il 2010, confermando anche sotto questo aspetto di non essere una meta privilegiata. Tuttavia, dalla lista delle importanti aziende indiane che operano in America Latina e nei Caraibi si deduce che significativi investimenti sono stati fatti nella regione nel settore minerario e degli idrocarburi. A differenza della Cina, settori come il tessile, non sono stati un obiettivo di investimento diretto come quelli delle costruzioni e dei servizi di outsourcing. Giganti come la Tata Consultancy Services sono presenti, infatti, in Argentina, Brasile, Cile, Ecuador, Colombia, Messico, Perù e Uruguay. Anche se è ancora all’inizio dunque, l'India sembra intenzionata ad ampliare e diversificare i propri investimenti nel continente latinoamericano in varie tipologie di servizi, soprattutto outsourcing e sviluppo software. UN PARTENARIATO AUSPICABILE – In conclusione, per sviluppare un consolidato flusso commerciale e d’investimento la regione latinoamericana è chiamata in primo luogo ad un sfruttamento più efficiente delle proprie risorse naturali e, dall’altro lato, ad aumentare la produzione industriale e la competitività internazionale dei suoi prodotti. La capacità dei paesi dell’America Latina di reggere all’urto della crisi finanziaria ha senz’altro accesso l’interesse dell’India nella regione, e nello stesso tempo gli attori latinoamericani hanno rafforzato il loro entusiasmo nel considerare l’economia indiana come un futuro partner commerciale. Insieme le due regioni, quella asiatica e latinoamericana, potrebbero con una proficua cooperazione economica superare il deficit che hanno nei confronti dei paesi più sviluppati: riducendo gli alti indici di disuguaglianza sociale e ponendo rimedio ad una seria mancanza di infrastrutture, tecnologia, innovazione e competitività. Alfredo D'Alessandro [email protected]

Lotta per la sopravvivenza

Il Giro del Mondo in 30 Caffè 2012 – Ormai i contrasti Iran-Occidente vengono registrati continuamente e le analisi si susseguono a ritmo incalzante. Noi abbiamo osservato l’intera questione già una volta da parte iraniana e vogliamo ripetere l’esperienza oggi per capire come le mille sfaccettature del problema siano parte di un unico discorso che può essere riassunto con un solo concetto: sopravvivenza. E in particolare: sopravvivenza del regime

 

ORIGINI – La nostra analisi parte necessariamente dalle minacce esterne, ovvero dalla generale ostilità degli attori internazionali verso gli Ayatollah. L’Iran è una nazione sciita immersa in un mare sunnita e dunque da secoli avvolta in una mentalità d’assedio; in più, la rivoluzione del 1979 ha portato a una crescente ostilità verso gli Stati Uniti – rei anch’essi di avere avuto un approccio intollerante fin dai primi giorni, contribuendo a un clima di sfiducia reciproca che si è trascinato fino a ora. Così per la leadership di Teheran l’esterno è un mondo che sostanzialmente non fa altro che pianificare la caduta del regime per sostituirlo. Come si risponde a una tale minaccia? In due modi: innanzi tutto costruendo agganci con quelle nazioni che ancora non hanno ostracizzato il paese (per motivi politici o economici). Secondariamente è necessario tutelarsi militarmente, costruendosi un’aura di deterrenza.

 

NUCLEARE – Questo ci porta al perseguimento del programma nucleare. Oltre ai risvolti economici ed energetici dell’affare (l’Iran ha bisogno di energia a basso costo perché la sua industria petrolifera e di gas naturale è inadeguata) la possibilità di arrivare a costruire una bomba atomica costituisce per i leader iraniani il maggior deterrente oggi esistente. Nella realtà, come spesso succede, le percezioni non sono però sempre corrette e possono portare a errori di valutazione gravi: così proprio il programma nucleare è in realtà diventato il maggior stimolo per le potenze estere per disarmare e possibilmente anche operare un cambio di regime (regime change), soluzione ormai considerata dalla rivista americana Foreign Affairs come l’unica che possa rivelarsi duratura. Infatti mentre un arsenale nucleare può sicuramente contribuire a evitare una guerra convenzionale – ma come insegna la storia, a prezzo di rischi enormi sul piano della sicurezza internazionale – certamente non fermerà i tentativi esterni di portare il paese a un cambiamento. In più l’Iran ora non possiede ancora la bomba atomica e teme una campagna di bombardamento sui propri siti nucleari e sulle installazioni militari, attacco che anche nella migliore delle ipotesi causerebbe gravi danni. Dunque il concetto di sopravvivenza ora si applica anche a quella del programma nucleare, che per l’Iran come abbiamo visto è vitale, e delle sue forze di sicurezza che proteggono il regime, i Pasdaran.

 

HORMUZ – Come garantire perciò quest’altra sopravvivenza? Cercando un altro elemento di deterrenza: lo stretto di Hormuz. La sua importanza viene descritta quasi quotidianamente dai media, ma quelle che vanno osservate sono le dinamiche in corso. E’ un gioco sottile dove il non detto e il non fatto hanno molta più importanza di ciò che viene davvero detto e fatto: bisogna infatti capire cosa c’è dietro, perché ogni messaggio ha due interlocutori: l’esterno del paese, ovvero gli avversari, e l’interno, ovvero la propria opinione pubblica. L’Iran sa bene che bloccare per davvero lo stretto in assenza di dichiarazione di guerra equivale a un casus belli che l’intera comunità internazionale condannerebbe e che nemmeno i suoi alleati russi e cinesi potrebbero accettare. Rimane quindi una mossa da paventare più che mettere in pratica, anche perché è un’arma “a colpo singolo”, in quanto le forze iraniane potrebbero sì bloccare o ridurre il passaggio di greggio dallo stretto, ma per farlo dovrebbero impegnare gran parte delle proprie forze navali e missilistiche costiere, che verrebbero poi rapidamente eliminate dalla risposta occidentale.

 

RISCHI – Meglio allora soltanto eseguire delle manovre, che pur non cruente hanno avuto lo stesso effetto: per una giornata intera il traffico di navi civili è calato sensibilmente per paura di incidenti… e questo ci fa capire che forse il vero problema non è un blocco attivo (appunto difficilmente sostenibile per più di 1-2 giorni) ma la paura che causerebbe negli armatori e nei proprietari delle navi petroliere e che costringerebbe una numero considerevole di vascelli militari a impegnarsi in una close escort, una scorta ravvicinata per garantire il passaggio indenne. Tutto questo in aggiunta a un probabile aumento del prezzo del greggio che però verrebbe calmierato dall’uso di canali alternativi e dall’impiego delle riserve strategiche nazionali, che ricordiamo sono ai massimi livelli da un paio di anni. Del resto nemmeno l’Iran può essere felice di un’eventuale chiusura in quanto nonostante le sue riserve la capacità di raffinazione è molto ridotta e il paese deve importare gran parte del carburante per veicoli. Pertanto fare la voce grossa e minacciare è al momento l’opzione più sicura, anche perché è necessaria per conservare un’altra sopravvivenza, quella interna.

 

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SITUAZIONE INTERNA – Il cosiddetto movimento “verde”, che aveva animato la rivolta anti-Ahmadinejad nel 2009-2010, è ormai senza forza dopo gli arresti di molti leader e la repressione delle manifestazioni di piazza. Il motivo risiede anche nel fatto che buona parte della popolazione rurale e dei Bazarji non ha partecipato alle rivolte; il regime però, per evitare che la protesta si estenda anche a queste categorie, deve mantenere un’immagine di grande forza. Dunque accanto alla repressione delle forze di sicurezza va abbinata una propaganda che mantenga la pretesa di poter affrontare da pari a pari le grandi potenze. Altrimenti, è il ragionamento di fondo, risposte deboli porterebbero la popolazione a riprendere la via delle proteste. Già le ultime sanzioni e l’inflazione galoppante stanno minando il morale della popolazione e le proteste aumentano.

 

LINEARE NO? – Tutte queste cose sembrano complicate, ma hanno invece una importante linearità: per sopravvivere all’accerchiamento (vero o presunto) internazionale l’Iran deve raggiungere la tecnologia nucleare, che a sua volta è a rischio e quindi deve proteggerla tramite minacce di altro genere, come quelle riguardo allo stretto di Hormuz. Per questo motivo le potenze occidentali sono obbligate a rispondere con altre minacce e a sua volta l’Iran non può lasciarle cadere perché significherebbe perdere la faccia con la propria opinione pubblica interna e rischiare dunque la propria sopravvivenza interna. Da qui la necessità di rispondere con altre minacce alzando ulteriormente i toni: l’annuncio di nuove esercitazioni e nuovi armamenti schierati. E’ chiaro che una spirale di questo genere, se viene proseguita, può arrivare soltanto allo scontro nel momento in cui, a forza di rialzi, uno dei due contendenti arriva infine, consapevolmente o meno, ad attraversare una linea (tramite un’azione particolarmente aggressiva) alla quale l’altro può rispondere solo con un intervento armato. Un errore di valutazione su cosa l’altro consideri vitale può risultare fatale.

 

STEMPERIAMO GLI ANIMI – In quest’ottica vanno visti due eventi: uno è stata una dichiarazione di un alto comandante dei Pasdaran che ha espresso come l’Iran non abbia davvero l’intenzione di chiudere lo stretto. L’altra è stata la decisione USA di non far attraversare lo stretto alla portaerei americana USS John C. Stennis e la lettera diretta rivolta al governo iraniano tramite la Svizzera. Nessuno di questi gesti va visto come causati da paura dell’altro, ma dal timore che, appunto, l’escalation giunga a livelli inaccettabili. In particolare gli USA qui possono permettersi di essere parzialmente più flessibili in quanto la loro opinione pubblica è più interessata alla situazione globale e non alle singole provocazioni, mentre Teheran potrebbe vedersi costretta a rispondere a ogni gesto avendo molto meno spazio in tal senso. Non solo: l’avanzamento del programma nucleare è comunque una provocazione al quale l’Occidente (e Israele) prima o poi potrebbe decidere di rispondere, mentre la lotta interna alla repubblica islamica tra Ahmadinejad e Khamenei (anche qui una questione di sopravvivenza del regime nella sua forma più religiosa rispetto all’avanzata di tendenze dittatoriali basate più sull’economia) rischia di aggiungere un’altra incognita: e se una delle due fazioni iraniane cercasse di screditare l’altra facendo precipitare il conflitto o creando un incidente ad hoc? A volte l’istinto di sopravvivenza porta a compiere gesti imprevedibili.

 

Lorenzo Nannetti

[email protected]

La geopolitica della migrazione

Il fenomeno migratorio cinese nel sud-est asiatico è stato per secoli ed è ancora oggi un importante strumento di esercizio del soft power e dell’influenza politica, culturale e linguistica, e una straordinaria risorsa per la realizzazione degli obiettivi geopolitici di Pechino nella regione. Il Prof. Pàl Nyiri, docente di Storia delle Migrazioni alla Vrije Universiteit di Amsterdam, ci ha raccontato i risvolti di questa “creeping invasion” cinese, mostrandoci come Pechino è percepita dai paesi vicini

Le mille tessere del puzzle

Il Giro del Mondo in 30 Caffè – Dieci mesi di rivolte e più di 5.000 vittime civili accertate dalle Nazioni Unite. Questi sono i dati più allarmanti di un Paese ancora lontano da una possibile pacificazione. Uno scenario complicato dalla mancanza di volontà del Presidente Bashar al-Assad di abbandonare il potere e dall'importanza strategica della Siria nello scacchiere mediorientale. Damasco si trova a dover affrontare una nuova rivolta – diversa nel contesto e nelle motivazioni dalla precedente del 1982 – che mina la stabilità nazionale interna e regionale. Ogni variabile sembra essere la tessera di un puzzle complicatissimo

IL CAOS INTERNO E LA PAURA DEL TERRORISMO – La rivolta siriana, nata come rivolta sociale dei contadini contro il regime per la democrazia, ha sempre più assunto negli ultimi mesi la forma di una rivolta sunnita o guidata dai sunniti contro l'establishment alawita. Le principali piazze coinvolte sono state Homs, Hama, Dara'a, Banyas, Iblid, Dair az-Zor, Latakia, Qamishli, Aleppo e la stessa Damasco, in cui recentemente le proteste sono aumentate e sfociate in vere e proprie rivolte armate. Pur in un momento di gran difficoltà, il regime ha il vantaggio di trovarsi contro un' opposizione molto variegata e poco coesa: dalla resistenza locale guidata dai Fratelli Musulmani e dai curdi nelle città del Nord, passando per il Free Syrian Army, attivo ai confini con la Turchia, e per il Consiglio Nazionale Siriano (CNS) presieduto da Burhan Ghalioun e ospitato ad Istanbul ad, infine, il Comitato di Coordinamento Nazionale (CCN) guidato da Hassan Abdul Hazim. In particolare, gli attriti tra le ultime due sigle rendono di fatto le opposizioni litigiose e poco unite fornendo, perciò, un elemento di protezione al regime. Questa situazione di frammentarietà e complessiva destabilizzazione, fa si che la Siria possa somigliare sempre più al vicino iracheno. Un chiaro esempio di ciò sono gli attentati kamikaze del 23 dicembre e del 6 gennaio scorso a Damasco. L'esplosione di due autobombe ha prodotto diverse decine di morti e centinaia di feriti civili. La tipologia degli attacchi è molto simile a quella attuata in Iraq e, anche se il governo ha attribuito le responsabilità ad al-Qaeda, nessuna sigla del network terroristico ha mai rivendicato la paternità degli attentati. Questa ipotesi è stata smentita con prontezza anche dalle cosiddette “Brigate di Abdullah Azzam”, gruppo terroristico legato ad “al-Qaeda”, attivo soprattutto nel Sud del Libano, ritenuti coinvolti nei recenti eventi. Inoltre numerosi giornalisti (come l’italiano Lorenzo Trombetta), analisti e attivisti hanno messo in dubbio la veridicità della versione del governo: le immagini, le ferite e i corpi non sembrano compatibili con il tipo di esplosione e si moltiplicano le accuse al regime di aver fabbricato ad arte l’evento o di essere esso stesso dietro agli attentati. Essendo impossibile una verifica indipendente sul posto nessuna versione può essere verificata, tuttavia l’establishment alawita ha ripetutamente alimentato lo spauracchio qaedista, spiegando come l’instabilità del Paese sia da imputare “all’opera di poche centinaia di criminali e terroristi, al soldo di forze straniere che tenterebbero di rovesciare un governo legittimo”. I dubbi contribuiscono però a ridurre l’efficacia di questo tipo di messaggio.

CONFUSIONE ANCHE SUL FRONTE REGIONALE – Tra alleati che scarseggiano e sempre più nemici alle porte, il regime di Damasco si ritrova sempre più isolato nel delicato puzzle di alleanze politiche regionali. Allo stato attuale, solo Iran ed Hezbollah in Libano supportano, indefessamente, il regime alawita. Uno ad uno, e in base ad una serie di motivazioni politiche di varia natura, gli alleati del calibro di Hamas, della Turchia, della Cina e della Russia stanno sempre più smarcandosi dallo scomodo appoggio a Damasco per supportare, piuttosto, un regime change il meno cruento possibile. In particolare, Pechino e Mosca, sebbene abbiano posto un veto alla possibilità di introdurre “misure mirate” contro il regime di Assad – tra queste erano contemplate sanzioni economiche e/o interventi di tipo militare, come ad esempio una “no fly zone” sullo stile libico –, sarebbero disponibili ad un cambio al vertice per evitare possibili nuovi casi “Libia” in un’area tradizionalmente strategica per entrambi. Il Cremlino sta in effetti cercando di convincere Assad a cedere il comando a Faruk al-Shaaral, Vice Presidente siriano. Medesimo ragionamento viene portato avanti anche da Ankara che, riconoscendo la legittimità dell'opposizione, è sempre più intenzionata ad ergersi quale modello regionale, anche a costo della rottura con la Siria. Tuttavia, i rischi connessi con un regime change sono elevati e potrebbero dal luogo a “nuovi” conflitti armati nella regione. D'altra parte, non è escluso che l’attuale crisi possa degenerare in una vera e propria guerra civile che riprodurrebbe in Siria lo scenario iracheno del dopo Saddam Hussein, con ripercussioni per l’intera regione.

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I TIMORI DI UN’ALTRA “LIBIA” – Anche l'opzione-intervento armato per ora sembra esser scartata dalla Comunità Internazionale, in Siria più che in Libia, a causa degli alti rischi in termini stabilità e sicurezza. Infatti, sia gli USA, sia i Paesi arabi stanno attuando una serie di ritorsioni economiche,  nella speranza che nel breve periodo possano rivelarsi una strategia vincente. Da quando sono entrate in vigore le nuove sanzioni sul petrolio siriano, il regime perde circa 400 milioni di dollari al mese e la situazione di isolamento politico-diplomatico ha reso necessario la richiesta di prestiti ad Iran, Iraq e Venezuela. Volendo, dunque, scongiurare qualsiasi ipotesi militare, anche gli alleati di Damasco sembrerebbero essere d'accordo nel perseguire la strada della diplomazia, pur non condividendo fino la strategia dell'inasprimento delle sanzioni economiche. Ma per giungere ad un cambio al vertice esiste un’istituzione internazionale o regionale in grado di portare a termine questa transizione? La Lega Araba non pare avere questa forza, come neanche l’ONU o gli Stati Uniti – impegnati su più fronti dall'Iran alla Cina –, tanto meno una coalizione di Stati europei a guida franco-britannica. Forse l’unico organismo in grado di incidere sulla crisi siriana potrebbe essere il Consiglio di Cooperazione del Golfo (CCG) – in cui un ruolo sempre maggiore sta assumendo il Qatar – che, seguendo gli esempi di Tunisia ed Egitto, potrebbe assicurare alle forze di opposizione la guida della “nuova Siria” e, al contempo, garantire un salvacondotto ad Assad e a tutta la sua famiglia. Ad ogni modo, le certezze sono davvero poche e il cammino da seguire per giungere ad una soluzione non sarà privo di insidie e né avverrà in tempi brevi. Giuseppe Dentice [email protected]