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Caffè150: non è solo una storia

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La ricorrenza del 150° anniversario dell’Unità Nazionale rappresenta un’occasione unica per guardare alla storia recente del nostro Paese e riscoprirne aspetti a volte un po' trascurati. Come nasce la nostra politica estera? Perchè oggi “siamo dove siamo”? La storia, come sempre, non solo può spiegare, ma può indicarci la via per il futuro. Soprattutto perchè non è solo "una storia", è la nostra storia! 

Quando si parla di Unità d’Italia si pensa ai moti rivoluzionari di ispirazione mazziniana, all’azione di Garibaldi e a quella di altri patrioti, ma meno a quegli aspetti che hanno contribuito a far nascere l'Italia come attore della politica internazionale, come ad esempio la complessa azione politica e diplomatica di Cavour che, creando una politica estera consapevole e per la prima volta indipendente, permise infine al Piemonte di riunificare la penisola.

Non solo. Dall’unità ad oggi sono passati, appunto, 150 anni: un intervallo di tempo che ha visto la nostra politica estera nascere, evolversi e mutare nel tempo, fino a determinare quella che è l’attuale identità internazionale italiana.

Ecco quindi nascere l’idea dello speciale "Caffé 150": il Caffè Geopolitico si propone di analizzare la storia delle relazioni internazionali dell’Italia, dal periodo pre-unitario ai giorni nostri, per raccontare l’evoluzione della geopolitica italiana. Il progetto si prefigge infatti l’obiettivo di rispondere ad un quesito che, partendo dal passato, guarda al futuro: come nasce e a cosa dovrebbe puntare la nostra politica estera?

A tal fine, Il Caffè Geopolitico studierà i temi ed i periodi storici che hanno segnato l’evoluzione dell’Italia come Paese e come attore sulla scena internazionale, raccontandone alleanze, rapporti, personaggi di spicco.

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LA STRUTTURA DELLO SPECIALE – Come si è mosso il nostro Paese sullo scacchiere internazionale? Come gli altri Stati hanno guardato all’Italia durante questi 150 anni? Come la nostra storia, la nostra esperienza di Stato, hanno determinato la nostra posizione internazionale attuale?

Il progetto si articolerà attraverso la produzione di articoli brevi e saggi, strutturati in due fasi: la prima fase punterà ad approfondire il periodo a cavallo dell’Unità, per fare una sintesi delle principali dinamiche geopolitiche pre-unitarie.

Questo servirà ad identificare i primi passi delle relazioni internazionali dell’Italia come Paese unito, evidenziando come sono cambiate le relazioni con l’estero passando da un contesto di frammentazione territoriale ed istituzionale (sintetizzando i principali legami dei singoli Regni italiani), a quello unitario.

La seconda fase del progetto sarà invece dedicata allo studio delle tappe fondamentali nella creazione dei legami internazionali dell’Italia durante il Novecento. Questa fase avrà il duplice scopo di evidenziare, da una parte, quali siano e da dove nascano i legami internazionali “storici” del nostro Paese e, dall’altra, di tracciarne l’evoluzione per tappe fondamentali.

Il risultato finale consisterà in una raccolta strutturata di articoli che consenta di conoscere le basi delle relazioni internazionali dell’Italia, spiegando per grandi linee perché oggi “siamo dove siamo”: alleanze, aree geografiche e settori di interesse e, soprattutto, prospettive auspicabili.

Non temete, lo stile sarà quello solito del Caffé Geopolitico: rigoroso nelle informazioni, ma semplice da leggere, anche per i non esperti. La nostra politica estera non appartiene solo ai tecnici, ma a tutti noi!

Seguiteci dunque in questa avventura! Non è solo “una storia”… è la nostra storia!

La Redazione

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Qui il vento non soffia

Il Giro del Mondo in 30 Caffè – Il vento del cambiamento, quello che accompagna i grandi stravolgimenti in Medio Oriente e Maghreb, non è di casa a Gerusalemme e dintorni. Proprio dove tutti da tempo aspettano qualcosa di nuovo, sembra registrarsi una sorta di bonaccia, di immobilismo. Tra le ansie israeliane per gli avvenimenti che stanno modificando l’assetto regionale e le ipotetiche novità dal fronte palestinese, guardiamo ai possibili scenari di entrambe le parti. Con un’unica, amara certezza: una ripresa dei negoziati per il processo di pace è tutt’altro che all’ordine del giorno, e all’orizzonte non si scorgono grandi possibilità di cambiamento

 

FERMI TUTTI – È un po’ come passare tutta la notte svegli ad aspettare l’alba, e perdersela perchè il sole sorge dall’altra parte, alle tue spalle. A pensarci bene, da decenni guardiamo al Medio Oriente aspettandoci “il” cambiamento – l’accordo di pace tra Israeliani e Palestinesi, che sancisca la creazione dello Stato Palestinese – convinti che da questo scaturiscano stravolgimenti, sostanzialmente positivi, in tutta la regione. Seppur semplificando, sembra ora accadere il contrario: con differenti modalità, diversi Paesi, al di là dei noti casi di Tunisia, Egitto e Libia, tanto nel Maghreb quanto in Medio Oriente stanno vedendo fasi di rivolta con possibilità inaspettatamente concrete di mutamenti nel breve-medio periodo, proprio mente tutto o quasi sembra tacere sul fronte israelo-palestinese. Innanzitutto, una simile situazione pare dover far rivedere quella che per gran parte degli osservatori sembrava l’immensa forza centrifuga e centripeta di quest’arena, come se i destini della regione – e in alcuni scenari apocalittici, del mondo intero – dipendessero da quanto avviene tra Tel Aviv e Ramallah, mentre le sorti di diversi Paesi vengono decisi spesso da chi in questi ci vive, dalle questioni interne, prima che dagli scenari regionali o globali. È questo un assunto vero anche per Israeliani e Palestinesi: osserviamo dunque alcune dinamiche interne alla società e alla politica di entrambe le parti, per valutare i possibili sviluppi futuri.

 

L’ANSIA DI TEL AVIV – La rivolta egiziana è stata vissuta in Israele con sentimenti contrastanti, tra cui l’apprensione ha sicuramente dominato la scena. Le voci che hanno provato a incoraggiare lo sviluppo democratico del vicino hanno trovato pronta risposta: “Visto cosa è successo facendo partecipare Hamas alle elezioni palestinesi?”. Lo scenario, per ora lontano, di un Egitto in mano ai Fratelli Musulmani è visto con paura da Israele, che aveva in Mubarak un prezioso alleato in grado di garantire la pace tra le due nazioni. Allargando il cerchio, è chiaro che Israele sia preoccupato dagli eventi di inizio 2011, e veda forte il rischio di un cambiamento dello status quo che peggiori la situazione di Israele, con lo spauracchio di un fondamentalismo islamico più aggressivo e radicato e l’incubo Iran che è tornato prepotentemente alla ribalta all’arrivo delle due navi iraniane nel canale di Suez praticamente all’indomani della caduta del Rais Mubarak, e con l’accordo Iran-Siria, passato sotto silenzio in Europa, per la costruzione di un porto d’appoggio per la marina militare iraniana nel Mediterraneo. Allo stesso tempo, si sta discutendo parecchio – tanto internamente quanto negli ambienti diplomatici occidentali -sulle sempre più insistenti voci che vedono Israele, per evitare il drammatico scenario di un regime fondamentalista in Libia, assoldare tramite una società (la Global Cst di Petah Tikva, già coinvolta in vendite di armi in Caucaso, Guinea, America Latina) mercenari africani per combattere a fianco degli uomini di Gheddafi.

 

FERMI E VIGILI – Dal punto di vista della ripresa dei negoziati con i Palestinesi, il segnale politico che sta dietro a queste preoccupazioni è che non è questo il momento delle concessioni, bensì quello dell’immobilismo. Non si apre su nulla, si aspetta l’evolversi degli eventi, con allerta massima sugli scenari a livello di rischio elevato: Libano, Gaza, e ovviamente Iran. Non è un caso che il premier abbia da poco nominato suo nuovo consigliere per la sicurezza nazionale Yaakov Amidror, ex generale vicino all’estrema destra, definito un “falco” per alcune sue posizioni controverse, tra cui la rioccupazione della Striscia di Gaza e l’eventualità di un attacco israeliano contro gli impianti nucleari iraniani. Nello stesso tempo, l’esercito israeliano sta riesaminando le eventuali controffensive in vista di una rivolta palestinese in Cisgiordania.

Dal punto di vista politico, poco è cambiato nel 2010 e poco sembra muoversi. L’ipotesi di un rimpasto di governo che escluda alcune ali estreme e includa i moderati centristi di Kadima, guidati dall’ex Ministro degli Esteri Tzipi Livni, appare ormai da tempo naufragata. Nel mese di gennaio si è registrato il clamoroso, anche se non inaspettato, divorzio tra i laburisti e lo storico leader Barak, attualmente Ministro della Difesa, capace di portare i laburisti all’ultima vittoria politica (fu premier nel ’99-2000, ai tempi di Camp David e dell’accordo di pace a un passo) e alla peggiore sconfitta di sempre (2009, solo 13 seggi conquistati). Barak, in rotta con gli altri vertici del partito ostili ad alcune politiche del Governo, ha così fondato un nuovo partito, Atzmaut, fedele a Netanyahu e formato da 5 deputati, di cui 4 ministri: un vero e proprio record che fa impallidire alcune operazioni trasformistiche della storia nostrana.

 

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SCONGELATI – Infine, occorre spendere qualche parola sul capitolo insediamenti. Nel settembre scorso è scaduta la moratoria sul congelamento degli insediamenti israeliani nei Territori palestinesi, richiesta dagli Usa (oltre che dai negoziatori palestinesi) come precondizione per riprendere i negoziati. Netanyahu, scegliendo di seguire l’alleato americano per provare a riprendere i colloqui in vista di un accordo, avrebbe corso il rischio di vedere naufragare immediatamente il suo Governo – contrario al prolungamento della moratoria – e dunque ha scelto con convinzione di rifiutare la proposta obamiana di un nuovo stop alle costruzioni, nonostante dall’altra parte tenti di frenare i rappresentanti degli insediamenti israeliani, che oltre alla mano vorrebbero tutto il braccio, continuando a chiedere un numero sempre maggiore di gare d’appalto. Gli americani non si sono in verità stracciati le vesti, e in attesa del presunto piano Obama per gli accordi di pace (che alla luce degli stravolgimenti attuali potrebbe essere sempre meno prioritario, al punto da rischiare di doverlo aspettare più o meno come Godot) anche a Washington sembra prevalere una certa rassegnazione: se non si riesce neanche ad incidere su uno stop temporaneo agli insediamenti, come si potrà decidere di smantellarne anche solo una parte in futuro, o come si potrà affrontare questioni anche più spinose, come quella dei profughi e soprattutto lo status di Gerusalemme?

 

QUI RAMALLAH – A settembre si vota. Finalmente. Sarà vero? Questo l’annuncio ufficiale del Presidente Abu Mazen, il cui mandato è scaduto da più di due anni. Tanto è vero che Hamas tuona: “Niente elezioni, sono illegittime. Potranno esserci solo dopo una riconciliazione nazionale”. Breve cronistoria: nel 2006, Hamas si presenta alle prime elezioni politiche, riuscendo a vincerle sconfiggendo lo storico partito di Arafat, Fatah, da sempre al potere dall’avvento dell’Autorità Nazionale Palestinese. Nessuno nel mondo riconosce la vittoria di Hamas, assolutamente regolare per gli organismi internazionali di controllo: né Usa, né Ue, né tantomeno Fatah. Ne nasce una vera e propria guerra civile palestinese, ribattezzata Intrafada da alcuni osservatori, che sancisce il ritorno al potere di Fatah in Cisgiordania e il dominio assoluto di Hamas su Gaza (anche se il malcontento a Gaza è sempre più percepito: una manifestazione in sostegno della rivolta egiziana è stata dispersa e i promotori arrestati, segno della paura di Hamas di eventi analoghi). Dunque una Palestina con due regioni geograficamente non contigue, due soggetti distinti al potere che non si riconoscono tra loro, e nessun leader capace di parlare a nome dell’intero popolo palestinese. Difficile ipotizzare uno Stato palestinese con queste condizioni interne, al di là di tutti gli agenti esterni. I diversi tentativi di riconciliazione sono finora andati fallendo. L’Egitto, che più volte ha provato ad agire da mediatore, ha decisamente altro per la testa.  Qualcosa potrà cambiare? Nel piccolo, proprio oggi in entrambe le regioni palestinesi sono previste manifestazioni per richiedere un’unità nazionale e la riconciliazione tra Hamas e Fatah. Certo le elezioni (se vi saranno) potranno rappresentare un punto di svolta, ma per il momento permane una situazione di fortissima incertezza. I “Palestinian Papers”, rivelazioni di Al Jazeera e del Guardian circa le drastiche concessioni palestinesi agli Israeliani in vista di un ipotetico accordo, hanno portato alle dimissioni dello storico leader dei negoziatori, Saeb Erekat, ma in realtà non hanno fatto altro che mettere ulteriormente a nudo la già nota debolezza dei dirigenti palestinesi.

 

SI PROCLAMA? – Vi è un ulteriore aspetto da tenere però in considerazione. Si avvicina infatti l’estate 2011, momento fissato dal premier palestinese Fayyad in cui proclamare unilateralmente lo Stato di Palestina. Una boutade? Seppur simbolica, una simile proclamazione seguirebbe il recente riconoscimento dello Stato di Palestina da parte di nove Stati sudamericani, tra cui anche Brasile e Argentina. Israele non ha accolto bene questi nuovi riconoscimenti, e di certo un simile evento potrebbe, se portato davanti al Consiglio di Sicurezza dell’Onu, portare ad effetti non scontati, difficilmente rivoluzionari, ma con la possibilità di sbloccare l’immobilismo che sembra attanagliare le parti in vista della ripresa dei negoziati.

 

NON SI CAMBIA – Insomma, non accade nulla? Qualcosa purtroppo, succede, e non è una novità. È giunta sino alle orecchie dei media italiani la recente notizia dello sterminio di un’intera famiglia israeliana nell’insediamento di Itamar, in uno dei più gravi fatti di sangue degli ultimi anni. Cinque vittime civili trucidate, tra cui tre bimbi, uno di tre mesi. Nessuna organizzazione ha rivendicato il gesto. Il Governo israeliano ha deciso per la prima volta in simili situazioni di rendere pubbliche le foto dell’accaduto, e il giorno dopo l’eccidio ha risposto con l’approvazione della costruzione di quattrocento nuove unità abitative in quattro insediamenti israeliani in Cisgiordania. Con tanti saluti a una possibilità di ripresa nel breve periodo del processo di pace. Il discorso appare cinico, ma finchè – da entrambe le parti – non si riuscirà ad andare oltre ad un certo numero di vittime per provare a insistere sul cammino dei colloqui di pace, se ogni volta occorrerà ricominciare da capo, sarà impossibile arrivare ad un accordo definitivo. Prima o poi Israeliani e Palestinesi dovranno decidere come dividere l’appartamento che abitano, quali stanze tenersi. Da anni siamo fermi al congelamento degli insediamenti, che nel paragone conta come le tendine del bagno. Possibili cambiamenti non sembrano essere all’orizzonte. Se volete delle novità, girate la testa, e guardatevi intorno, non qui.

 

Alberto Rossi

Crisi libica: una “patata bollente” o un’occasione?

L’attuale scenario di crisi in Libia sta portando a galla alcuni dubbi relativi alla reale efficacia del tradizionale sistema di sicurezza internazionale basato su organizzazioni di matrice occidentale. Gli avvenimenti che si sono susseguiti dal 2001 in poi, nonché la crescente multi-polarizzazione del sistema internazionale, acuiscono la crisi di fiducia in seno agli organi transnazionali che abitualmente percepiamo come “guardiani” dell’ordine internazionale. La crisi libica potrebbe portare a consolidare i dubbi esistenti oppure costituire una possibilità di riscatto per tali organi

IL CLIMA POST-UNIPOLARE – Questi mesi di crisi mediorientale ci hanno messo di fronte a dei dilemmi con i quali ci confrontiamo dall’ormai lontano 2001, anno in cui ci siamo chiesti se l’ordine unipolare americano potesse essere davvero messo in discussione. La comune esperienza del mondo post-sovietico ci porta a pensare che ogni situazione di crisi debba essere gestita, nonché possibilmente risolta, attraverso l’azione del global policeman statunitense; e, per molti esperti, l’attuale scenario libico non sembra fare eccezione alcuna. Analoga considerazione si può fare riferendosi al ruolo indiscusso dell’organizzazione transnazionale per eccellenza: le Nazioni Unite, la cui delibera viene richiesta ogni qualvolta ci si trova di fronte a evidenti violazioni dei principi contenuti nella Dichiarazione Universale dei Diritti Umani. Ma in questo caso, quello della Libia, e in molte altre questioni non meno rilevanti (si pensi ad esempio all’applicazione di sanzioni nei confronti della politica nucleare iraniana), pare che questi approcci risultino sempre meno ovvi e efficaci di quanto siamo abituati a credere.

Da una parte, gli avvenimenti di questi mesi dimostrano che il sistema di sicurezza internazionale delle Nazioni Unite, forgiato sulla base dello sviluppo della comunità internazionale post-45 che ha garantito la rappresentanza per seggi a tutti i paesi internazionalmente riconosciuti, presenta numerose lacune. Si assiste ad un vero e proprio stallo in sede di Consiglio di Sicurezza, ogni qualvolta si presenta la necessità di agire direttamente (sarebbe meglio dire congiuntamente) per far fronte a situazioni che hanno il potenziale per innescare quel tanto temuto effetto domino in uno scenario già particolarmente instabile. D’altra parte, l’atteggiamento degli Stati Uniti in risposta alle odierne situazioni di crisi si è fatto molto meno deciso, in virtù di una tendenza del Dipartimento di Stato volta a limitare l’interventismo diretto a favore di altre soluzioni che non comportino un pesante costo in termini sia economici che di popolarità (soprattutto nel mondo arabo). Come se non bastasse, lo sviluppo della doppia dimensione relativa alla sicurezza internazionale “alleata” delle Nato, contribuisce ulteriormente a fare confusione in un contesto già abbastanza complicato. Così la migliore risposta che la comunità internazionale ha fornito nei confronti della crisi libica durante le ultime settimane può essere interpretata come: “speriamo che la situazione si risolva in fretta e che non ci costringa ad un intervento”.

Ma contrariamente a quello che molti pensavano, e cioè che le sommosse in Libia avrebbero portato ad un radicale rovesciamento del regime del colonnello Gheddafi in tempi piuttosto brevi, la situazione dimostra esattamente il contrario. Sembra che il Raìs, non solo sia particolarmente convinto di poter riprendere in mano il paese, ma che quasi ci stia riuscendo. Le previsioni sono quelle dunque, di una situazione di stallo tra le due fazioni. E mentre i suoi diplomatici vanno in giro per l’Europa cercando spiragli di negoziazione, i ribelli a lui ostili richiedono a gran voce l’intervento (se non prettamente militare) delle Nazioni Unite, della Nato o di chiunque si decida a dargli una mano a dare la spallata finale al regime.

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MEGLIO UN UOVO OGGI… – A questo punto, l’unica azione risolutiva potrebbe essere un intervento Nato coordinato (ancora una volta) dagli USA. Ma ciò che si teme è proprio il prezzo da pagare per tale intervento. Un coinvolgimento diretto degli States costringerebbe Obama a recuperare altri fondi da dedicare alla spesa militare, il che, nell’attuale contesto nazionale americano, sarebbe l’ennesima spina nel fianco per un presidente che ha già perso la sua maggioranza. L’appoggio militare e politico ai ribelli significherebbe dopotutto impelagarsi in un mandato che rischia di doversi obbligatoriamente protrarre nel medio o lungo periodo, trasformandosi da un meccanismo di garanzia del diritto di autodeterminazione dei popoli ad impegno che avrebbe un costo iniziale tra 500 milioni e un miliardo di dollari. La tanto auspicata no-fly zone potrebbe non avere l’efficacia prevista nell’immediato e costringere le forze internazionali a bombardamenti più massicci su obiettivi militari, il che, se da un lato questi avrebbero il possibile effetto di ribaltare le sorti dell’attuale conflitto a favore dei ribelli, dall’altro c’è il rischio aprano lo spazio a pericolose controversie sul piano diplomatico. Ecco perché, nonostante la preoccupazione del segretario generale Nato A.F. Rasmussen, che ha affermato quanto “non sia immaginabile che in una situazione simile la comunità internazionale e l’ONU, stiano a guardare mentre Gheddafi e il suo regime continuano ad attaccare la popolazione”, si attende comunque il “via libera” del Consiglio di Sicurezza, il quale avrà serie difficoltà nell’attuare qualsiasi proposta di risoluzione a causa del veto di Russia e Cina.

La realtà è che, almeno momentaneamente, nessuno ha voglia di intervenire prima di aver stabilito precisamente quali saranno le condizioni di ingaggio e soprattutto, nell’eventualità che questo ci sia, dell’exit-strategy immediata. Lo si capisce bene leggendo tra le righe della dichiarazione fatta dal segretario di Stato Hillary Clinton: “è importante che gli sforzi per risolvere la crisi non siano solo Nato o degli europei ma internazionali” con chiaro riferimento alla Lega Africana e, soprattutto alla Lega Araba. La “patata bollente” libica quindi può tradursi in una trappola per europei e americani ma, d’altra parte, c’è una chiara intenzione di non lasciare né ai russi, né ai cinesi e né tantomeno agli arabi la gestione di una crisi che potrebbe minacciare importanti interessi occidentali in Medioriente.

UN’OPPORTUNITÀ DI RISCATTO – La soluzione in sede ONU è senza dubbio la più auspicabile, ma si tratta di mettere ancora una volta alla prova un meccanismo diplomatico del secolo scorso che, ultimamente, tende ad essere davvero poco efficiente e funzionale e che si è ripetutamente dimostrato alquanto superfluo. La crisi Libica, inserita in un contesto internazionale sempre più multipolare, potrebbe essere un banco di prova per il Consiglio di Sicurezza, il quale potrebbe riacquistare credibilità politica se riuscisse ad incassare risultati che non siano solo il frutto della spinta unilaterale dell’amministrazione americana. Lo stesso vale per la Politica Estera di Sicurezza Comunitaria (Europea, s’intende) la quale, lungi dall’essere quell’utopica sinergia di vedute della quale la Ashton è rappresentante, dovrebbe sfruttare lo scenario di crisi per dimostrarsi all’altezza di ciò che ha bisogno di essere. I segnali in tal senso non sono ancora particolarmente positivi ma l’evoluzione degli eventi può riservare delle sorprese dal momento che la parentesi libica è tutt’altro che prossima al chiudersi.

 

Paolo Iancale

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Focus Nord Africa e Medio Oriente

Il Caffè segue con attenzione le vicende del Maghreb: ecco in evidenza gli articoli che i nostri autori hanno proposto nei giorni passati. Un Focus importante, che continueremo ad aggiornare per provare a dare una visione chiara e diretta di quello che sta succedendo e di quali siano i punti chiave di queste difficili vicende

Un anno di ‘Pepe’

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Il primo anno di governo di Porfirio Lobo Sosa è passato tra gli sforzi volti alla riconciliazione nazionale e alla riammissione dell’Honduras in seno alla comunità internazionale dopo la destituzione di Manuel Zelaya del 2009. I problemi del secondo paese più povero delle Americhe, soprattutto quelli legati alla sicurezza, restano però ancora senza soluzione

PRIMO ANNO DI GOVERNO – Il 27 Gennaio “Pepe” Lobo  ha compiuto il primo anno del suo mandato quadriennale da Presidente della Repubblica: un primo anno caratterizzato a livello internazionale dall’intenso lavoro di lobbying per permettere all’Honduras di far ritorno all’interno delle organizzazioni di integrazione americane e, sul piano interno, dall’inizio di un proceso di riconciliazione nazionale per uscire dalla polarizzazione creatasi dopo il colpo di stato del giugno del 2009. In entrambi i casi, la strada da percorrere per raggiungere gli obiettivi prefissati é ancora lunga.

LO SCENARIO INTERNAZIONALE – Se da una parte “Pepe” é riuscito ad  ottenere he il suo governo fosse riconosciuto da vari governi tra cui quelli di Stati Uniti, Italia, Israele, e Messico, riattivando cosí il flusso di risorse proveniente dalla cooperazione internazionale e dagli organismi multilaterali di credito, la manifesta ostilitá dei paesi dell’ALBA guidati dal Venezuela impedisce al paese centroamercano di far ritorno in seno all’Organizzazione degli Stati Americani (OSA), dalla quale é stato sospeso da piú di un anno e mezzo dopo la ormai celebre cacciata dal paese manu militari dell’ex presidente Mel Zelaya.

É proprio in seno all’Assemblea Generale dell’OSA che si gioca la partita piú interesante: la discussione sulla riammissione dell’Honduras dovrebbe essere fissata per il prossimo giugno, a due anni esatti dal “golpe”, ma se la sospensione fu decisa all’unanimitá, per l’eventuale  riammissione appare scontata una decisione a maggioranza. La caccia al voto è già aperta: da una parte, Pepe e il suo ministro degli esteri Mario Canahuati, stanno tessendo relazioni con i paesi membri della Comunità Caraibica (CARICOM); dall’altra, Venezuela e i Paesi che gravitano nella sua orbita (il Presidente venezuelano Hugo Chávez, ideologicamente affine a Zelaya, era stato il più contrario alla sua destituzione) stanno cercando di invogliare gli stessi paesi a esprimersi contro la riammissione dell’Honduras usando come “forma di persuasione” l’iniziativa Petrocaribe, che fornisce ai Paesi della zona petrolio tramite un sistema di prezzi agevolati (vedi “Un chicco in più). La riammissione dell’Honduras nell’OSA appare quindi tutt’altro che scontata, e sembra subordinata all’eventuale decisione di Tegucigalpa di permettere a Zelaya di far ritorno in patria dal suo esilio a Santo Domingo con la garanzia di non subire un proceso “político”.

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IL FRONTE INTERNO – Ma il ritorno di Mel rappresenta l’ago della bilancia anche rispetto ai temi di politica interna e di riconciliazione nazionale. Se é vero che il Congresso ha da poco approvato, con l’appoggio dei due partiti maggioritari, una riforma costituzionale che rende piú snelle le procedure per la convocazione di referendum popolari (uno dei punti della discordia che avevano causato il golpe), é vero anche che i gruppi della “Resistencia contra el golpe” riuniti sotto la sigla del FNRP non hanno fin qui partecipato alle iniziative di riconciliazione promosse del Gobierno de Unidad Nacional e non hanno intenzione di farlo finchè non si permetta il ritorno in patria del loro leader. Il presidente Lobo si trova quindi tra due fuochi: vuole favorire il ritorno di Mel e assumersi i meriti della avvenuta riconciliazione ma allo stesso tempo non vuole inimicarsi i settori più conservatori del paese, pronti, secondo alcuni quotidiani locali, a un eventuale nuovo colpo di stato.

Intanto il paese continua a convivere con i problemi di sempre che, lungi dal risolversi, sembrano invece acutizzarsi: il narcotraffico sta prendendo sempre più piede nelle zone più remote e mono controllate del paese, la violenza delle bande giovanili, le rapine e i sequestri occupano costantemente le prime pagine dei giornali e la situazione dei diritti umani continua a essere critica con abusi e violazioni sistematiche nei confronti di oppositori politici, giornalisti e contadini in lotta per la proprietà della terra nella zona del Bajo Aguàn. Come risultato di tutto ciò, il tasso di omicidi in Honduras è balzato a 77 per ogni 100,000 abitanti, un tasso 8 volte superiore alla media mondiale. Forse sarebbe il caso che, oltre alla questioni squisitamente politiche, Pepe si occupasse anche di altri temi.

Ettore Giuliani

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… E ora, quali scenari?

Dopo lo speciale “I perchè del Maghreb in rivolta”, il Gen. Cascone ci ha concesso un'intervista, in cui a 360 gradi delinea qualche ulteriore punto oscuro e prova ad ipotizzare scenari per il futuro, ovviamente per il breve periodo. Quali sviluppi per la Tunisia? Quale ruolo per i militari e i Fratelli Musulmani in Egitto? La Libia sarà un nuovo Afghanistan? Come affrontare il tema immigrazione? Cerchiamo di fare luce su queste e altre questioni

Per cominciare, Gen. Cascone, sussistono differenze tra le varie rivoluzioni nei Paesi rispettivamente a ovest e a est del Nilo?

Parlerei più genericamente del “mondo arabo” che notoriamente comprende le seguenti aree: Maghreb (occidente), Mashraq (oriente) entrambe rispetto alla valle del fiume Nilo, la citata “valle” (Egitto, Sudan), il Corno d’Africa (Somalia, Gibuti), la Penisola Arabica; tutto questo per non articolare eccessivamente il tema in esame.    

Premesso che in tutti i Paesi arabi esistono problemi di democrazia e di distribuzione della ricchezza, abbinate all’alto tasso di disoccupazione giovanile e alla corruzione endemica (si parla infatti di “caduta del muro arabo”, in analogia a quello di Berlino), pensare che le rivolte siano state determinate soltanto da questi fattori è un po’ riduttivo.

L’effetto scatenante, almeno per quanto riguarda il nord-Africa e alcuni altri Paesi delle zone indicate, è un “combinato composto” tra le difficoltà sociali interne: ci si riferisce sia alla mancanza di libertà elementari sia alle aspettative che vengono oramai assimilate, attraverso l’utilizzo di mezzi di diffusione di massa (tv, satellitari, internet).

L’arabo medio vede, in tempo reale, quello che accade in un altro “mondo” a lui geograficamente vicino, mutua le situazioni che compara con quello che capita nel suo Paese e ne coglie motivi di rivalsa; nascono pertanto spinte sociali interne /spontanee dove una eventuale interferenza straniera, almeno nella fase iniziale, non sussiste.

Si hanno notizie di qualche spinta “esterna” a ciascun Paese che abbia fomentato o guidato la piazza? Qualcuno ha addirittura evocato la CIA…

La lunga mano della CIA sulle sorti di Mubarak e di Ben Ali appare un’illazione. È verosimile che i sommovimenti sociali nel nord-Africa abbiano colto tutti i Servizi di intelligence di sorpresa. Ben Ali, come Mubarak, era portatore di una politica amica dell’Occidente; ora il problema, anche per la CIA, è quello di far sì che questi Paesi rimangano nella sfera d’influenza dell’Occidente.

Quale sarà il ruolo dei militari in Tunisia ed in Egitto, rispettivamente nel dopo-Ben Ali e nel dopo-Mubarak?

Sicuramente, per la Tunisia e l’Egitto, il ruolo dei militari è stato centrale anche perché esiste in entrambi i Paesi una forte tradizione del ruolo di questa Istituzione nelle vicende politiche interne. Solo i militari, in questi due Paesi, potranno assicurare una transizione dei poteri relativamente incruenta, ma rimarrà anche immutato il loro potere contrattuale: il risultato finale potrebbe essere, come si dice comunemente, una “democratura”, democrazia più dittatura.

Saranno i militari a pilotare la transizione e ovviamente lo faranno indirizzandola verso soluzioni a loro favorevoli.

Mubarak proveniva dalla Aeronautica Militare, Ben Ali dai “Servizi”.

Per l’Egitto bisogna guardare con attenzione a Suleiman, il Capo dei Servizi: nell’ombra c’è ancora lui…lui ha l’esperienza e le qualità per il dopo – Mubarak, non il figlio Gamal.

In relazione agli sviluppi di situazione nei Paesi in esame, che livello di rischio è possibile attribuire al passaggio della situazione da una democratura ad un’altra democratura, anziché da una democratura alla democrazia, come dai programmi della “piazza”?

La “democratura” nei Paesi arabi è il prodotto della loro storia e quindi del loro background culturale. Non si può pensare che in questi Paesi possa attecchire improvvisamente una qualsivoglia forma di democrazia, se non a seguito di un percorso storico e sociale. Molti pensano che la democrazia sia un valore universale applicabile ad ogni realtà sociale: non è così! La democrazia non si esporta, come pensava Bush, ma si conquista; la sua eventuale applicazione sarà condizionata dalle realtà locali. Parlare di democrazia nel Maghreb o nel Mashreq è solo un esercizio semantico.

L’effetto domino che ha interessato il mondo arabo ha affrancato – almeno in prima istanza (ma non è detto che duri) – i Paesi dove ricorrevano le stesse situazioni sociali e politiche e che hanno dato corso alle rivolte: ne sono rimasti fuori alcuni regimi “legittimati” da discendenze religiose (gli alawiti in Marocco, gli hashemiti in Giordania), ovvero da sette religiose (i wahabiti in Arabia Saudita, gli ibadhiti in Oman, gli alawiti in Siria) oppure dove il livello di “internazionalizzazione” della società (s’intende l’accesso alle comunicazioni di massa) è molto basso (la Mauritania) .

Quali le possibili ragioni per la mancata candidatura di El Baradei alla carica di Presidente della Repubblica? E questo, anche in considerazione dell’invito dei Fratelli Musulmani a rappresentarli, nella fase di transizione e normalizzazione del Paese.

Baradei è stato lontano dalle vicende interne egiziane per molti anni; è tornato nel Paese, ha cercato un suo spazio politico, non ci è riuscito e si è defilato nella fase iniziale della rivolta ; non è da escludere che si candidi per le future elezioni presidenziali.

Come considera il peso politico dei Fratelli Musulmani nella situazione politica dell’Egitto post-Mubarak?

I Fratelli Musulmani sono una forza sociale (gestiscono innumerevoli organizzazioni caritatevoli) che ovviamente si può tramutare in una forza politica;

peraltro sono già una forza politica, presente nel Parlamento egiziano benché sotto denominazione diversa (lista “indipendenti”) e che abbiano la forza di condizionare il futuro politico del Paese, non vi sono dubbi.

Sono portatori di un Islam ortodosso, se pure addolcito da una visione strategica di respiro internazionale; al-Zawahiri, il braccio destro di Bin Laden, proviene da questa Associazione!

E ancora: Hamas è una costola palestinese dei Fratelli Musulmani; in Siria sono avversati, in Giordania sono invece in Parlamento: demonizzarne il ruolo non serve a niente! Anche in Europa abbiamo congregazioni cristiane ortodosse.

Il lato positivo dei Fratelli Musulmani risiede nella solidità del loro apparato (un vertice che decide e comanda) e nella razionalità della loro visione religiosa; questo sicuramente limita eventuali derive estremiste.

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Dopo Tunisia ed Egitto, si parla della Libia come di un nuovo Afghanistan: come vede la situazione e quali scenari individua dal suo punto di vista?

Per la Libia, l’essenza del potere non sono i militari; la forza di Gheddafi è legata ai Comitati Rivoluzionari e ai Servizi di Sicurezza. Le Forze Armate sono sempre state tenute ad un basso tasso di operatività perché Gheddafi ne temeva la pericolosità (lui che il colpo di stato lo aveva fatto, provenendo da quella struttura); si è affidato ai fini della sua sicurezza, alla Legione Islamica, fatta di mercenari, provenienti da Paesi limitrofi. Molti hanno sottovalutato o stanno sottovalutando il fatto che Gheddafi continui a mantenere il potere; lo esercita ovviamente in Tripolitania e nel Fezzan ed ha anche la forza potenziale di riprendersi il controllo di altre aree del Paese.

La forza che si contrappone oggi a Gheddafi non si ritiene di estrazione islamica; la dissidenza in Cirenaica parte da molto lontano: quella regione, che non ha mai riconosciuto a Gheddafi una connotazione nazionale, è rimasta legata ai valori della Senussia e quindi al regime monarchico che ne discendeva.

La politica di Gheddafi di “punire” la Cirenaica con scarsi investimenti ed infrastrutture, ne ha poi incrementato l’opposizione. Per il potere in Libia bisogna guardare alle cabile (le tribù): se si rivoltano (quantomeno le più importanti), Gheddafi perde il suo radicamento sul territorio.

Sul nostro Paese grava la minaccia della crescita dell’immigrazione clandestina, ben oltre le possibilità di accoglienza del nostro Paese. Come pensa si possa gestire questa grave crisi umanitaria?

La Libia ha costituito, negli ultimi anni, una rotta per l’emigrazione clandestina verso l’Europa: altrettanto non era possibile dalla Tunisia, a fronte dello specifico sistema repressivo di Ben Ali.

Gheddafi ha strumentalizzato ed enfatizzato la specifica tematica come elemento, talvolta, di ricatto verso l’Europa; il regime libico si è così assicurato una rendita finanziaria e politica. L’Italia, peraltro, ha firmato un accordo bilaterale con la Libia (non un accordo europeo: c’era già la Frontex).

L’emigrazione clandestina è oggi gestita da organizzazioni transnazionali; se si chiude una rotta, l’organizzazione ne apre un’altra: non è che s’interrompa il traffico, lo si orienta diversamente!

I dati riferiti ai clandestini rinchiusi  nelle carceri libiche indicano una quota di circa 15.000 (risalgono al 2008-2009) e non sono stati aggiornati da allora.

Prima della rivolta, l’emigrazione clandestina dalla Libia aveva raggiunto livelli macroscopici: solo il 15% dei clandestini, una volta arrivati in Italia, si fermava nel nostro Paese; il resto “transumava” in altri Paesi.

Da considerare altresì che la piaga dell’immigrazione clandestina è anche quella proveniente dall’Est europeo, anche se, per ragioni varie, si tende a demonizzare il “clandestino africano” che sicuramente ha minore capacità di inserimento, rispetto alle altre comunità di clandestini.

In sintesi, si fa fatica a pensare che la filiera dell’immigrazione clandestina possa “ripartire” dalla Libia, in assenza di una situazione politico-sociale adeguata: si tratta di un problema che, a mio avviso, dovrebbe coinvolgere l’intera Comunità europea e che in tale ambito dovrebbe trovare soluzione, senza delegarne la responsabilità al Paese la cui frontiera viene attraversata dal “clandestino”.

Dopo la Tunisia, l’Egitto e la Libia, si aspettano analoghe rivolte in altri Paesi del mondo arabo? Con quali conseguenze?

L’Algeria, che ha una situazione sociale esplosiva (peggiore forse di quella dell’Egitto e della Tunisia) a fronte di una “soddisfacente” scolarizzazione dei suoi giovani, si è sinora salvata dall’onda delle rivolte; il regime algerino, dopo le rivolte del FIS del 1990/91, ha acquisito un certo know-how sulla gestione di queste emergenze sociali.

Il “contagio rivoluzionario” che sta percorrendo il mondo arabo è positivo, se ci si limita ad una valutazione di merito sui diritti umani e sulla libertà di quei popoli; diventa ovviamente pericoloso in riferimento al parametro della stabilità.

E’ chiaro che in questi Paesi, dove la cultura della “ gestione del potere” si basa su esempi di prevaricazione e non di consenso, il risultato finale di queste rivolte può essere anche un’altra dittatura.

A questo punto però potrebbe valere un’altra considerazione: la politica estera di un Paese può essere basata sui principi o sugli interessi; generalmente prevale questa seconda opzione (il “pecunia non olet” di romana memoria) .

Parlare oggi di principi universali quando si sono ignorati più o meno volutamente molti aspetti liberticidi dei “nostri clienti arabi”, sa un po’di ipocrisia; ma non mi preoccuperei molto del futuro! Qualunque regime si affermerà nei Paesi del mondo arabo, un “affarista” che cura i propri interessi, lo troverà sempre…

Per finire, quali sono i risultati ai quali sono pervenuti finora i vari Paesi attraverso le rivolte in atto, nel mondo arabo?

Per rispondere con maggiore chiarezza, si può ricorrere alla schematizzazione delle principali fasi di una rivolta, ovvero: 1) la “piazza”; 2) l’allontanamento anche “spontaneo” del “dittatore” dal potere; 3) la “transizione”.

In tale contesto, la situazione dei Paesi considerati può essere così sintetizzata:

  • in Tunisia ed in Egitto, la protesta della “piazza” ha portato all’allontanamento “spontaneo” dei due regimi dal potere, rispettivamente di Ben Ali e di Mubarak: siamo cioè alla fase di “transizione”! Non mancano talune complicazioni, nel senso che la “piazza” rifiuta gli esponenti collusi con il precedente regime: a Tunisi, Mohammed Gannouchi è stato costretto alle dimissioni, dopo una serie di scioperi; al Cairo, Essam Sharaf, già Ministro dei Trasporti egiziano dal 2004 al 2005, ha sostituito Ahmed Shafqi, in precedenza Primo Ministro, al tempo di Mubarak;

  • la Libia per contro si trova in una fase di estrema gravità: è ormai “guerra civile”, con una spaccatura del Paese nelle due regioni storiche (Cirenaica e Tripolitania), dove si fronteggiano i fedelissimi di Gheddafi (32^ Brigata e Legione Islamica, supportate dalla Aeronautica Militare libica, per la riconquista delle piazze e delle aree petrolifere perdute) e i “rivoltosi” del Consiglio Nazionale di Liberazione, con sede a Bengasi. Non si esclude, a meno dell’abbandono del Paese da parte di Gheddafi, un intervento delle Forze NATO su decisione ONU, dopo l’attivazione di una “no fly zone”;

  • negli altri Paesi , la caduta del “muro arabo” non presenta al momento aspetti di estrema gravità; si tratta di Paesi dove ancora si riscontrano sentimenti di rispetto per la tradizione monarchica del Paese (Marocco, Giordania e Bahrein) e fiducia nelle riforme promesse; e dove la “piazza” non ha ancora individuato il leader di fiducia e la repressione ottiene risultati!

  • Da osservare infine che, negli altri Paesi di cui alla schematizzazione, la strategia degli USA, in questi ultimi giorni, sembra più orientata verso “cambiamenti di regime” graduali, non radicali.

Intervista a cura di Chiara Maria Leveque [email protected]

I perchè del Maghreb in rivolta – III

Terza puntata del documento del Gen. Cascone, che in esclusiva illustra le dinamiche che hanno portato agli eventi nel Maghreb delle ultime settimane. Dopo Egitto e Tunisia, come tutti sappiamo è toccato alla Libia. Come si è arrivati alla cronaca degli ultimi giorni? Ripercorriamo come tutto ha avuto inizio in Libia, allargando il cerchio anche ad altre situazioni meno note: Algeria, Gibuti, Giordania, Bahrein

3. LA RIVOLTA IN ALTRI PAESI DEL MAGHREB

CONTESTO – L’incendio provocato dalla rivolta in Tunisia ed Egitto e la sua propagazione negli altri Paesi del mondo arabo, senza escludere manifestazioni significative in altre aree contigue che, seppure non “arabe” (vedasi Iran e la sua “onda verde”), hanno, per forza di cose, sviluppi e tempi differenti nell’attuazione delle fasi della possibile schematizzazione più volte indicata, ovvero: le manifestazioni di piazza (sinteticamente, la “piazza”), l’allontanamento dal potere del “regime” e la transizione. Allo stato attuale, i Paesi presi in considerazione,tranne Tunisia ed Egitto (già alla fase “transizione” dopo l’allontanamento dal potere rispettivamente di Ben Ali e Mubarak), sono tuttora alla “piazza” con vicissitudini di scontri più o meno determinati; in questo contesto si distingue per violenza e numero di morti la Libia dagli sviluppi di situazione incerti che sfuggono ad ogni possibile previsione.

L’esame partirà proprio dalla Libia per l’incidenza degli avvenimenti sulla situazione del nostro Paese e per la durezza degli scontri e della repressione da parte del regime.

Per gli altri Paesi si farà riferimento soprattutto agli interessi (nel settore della sicurezza e della cooperazione nell’area maghrebina) del nostro Paese, dell’Unione Europea e della Comunità Internazionale; interessi minacciati dalla rivolta in questione; in particolare, ci si riferisce ai Paesi del “mondo arabo”, vincolati da accordi di cooperazione ed economici nei settori dell’immigrazione clandestina, del narcotraffico, e della criminalità organizzata (Libia, Algeria), delle concessioni per lo sfruttamento dei giacimenti di risorse energetiche da parte di ditte straniere e multinazionali, Italia compresa, come i già citati Paesi (Libia, Algeria), e delle concessioni per l’utilizzazione di basi militari (Bahrein e Gibuti).

LIBIA: E' INIZIATA COSI' – In Libia, la fase più significativa della rivolta di piazza si è registrata inizialmente in Cirenaica, nelle città di Bengasi, Al Beida, Derna e Tobruch, fino al confine con l’Egitto; la violenza della repressione, nell’intenzione del leader libico Gheddafi, tendeva ad evitare l’estensione della rivolta in Tripolitania, a Tripoli in particolare dove in una installazione fortificata permane tuttora Gheddafi.

Bengasi, centro del potere alternativo a Tripoli, negli anni precedenti è stata intenzionalmente trascurata dal regime, ai fini della modernizzazione e dello sviluppo economico e sociale.Nel corso dei tre giorni di duri scontri seguiti al 17 febbraio “giorno della collera” (anniversario della feroce repressione del 1996, operata dal regime contro centinaia di oppositori ristretti nel carcere di Abu Salem), la violenza ha toccato la punta massima attraverso l’impiego, in aggiunta alle Forze dell’Ordine libiche, dei ”mercenari” provenienti dai Paesi limitrofi (Ciad, Uganda e Benin) e trasportati in Libia da aerei di linea partiti dal Benin: si parla di alcune centinaia, ben pagati (da 10.000 a 30.000 dollari per l’ingaggio, oltre a paghe giornaliere rilevanti e premi per ciascun manifestante ucciso). All’impiego di mercenari si aggiunge l’intervento di elicotteri armati contro la folla che ha fatto crescere il numero delle vittime: da duecento a cinquecento, e poi fino a mille morti, nella sola Cirenaica.

GHEDDAFI JUNIOR – Il giorno 20 febbraio, quando Bengasi evidenziava i segni di un’imminente sua caduta nelle mani dell’opposizione (occupazione di piazze, seguita dall’incendio di strutture governative – comandi e caserme) è stato trasmesso un comunicato TV del secondogenito di Gheddafi, Saif al Islam, il quale:

    • attribuiva la violenza a mercenari assoldati da uomini di affari, allo scopo di trarre vantaggi personali dalla frantumazione del Paese: dividere la Cirenaica dal resto del Paese, istituendo un governo a Bengasi ed un emirato ad Al Beida;

    • invitava a porre fine all’inutile spargimento di sangue che sicuramente avrebbe dato corso a una guerra civile;

    • annunciava la riunione del “Congresso del Popolo Libico” per il giorno dopo allo scopo di varare nuove leggi a favore della libera informazione e dei diritti civili.

    Il tono era quello di un aut aut, prima di ulteriori azioni di violenza, da parte del regime.

    Sul piano internazionale:

      • alla preoccupazione degli Stati Uniti per gli sviluppi di situazione in Libia, si aggiunge l’invito del Presidente Obama a fermare il massacro dei civili e la condanna di Hillary Clinton (Dipartimento di Stato) della repressione definita “inaccettabile”;

      • nei confronti dell’Unione Europea, il regime di Tripoli annullava la propria collaborazione sul controllo dei flussi migratori; peraltro avrebbe liberato dalle carceri alcuni criminali comuni, impiegandoli armati per la propria difesa.

      Dopo i fatti di Bengasi e di altre città della Cirenaica, la violenza della repressione si è concentrata sulla Tripolitania:

        • a Tripoli, aerei da combattimento hanno bombardato alcuni quartieri nei dintorni del Q.G. di Gheddafi (il bunker di Bab al Azizya), già bombardato nel 1986 dagli aerei americani ;

        • a Zania, sono stati incendiati i palazzi del governo;

        • a Nalut, sarebbe stato interrotto il flusso di gas verso l’Italia.

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        GHEDDAFI SENIOR – Dopo il secondogenito Saif al Islam, anche il padre Muammar Gheddafi si è rivolto al popolo libico con toni ancora più infuocati, sostenendo:

        – di essere il capo della rivoluzione, sinonimo di sacrificio fino alla fine;

        – la Libia guiderà l’Africa e l’America del sud;

        – finora non è stata usata la forza; se costretti, “lo faremo”;

        – gli americani e gli italiani hanno fornito le armi (razzi) ai manifestanti di Bengasi.

        Mentre dal suo Q.G. Gheddafi pronunciava la sua invettiva delirante, gli incitamenti della folla lo invitavano ad abbandonare il potere; aerei ed elicotteri governativi continuavano la carneficina, bombardando indiscriminatamente; si parla ora di più di 10mila morti in tutto il Paese, secondo l’emittente al-Arabya. I soldati disertori vengono mutilati.

        Due navi militari i cui comandanti si sono rifiutati di bombardare Bengasi dal mare, fanno rotta verso Malta con gli equipaggi costituiti da disertori; analoga destinazione per due piloti dell’Aeronautica libica che hanno scelto” la rivolta” contro il regime, piuttosto che bombardare le proprie città. Il Ministro degli Interni Abdel Fatah Yunis, braccio destro di Gheddafi, si è unito alla popolazione e alla rivolta contro il regime; come pure gli ambasciatori libici di molti Paesi si sono dimessi dichiarandosi a favore della “rivoluzione”.In sintesi, il controllo sul territorio da parte del regime libico sarebbe limitato alla città di Tripoli e a pochi altri centri.

        Il personale straniero appartenente alle multinazionali del settore petrolifero, ENI compreso, è rientrato in patria.

        ALGERIA – In Algeria, il 20 gennaio lo stato di precarietà in cui vive la popolazione e le conseguenti risposte del regime, hanno portato la folla in piazza e a scontri con le Forze dell’Ordine, quando il movimento di protesta ha cercato di raggiungere il Parlamento.

        Le manifestazioni di protesta sono proseguite nei giorni successivi; il 19 febbraio scorso, si sono registrati scontri nella Piazza “Primo Maggio”: una decina di feriti, tra i quali il deputato dell’opposizione Tahar Besbes. La risposta del regime del Presidente Bonteflika, per calmare le acque, ha riguardato promesse di riforme politiche, economiche e sociali (tuttora allo studio) e alcuni provvedimenti già in vigore:

          • rimozione dello stato di emergenza in vigore nel Paese dal 1992;

          • avvio del rimpasto di governo, con la “promozione” a premier del Ministro Youcef Yousfi. Quest’ultimo aveva assunto la carica di Ministro per l’Energia, dopo un’inchiesta, per i fatti di corruzione del 2010, che avevano colpito i vertici della Compagnia petrolifera di Stato (Sonatrach).

          Da rilevare che i rifornimenti di gas attraverso il gasdotto GALSI (Algeria – Sardegna – Italia, con la partecipazione di Sonatrach 41,6%, Edison 20,8%, Enel 15,6% ecc.,) stanno subendo rallentamenti a causa della crisi del mercato, non disgiunta dalle già citate vicende di corruzione che hanno coinvolto i vertici della Compagnia Sonatrach.

          GIBUTI – Le agitazioni e gli scontri a Gibuti tra l’ opposizione al Presidente Guelleh e le Forze dell’Ordine sono all’attenzione oltre che per le proteste della popolazione per il carovita, anche per le possibili incidenze sulla situazione di sicurezza delle “task force” navali che vi fanno base sia per il controllo del traffico via mare del canale di Suez sia contro la pirateria. Il peggioramento delle condizioni di vita della popolazione ha comportato ulteriori manifestazioni e scontri.

          GIORDANIA – Anche in Giordania, l’ondata delle rivolte del Maghreb ha avuto ripercussioni sulla popolazione, con manifestazioni contro il governo. A seguito delle proteste della popolazione per l’aumento dei prezzi dei generi di prima necessità e del carovita più in generale, il Primo Ministro Rifai ha rassegnato le dimissioni, e la formazione di un nuovo esecutivo incontra difficoltà.

          BAHREIN – Il il risultato elettorale dell’ottobre scorso ha fatto registrare una significativa affermazione del partito al-Wefaq (“sciita”) che si oppone alla Monarchia degli al-Khalifa, di confessione “sunnita”; il leader del partito di al-Wefaq, Ali Salmon, rivendica il diritto di condividere il potere, in quanto il suo partito non è rappresentato nell’esecutivo.

          L’opposizione è scesa in piazza, in questi ultimi giorni per chiedere riforme costituzionali; anche il regime ha fatto i suoi passi, schierando mezzi blindati e carri armati nella “Piazza della Perla” che i manifestanti intendono denominare Piazza Tahir, in analogia a quella del Cairo.

          I reparti militari successivamente sono rientrati nelle caserme, a seguito di specifico ordine di re Hamad il quale ha offerto all’opposizione possibilità di incontro e di dialogo, e questo anche su suggerimento del Presidente USA Obama, preoccupato per il deteriorarsi della situazione di sicurezza in relazione alla presenza della 5^ flotta USA in Bahrein.

          Il dialogo con l’opposizione che chiede le dimissioni del Primo Ministro Salmun, non ha sortito gli effetti sperati; le dimissioni di Salmun che governa il Paese da 40 anni non possono essere accettate dalla Monarchia.

          Permane pertanto nel Paese lo stato di tensione che ha comportato tra l’altro l’annullamento del primo Gran Premio automobilistico 2011 di “Formula Uno”, programmato in Bahrein.La situazione preoccupa non poco anche il regime saudita per il possibile contagio degli sciiti del Bahrein con la minoranza sciita dell’Arabia Saudita.

          (3. continua. Leggi qui le prime due puntate: I perchè del Maghreb in rivolta – I; I perchè del Maghreb in rivolta – II)

          Gen. Saverio Cascone (testo raccolto da Chiara Maria Leveque) [email protected]

          Tsunami in Giappone

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          Si possono seguire gli sviluppi della tragedia anche tramite alcune agenzie di stampa giapponesi (in lingua inglese): Jiji Press e Kyodo News

          Si possono seguire gli sviluppi della tragedia anche tramite alcune agenzie di stampa giapponesi (in lingua inglese): Jiji Press e Kyodo News

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          La svolta delle democrature?

          Ultima parte del documento in esclusiva del Gen. Cascone. Tra piazze e fasi di transizione, è possibile sin d'ora indentificare alcuni fili rossi comuni che hanno caratterizzato le rivolte nei vari Paesi, il ruolo della politica e della religione, le conseguenze possibile e i diversi aspetti ancora da definire. Infine: cosa vuol dire “democrature”? Lo scopriremo solo leggendo…

          (segue. Leggi qui la prima, la seconda e la terza parte del report)

          4.CONSIDERAZIONI CONCLUSIVE

          TRA PIAZZE E TRANSIZIONI – Appare sicuramente prematura una valutazione della portata della rivolta in esame, che si è propagata in quasi tutti i Paesi del Maghreb con grande velocità, dei suoi effetti e dei possibili conseguenti cambiamenti.

          Molto si è visto e ragionevolmente molto è ancora da vedersi, specie se si accetta la schematizzazione più volte citata in questo report.

          Solamente due Paesi di quelli in esame, Tunisia ed Egitto, sono pervenuti alla cosiddetta fase di transizione, dopo che il “dittatore”, rispettivamente Ben Alì e Mubarak, è stato allontanato dal potere; mentre gli altri Paesi sono ancora alla “piazza”, seppure con una portata differenziata della violenza, negli scontri tra la popolazione e le forze del regime (esercito e/o polizia).

          Anche per questi ultimi Paesi, sembra a fattor comune la volontà della piazza di pervenire a risultati concreti; la situazione complessiva si presenta come indicato di seguito:

            • Paesi che nonostante le offerte di dialogo e di possibili revisioni delle norme istituzionali da parte del regime, puntano al “tutto e subito” (Libia, in testa) e lo scontro ha assunto connotazioni estreme;

            • altri Paesi dove la piazza si era già attivata e reparti militari la controllavano, allorquando blindo e carri armati sono rientrati nelle caserme, evidenziano esitazioni per intraprendere ulteriori iniziative, pur essendo contrari, in parte o in toto, alle proposte del regime (Bahrein);

            • altri Paesi governati da Monarchie tradizionali (Giordania, Marocco, etc.) più altri ancora che non hanno individuato possibili leader che li rappresentino per la successiva fase di transizione si limitano a manifestazioni antiregime per portare allo scoperto le condizioni di sopravvivenza, le ingiustizie e la precarietà in cui sono mantenuti.

            NE' POLITICA, NE' RELIGIONE – A questo punto, in riferimento alle cause, ai protagonisti e alle modalità di svolgimento della rivolta, sembrano possibili le seguenti considerazioni :

                • si tratta di una rivolta che non appartiene a leader politici, di sinistra o di destra, non ha una colorazione politica e nemmeno religiosa, anche se, a proposito dell’Egitto, più volte sono stati visti in prima linea i Fratelli Musulmani;

                • i giovani vi hanno partecipato a maggioranza; in particolare l’organizzazione della rivolta intesa come gestione delle comunicazioni tra i partecipanti, ha visto all’opera giovani in possesso delle necessarie nozioni informatiche per assolvere il compito, quelle stesse che utilizzano per tutte le attività quotidiane; questa non è solo specificità del “Maghreb del momento”: ai social network si era già fatto ricorso in precedenti situazioni: in Iran ad esempio con l’ “onda verde”;

                • le modalità generalmente utilizzate sono quelle della “rivolta non violenta” da parte della piazza (fin dove possibile e sicuramente all’inizio). Anche per questo aspetto non si è trattato di una novità in quanto i giovani del Cairo hanno tenuto nella dovuta considerazione i criteri esposti nel suo saggio dalla “Dittatura alla democrazia” da Gene Sharp, come già avevano fatto altri movimenti giovanili tra i quali il movimento “Optor” serbo (contro Milosevic).

                Il saggio prevede manifestazioni di massa, senza spargimento di sangue, al fine di costringere il governo in carica ad abbandonare il potere (boicottaggio di attività istituzionali, incitamenti vari alla disobbedienza nei confronti di Polizia e militari, adozione di slogan contro il governo, etc.).

                DEMOCRATURE – Sulla base di queste considerazioni, sembra possibile conferire un’etichettatura a tutto il processo di ribellione nel Maghreb che, partendo dalla fine del colonialismo, ha aperto la strada a sistemi di governo che, secondo il già citato neologismo, sono definiti “democratura” ovvero democrazia più dittatura, contro i quali ha reagito la popolazione; si tratta in sintesi di una “rivolta generazionale non violenta, laica, fatta da “giovani in prevalenza alfabetizzati”, contro regimi solo in parte “democratici” (ovvero solamente per quanto di loro interesse), allo scopo di acquisire condizioni di vita adeguate, in un contesto sociale di corruzione e sopraffazione, spesso in assenza di diritti umani.

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                LE CONSEGUENZE – Questa prima fase della rivolta – identificata come la “piazza”- per molti Paesi e, per due di questi (Tunisia ed Egitto), anche la fase successiva il rovesciamento o l’allontanamento spontaneo del “dittatore” dal potere, ha provocato conseguenze di grande criticità:

                  • l’afflusso di rifugiati sul nostro territorio in numero superiore alle capacità ricettive dei Centri di accoglienza ;

                  • ulteriori afflussi prevedibili potrebbero raggiungere quote non compatibili con le possibilità di accoglienza del nostro Paese e postulano un coordinamento ed interventi da parte della Comunità Europea;

                  • criticità nel soccorso alle popolazioni più esposte alla repressione in termini di feriti (in Cirenaica, per esempio, scarsa o nulla la possibilità di trasfusioni di sangue);

                  • si prevedono considerevoli criticità anche nel settore delle risorse energetiche (gas, petrolio) in conseguenza del blocco delle attività in alcuni Paesi (Libia, in particolare), per quanto si riferisce ai rifornimenti e alla crescita del prezzo sul mercato;

                  • sul piano della sicurezza, sussistono difficoltà di accoglienza e anche di controllo dei rifugiati, in quanto non sembra possibile, senza specifica organizzazione e concorsi da parte della Comunità internazionale, individuare coloro che, per motivi vari, sono usciti dalle carceri del Paese di provenienza e che prevedibilmente andranno ad ingrossare le fila della criminalità e del narcotraffico sul nostro territorio.

                  Si aggiungono le incognite connesse con la fase di transizione che, almeno per Tunisia ed Egitto, è basata sul ruolo corretto e “costituzionale” delle Forze armate che, come già si è detto, hanno la responsabilità di tale fase.

                  Per quanto si riferisce all’Egitto, l’Esercito è stato sempre “della partita”, mentre le Forze armate tunisine sono state tenute generalmente “lontane” dai Centri di potere.

                  CHIUDIAMO CON GHEDDAFI – Questo in generale, e la Libia? Un quadro di situazione “estremo”, diverso da quello degli altri Paesi presi in esame: il leader Gheddafi nel Q.G., il bunker di Bab al Azizya di Tripoli, difeso dai fedelissimi, Forze Speciali e “mercenari”.

                  Mentre aumentano le defezioni nelle fila delle Forze Armata e della Polizia, la “piazza”, nel senso ricorrente in questo report, si avvicina alla Capitale libica e la repressione diventa sempre più violenta e decisa, nonostante l’invito al dialogo del figlio Saif al Islam, in un primo tempo, e dello stesso Gheddafi uscito dal bunker e portatosi nella significativa “Piazza Verde”. A questo punto, quale la possibile reazione del leader libico di fronte alla condanna generalizzata e alla minaccia di provvedimenti estremi anche militari (“no fly zone”, ecc.) da parte della Comunità internazionale? Si prende in considerazione, ai fini di una possibile risposta, la precedente reazione di Gheddafi al bombardamento del 1986 da parte di aerei USA su Bab al Azizya: l’invio di un missile su Lampedusa.

                  E, allo stato attuale, quale potrebbe essere la reazione di chi si è dichiarato tuttora ”capo della rivoluzione”(quella del 1969), sinonimo di sacrificio fino alla fine? L’impiego, come ultima chance, di aggressivi chimici (ammesso che ne disponga), e/o la distruzione delle infrastrutture dei giacimenti petroliferi: “muoia Sansone” ecc. Tanta imprevedibilità e una sola certezza: una situazione di estrema attenzione, dagli sviluppi comunque preoccupanti, sicuramente con ripercussioni sull’area del Mediterraneo e oltre.

                  (Fine. Leggi qui la prima, la seconda e la terza parte del report)

                  Gen. Saverio Cascone (testo raccolto da Chiara Maria Leveque) [email protected]

                  L’Asia Centrale tra competizione e conflitto

                  Il giro del mondo in 30 caffè – L’Asia Centrale è una delle regioni meno integrate nel sistema internazionale. Tuttavia, la ricchezza di risorse energetiche di Azerbaigian, Turkmenistan, Kazakistan, Uzbekistan e Tagikistan e la loro posizione geografica, hanno reso questi paesi sempre più interessanti per i grandi attori del sistema internazionale, che corteggiano quest’area in cerca di vantaggi

                   

                  SCARSA INTEGRAZIONE REGIONALE: COMPETIZIONE E CONFLITTO – Sorti dalle ceneri dell’URSS, i paesi dell’Asia Centrale hanno fallito nell’amministrare in modo autonomo ciò che prima era sotto il controllo centralizzato di Mosca. Durante il 2010 non si sono verificati passi significativi per una maggiore integrazione regionale dell’area e le relazioni tra i vari attori continuano a correre sul filo della competizione e talvolta dello scontro piuttosto che su quello della cooperazione. Una più articolata integrazione gioverebbe senz’altro a questi stati che avrebbero così un maggior peso come attori nel panorama internazionale e potrebbero trovare soluzioni condivise a problemi comuni come il terrorismo islamico e la gestione delle scarse risorse idriche. Nel corso del 2010, infatti, proprio la gestione delle risorse idriche ed energetiche ha fomentato rapporti conflittuali tra Uzbekistan e Kirghizistan e Tagikistan e il terrorismo islamico che affligge l’intera regione occupata da questi tre paesi ha creato problemi soprattutto in Tagikistan dove, in agosto, l’evasione dalla prigione di Dushanbe di alcuni terroristi ha provocato scontri che hanno portato alla morte di un numero imprecisato di vittime. Inoltre, non va sottovalutata la tensione etnica che sussiste tra i vari popoli, che in giugno ha scatenato pesantissimi scontri tra uzbeki e kirghisi nel sud del Kirghizistan, scatenando un afflusso di massa di profughi uzbeki verso l’Uzbekistan e un inasprimento delle relazioni tra i due paesi. Lo stato che emerge tra gli altri è comunque l’Uzbekistanpotenza regionale demografica e militare – che aspira ad un ruolo di maggior peso in competizione con il Kazakistan, secondo stato forte dell’area. Le aspirazioni regionali dell’Uzbekistan si sono mostrate nell’ottobre del 2010, quando il Turkmenistan ha inaugurato un nuovo gasdotto gestito da compagnie russo-turkmene. Questo progetto ha suscitato la reazione di Tashkent, che ottiene vantaggi economici dal transito di un gasdotto che collega il Turkmenistan alla Cina e teme che l’avvicinamento tra Mosca e Ashgabat possa significare un allontanamento tra quest’ultima e Pechino.

                   

                  RAPPORTI CON OCCIDENTE, RUSSIA E CINA: POLITICHE MULTI VETTORIALI – Le cinque repubbliche dell’Asia centrale hanno, a livelli diversi, importanti riserve energetiche di petrolio e gas e sono consapevoli di essere in una forte posizione negoziale nei confronti di partner occidentali, Russia e Cina. Tutti gli stati stanno utilizzando la loro posizione a proprio vantaggio portando avanti politiche multivettoriali, mirate a instaurare “partenariati strategici” con più potenze possibili, in modo da massimizzare i vantaggi di tali relazioni. Il livello di collaborazione con le grandi potenze è però diverso: Kazakistan e Uzbekistan sono i paesi più attivi, anche se quest’ultimo mantiene rapporti preferenziali con la Russia e non ha forti relazioni con l’Occidente soprattutto a causa di problemi legati a rispetto dei diritti umani.

                  L’Occidente corteggia l’Asia Centrale da tempo, cercando una collaborazione energetica sempre più stretta. Molti sono i progetti già attuati come il gasdotto Nabucco, approvvigionato da gas kazako e turkmeno del Mar Caspio. Inoltre, la vicinanza all’Afghanistan e al Medio Oriente rende i cinque -stan un luogo prezioso per il posizionamento delle truppe alleate (NATO). Proprio questa necessità ha rotto l’isolamento in cui l’Occidente aveva lasciato l’Uzbekistan e portato al primo incontro tra i leader Barroso, Rasmussen e Kadirov in sei anni proprio nel gennaio 2011.

                  Da parte sua, Mosca ha recentemente stretto accordi per includere il Turkmenistan nel progetto South Stream e il suo interesse in quest’area risente di due elementi: valutazioni di carattere economico ed energetico e della dottrina dell’estero vicino, secondo la quale la Russia conserva un forte interesse nel mantenere i paesi dello spazio post sovietico all’interno della propria sfera di influenza.

                  Infine, il ruolo di Pechino non va assolutamente sottovalutato: la Cina ha avviato diversi progetti di approvvigionamento energetico basati sulle risorse dell’Asia Centrale e i suoi rapporti con i cinque –stan sono stati consolidati nel corso della storia. Nel 2001 la Cina, insieme a Kazakhstan, Kyrgyzstan, Russia, Tajikistan, and Uzbekistan ha dato vita alla a SCO (Shangai Cooperation Organisation), un’organizzazione per la cooperazione militare ed economica tra i vari stati, che si incontrano una volta l’anno. Gli interessi di Pechino sull’Asia Centrale riguardano principalmente la lotta al terrorismo islamico e la cooperazione economica ed energetica, che darebbe stimolo all’area dello Xinjiang.

                   

                  PROSPETTIVE PER IL FUTURO: Il forte senso di nazionalità di ciascun paese/nazione e i problemi legati alle risorse sono un forte ostacolo alla formazione del consenso necessario ad una maggiore integrazione regionale, che tuttavia gioverebbe a tutti i paesi della regione. Al momento non sussistono i presupposti per una collaborazione e al contrario, sussistono alcuni rischi per la stabilità dell’area. Un potenziale per ulteriori tensioni etniche e religiose continua ad esistere rispettivamente in Kirghizistan e in Tagikistan e, data la prossimità dei territori, non è da escludere un potenziale per un’influenza reciproca.

                  Gli esiti della competizione internazionale nella regione, tuttavia, rimangono tutt’altro che scontati ed è difficile fare una previsione per il futuro: probabilmente, un riavvicinamento tra EU/NATO e Uzbekistan in dovuto alla necessità di nuove vie verso l’Afghanistan per l’alleanze atlantica e un rafforzamento dell’asse Turkmenistan-Russia sono gli scenari più probabili per questo 2011.

                  La politica multi vettoriale portata avanti dall’Asia Centrale è comunque quella che assicura maggiori vantaggi e molto probabilmente avrà una certa continuità nel futuro. Chi tra Russia, Cina, Usa ed Europa riuscirà a trarre i maggiori benefici è però una sfida ancora aperta.

                   

                  Tania Marocchi

                  I perchè del Maghreb in rivolta – II

                  Seconda puntata del focus speciale del Gen. Cascone sugli storici eventi di queste settimane. Si torna in Egitto: in un'unica analisi, ripercorriamo le prime scintille di rivolta, i dietro le quinte, le motivazioni delle decisioni più rilevanti della piazza e di Mubarak, le ultime disperate mosse del Faraone e i primi provvedimenti del post-Mubarak.

                  (segue da I perchè del Maghreb in rivolta – I)

                  L'EGITTO E LA RIVOLTA DEL WEB

                  UNA PIAZZA, DICIOTTO GIORNI – La rivolta del Cairo, nella sua fase più significativa per l’attività mediatica, è durata 18 giorni, dal 25 gennaio al 12 febbraio 2011; questa fase, secondo la possibile schematizzazione già indicata, si è conclusa con l’uscita dalla Capitale del Presidente Hozni Mubarak, rifugiatosi nella residenza di Sharm el Sheikh e che attualmente verserebbe in condizioni di salute gravi, secondo i mass-media.

                  La rivolta “non violenta”, secondo gli intendimenti dei giovani organizzatori, si è estesa in breve tempo a tutto il Paese (oltre alla Capitale, a Suez e ad Alessandria, in particolare), ha avuto come teatro la piazza Tahir (in arabo vuol dire “libertà”) del Cairo; ha fatto registrare più di 300 morti e 500 feriti. Anche quì, come a Tunisi, preponderante la presenza di giovani.

                  SEI APRILE E DEMOCRATURA – Tra i più attivi per l’aspetto organizzativo e per la gestione delle comunicazioni (internet, social network ecc.), i giovani del movimento di protesta antiregime “6 aprile” di Ahmed Maher e di altri giovani esponenti, studenti soprattutto, dopo anni di studio senza aspettative per il futuro e delusi dalla gestione del potere ingiusta e clientelare. Il movimento “6 aprile” prende il nome dal 6 aprile 2008 la data di uno sciopero dei lavoratori nella città industriale di El Mahalla El Kubra; per l’occasione, i giovani del movimento in questione, fornirono il proprio supporto in fase organizzativa e nel corso dello sciopero.

                  L’attività del movimento è proseguita nei mesi successivi attraverso l’approfondimento e lo studio delle tecniche utilizzate in recenti rivolte, specie di quelle non violente, ispirandosi agli scritti di Gene Sharp, professore dell’Università di Harvard classe 1928, già in contatto con i giovani serbi del “Movimento Otpor” che rovesciò Milosevic. Il giovane Ahmed Maher ha trascorso due settimane a Belgrado, prima degli avvenimenti egiziani del 2011, per approfondire gli aspetti organizzativi della rivolta serba.

                  In sintesi, i criteri di base e le fasi di una rivolta, secondo Gene Sharp, si possono così sintetizzare:

                  • individuazione dell’essenza del potere che costituisce “obiettivo della rivolta”, ovvero le fonti d’ispirazione e le cause a fattor comune delle varie rivolte, prima fra tutte la legittimità del regime;

                  • in secondo luogo, la prevedibile reazione del regime, tenendo presente che la rivolta con carattere violento giustifica una reazione altrettanto violenta da parte del regime attraverso i suoi apparati di difesa (Polizia, F.A. ecc.);

                  • la perdita di legittimità porta alla disobbedienza, molto contagiosa in entrambi i campi: quello del potere (Forze dell’Ordine e F.A.) e quello della “piazza”;

                  • l’esempio della rivolta in un Paese è trascinante per gli altri Paesi (confinanti e/o accomunati dalle stesse radici storiche, religiose, di lingua ecc.), come sta avvenendo nel mondo arabo, dove, alla fine del periodo coloniale, sono state istituite forme di governo che, all’apparenza democratiche (elezioni discutibili ai fini del risultato, libertà “controllate” ecc.), in sostanza si concretizzano in autoritarismi vari, che possono essere sintetizzati in neologismi vari, ad esempio “democratura” (democrazia più dittatura).

                  WEB E GUERRIGLIA – La “rivolta del web”, così etichettata per il ruolo avuto dai mezzi di comunicazione, i “social network”, a partire dal 25 gennaio scorso, si è estesa a tutto il Paese, mobilitando il dispositivo di Polizia e tenendo l’Esercito in prossimità dei rivoltosi, pronto a intervenire. Con la manifestazione del 25 gennaio, gli scontri tra Forze dell’Ordine e “piazza” hanno assunto la configurazione di guerriglia urbana: lancio di sassi, idranti e bastoni, i primi feriti.

                  Le scene di guerriglia urbana convincono il Dipartimento di Stato USA a intervenire: le Autorità egiziane sono state invitate a non bloccare le manifestazioni pacifiche e a consentire le comunicazioni dei manifestanti, anche quelle dei social network (Facebook, Twitter ecc.); tutto questo per l’autorevolezza che deriva agli USA dallo stanziamento di fondi (30-35 miliardi di dollari l’anno) per il controllo dei movimenti islamici estremisti tra l’altro. Sul piano interno, Mubarak ha potuto riscontrare il “non gradimento” delle Istituzioni alla sua successione da parte del “delfino” predesignato, il figlio Gamal.

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                  SPUNTA IL NOBEL – Mentre dilagano gli scontri e cresce il numero dei morti (impiego delle armi da parte delle Forze dell’Ordine), la “piazza” individua e incontra un possibile leader a seguito

                  del suo ritorno in patria il 18 gennaio, di Mohamed El Baradei, già capo dell’Agenzia Atomica (AIEA) di Vienna, 68enne, premio Nobel per la pace, curriculum adeguato per assumere la guida della “transizione del Paese”, ma inizialmente poco propenso all’incarico, in relazione alla situazione non ancora definita :

                  • la “piazza”, sempre più decisa ad allontanare Mubarak dal potere, non dispone di altri leader autorevoli, oltre El Baradei;

                  • i militari, graditi alla piazza, come risulta dagli applausi loro tributati, quando alcuni reparti sono andati in concorso alle Forze di Polizia, su ordine del Presidente Mubarak;

                  • i Fratelli Musulmani, un’Associazione islamica fondata nel 1928 da Hassan al Banna, per finalità non politiche (istruzione religiosa, assistenza sociale e circoli ricreativi), con alterne vicende nei confronti delle istituzioni e dei vari regimi succedutisi in Egitto (ovvero collaborazione con il potere alternata a messa al bando dell’Associazione, ecc.); l’Associazione nel 1981, dopo l’attentato ad opera di estremisti islamici che assassinarono Sadat, è rientrata nella legalità, affermandosi nelle elezioni politiche del 2005 (88 seggi ai Fratelli Musulmani seppure con una formazione politica indipendente).

                  I Fratelli Musulmani, tornando alla “rivolta del web”, sono “della partita”, ma ancora non manifestano intendimenti per il futuro del Paese; probabilmente non abbandoneranno i criteri contenuti nello statuto dell’Associazione (la legge islamica, la realizzazione di uno stato islamico in Egitto, la tolleranza delle minoranze religiose, considerate “dhimmi” cioè protette, in nessun caso, per contro, quali rappresentanti del potere politico; in pratica, escluse).

                  GLI ULTIMI GIORNI DEL RAIS – Il 29 gennaio, altro momento cruciale per la “piazza”: assalti agli edifici del Ministero dell’Interno (esponenti dei “Fratelli Musulmani” in prima linea), spari sulla folla da parte delle Forze dell’Ordine (un centinaio di vittime tra la popolazione), fuga all’estero dei familiari di Mubarak (Londra) e di altri esponenti del regime “dalla coscienza sporca”.

                  E poi ancora un’altra mossa di Mubarak, forse l’ultima:

                  • nomina a vice Presidente della Repubblica di Omar Suleiman, già capo dei Servizi Intelligence del Cairo, 74enne, Accademia Militare del Cairo, addestramento intelligence a Mosca, ben visto dai russi;

                  • formazione di un governo di esponenti militari, per gestire la transizione.

                  I successivi avvenimenti del 30-31 gennaio:

                  • i partiti di opposizione cercano di appropriarsi dell’etichettatura della rivolta egiziana (la sinistra, i Fratelli Musulmani, il movimento “6 aprile” dei giovani non di sinistra né di destra);

                  • i poliziotti abbandonano le “piazze” del Cairo (Tahir, Ramses); mentre la folla assalta i palazzi istituzionali, i carri armati e le blindo dell’Esercito assumono il controllo della piazza;

                  • un bagno di folla acclama El Baradei, al quale si rivolgono anche i Fratelli Musulmani, per la loro rappresentanza, nella transizione.

                  La prima decade di febbraio si caratterizza per l’estremo tentativo di resistenza di Mubarak, gli scontri in piazza tra oppositori e sostenitori del Rais, l’Esercito alla ricerca di una via d’uscita tra il difficile controllo della “piazza” e il mantenimento a distanza della stessa, dagli obiettivi presidiati; in particolare:

                  • Mubarak rompe il silenzio il 1° febbraio dichiarandosi disponibile a un dialogo con l’opposizione e a modifiche costituzionali; peraltro annuncia che non parteciparà a successive elezioni presidenziali per un altro mandato;

                  • El Baradei si dimostra disponibile per l’incarico di Presidente della Repubblica nel “periodo di transizione”;

                  • Suleiman apre una trattativa con le opposizioni, senza risultati significativi;

                  • gli Stati Uniti si dimostrano favorevoli alla “transizione” (Obama è dalla parte dei giovani egiziani), mentre il Dipartimento di Stato (Hillary Clinton) esprime la propria preoccupazione per gli sconvolgimenti degli equilibri in M.O. (“una vera tempesta”).

                  ADDIO FARAONE – Si arriva così al 12 febbraio con la resa di Mubarak che abbandona la Capitale e si trasferisce a Sharm el Shaikh; il potere passa nelle mani di una giunta militare con a capo il Gen. Mohamed Hussain Tantawi, ex Ministro della difesa, fedele al Rais secondo un giudizio della diplomazia USA, nei cablo di WikiLeaks del 2008, “persona cortese e affidabile, resistente al cambiamento”.

                  Da parte del Consiglio Militare sono annunciati i seguenti provvedimenti:

                  • scioglimento delle Camere;

                  • libere elezioni entro sei mesi;

                  • nomina di un comitato di esperti di “normativa costituzionale” per la revisione di alcuni articoli di legge da sottoporre a referendum entro due mesi.

                  Si giunge così agli impegni connessi con il periodo di transizione, dove un ruolo determinante è affidato al vertice militare e al suo capo, il Generale Mohammed Hussein Tantawi.

                  I primi passi del Consiglio Militare sembrano andare nella direzione giusta: l’apertura di un canale di colloquio con i “civili”, come puntualizza un personaggio molto noto della “rivolta”, il capo del marketing di “Google” in M.O., Wael Ghonim, scarcerato il 7 febbraio scorso, dopo 12 giorni di carcere. Ma non è tutto qui!

                  L’interrogativo di base è “da che parte stia l’Esercito”. Anche se, dopo gli avvenimenti del 25 gennaio, i militari non potranno più “sparare sulla folla”, occorre valutare nei prossimi giorni le loro intenzioni per la cessione del potere; sarà necessario soprattutto riscontrare (prima delle elezioni, previste nei prossimi 6 mesi) il superamento da parte dei militari dei sistemi radicati nelle istituzioni, dopo 60 anni di “dittatura”.

                  (2. continua. Leggi qui la prima parte: I perchè del Maghreb in rivolta – I)

                  Gen. Saverio Cascone (testo raccolto da Chiara Maria Leveque) [email protected]

                  Conti in sospeso sul 38esimo parallelo

                  Il Giro del Mondo in 30 Caffè – Le tensioni che hanno fatto temere per la ripresa delle ostilità tra le due Coree nel 2010 sono indice di una frattura geopolitica che, dopo sessant’anni, ancora non è stata rimarginata. Andiamo dunque a vedere quali sono le prospettive per il conflitto tra Pyongyang e Seoul, che potrebbe giungere ad un punto di svolta per il ruolo fondamentale che potrebbe essere giocato da Mosca e Pechino.

                   

                  UNA FERITA APERTA La Guerra Fredda è un ricordo lontanissimo, eppure quel 38° parallelo, storica linea di demarcazione tra Corea del Nord e Corea del Sud, continua ad imporsi all’attenzione della comunità internazionale come una ferita aperta. Impossibile trascurarlo se si vogliono comprendere appieno le dinamiche strategiche di quest’angolo di mondo che chiamiamo Estremo Oriente. A ricordarcelo, ancora una volta, è stata Pyongyang, con una serie di  provocazioni (o dovremmo dire minacce?) avvenute pochi mesi fa.

                   

                  L’affondamento del Ch’onan e il bombardamento di Yonp’ yong Island hanno fatto tremare Seoul, che si è trovata di nuovo di fronte al cosiddetto “vecchio nemico”. Aggettivo decisamente inadeguato, dato che, a pensarci bene, in questa vicenda non c’è proprio nulla di “vecchio”.

                   

                  Al di là della prevedibile condanna giunta da Washington, Tokyo e Seoul, è interessante analizzare le posizioni degli altri due protagonisti dello scacchiere geopolitico est-asiatico, ovvero Pechino e Mosca.

                   

                  Posizioni estremamente diverse tra loro, che sembrano indicare nuove tensioni e nuove aperture, invitandoci a mettere da parte i nostri giudizi pre-confezionati e quella sensazione di “già visto” che non appartiene affatto a quest’ultima crisi coreana.

                   

                  LA SCELTA DI PECHINO – Se è vero che la divisione delle Coree è un retaggio di un ordine delle relazioni internazionali che ormai non esiste (quasi) più, è altrettanto vero che gli eventi dello scorso anno sono stati capaci di provocare reazioni inattese e di rottura con il passato.

                   

                  All’indomani dell’aggressione a Yonp’ yong Island, Stati Uniti e Giappone hanno fatto quadrato attorno alla Corea del Sud nel condannare unanimemente l’atto. Gli USA, in particolare, hanno ventilato l’ipotesi di un “ritorno strategico in Asia orientale”.

                   

                  Ma essendo l’Asia orientale ormai dominata dal gigante cinese, la comunità internazionale si aspettava una reazione forte anche da Pechino. Invece, la Repubblica Popolare Cinese ha scelto il silenzio, lasciando disorientati gli altri membri del Consiglio di Sicurezza e provocando l’ira dei sud-coreani, con conseguente raffreddamento delle relazioni diplomatiche Seoul-Pechino (peraltro già tiepide da molto tempo).

                   

                  Ancora una volta, la Cina ha fatto la parte del leone, contrapponendosi agli Stati Uniti e applicando alla crisi coreana una nuova categoria interpretativa: non più Est-Ovest, ma un groviglio di interessi e tensioni che hanno reso il potenziale conflitto tra le Coree un evento nuovissimo, e non un vecchio ricordo di un’epoca ormai trascorsa.

                   

                  Procediamo con ordine: dopo l’affondamento del Ch’onan, la Cina si è dissociata dal lavoro della fact-finding mission internazionale che avrebbe dovuto chiarire le circostanze dell’aggressione, sostenendo che l’indagine era appesantita da pregiudizi anti-Pyongyang e quindi scarsamente oggettiva.

                   

                  Al momento della redazione di uno statement ufficiale del Consiglio di Sicurezza ONU concernente il Ch’onan, Pechino ha fatto di tutto per annacquarne i contenuti, sempre in nome della moderazione e dell’imparzialità. Lo stesso è avvenuto all’indomani del bombardamento di Yonp’ yong Island. La fiducia che Stati Uniti, Giappone e Corea del Sud avevano riposto in una Cina-mediatrice e pro-Occidente si è praticamente dissolta nel giro di poche settimane.

                   

                  La conferenza stampa congiunta di Hu Jintao e Barack Obama del 19 gennaio 2011 ha aiutato a calmare le acque e frenare la corsa alle armi in Estremo Oriente, ma la Cina dovrà fare ancora parecchia strada prima di potersi ripresentare come un partner affidabile dell’Occidente.

                   

                  In particolare, l’aver difeso la Corea del Nord in sede di Consiglio di Sicurezza è stata una mossa troppo ardita, che Pechino pagherà alla prossima riunione del Six-Party Talk, ovvero il tavolo di discussione sul programma nucleare nordcoreano. Con tutta probabilità, sarà negata alla Cina la possibilità di ergersi ad arbitro della controversia.

                   

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                  LA SCELTA DI MOSCA –  La palla potrebbe quindi passare all’altro big player di questa vicenda, la Russia, ex faro del blocco anti-occidentale, nonché sesto membro del Six-Party Talk. Da quando la Repubblica Popolare Cinese è stata ammessa all’ONU, nel 1971, Russia e Cina hanno esercitato il loro potere di veto in maniera congiunta diverse volte, e hanno sempre coordinato le loro posizioni in materia di politica internazionale. Ma stavolta non è stato così. Se Pechino ha provato a difendere Pyongyang e minimizzare l’accaduto, Mosca ha scelto la linea opposta, condannando pubblicamente il bombardamento di Yonp’ yong Island e invitando i membri del Consiglio di Sicurezza a riunirsi d’urgenza il 19 dicembre 2010. Nel corso della riunione, la Russia aveva persino proposto un draft statement molto duro nei confronti della Corea del Nord (poi bocciato dai cinesi e sostituito con un documento più soft). Per quanto riguarda il programma di arricchimento dell’uranio portato avanti in maniera tutt’altro che trasparente dai nordcoreani, Mosca ha espresso viva preoccupazione e timore. Che dietro a questo atteggiamento ci siano degli interessi politici ed economici è indubbio: di recente la Russia si è infatti avvicinata alla Corea del Sud, tramite un programma di cooperazione economica e scientifico-tecnologica.

                   

                  Alla luce del comportamento di Pechino e delle tensioni che questo ha generato nella regione, viene da chiedersi: sarà Mosca a fare la parte del mediatore nel Six-Party Talk?

                   

                  Il vecchio gigante ex nemico giurato dell’Occidente, attuale partner inaffidabile in molte zone del mondo, potrebbe diventare l’arbitro che avrà l’ultima parola sulla vicenda delle Coree. I riflettori dunque tornano ad illuminare Mosca ma, come ormai dovremmo aver imparato dalla storia delle relazioni internazionali tra Russia e Occidente, un cambiamento di rotta improvviso non è da escludere.

                   

                  Anna Bulzomi

                  [email protected]