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Rinnovata opposizione

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Le elezioni primarie di fine settembre hanno determinato la fine del periodo di transizione in seno alla leadership del Labour Party. Accantonata l’ultima debacle targata Gordon Brown ed il traghettamento ad interim di Harriet Harman, il partito della sinistra inglese presenta ora il volto giovane di Ed Miliband, pronto a voltare definitivamente pagina con il passato di blairiana memoria e a proporsi a capo di un’opposizione attenta ed intransigente con il fine di riconquistare quanto prima la fiducia dell’elettorato di Sua Maestà.

QUESTION TIME – Espletata la prassi della formazione del cosiddetto governo ombra con Alan Johnson cancelliere dello scacchiere, Ed Balls all’interno e Yvette Cooper agli esteri, il neo leader laburista Ed Miliband si è presentato in Parlamento con la sua squadra al gran completo per il primo question time da protagonista. Secondo una tradizione secolare, infatti, ogni settimana per circa mezz’ora vi è un confronto diretto alla Camera dei Comuni tra governo ed opposizione. Un vero e proprio botta e risposta sui temi più caldi del momento in cui il capo dell’opposizione dispone di circa sei domande per mettere alle corde il Primo ministro in carica.

Il tutto si svolge con toni sempre molto accesi, grazie ai commenti di sottofondo provenienti dai  parlamentari presenti in aula alle spalle dei contendenti, tuttavia vi è sempre un gran rispetto dei ruoli e della sacralità democratica del luogo del dibattito.

CHILD BENEFITS – Alla base della discussione in aula i tagli ai sussidi familiari, punto debole della coalizione di governo formata da Cameron e Clegg in quanto non previsti  esplicitamente nel programma presentato ad inizio del mandato.

Forte di questa mancanza, Ed Miliband ha affondato il colpo mettendo in difficoltà il Primo ministro che ha dovuto ripiegare sulla difensiva affermando che: “si tratta di una scelta difficile perché nel far fronte al deficit, dobbiamo chiedere alle persone benestanti di fare la loro parte. Il fatto è che oggi spendiamo un miliardo di sterline per gli assegni familiari destinati a famiglie che stanno relativamente bene”. Ma il giovane Ed ha continuato ad incalzare il Premier sostenendo che i primi a pagare per questa mossa, definita assolutamente azzardata, non saranno le famiglie benestanti bensì i ceti medi, già in forte difficoltà economica per via della crisi finanziaria.

Nonostante i sondaggi accreditino tuttora un largo consenso per il governo, questo provvedimento potrebbe suscitare un certo malcontento: nel Regno Unito, infatti, fin dagli anni Cinquanta il governo versa una cifra che è andata gradualmente aumentando per aiutare le famiglie con figli a carico. Al momento, stando ad un calcolo approssimativo, circa un milione e duecentomila nuclei familiari dovranno far a meno di questi sussidi a causa dei tagli voluti da Cameron.

AFGHANISTAN – L’altro tema caldo nel confronto parlamentare ha riguardato la missione in Afghanistan nella quale è recentemente rimasta uccisa una cooperante inglese. Cameron ha affermato a riguardo che presto verrà aperta un’inchiesta per stabilire come la donna inglese sia deceduta in occasione di un blitz che avrebbe dovuto liberarla dalla prigionia.

A differenza dei predecessori alla guida del Labour Party, Ed Miliband ha più volte ribadito la sua posizione di forte avversione nei confronti della guerra preventiva, come nel caso dell’intervento in Iraq votato dal governo Blair e da molti suoi attuali colleghi di partito. Inoltre sostiene apertamente una rapida risoluzione della questione afghana con il conseguente ritiro delle truppe britanniche.

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DAVID MILIBAND – Nel frattempo Ed Miliband ha dovuto incassare il secco rifiuto del fratello David che ha scartato la possibilità di scendere in campo all’interno del governo ombra laburista, non condividendone gran parte dell’impostazione programmatica.

David, infatti, vale la pena ricordarlo, era uno dei delfini di Blair e di Brown, nonché aperto sostenitore di quel New Labour tendente ad aperture centriste assolutamente non condivise da Ed.

IL RICAMBIO GENERAZIONALE – Ora che l’opposizione si è riappropriata di una forma, di un leader e di rinnovati contenuti il dibattito all’interno del Parlamento britannico è pronto a riprendere. Ciò che inevitabilmente risalta agli occhi degli osservatori più attenti è la giovane età dei tre principali esponenti dei partiti presenti nel Palazzo di Westminster ; nessuno tra Cameron, Clegg e Miliband supera i quarantacinque anni d’età e questo è un dato che la dice lunga su quanto conti un certo dinamismo ed il necessario ricambio generazionale all’interno di un sistema politico che possa definirsi realmente democratico.

Andrea Ambrosino [email protected]

Il ‘nunca mas’ cileno

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Si è conclusa felicemente la vicenda che ha visto 33 minatori cileni intrappolati nella miniera di oro e rame a San José dal 5 agosto al 13 ottobre. Una dura sfida per il Presidente Sebastián Piñera che, a sette mesi dall’inizio del suo mandato, ha dato una grande prova del proprio impegno politico. Ora la speranza dei protagonisti della triste vicenda è il miglioramento delle condizioni di lavoro nelle miniere non solo in Cile, ma anche in tutto il resto del mondo, soprattutto alla luce degli eventi verificatosi nelle miniere in Colombia, in Ecuador e in Cina.

 

FENIX 2 – A seguito del crollo della galleria nella miniera di San José, lo scorso agosto 33 minatori sono rimasti imprigionati a 700 metri di profondità. L’operazione di salvataggio è stata resa possibile grazie all’impiego del Fenix 2, una delle tre capsule costruite in Cina, larga 55 centimetri e alta 4.5 metri, con una velocità di risalita di un metro al secondo. È stato Florencio Avalos il primo a raggiungere la superficie assistito durante la salita da uno speciale strumento per controllare le condizioni vitali, quali l’andamento cardiaco e respiratori, e non appena giunto in superficie, subito assistito da un ospedale da campo installato in loco per il primo soccorso.

 

NUNCA MÁS (MAI PIU’) – L’auspicio dei minatori è che l’accaduto non rimanga un semplice “milagro”, anzi, ambiscono all’elaborazione di una politica governativa ad hoc per le misure di sicurezza nei posti di lavoro. È stato questo l’impegno proclamato dal Capo di Stato cileno: “… mai più si lavorerà in condizioni tanto insicure e disumane …”. Il Presidente Piñera, inoltre, ha avviato le indagini per ricostruire la meccanica che ha provato l’incidente nella miniera di San José al fine di evitare la ripetizione un incidente similare e, soprattutto, e di individuare i colpevoli dell’accaduto. In particolare, sotto ai riflettori c’è la San Esteban, la proprietaria della miniera, che non solo si è rifiutata di partecipare alle operazioni di salvataggio, ma ha anche tardato nel dare l’allarme per l’incidente. Secondo le denunce dei lavoratori, all’impresa è stato imputato la violazione delle norme di sicurezza e il mancato pagamento dell’assicurazione sociale dei minatori.

La tragedia dei 33 minatori, convertita in una storia di sopravvivenza, è servita per richiamare l’attenzione su un problema, quello dell’insicurezza nel lavoro che riguarda molti settori in Cile, nonostante si tratti dello Stato della regione con il più alto indice di sviluppo umano.

 

CRITICHE – mentre continua l’euforia per il salvataggio dei minatori, Amnesty International ha mosso dure critiche nei confronti del governo cileno per non aver ratificato il trattato dell’Organizzazione Internazionale del Lavoro (ILO) sulla sicurezza e la salute nelle miniere. Appena dopo 24 ore dal recupero dell’ultimo lavoratore intrappolato, un altro è morto all’interno della miniera di Boton de Oro, nella provincia di Petorca. Solo nel 2010 sono morti 35 persone per incidenti nelle miniere. La mancata ratifica dell’accordo ha contribuito a generare e a perpetuare profonde ingiustizie e abusi dei diritti dei lavoratori, che continuano a lavorare in condizioni di sicurezza molto precarie.

 

PROSSIME MOSSE – Come suggerisce la popolazione cilena, il primo passo concreto che dovrebbe compiere il governo è sottoscrivere il trattato dell’ILO, perché tra le varie novità che apporterebbe, è rilevante la possibilità di condividere le informazioni e le best practices nel settore minerario. Saranno, inoltre, elaborate delle misure per aumentare la sicurezza dei lavoratori non sono nel settore minerario, ma anche nelle costruzioni, trasporti e pesca, i settori più importanti per l’economica del paese. A questo scopo, il 23 agosto è stata costituita una commissione di esperti, diretta dal Ministro del Lavoro Camila Merino per aumentare le competenze degli organismi fiscali e imporre delle sanzioni per le imprese che violano le norme di sicurezza. In realtà, a molte imprese, risulta più economico pagare una multa che investire per migliorare le condizioni dei lavoratori.

 

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GLI ALTRI– Il problema della sicurezza nelle miniere non riguarda solo il Cile.  In Colombia, nella miniera di carbone di Tasco, dipartimento di Boyaca a nord est del paese, si trovano intrappolati due lavoratori, John Freddy Ordóñez e Hernán Alfonso Barrera con i quali non ancora si sono avuti contatti. La situazione è più complessa di quanto si possa immaginare: solo a giugno in Colombia sono morti più di 70 minatori in un giacimento di carbone a Amagà, dipartimento di Antioquia. Anche in Ecuador hanno perso la vita due dei quattro minatori intrappolati a 150 metri di profondità dopo un crollo verificatosi nel giacimento aurifero di Portovelo, località a sud del Paese al confine con il Perù. Continuano le ricerche per gli altri due che si pensa che siano ancora vivi in quanto al momento del crollo si trovavano nella parte più profonda del tunnel

In Cina, Nella provincia di Henan diciassette minatori sono rimasti intrappolati a seguito di un’improvvisa esplosione di gas in cui hanno perso la vita venti di loro. Un altro, incidente, invece ha visto come protagonisti due manager morti per asfissia mentre stavano compiendo un’ispezione in una miniera di rame situata nella città di Nanning, a sud della Cina.

Sono proprio le miniere di carbone il luogo in cui si verificano il maggior numero di incidenti, esplosioni, crolli e allagamenti. Sulla base delle ricerche compiute da CLSA (agenzia di studio sui finanziamenti), ogni anno muoiono 2.900 persone nelle miniere, si stima un morto per ogni milione di tonnellate di carbone estratto. Circa 20 mila l’anno, secondo fonti ufficiose, sono le vittime per incidenti in miniera, anche se si tratta di una stima indicativa perché i proprietari, delle volte con l’aiuto del governo, occultano il numero effettivo degli incidenti. A questa stima, si aggiungono le morti per pneumoconiosi o silicosi, intorno a 301 mila l’anno, secondo i dati forniti dal Ministero della Sanità cinese. Nonostante negli ultimi tre anni il governo cinese abbia promulgato una serie di regolamenti e, nello specifico lo scorso 7 ottobre ha emanato una legge che prescrivere l’obbligo per i proprietari delle miniere di fare dei sopralluoghi periodici nel sottosuolo con i dipendenti al fine di per migliorare le condizioni di sicurezza nelle miniere, di fatto la situazione non è mutata. La legge, come si può verosimilmente immaginare, non è stata ben accolta dai proprietari che al loro posto mandano giù i propri assistenti o manager.

 

Valeria Risuglia

 

Prove generali di riforma?

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Dopo 18 anni dalla sua ultima presenza nel Consiglio di Sicurezza dell’ONU, dall’1 gennaio 2011 l’India tornerà a ricoprire il ruolo di membro non permanente, insieme con Sud Africa, Colombia, Germania e Portogallo. Questi paesi, eletti dall’Assemblea Generale lo scorso 12 ottobre, sostituiranno Austria, Giappone, Messico, Turchia e Uganda in carica fino alla fine dell’anno e si affiancheranno agli altri attuali cinque membri non permanenti, Brasile, Nigeria, Gabon, Libano e Bosnia ed Erzegovina. Vediamo come questo evento si inserisce nel dibattito relativo ad una riforma del Consiglio di Sicurezza

IL MONDO ELEGGE L’INDIA – L’elezione dei nuovi membri non-permanenti del Consiglio di Sicurezza dell’ONU (UNSC) per il periodo 2011-2013 tenutasi il 12 ottobre a New York ha visto l’India tra i protagonisti. La sua candidatura per il seggio destinato ai paesi asiatici è stata approvata da 187 paesi su 192, incluso il Pakistan, ad indicare il sostegno di cui gode a livello internazionale e il cambiamento di cui è stata protagonista negli ultimi anni. Basti pensare che la sua ultima presenza nel Consiglio risale al biennio 1990-92 e che nel 1996 la sua candidatura venne bocciata dai paesi occidentali a favore di quella del Giappone. Una grave sconfitta, quest’ultima, che ha pesato sul governo di New Delhi negli ultimi anni.

UN UNSC PIÙ RAPPRESENTATIVO? – Con l’elezione dell’India, il Consiglio del 2011 sarà quello dei paesi emergenti. Vi saranno rappresentati contemporaneamente, infatti, gli stati che negli ultimi vent’anni hanno assunto un ruolo economico e politico sempre più rilevante a livello regionale ed internazionale. L’India si affiancherà, in primo luogo, alla Cina e alla Russia, membri permanenti, e in secondo luogo al Brasile e al Sud Africa. In particolare, per la prima volta saranno presenti tutti i paesi del gruppo BRIC ( Brasile, Russia, India e Cina) e i membri del forum IBSA (India, Brasile, Sud Africa). Un consiglio di Sicurezza, quello del 2011, che per la prima volta sembrerebbe rispecchiare gli attuali rapporti di potere a livello internazionale. Tale circostanza potrebbe creare non pochi problemi agli Stati Uniti, in particolare in relazione ad alcune questioni che potrebbero dover essere affrontate nel 2011, quali l’Iran, la Birmania, la Nord Corea o il Sudan. Basti pensare alla recente presa di posizione del Brasile e della Turchia in relazione alle sanzioni contro l’Iran. Se da una parte l’impegno dell’India in questi forum e gli stretti legami con questi paesi potrebbero determinare un allineamento delle sue posizioni con gli altri paesi emergenti, non sono da escludersi scelte diverse dovute al suo attuale rapporto con gli Stati Uniti.

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VERSO UNA RIFORMA? – Nel 2011 si potrebbe anche assistere all’avvio di nuove discussioni per quel che riguarda le riforme delle istituzioni delle Nazioni Unite. Il nuovo Consiglio, infatti, oltre a vedere rappresentati i grandi paesi emergenti, avrà al suo interno anche gli stati che denunciano la non rappresentatività del Consiglio e che sostengono la necessità di una sua riforma. Sarà ben rappresentato il gruppo “G4” (Germania, India, Brasile e Giappone, quest’ultimo presente solo fino alla fine del 2010), che propone un allargamento dei membri permanenti che dovrebbe comprendere, oltre questi quattro stati, anche un paese africano ( da scegliere tra Sud Africa, Egitto o Nigeria). Questi paesi, quindi, potrebbero voler utilizzare il loro seggio per aumentare le pressioni per una riforma del Consiglio.

Lo stesso12 ottobre, una presa di posizione chiara è venuta dal Forum IBSA che, definendo una “occasione storica” la presenza dei tre paesi nel Consiglio nel 2011, ha riaffermato il proprio sostegno nei confronti del multilateralismo e il proprio impegno a favore di una crescente partecipazione dei paesi in via di sviluppo al decision-making internazionale. Ma non si tratta solo di rivendicazioni di riconoscimento che vengono dal sud del mondo. Delle ultime ore, una dichiarazione dei Ministri degli Esteri di India e Germania che si impegnano a lavorare insieme per ottenere un seggio permanente nello UNSC.

Valentina Origoni [email protected]

19 Ottobre 2010

In bilico tra Europa e isolamento internazionale

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Strano destino quello della Serbia, paese attualmente alle prese con forti tensioni interne ed il fantasma di un passato che rischia di ostacolare il processo di adesione all’Unione Europea iniziato alla fine del 2009. Di passi in avanti rispetto al passato la Serbia sembra averne fatti molti negli ultimi anni, in una prospettiva che sembra aver avviato il Paese verso una sempre maggiore integrazione con l'Unione Europea. I rischi di pericolosi passi indietro non sembrano però del tutto sotto controllo.

Da: Centro di Formazione Politica

CRIMINALI IN FERMENTO – Ammesso nel 2003 nel Consiglio d’Europa, il governo serbo ha successivamente firmato il documento quadro per l’annessione al programma Partnership for Peace nel 2006 collaborando attivamente con il Tribunale Penale Internazionale dell’Aja per garantire gli arresti degli ex leader accusati di crimini di guerra. Nell’estate del 2008, con i processi a due dei quattro ricercati, il paese balcanico sembrava aver scelto la via della cooperazione con le istituzioni europee, condizione indispensabile per poter ambire all’annessione, e con la vittoria dei partiti filo-europeisti alle elezioni del 2008 era stata definitivamente spianata la strada verso l’accesso all’Unione. Nell’ultimo periodo, però, tensioni violente hanno percorso il paese, fomentate da movimenti di estrema destra organizzati come eserciti paramilitari e guidati da personaggi che godono dell’appoggio di cosche mafiose balcaniche e di leader di gruppi neonazisti russi. In prima fila sembra esserci Otacastevni Pokret Obraz, chiamata comunemente Obraz, formazione omofoba resasi protagonista dell’attacco al gay pride di Belgrado, il cui capo indiscusso è quel Mladen Obradovic già accusato di aver guidato vari assalti degli ultranazionalisti contro la polizia dopo la proclamazione d’indipendenza del Kosovo. La violenza, scatenatasi a livello politico dopo che Obradovic ha accusato il presidente Tadic di volersi alleare con coloro che bombardarono il paese durante la guerra in Jugoslavia, ha poi infettato il mondo dei gruppi ultras che sostengono la Stella Rossa ed il Partizan Belgrado, i due maggiori club calcistici della capitale. Allo stesso tempo, Obraz sembra essere divenuta il braccio armato dell’organizzazione di Darko Saric, uno dei maggiori signori della droga dell’area balcanica. Montenegrino, accusato di aver riciclato un miliardo di euro proveniente dal traffico di stupefacenti solo nell’ultimo anno, sarebbe il manovratore occulto di quelli che sono definiti i “delije”, gli uomini duri, della Stella Rossa di Belgrado. La polizia serba e alcuni esponenti del governo sostengono che ci sia la sua mano dietro agli scontri di Belgrado e i fatti di Genova sembrano provarlo. Saric starebbe cercando non tanto l’isolamento del paese in campo internazionale, quanto più una rappresaglia massiccia dati i suoi problemi con le autorità serbe. Per il processo in corso rischia una condanna pesantissima e secondo il Ministro della Giustizia Slobodan Homen sarebbe lui a guidare i movimenti di estrema destra per potersi garantire il monopolio dei traffici indebolendo al contempo il controllo dello Stato. Sebbene non ci sia ancora chiarezza sui mandanti degli scontri degli ultimi mesi, l’obiettivo finale dei gruppi che fomentano la tensione interna sembra essere uno solo: portare nel paese una situazione d’instabilità permanente in grado di rallentare, se non di far saltare, il processo di adesione della Serbia all’Unione Europea.

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IL NAZIONALISMO ALLA RIBALTA? – Il revanscismo nazionalistico dei gruppi come Obraz sembra essere al momento il primo problema per il premier Tadic, costretto negli ultimi giorni a presentare scuse ufficiali al nostro paese per quanto successo a Genova. Gli scontri nel capoluogo ligure hanno portato il paese sotto i riflettori dell’Europa intera, già inorridita alla vista delle immagini degli scontri del gay pride di Belgrado ed infastidita dalla notizia dell’asilo politico concesso a Marko Milosevic dalla Russia. Il figlio dell’ex presidente Slobodan Milosevic avrebbe infatti ottenuto lo status di rifugiato politico una volta atterrato a Mosca, sebbene sia stato spiccato nei suoi confronti un mandato d’arresto per contrabbando di sigarette e debba dare spiegazioni riguardo ai tesori del padre occultati nei caveau delle banche di mezza Europa. Nelle ultime ore il Parlamento olandese ha chiesto al prossimo ministro degli Esteri Uri Rosenthal di opporsi ai negoziati di adesione della Serbia all’Unione Europea, ufficialmente perché le autorità di Belgrado non avrebbero dimostrato piena cooperazione con il Tribunale dell’Aja nell’assicurare la cattura degli ex criminali di guerra. La sensazione è che il revanscismo montante e gli scontri delle ultime settimane siano le reali motivazioni che hanno spinto il legislativo olandese a votare a favore della risoluzione anti-serba. E’ ancora presto per poter prevedere quello che accadrà nei prossimi mesi, di certo però il paese balcanico sembra trovarsi ora in una situazione di stallo, in bilico tra l’Europa e un isolamento che potrebbe costare alla Serbia molto più che la credibilità internazionale conquistata con fatica negli ultimi anni.

Simone Comi [email protected]

per il Centro di Formazione Politica

Miracle on ice

A qualsiasi americano vengano pronunciate queste tre parole, state certi che vedrete ancora, trent'anni dopo, quello stesso luccichio negli occhi. Carl von Clausewitz, nell'occasione, avrebbe detto: “L'hockey non è che la continuazione della guerra (fredda) con altri mezzi”. Ecco come la nostra rubrica “È solo un gioco?” racconta uno dei più grandi intrecci fra sport e geopolitica, che scorre sul ghiaccio, all'inizio degli anni '80, in uno scontro che sembra quasi preannunciare i destini del decennio: nessuno l'avrebbe mai immaginato, eppure…

"Quello che avete scritto davanti, conta più di quello che avete scritto dietro" (Herb Brooks)

La Guerra Fredda si avviava verso il trattato INF, ma i rapporti tra le due superpotenze nel 1980 erano ancora tesi. L'unione Sovietica aveva da poco iniziato le manovre per l'invasione dell'Afghanistan – evento che avrebbe portato solo pochi mesi dopo al boicottaggio dei giochi olimpici di Mosca 1980 – e da mesi minacciava di disertare i giochi di Lake Placid. Tuttavia, spinti soprattutto da una notevole consapevolezza della propria forza negli sport invernali (infatti si aggiudicarono il primo posto sul medagliere) i sovietici presero regolarmente parte alla competizione.

La nazionale sovietica di Hockey dominava la scena mondiale da due decenni, il capitano Boris Mikhailov e soprattutto il portiere Vladislav Tretiak sono tuttora considerati tra i più forti giocatori di sempre in questo sport. L'allenatore Viktor Tikhonov – una delle figure più controverse della storia dell'hockey mondiale, a causa dei suoi metodi poco ortodossi – guidava un'armata imbattuta da ben tre edizioni dei giochi olimpici. Sul fronte opposto, Herb Brooks, dopo una discreta carriera da giocatore (prese parte ai Giochi del '64 e del '68) iniziò ad allenare la Minesota University, dove nel corso degli anni '70 mise in bacheca tre titoli NCAA. Proprio in virtù di queste vittorie gli venne affidato il compito di formare la squadra per le Olimpiadi di Lake Placid del 1980.

Il team, come da tradizione, era composta da giocatori universitari e dilettanti tra cui spiccavano il capitano Mike Eruzione, Neal Broten, Ken Morrow e "l'eroe per un giorno" Jim Craig. La federazione nazionale – con un notevole sforzo economico sostenuto dal governo, che teneva particolarmente al successo per ovvie ragioni politiche – permise a Brooks di organizzare un trainig camp che sarebbe durato diversi mesi, per preparare al meglio la squadra. Qui i metodi di allenamento dell'allenatore divennero leggendari: Brooks era un duro, un leader, oltre ad una estenuante preparazione fisica spendeva lunghe ore in sedute motivazionali. Nonostante gli ingenti sforzi i risultati stentarono ad arrivare; nelle amichevoli precedenti al torneo molte furono le sconfitte, tra cui quella ad opera dell'Unione Sovietica per 10-3.

Gli Stati Uniti parteciparono quindi alla competizione senza godere dei favori del pronostico. Tuttavia nel girone eliminatorio i ragazzi di Brooks sorpresero molti osservatori con il loro gioco fisico e ordinato, terminandolo con 4 vittorie e 1 pareggio qualificandosi per il girone delle medaglie. I sovietici invece, soddisfando appieno le aspettative dominarono il loro girone annientando gli avversari uno dopo l'altro.

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La prima partita del secondo girone sarebbe stata proprio USA – URSS. Brooks mantenne alta la tensione, continuando con le sue estenuanti sessioni di allenamento, mentre Tikhonov, probabilmente già certo della vittoria, concesse molto tempo libero ai suoi. Il giorno precedente la partita Dave Anderson, editorialista del New York Times, scriveva: "Unless the ice melts, or unless the United States team or another team performs a miracle, as did the American squad in 1960, the Russians are expected to easily win the Olympic gold medal for the sixth time in the last seven tournaments." (A meno che il ghiaccio non si sciolga, o a meno che la squadra americana non compia un miracolo, come fece quella del 1960, ci si attende che i russi vincano la medaglia d'oro per la sesta volta negli ultimi sette tornei). Il pubblico americano, che con questa partita rese celebre in tutto il mondo il coro U-S-A U-S-A, fece un tifo assordante per tutto l'incontro, sventolando qualsiasi cosa a stelle e strisce gli capitasse tra le mani. I sovietici nonostante il tifo avverso andarono subito in vantaggio quando Vladimir Krutov superò da pochi metri Jim Craig, e anche dopo il momentaneo pareggio americano si portarono nuovamente in vantaggio con un gol di Sergei MaKarov. Nonostante un evidente controllo sulla gara, i sovietici non riuscirono però a concretizzare il possesso, grazie soprattutto alle parate di Craig. A pochi secondi dalla fine del primo tempo, un Hail Mary Shot di Dave Christian ingannò Tretiak, che non trattenne favorendo il tap-in di Mark Johnson. Nel secondo tempo Tikhonov decise incredibilmente di sostituire Tretiak – giudicato colpevole per il secondo gol subito – col portiere di riserva, che riuscì a mantenere la porta inviolata, mentre i sovietici tornarono in vantaggio segnando il 3-2 in un momento di power-play.

Nel terzo tempo avvenne l'impensabile: Johnson segnò di nuovo per gli USA, e a dieci minuti dalla fine il capitano statunitense Mike Eruzione, intercettando un tentativo di liberare l'aria dei sovietici, lanciò il disco nell'angolo destro della porta difesa da Vladimir Myshkin, portando il punteggio sul 4-3 e facendo esplodere lo stadio (nella foto, l'esultanza di Eruzione). Da questo momento la partita non fu più USA – URSS ma URSS contro Jim Craig, che resse ad un'infinita serie di tiri dei sovietici, difendendo il risultato fino al termine della partita. Il pubblico in delirio iniziò a scandire il conto alla rovescia, riportato dal commentatore Al Michaels, con il famoso finale per il quale la gara sarebbe divenuta famosa: "Eleven seconds, you've got ten seconds, the countdown going on right now! Morrow, up to Silk. Five seconds left in the game. Do you believe in miracles?…YES!" (Undici secondi, vi restano dieci secondi, stanno contando alla rovescia in questo momento! Morrow per Silk, restano cinque secondi di gioco! Credete nei miracoli? Sì!)

Le emozioni della partita USA – URSS furono talmente memorabili che ancora oggi molti credono sia stata proprio quella la gara che assegnò l'oro agli statunitensi, in realtà mancava ancora la gara con la Finlandia. Come per l'incontro precedente Brooks impose ai suoi un duro allenamento prima della partita, determinato a mantenere alta la concentrazione nonostante l'incredibile vittoria contro i sovietici e le conseguenti celebrazioni. Ancora una volta gli USA andarono partirono male, ma nel terzo tempo gli USA riuscirono a ottenere la vittoria segnando quattro gol fissando il punteggio sul 4-2. Eruzione salì sul gradino più alto del podio invitando Brooks e tutta la squadra a salire con lui, mentre il pubblico delirante cantava God bless America: il miracolo si era compiuto.

Simone Bellasio [email protected]

L’evoluzione delle classi dirigenti

Settimana calda per la dirigenza di diversi paesi nel mondo: in Germania la Merkel sembra aver adottato un nuovo registro nei confronti della questione immigrazione. In Cina il Partito Comunista conclude la sessione di lavori da cui dovrebbero emergere i futuri leader di Pechino, mentre in Nigeria si intensificano i movimenti per l'individuazione dei candidati per delle elezioni presidenziali che si preannunciano molto delicate per la stabilità dell'area.

MULTIKULTI KAPUTT? – La Cancelliera Angela Merkel si è pronunciata in maniera (sinora) alquanto insolita circa il contesto culturale e dell'immigrazione in Germania, definendo “un fallimento” il modello multiculturale e sottolineando la rilevanza per il Paese di una “cultura tedesca dominante”. Nessuna reale preoccupazione pratica sinora sembra potersi profilare, ma il cambio di registro nelle parole della Merkel non è da sottovalutare. Queste esternazioni vanno infatti inquadrate nelle difficoltà politiche del partito della Cancelliera, sia all'interno che in relazione all'avanzare di movimento populistici, prevalentemente anti-islamici, che fanno leva sulla crisi economica e sulla sicurezza e che potrebbero trovare spazio alle elezioni che l'anno prossimo si terranno in diverse regioni tedesche.

RINNOVAMENTO PECHINESE – Si chiude oggi il convegno della Commissione Centrale del Partito Comunista Cinese, che aveva tra i suoi principali temi in discussione il “pensionamento” dell'attuale classe dirigente e, dunque, la definizione del processo che dovrà portare alla all'ingresso effettiva sulla scena dei nuovi leader. Sarà dunque di estrema importanza studiare le dichiarazioni ufficiali che verranno rilasciate da oggi in poi, per capire se davvero questo Congresso è riuscito a tracciare la via per questo importantissimo ricambio generazionale (QUI è possibile leggere i nomi della nuova leadership eletta).

SI RIAPRE IL GAS – Il Governo Russo e quello Polacco hanno firmato un accordo per l'aumento delle quantità di gas naturale che dalla Russia saranno destinate alla Polonia. Con l'approssimarsi dell'inverno infatti tornano sul tavolo le cicliche trattative tra Russia ed Unione Europea, che da febbraio scorso sono rimaste in una situazione di generale stallo (nell'immagine la linea Yamal-Europe, che porta gas verso la Polonia).

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ALTRI EVENTI RILEVANTI

  • Architettura di Sicurezza Europea: continua il tentativo russo di giocare un ruolo rilevante nella definizione delle strategie di sicurezza europee. Dopo avere pubblicato la propria proposta per la definizione di una nuovo concetto strategico, il Presidente Medvedev ed altri rappresentanti russi incontreranno nei prossimi giorni Sarkozy, la Merkel ed altri dignitari europei.

  • Continuano i colloqui di pace tra il Governo sudanese ed i ribelli del Darfur a Doha, in Qatar. Domani si chiuderanno i lavori ed in settimana sono attese le dichiarazioni ufficiali ed il rilascio di un documento finale.

  • La crisi delle scorse settimane tra Pakistan e Stati Uniti, dovuta alle incursioni di aerei NATO in territorio pakistano, alla caccia di ribelli talebani, sembra al momento superata. La riapertura dei varchi al confine Afghanistan-Pakistan, la cui chiusura aveva rischiato di mettere in ginocchio la logistica militare della NATO, ha consentito un ritorno alla normalità nelle relazioni tra i due Paesi, che si trovano nei prossimi giorni a riprendere il loro Dialogo Strategico. Sarà importare capire in che misura i fatti delle scorse settimane hanno inciso su tale dialogo.

  • C'è gran fermento in Nigeria per l'individuazione dei candidati che si contenderanno la poltrona presidenziale alle elezioni che dovrebbero tenersi nei primi mesi del 2011. I due principali movimenti etnici e politici del Paese, che rappresentano gli interessi del nord e del sud nigeriano, lanciano infatti le proprie campagne. L'attuale Presidente ad interim Goodluck Jonathan e Namadi Sambo rappresentano il ticket meridionale, mentre i movimenti del nord dovrebbero scegliere in settimana i loro candidati, tra i 4 “uomini forti” Gen. Ibrahim Badamasi Babangida, il Gen. Aliyu Gusau, Atiku Abubakar e Bukola Saraki.

Pietro Costanzo – La Redazione [email protected]

La ‘longa manus’ di Teheran su Beirut

Da Beirut – Il Presidente iraniano in Libano: non solo una visita di cortesia, e non solo una nuova occasione per lanciare strali contro Israele. Come spesso capita in Medio Oriente, l’intreccio è composto da molteplici fili. Divisioni tra sunniti e sciiti, accordi economici, la strategia di Teheran per controllare sempre più la regione, il ruolo sullo sfondo (ma neanche troppo) di Siria e Arabia. E ancora: i tentativi di fare luce sull’omicidio dell’ex Primo ministro libanese Hariri, e le fragilità interne del Paese dei Cedri. Ce n’è abbastanza per un intricato thriller geopolitico. Cerchiamo di capire insieme cosa succede

 

LE TENSIONI INTERNE TRA SUNNITI E SCIITI – La visita del presidente iraniano Mahmoud Ahmadinejad nel paese dei Cedri si accomoda sull’onda delle forti tensioni che nell’ultima settimana hanno agitato l’opinione pubblica libanese. Nei quartieri sciiti della capitale le bandiere iraniane sventolano da settimane e nel sud del Libano, roccaforte di Hezbollah, il gruppo militante sciita e partito politico sostenuto e finanziato dal regime degli Ayatollah, è stato addirittura inaugurato un “giardino dell’Iran”. Ad essere preoccupati per la crescente ingerenza di Teheran e il legame sempre più forte tra lo stato persiano le forze di Hassan Nahrallah, sono invece soprattutto i sunniti. La congiuntura politica risulta infatti particolarmente sfavorevole a questi ultimi: la loro rappresentanza parlamentare va progressivamente indebolendosi, a fronte della strategia esplicita del Partito di Dio che tenta di estendere il controllo dal sud verso il nord del Libano; per di più i loro alleati regionali tradizionali, l’Egitto e l’Arabia Saudita, non sono in grado di controbilanciare il supporto dell’asse siro-iraniano nei confronti di Hezbollah (sebbene la Siria sembra essere più defilata rispetto a qualche anno fa). Quest’ultimo, secondo un rapporto pubblicato il 6 ottobre dall’Hudson Institute di New York, avrebbe già dispiegato le sue forze armate in punti strategici del paese in attesa di un crollo dell’attuale governo e starebbe cercando, sotto l’egida dell’Iran, di surriscaldare la tensione interna al fine di favorire “l’esportazione della rivoluzione islamica in Libano”. Sebbene si tratti di uno scenario attualmente difficile da verificarsi, occorre fare delle riflessioni sulla situazione interna libanese.

 

Se il paese dovesse ripiombare nel baratro di una nuova guerra civile, la declinazione del conflitto si plasmerebbe stavolta principalmente sulla storica frattura tra sunniti e sciiti, con il rischio che l’ancestrale tensione si espanda a macchia d’olio nella regione. A temere ciò sono principalmente i Paesi del Golfo, in cui gli sciiti, potenziale quinto piedistallo dell’Iran in caso di conflitto regionale, stanno surriscaldando in clima politico, inducendo, per esempio, i governi di Bahrein e Kuwait a emanare provvedimenti a raffica contro esponenti e partiti del gruppo confessionale sciita.

 

IL TSL E IL DOSSIER DEI FALSI TESTIMONI – La visita del presidente iraniano, d’altra parte, si staglia sullo sfondo dell’impasse del TSL, il Tribunale Speciale per il Libano, istituito nel 2005 dall’ONU – e all’epoca fortemente invocato dallo Stato libanese – per individuare e giudicare gli assassini dell’ex premier Rafiq Hariri. Tuttavia, proprio nel momento in cui la morsa della sentenza sembrava stringersi, secondo indiscrezioni, sul partito di Dio, le coalizioni parlamentari del 14 marzo e dell’8 marzo si sono incagliate su posizioni avverse circa il rimettere o meno alla Corte di giustizia il cosiddetto dossier dei (presunti) “falsi testimoni”. Si tratta di politici e figure istituzionali libanesi accusati di avere rilasciato false dichiarazioni a sostegno della tesi della responsabilità siriana nell’attentato, fortemente rigettata dal partito di Hassan Nahrallah, che ha invece pubblicamente auspicato, “per il bene del paese”, una maggiore influenza della Siria negli affari interni del Libano e accusato Israele di essere il vero mandante dell’assassinio dell’ex premier. Le autorità siriane, per di più, hanno emesso un mandato di cattura nei confronti dei “falsi testimoni”, violando la sovranità del Libano. Quale che sia l’esito dell’affaire – squisitamente politico – dei “falsi testimoni”, resta il fatto che, dopo ben 5 anni, il tribunale delle Nazioni Unite rischia di divenire ostaggio della sua stessa sentenza, e dunque del suo stesso fine, ritrovandosi nella condizione di non poter individuare nessun colpevole. Il premier Saad Hariri, alla vigilia dell’arrivo del presidente iraniano a Beirut, ha dichiarato ufficialmente che “non accuserà Hezbollah per l’assassinio di suo padre”.

 

IL RUOLO STRATEGICO DEL SUPPORTO IRANIANO NEL SETTORE ENERGETICO – La partita a scacchi del regime degli Ayatollah con il Libano, d’altro canto, si dispiega anche nella direzione della fornitura energetica, necessaria al piccolo paese dei Cedri che possiede soltanto l’acqua come risorsa interna. L’altro giorno Mahmoud Ahmadinejad e il suo omologo libanese, Michael Sleiman, hanno siglato 14 accordi economico-commerciali, tra i quali sono previsti anche il finanziamento da parte iraniana di una raffineria petrolifera e la fornitura di gas naturale.

 

Nonostante l’appesantirsi delle sanzioni a danno dei settori energetici iraniani, il regime di Teheran sembra aver addirittura aumentato il peso del suo ruolo di esportatore energetico nella regione, stringendo accordi per la fornitura di gas con il Bahrein, con il sultanato dell’Oman e, per l’appunto, con il Libano.

 

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LA STABILITA’ (PRECARIA?) DEL PAESE DEI CEDRI – Beirut si ritrova dunque ancora una volta stretta nella morsa delle potenze regionali. Il fine dell’Iran, come paventato dalla lettera firmata da 250 intellettuali e giornalisti libanesi alla vigilia della visita di Ahmadinejad, sarebbe quello di rendere il paese dei Cedri il principale avamposto per imporre la sua egemonia regionale ed esercitare da vicino una politica aggressiva nei confronti dello Stato israeliano. D’altra parte, in nessun altro luogo del Medio Oriente come nel sud del Libano, proprio al confine con Israele, la cui distruzione è oggetto prediletto della retorica del presidente iraniano, il regime di Teheran gode di una maggiore esplosione di consensi. Difficile non comprendere come questo sia stato il risultato della guerra con Israele del 2006. Allora, infatti, fu anche l’Iran, tramite Hezbollah, a finanziare la ricostruzione dei villaggi distrutti dai bombardamenti israeliani. Ed è lì che infatti oggi il presidente iraniano è stato accolto con i favori della popolazione locale.

 

Anche la Siria, costretta a lasciare il paese dopo il 2005, vede dilatarsi una nuova breccia per ricominciare a esercitare la sovranità perduta su Beirut. Sostenitrice storica di Hezbollah e soprattutto Amal (l’altro partito sciita libanese) e legata a doppio filo all’Iran, dopo lo scongelamento recente delle relazioni con l’Occidente, sembra aver inaugurato una politica estera multi-direzionale, volta a trarre da ogni contatto il massimo profitto. Dopo aver riaperto sottobanco i negoziati con lo Stato di Israele, grazie alla mediazione di Ankara, il governo di al Assad ha rafforzato e ribadito il legame con l’Iran e ha riallacciato i legami con i paesi del Golfo, soprattutto l’Arabia Saudita, nemico storico di Teheran.

 

Infine proprio l’Arabia Saudita, anch’essa coinvolta nella ricostruzione del paese, rappresenta il vero ago della bilancia nelle scelte del premier Hariri. La cautela che il governo libanese ha adottato nello schivare un’eccessiva politicizzazione del dossier dei falsi testimoni, derivano principalmente dalla volontà saudita di preservare lo status quo nel paese e nella regione. Riyadh fa i conti con la crescente influenza dell’Iran e non può dunque permettersi di rompere i legami recentemente riallacciati con la Siria; legami che si reggono anche sugli accordi per la stabilizzazione del Libano.

 

Marina Calculli (da Beirut)

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Per chiudere il triangolo, per (ri)spostare la cartina

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Chissà se non ve lo siete mai chiesto…eppure la nostra cartina, col Pacifico e non l'Atlantico al centro, lancia un messaggio ben preciso: Usa e Cina al centro del mondo, Europa ai margini. Cosa può fare l'Europa, al di là della sua storica alleanza atlantica? Chiudere il triangolo, e rinsaldare sempre più i suoi legami con Pechino. La visita del premier cinese Wen Jiabao quattro Stati europei, Italia compresa, ci aiuta a fare il punto della situazione

AVVENIMENTI RECENTI – Lo scorso 27 settembre, la portavoce del Ministero degli Esteri Cinese, Jiang Yu ha ufficializzato le visite del Premier del Consiglio di Stato Cinese in Europa. Oltre al vertice dei capi di stato di Europa ed Asia, Wen Jiabao ha visitato la Grecia, Belgio, Italia e Turchia, su invito dei premier Papandreouel, Yves Leterme, Silvio Berlusconi e Recep Tayyip Erdogan. Sono ben 70 le attività cui Wen Jiabao ha preso parte durante questo tour di 8 giorni in Europa. In Grecia, ha incontrato il Presidente Papoulias e il primo ministro, siglando numerosi documenti di cooperazione e dichiarazioni congiunte su un sistema di partnership globale. Il senso della visita è quella della necessità di “rafforzare la fiducia per superare le attuali difficoltà”, titolo del suo discorso tenuto nel Parlamento Greco. In Italia, dove si celebrava il 40° anniversario delle relazioni diplomatiche tra i due paesi, il Presidente ha incontrato le massime cariche dello stato, firmando ben 17 documenti di cooperazione e accordi bilaterali. Durante la visita in Turchia il premier ha avuto un incontro con il presidente turco Abdullah Gul, e il primo ministro Erdogan, firmando anche in questo paese una serie di documenti di cooperazione. Ancor più significativa è ovviamente la sua partecipazione all’8° vertice dell’ ASEM e al 13 vertice tra UE e Cina, a Bruxelles, dove Wen Jiabao ha co-presieduto la riunione con il presidente del Consiglio Europeo Van Rompuy, e il Presidente della Commissione Barroso.

PASSO DOPO PASSO – Da quando Christopher Soames visitò la Cina nel 1975 in qualità di Commissario Europeo, dando così inizio alle prime relazioni diplomatiche con il paese e l’Unione Europea, i rapporti tra Cina ed Europa si sono costantemente intensificati. La cooperazione tra i due paesi non si ferma ad un rapporto di collaborazione economica, ma va ad abbracciare tutta un’ampia fascia di intese atte a stringere questi due poli in un contesto di mutuo scambio di elementi, – anche e soprattutto- culturali e sociali. Benché gli accordi economici siano comunque in maggioranza, a partire da quello del 1985 siglato a Bruxelles, Accordo sulla Cooperazione Economica e Commerciale, il trend delle relazioni è stato quello di creare un’affinità ben più forte di quella meramente economica. Negli anni ’90, dopo il raffreddamento del rapporto a causa degli eventi di piazza Tian’anmen, si è registrato un forte aumento della soglia di collaborazione, e in questo si legge chiaramente l’intenzione dell’Unione Europea di rendere la Cina un partner affidabile anche in termini di rispetto dei diritti umani. Le relazioni economiche s’intensificano di pari passo rispetto a quelle diplomatiche, e risale proprio al 1996 il primo degli incontri tra Europa ed Asia (ASEM) tenutosi anche la scorsa settimana. Il nuovo millennio ha rappresentato sicuramente un ulteriore momento di slancio, con l’entrata della Cina nel WTO. E infatti sono moltissimi i temi su cui verte il dialogo politico: a partire dalla sicurezza in Asia, alla lotta all’immigrazione e al traffico di esseri umani, così come il contrasto del riscaldamento globale. Grazie alla regolarità con cui gli attori politici si trovano a discutere di queste questioni viene assicurata una maggiore considerazione dei temi ch’essi trattano. Le modalità degli incontri sono davvero molteplici e si va dai vertici annuali tra i capi di stato o di governo (tenuti alternativamente in Cina o in Europa), ad incontri semestrali tra gli Ambasciatori dei paesi Europei e il Ministro degli Esteri, a Pechino, o incontri semestrali tra il Ministro degli Esteri dello stato di Presidenza Europea e l’Ambasciatore cinese in questo paese.

DIRITTI UMANI – In questo senso la Commissione Europea ha un ruolo di fondamentale importanza, sostenendo un dialogo orientato al rispetto dei Diritti Umani. Oltre a questo programma di cooperazione e promozione di una cultura di rispetto dei Diritti Umani, la commissione contribuisce anche al rafforzamento del ruolo della società civile in Asia, tramite un programma di Cooperazione Legale e Giuridica. A proposito dei Diritti Umani, il Presidente del Parlamento Europeo, Buzek, ha dichiarato di apprezzare l’apertura al dialogo del Primo Ministro Cinese, e benché rimangano ancora numerose ombre, come la questione in Tibet, o la libertà di espressione, il Parlamento continua in un’ottica di dialogo aperto, senza dimenticare l’esigenza del rispetto reciproco dei valori fondamentali, di cui l’Europa si fa portatrice. In questo senso si può leggere l’assegnazione del premio Sacharov per la libertà di pensiero all’attivista cinese Hu Jia, che nel 2008 si è dimostrata essere una presa di posizione ferma dell’UE.

PROSPETTIVE – L’appena trascorso summit a Bruxelles per il vertice ASEM rappresenta un ulteriore e fondamentale gradino nella storia della relazione tra Cina ed Europa. L’ UE è infatti il primo partner economico per la Cina, che a sua volta è il secondo partner commerciale del continente europeo, e dunque risulta comprensibile come il vincolo a doppia mandata si trovi ora, anche a causa della crisi, ad un turning point, e le prospettive potrebbero essere davvero inaspettate, ad esempio un cambio nella preferenza di alleato strategico globale da parte dell’Unione Europea. In conclusione, è normale che, in quest’ottica di stretta collaborazione, cambino anche le dinamiche e gli equilibri di governance mondiale, con lo spostamento piuttosto consistente dei pesi nella bilancia di ridistribuzione del potere economico, orientata in questo momento verso Est. E forse è proprio per questo che l’Europa sembra così interessata ad avere un rapporto esclusivo con la Cina, perché consapevole di quanto il Dragone Cinese possa essere di traino in un quanto mai prossimo futuro. Certo, in questo processo l’UE ha anche investito molto, sia in termini di spesa reale, sia nel provare a tenere una posizione salda rispetto alla necessità di fermare le violazioni dei diritti umani nel territorio asiatico. Ad oggi rimangono ancora molti i chiaro-scuri nel ritratto della Cina, ma una visione in prospettiva di un’alleanza strategica tra questi due paesi non può che essere accolta con favore.

Samuele Poletto [email protected]

Sotto gli artigli delle tigri

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Cosa c'è dietro gli scontri allo stadio di Genova? Vediamo perchè la Serbia rischia di essere uno Stato ostaggio di un folto gruppo di ex miliziani ed ultras calcistici, che tramite atti d’inconcepibile e becera violenza vorrebbero indebolire il governo di Belgrado, distruggere il sogno europeo dei moderati serbi e sbandierare orgogliosamente i fasti di un pericoloso ultranazionalismo. Con un fantasma malcelato che si agita sullo sfondo: la questione Kosovo

IL CALCIO COME PRETESTO – La riprova di quanto realmente siano pericolose queste frange estremiste si è palesata martedì scorso, prima, durante e dopo la partita di calcio Italia – Serbia valida per le qualificazioni ai prossimi campionati europei di calcio. Gli ultras al seguito della nazionale balcanica hanno impedito il regolare svolgimento dell’incontro scegliendo la miglior vetrina mediatica a disposizione per far parlare di se stessi e delle proprie azioni: scontri con le forze dell’ordine, gesti inneggianti all’ultranazionalismo anti-kosovaro ed inni antisemiti hanno riportato in auge lo spettro di un oscuro passato non troppo lontano nel tempo.

LA RIVENDICAZIONE DEL KOSOVO – Durante lo spettacolo indecoroso avvenuto nello stadio di Genova, ai più attenti non sarà sfuggito un gesto abbastanza eloquente; gli ultras serbi hanno bruciato una bandiera dell’Albania, un atto che indirettamente rimanda al Kosovo, Paese da tempo alla ricerca di una dimensione definita all’interno della cosiddetta “polveriera balcanica”. Le Tigri di Arkan, è questo l’appellativo con cui vengono chiamati i gruppi paramilitari comandati all’epoca della guerra civile da Zeljko Raznatovic detto Arkan, non hanno mai colto di buon grado l’indipendenza e l’autodeterminazione del popolo kosovaro poiché storicamente considerano quell’area geografica come vera e propria culla della propria civiltà. La regione del Kosovo infatti, va sottolineato, presenta una forte multietnicità. Il nord è a schiacciante maggioranza serba, il sud è per lo più d’origine albanese ed inoltre vi sono numerose e differenti etnie sparse per il Paese. Si tratta dunque di un territorio duramente conteso che, soltanto da pochi anni e grazie all’amministrazione straordinaria dell’Onu è riuscito a dichiarare unilateralmente la propria indipendenza (nella cartina sotto: in verde gli Stati che hanno riconosciuto l'indipendenza del Kosovo, in rosso gli Stati che non l'hanno riconosciuta, in grigio i Paesi che non s sono pronunciati; cerchiate in giallo regioni europee con tendenze separatiste).

GAY PRIDE E GUERRIGLIA– Anche le strade di Belgrado, soltanto pochi giorni fa, sono state scenario di un ulteriore spettacolo inqualificabile. Il Gay Pride, organizzato nella capitale serba, a detta di molti, sarebbe dovuto essere un test di maturità democratica e di tolleranza sociale. Ma l’esito della manifestazione è stato pessimo, consegnando alle cronache numeri da guerriglia urbana: 141 feriti, dei quali 124 poliziotti e 17 manifestanti, 207 persone in stato di fermo ed oltre 100 arresti. Scontri e tafferugli avvenuti a poche ore dall’arrivo nei Balcani del segretario di Stato americano Hillary Clinton, grande sostenitrice di una rapida integrazione della Serbia nell’UE.

ANNESSIONE A RISCHIO – Circa un anno fa, il Presidente serbo Boris Tadic, l’uomo che tenta tra mille difficoltà a proiettare il proprio Paese verso l’Europa, ha sciolto ogni riserva presentando la domanda ufficiale per l’annessione della Serbia nell’UE. Tuttavia, la questione cela aspetti molto delicati e di non semplice risoluzione. A differenza di Slovenia e Croazia, membro UE dal 2004 la prima e nazione ufficialmente candidata la seconda, la posizione della Serbia come d’altronde quella di Bosnia e Kosovo è da valutata attentamente e passo dopo passo dai vertici comunitari. La mancanza di forti garanzie di democrazia ed alcuni chiari segnali d’intolleranza potrebbero rappresentare, infatti, ostacoli quasi insormontabili in vista di una ipotetica ma auspicata annessione di Belgrado.

Andrea Ambrosino [email protected]

Apocalisse o grande gioco?

L’atomica iraniana è un incubo che potrebbe davvero diventare realtà oppure si tratta di una questione spiegabile attraverso l’equilibrio di potenza nell’area mediorientale? Mossa per mossa, ecco quali sono le carte messe sul tavolo dai diversi attori interessati da questo scontro, da Tel Aviv a Teheran passando per il Bahrain.

 

INCUBO O REALTA’? – Nell’interpretazione delle mosse iraniane sul programma nucleare l’ipotesi apocalittica (attacco a Israele e conseguente risposta israelo-americana) non sembra essere quella prevalente (o prescelta) nel governo o nell’ intellighenzia di Israele. La visione degli strateghi è più complessa e non meno inquietante, il suo focus intellettuale è sulla profonda destabilizzazione del quadro mediorientale e mondiale che l’ingresso di Teheran nel club nucleare di per sé comporterebbe, e anzi sta già producendo. In questa ricostruzione l’arma atomica sarebbe rivolta non tanto contro Israele, col quale si potrebbe inaugurare un solido equilibrio di deterrenza reciproca, quanto verso i paesi arabi e centroasiatici del Grande Medioriente, dalle repubbliche post-sovietiche all’Egitto, passando per Arabia Saudita, emirati del Golfo e Mesopotamia. Il disegno sarebbe estremamente ambizioso, condizionare politicamente gli stati, controllare di fatto la gestione di immense riserve di idrocarburi (fino a un 70% del totale mondiale). Può sembrare uno scenario da “dottor Stranamore”, eppure, mettendo assieme una struttura militare convenzionale tra le più potenti della regione, l’arsenale nucleare, la pesante sovraesposizione imperiale (militare e finanziaria) degli Usa, e la nuova forte presenza di Teheran negli equilibri dell’Iraq, si aprono prospettive tentatrici a una politica di egemonia non guerreggiata. Si affaccia di nuovo il fantasma di Saddam, quello del 2 Agosto 1990, dell’invasione del Kuwait (seguita, si ricorderà, da una drammatica sessione Opec, che vide i kuwaitiani opporsi alla mozione irachena per un aumento dei prezzi del greggio, e di censura alla inflazionaria politica estrattiva dell’emirato: ecco, con l’atomica Teheran punterebbe a prevenire simili spiacevoli esiti, a imporsi “pacificamente” come persuasore e regolatore dei flussi e dei prezzi).

 

NON SOLO IRAN – Nel vuoto lasciato da Washington i paesi più ricchi del Golfo non rimarrebbero a guardare, e si preparebbero a sostenere l’impatto della nuova geopolitica iraniana costruendo i rispettivi “valli nucleari”. Israele fa dunque sapere, per bocca dei suoi analisti più raffinati, che il suo timore non è certo quello di un impensabile e suicida attacco nucleare su Tel Aviv, di paventare piuttosto un medio oriente impazzito e nuclearizzato, in cui tra cinque o sette potenze (poniamo Riad, il Cairo, Ankara, Tripoli, dopo Teheran..) che giocano al nucleare il litigio terminale sarebbe solo questione di tempo.Poi si deve pure considerare il fatto che in questo contesto i gruppi radicali e terroristici percepirebbero la presenza di un ombrello atomico islamico, al riparo del quale poter moltiplicare le operazioni contro Israele. L’interpretazione espansiva, o imperiale, del disegno nucleare persiano trova le sue conferme a monte. Si era profilata, ed era stata discussa, ad agosto, quando l’Arabia Saudita aveva annunciato il suo prossimo ingresso nel club nucleare (civile), grazie a una cooperazione nippo-americana. L’annuncio coronava una serie di analoghi accordi e programmi di sviluppo già in corso nella regione (Giordania, EAU, Kuwait). A distanza di due mesi muove l’altra grande potenza regionale, l’Egitto, che si impegna a realizzare quattro centrali atomiche entro il 2025.

 

BAHRAIN – A valle di questa ricostruzione giunge il (presunto) tentativo di colpo di stato in Bahrain, rivelato nei primi giorni di settembre. Secondo la ricostruzione ufficiale, il piano mirava a una sollevazione della maggioranza sciita contro il governo dominato dai sunniti. Il Bahrain, minuscola isola-stato, ha in realtà un ruolo chiave per la sicurezza del Golfo Persico, per la sua posizione geografica e come quartier generale della marina militare statunitense nella regione.

 

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LE CARTE IN TAVOLA – E’ ormai questa, prima ancora che lo stesso programma iraniano, la vera novità nella regione del Grande Medio Oriente, dall’Egitto al Pakistan, la nuova costellazione geopolitica con cui fare i conti. Perché, se era più che lecito nutrire sospetti sulla natura meramente civile dei progetti energetici di Teheran, non si vede perché analoghi programmi debbano esserne esenti. Una imponente conferma in questo senso viene dall’enorme programma di riarmo convenzionale commissionato in questi giorni dai sauditi e da altre monarchie del Golfo all’industria statunitense ed europea, per un totale di 123 miliardi $. Messa in altro modo, queste mosse legittimano a posteriori la scelta persiana su un piano formale (perché Riad sì e Teheran no?) e la motivano ulteriormente sul piano sostanziale, politico – tutte assieme dispiegano quel caos calmo che l’enorme vuoto geopolitico lasciato dalla caduta dell’Unione Sovietica ha seminato. E’ evidente che l’equilibrio della deterrenza nucleare è un gioco di pressioni, di fluidi, che non tollera il vuoto – quando questo si forma inesorabilmente si scatenano forze che tendono a riempirlo. Fino al 1989-91 il pieno era garantito dalle due superpotenze, una perfetta interdizione reciproca su scala globale, implosa già nel 1991 con la prima Guerra del Golfo. Con la svolta del 2001 e il massiccio impegno diretto degli Stati Uniti nella regione salta definitivamente anche l’ipotesi dell’America come iperpotenza unica, garante mondiale: l’aggressione aperta all’Iraq ne scardina  legittimazione e credibilità, l’insuccesso politico-militare, insieme al crack finanziario del 2008, ne mette drammaticamente a nudo i limiti strategici.

 

L’esito che sembra profilarsi è il passaggio di livello dell’equilibrio nucleare, la caduta dalla diarchia globale a un caotico fai-da-te, dal nitido dilemma del prigioniero – emblema matematico della guerra fredda – a uno spaventoso stallo messicano di grandi, medie e piccole potenze. Decisamente non una geopolitica per vecchi.

 

Andrea Caternolo

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Paese che vai, legge elettorale che trovi

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La tipologia di legge elettorale rapportata al sistema partitico di qualsiasi Paese riveste spesso un ruolo sostanziale nel determinare l’esito del voto. Per la sua strategica importanza, questo imprescindibile strumento di democrazia rappresentativa è sempre più al centro dei dibattiti politici. Ecco un breve excursus all’interno del mosaico di leggi che il panorama europeo ci consegna, cercando di delineare sfumature e contorni dei principali sistemi elettorali continentali

IL “PORCELLUM” ALL’ITALIANA –  Oggetto di contese politiche trasversali, la questione relativa ad un cambio di legge elettorale in Italia tiene banco ormai da tempo.La legge n°270 del 21 dicembre 2005 denominata “Legge Calderoli”, dal nome del ministro che l’ha ideata ma anche “Porcellum” da una constatazione largamente condivisa del politologo Giovanni Sartori ha introdotto un sistema  proporzionale con sbarramento ed un premio di maggioranza. La legge, pensata in vista di un consolidamento del bipolarismo grazie alla soglia di sbarramento, 4% alla Camera e 8% al Senato per i partiti che corrono da soli, ha come obiettivo quello di limitare la presenza dei micro partiti in sede rappresentativa e di conseguenza agevolare la formazione di maggioranze solide e più o meno omogenee. Il controverso premio di maggioranza su base numerica alla Camera e su base regionale al Senato dovrebbe garantire una certa stabilità governativa ma di fatto risulta essere poco equo e non democratico in quanto favorisce le coalizioni con pochi grandi partiti rispetto a quelle con una pluralità di soggetti politici più ampia ma di dimensioni ridotte. Da qui nasce e si alimenta la polemica che vede in testa i rappresentati dei partiti minori che, con queste regole del gioco, si sentono pesantemente sfavoriti ancor prima di conoscere l’esito delle consultazioni elettorali. Un altro aspetto negativo per ciò che concerne la democraticità e la trasparenza del voto riguarda l’attuazione delle liste bloccate che impediscono all’elettore di poter votare singolarmente un candidato poiché vi è una lista con graduatorie già prestabilite.

LA COMPLESSITATEDESCA – Anche il sistema elettorale tedesco ha le vesti di un proporzionale corretto ma con alcune sostanziali differenze rispetto al modello nostrano. L’elettorato di Germania dispone di due voti da esprimere mediante un’unica scheda elettorale: proporzionale per la scelta del partito il primo ed in senso maggioritario con collegio uninominale il secondo, in cui risulta vincitore colui che ottenga la maggioranza relativa dei voti nel Land di appartenenza. E’ prevista, inoltre, una soglia di sbarramento al 5% per l’accesso al Bundestag, è ammesso il voto disgiunto ma non si può modificare l’ordine delle candidature in quanto le liste sono bloccate. L’esercizio della funzione legislativa a livello federale fa sì che si possano attuare due differenti metodologie di voto per eleggere i rappresentanti della Dieta e del Consiglio Federale.

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LA SPAGNA DELLE CIRCOSCRIZIONI – Madrid in sede elettorale fa riferimento ad un sistema proporzionale caratterizzato da una certa rigidità. Come in Italia vengono favoriti i partiti più grossi e le liste sono bloccate, tuttavia non sono presenti soglie di sbarramento considerevoli. Congresso e Senato spagnolo sono eletti grazie al voto attribuito alle 52 circoscrizioni che coincidono con le provincie iberiche e che dovrebbero, almeno in teoria, riflettere la consistenza demografica delle determinate aree geografiche.

IL DOPPIO TURNO ALLA FRANCESE –  Si tratta di un maggioritario a doppio turno, con una votazione da espletare nell’arco di due settimane. L’accesso al secondo turno è tuttavia vincolato ai candidati che nella prima consultazione abbiano raggiunto per lo meno il 12,50% dei voti. Ovviamente, se un candidato al primo turno raggiunge la maggioranza assoluta dei voti, a condizione che abbia votato almeno il 25% degli aventi diritto, viene meno la necessità del ballottaggio successivo.

TURNO UNICO NEL REGNO UNITO – La legge elettorale  britannica poggia le proprie basi su un sistema maggioritario e uninominale. Il gioco è assolutamente il più semplice possibile: vince chi prende più voti. Dunque vengono eletti i candidati che ottengono per ciascun collegio anche solo la maggioranza relativa dei voti. Non esistono liste con nominativi prestabiliti ed è un sistema che tendenzialmente produce nel lungo periodo una rappresentanza bipartitica, il dualismo storico tra Labour e Tory ne è la riprova più lampante, lasciando tuttavia aperta la porta ad un terzo contendente, come ad esempio i Liberaldemocratici. Ciò nonostante la legge elettorale britannica concede la possibilità di eleggere determinati candidati radicati nelle singole regioni o nelle zone territoriali dove il voto lo consenta.

Andrea Ambrosino [email protected]

La Romania e la sicurezza nel Mar Nero

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Da sempre il Mar Nero è una via di comunicazione importante tra diverse realtà geopolitiche. Storicamente questo bacino semichiuso ha collegato imperi e civiltà: il mondo ellenico con il mondo persiano, quello musulmano con quello cristiano-ortodosso, più recentemente lo spazio sovietico con il Medio Oriente. Oggi è uno degli snodi nevralgici per quanto riguarda il trasporto verso l'Europa di risorse energiche provenienti dall'Asia Centrale, nonché un'area caratterizzata da tensioni latenti.

L’IMPORTANZA GEOPOLITICA DEL MAR NERO – Dalla caduta del blocco sovietico l’area intorno alle coste del Mar Nero è stata interessata da numerosi cambiamenti: innanzitutto, dopo 70 anni in cui a regnare sulle acque al di là del Bosforo erano sostanzialmente due entità, il blocco sovietico e la Turchia, dagli anni ’90 hanno incominciato a far sentire la propria voce nuove realtà statali, insieme ad altre più vecchie liberate dal controllo sovietico. Il gioco si è complicato e si è fatto molto più instabile. La disgregazione dell’URSS ha anche aperto la strada al commercio verso l’Europa delle immense riserve energetiche dell’area centro-asiatica. Il Mar Nero costituisce la naturale via di collegamento tra queste zone ricche di risorse e l’occidente industrializzato affamato di gas e petrolio. Sotto il profilo della sicurezza, nell’ultimo decennio nella regione si è diffusa una certa instabilità come dimostrano le vicende della Transnistria, dell’Abkhazia, dell’Ossezia, del Nagorno-Karabakh. Si è registrata una conflittualità crescente fomentata dal diffondersi di movimenti indipendentisti e religiosi fondamentalisti. Da sottolineare inoltre come la Romania, dalla sua entrata nell’Unione Europea nel 2007, sia diventato il confine ultimo europeo verso le turbolente, ma ricche, aree del centroasia. Di conseguenza ha assunto una notevole importanza nel meccanismo di sicurezza europeo e non solo. La Romania gioca anche un ruolo nel confronto tra Stati Uniti e Russia, che per motivi geostrategici sono interessate a un controllo sull’Asia centrale.

LA QUESTIONE ENERGETICA – Come già spiegato, attraverso il Mar Nero e nella regione circostante passano importanti vie energetiche. La Romania viene solo lambita dagli enormi progetti di gasdotti che interessano l’area. In quanto Stato rivierasco anche su di essa graveranno importanti responsabilità per la sicurezza delle vie di approvvigionamento verso l’Europa. I due principali, e concorrenti, progetti sono: il South Stream, patrocinato da Mosca, e il Nabucco, voluto da Washington. In entrambi i casi si tratta di condotti che dovrebbero trasportare gas direttamente nell’Europa centrale. Nel primo dei due progetti il gas arriverebbe dalla Russia e attraversando il Mar Nero giungerebbe in Bulgaria, per poi, attraverso Serbia e Ungheria, giungere a destinazione in Austria e rifornire le reti europee esistenti. Il progetto russo bypasserebbe quindi la Romania. Nel caso del gasdotto Nabucco il percorso partirebbe da Baku e arriverebbe in Austria attraverso Turchia, Bulgaria, Romania e Ungheria. I due percorsi sono studiati in base a circostanze geopolitiche, oltre che economiche. Le due potenze che sponsorizzano i due progetti favoriscono il percorso che passa attraverso i territori dei rispettivi alleati. Al momento i due progetti sono ancora sulla carta. Vista la mole degli investimenti e la grandezza degli interventi sarà difficile che vengano entrambi realizzati. Chiaramente, nel caso vincesse l’idea russa, la Romania verrebbe tagliata fuori. Quale che sarà la vincente tra le due iniziative, la costruzione del nuovo collegamento tra fornitori e consumatori di energia aumenterà esponenzialmente l’importanza strategica dell’area. La Romania, in quanto membro dell’Unione Europea e della NATO avrà indubbiamente maggiori responsabilità nel garantire la sicurezza delle nuove vie del gas ed a prescindere che il condotto percorra o lambisca il suo territorio.

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FOCOLAI DI INSTABILITÀ DELL’AREA DEL MAR NERO – Una possibile minaccia alla sicurezza dell’area è costituita dalla presenza nella regione di entità para-statali e da movimenti armati indipendentisti, come dimostrato dalla recente guerra del 2008 tra Georgia e Russia, scatenata dalla questione dell’Ossezia del sud. Al momento l’Ossezia del sud e l’Abkhazia (che ha un notevole litorale sul Mar Nero), regioni secessioniste della Georgia, hanno uno status indefinito e si reggono sull’appoggio militare e politico della Russia. Lo stesso dicasi per la Transnistria (una scheda dedicata verrà pubblicata in questo speciale), piccola striscia di terra tra il confine moldavo e ucraino, che ospita importanti infrastrutture militari russe. Queste realtà incerte, governate da leadership poco trasparenti, legate indissolubilmente ai protettori al Cremlino, concorrono ad una certa instabilità dell’area, già minacciata dalla presenza di importanti reti criminali e dalla vicinanza a focolai dell’insurrezione islamica integralista nel Caucaso e in Asia centrale. L’appoggio che Mosca continua a dare ai movimenti indipendentisti filo russi, inquina i rapporti con gli altri stati dell’area e il timore degli stati ex sovietici è sempre quello di vedere risorgere l’imperialismo russo. Sarà importante vedere quindi come verranno risolte, se lo verranno, le questioni dello status di questi territori, e se Abkhazia, Ossezia e Transnistria diventeranno un modello da seguire per il sorgere di nuovi movimenti secessionisti e nuove rivendicazioni con l’appoggio di Mosca.

LA ROMANIA TRA USA E RUSSIA – La Romania svolge un ruolo importante anche nel confronto tra Usa e Russia sui temi della sicurezza e della difesa. Con l’ingresso del Paese nella Ue e nella NATO e il conseguente configurarsi della Romania come parte della frontiera orientale di queste due organizzazioni, Bucarest ha iniziato una riorganizzazione ed un riammodernamento delle proprie forze armate, con il consistente aiuto degli Stati Uniti. La partnership tra Washington e Bucarest in tema di sicurezza è sempre più stretta. La Romania ha partecipato alla missione internazionale in Iraq ed è tutt’ora impegnata in Afghanistan. Gli Stati Uniti hanno viceversa aperto numerose basi militari su territorio rumeno. Mosca è abituata a considerare il Mar Nero e le regioni a est della Romania come sua area d’influenza ed è evidente che mal digerisca la presenza sempre più consistente della NATO e dell’esercito americano in quello che considera “il giardino di casa”. La questione più delicata riguarda il cosiddetto “scudo spaziale”. Dopo aver annunciato l’intenzione di abbandonare il progetto voluto da Bush, Obama ha poi deciso di riproporlo in una forma diversa. Le basi missilistiche che avrebbero dovuto sorgere in Repubblica Ceca e Polonia, adesso dovrebbero essere dislocate in Bulgaria e Romania. Nonostante le rassicurazioni di Washington per cui l’ombrello missilistico sarebbe indirizzato a proteggersi da eventuali minacce provenienti dall’Iran, la Russia ha sempre considerato questo sistema di difesa come una minaccia diretta nei propri confronti. Il Primo Ministro romeno Basescu ha accettato di buon grado di ospitare i vettori americani, come di recente ha inaugurato nuove relazioni in ambito militare con Israele, i cui soldati sono stati invitati su suolo romeno per alcune esercitazioni. La Romania vuole evidentemente conquistarsi un posto come migliore alleato dell’occidente per la sicurezza della regione. La leadership di Bucarest ha scelto di sfruttare il momento propizio, in concomitanza con il cambiamento al vertice del potere in Ucraina in direzione filo-russa e la crisi nei rapporti tra Turchia e Israele. Un buon tentativo, ma molto dipenderà dall’andamento del dialogo tra Washington e Mosca, dialogo che ultimamente appare quanto mai cordiale e proficuo per entrambe le parti.

Pietro Costanzo, Jacopo Marazia, Alberto Rossi, Davide Tentori, Stefano Torelli 11 ottobre 2010 [email protected]