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Se Calderon chiude un occhio

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Da Città del Messico – Seconda puntata del reportage del “Caffè” sul narcotraffico messicano. In questo articolo parliamo della storia e del funzionamento del cartello della droga più grande, quello di Sinaola. Un’organizzazione criminale potentissima e molto estesa, che si è accresciuta negli ultimi anni in seguito alla lotta dichiarata dall’attuale presidente messicano nei confronti dei trafficanti di droga. Le istituzioni tuttavia, al fine di debellare la maggioranza dei cartelli e di ridurre il caos nel Paese, si dimostrano più tolleranti nei confronti dei sinaloensi.

CHAPO GUZMÁN – Joaquín Archivaldo Guzmán Loera, capo dei capi del Cartello di Sinaloa, dirige la organizzazione criminale che controlla il 50% del mercato di stupefacenti in entrata negli Stati Uniti, trasporta droga in più di 50 paesi in tutto il mondo e una vasta reti di contatti in Sudamerica, Europa e Australia. Possiede un impero economico di più di un miliardo di dollari che gli ha permesso di essere inserito nel 2009 nella classifica dei miliardari di Forbes, come il 7° miliardario messicano; attualmente è considerato il 41° uomo più potente del pianeta, prima di Sarkozy, Medvedev o Steve Jobs, a soli 4 posti da Osama Bin Laden, con cui condivide la leadership nella lista dei più ricercati al mondo.

LA MULTINAZIONALE SINALOENSE – Tuttavia, la fortuna del Chapo non dipende solamente dalle tradizionali mansioni del Cartello di Sinaloa, traffico di droga e di persone per esempio, ma anche da imprese che svolgono attività consentite dalla legge dove si ricicla il denaro accumulato illegalmente. Secondo alcune ricerche, quasi il 78% dei settori economici messicani sono infiltrati dal narcotraffico; tra le imprese che lavano il denaro sporco del Cartello di Sinaloa si trovano industrie e negozi di vestiti, industrie farmaceutiche e manufatturiere, agenzie immobiliari, aziende agricole, boutique, agenzie di capitali, produttrici di giochi. Dal 2005 l’Ufficio per il controllo dei beni stranieri (OFAC per la sua sigla in inglese) del ministro del Tesoro statunitense ha segnalato ogni anno centinaia di aziende messicane, con conti nelle banche americane, nelle quali investiva il Cartello di Sinaloa. Per esempio, nel 2007 la OFAC congelò a 19 industrie messicane che erano controllate da Blanca Margarita Cázares, sorella del luogotenente più importante di Ismael El Mayo Zambada, principale socio del Chapo.

Il Cartello di Sinaloa, come tutte le moderne cosche, si struttura secondo gli schemi di una multinazionale, con amministratore generale, dirigenti, eccellente tecnologia, alleanze strategiche con altre organizzazioni, cicli di finanziamento, programmi di espansione, attività di reclutamento, controllo di qualità, settori di relazioni pubbliche e riscossione tasse, organi interni di controllo e vigilanza. In questo modo si garantiscono la continuità delle loro attività in Messico e nel resto del mondo, secondo quanto segnala il Dipartimento di giustizia e del Tesoro americano. Si stima che solamente nelle attività illegali del Cartello di Sinaloa vi lavorino quasi 250.000 messicani, senza contare i funzionari pubblici legati indirettamente al narco: in quasi il 60% dei comuni del Messico vi lavora gente impiegata del crimine organizzato.

POTERE REALE – Secondo il giornalista Diego Enrique Osorno, il Cartello di Sinaloa è uno dei poteri di fatto del Messico, illegale ma con il quale tutte le autorità di governo devono fare i conti quando amministrano il territorio, visto che da quasi 80 anni esiste con reti di penetrazione sociale, politica, economiche e culturali molto forti. In effetti, diversi uomini del Partido de Acción Nacional (PAN), al potere ultimamente dopo 70 anni di PRI, si sono spesso distinti per i diversi vincoli con il Cartello di Sinaloa.

Nel gennaio 2001, solo 50 giorni dopo che Vicente Fox si era instaurato a guida del Messico, il Chapo Guzman, detenuto dal 1993, riesce a scappare dal carcere di massima sicurezza di Puente Grande, vicino a Guadalajara. Vengono accusati 70 funzionari del carcere tra cui il direttore Leonardo Beltrán, amico personale di un membro del gabinetto di Fox, Miguel Ángel Yunes Linares, attuale direttore dell’istituto pensionistico messicano, il quale invece è considerato, con il consistente aiuto di Enrique Pérez Rodríguez, vice direttore dell’area che gestiva il sistema penitenziario federale, il referente politico della fuga. Questi due personaggi, con l’aiuto di amici e parenti funzionari dello Stato in altre aree, avrebbero coperto il piano di evasione del Chapo, che fu messo a loro conoscenza alcuni mesi prima grazie alla denuncia su un piano di fuga da parte di un interno, archiviandola e non permettendo la ricollocazione del pericoloso narcotrafficante. Jorge Tello Peón, attuale direttore del Sistema Nazionale di Sicurezza Pubblica, fu l’ultimo funzionario a vedere il Chapo, prima che scappasse, tal come è stato accertato nel processo penale 16/2001-III. Suo fratello, Ricardo Tello Peón, fu appoggiato dall’allora presidente del PAN, Luis Felipe Bravo Men, e da un deputato di nome Felipe Calderón, alla candidatura a sindaco di Cancún

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LA GUERRA AL NARCOTRAFFICO – Tempo dopo, Calderón viene eletto presidente e scatena una guerra contro i mafiosi del paese, senza però cancellare gi investimenti di fondi pubblici nelle imprese dei familiari del Chapo, come ha denunciato recentemente “El Universal”, segnalando che Jesús y Ofelina Guzmán Loera, fratelli del Chapo, continuano a ricevere finanziamenti da un programma del Ministero dell’agricoltura. Per un vasto numero di commentatori la politica di sicurezza pubblica del PAN avrebbe dimenticato di attaccare il Cartello di Sinaloa. Una radio statunitense, National Public Radio, ha denunciato che dal 2006, anno di arrivo al potere di Calderón, sui quasi 2,600 incriminati per narco, solo il 12% appartenevano ai sinaolensi. Alcuni ufficiali della polizia federale messicana di Ciudad Juarez hanno accusato il governo di attaccare a tutti i cartelli mafiosi, tranne quello del Chapo, soprattutto da quando è entrato l’esercito in città. In effetti, dal febbraio 2008, mese in cui arrivò l’esercito, il governo federale annunciò la incriminazione di 88 membri del Cartello di Juarez mentre denunciò solamente 16 persone del cartello di Sinaloa. Nello scorso febbraio, anche membri dello stesso PAN hanno cominciato a storcere il naso verso la politica contro il narcotraffico di Calderón. Il deputato Manuel Clouthier Carrillo ha accusato il presidente di aver attuato una politica che non avrebbe fatto altro che abbandonare a sé stesse alcune zone dello Stato, permettendo così ai narcos di consolidare il loro potere e proteggendo personaggi potenti come il Chapo.

Andrea Cerami

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La paura di un nemico che non si vede

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Prima gli Stati Uniti con una nota del Dipartimento di Stato, e poi il Giappone: sono sempre di più gli stati che considerano reale l´ipotesi di una minaccia terroristica in Europa. Per il momento si tratta solo di note indirizzate ai propri cittadini diretti in Europa come turisti, ma non si esclude che presto si passi ad azioni più incisive sul panorama della lotta al terrorismo transfrontaliero.

EUROPA PERICOLOSA? – L´avvertenza lanciata negli Stati Uniti tramite Travel Alert, pubblicata dal Dipartimento di Stato invita i viaggiatori statunitensi a prestare particolare attenzione a "possibili attacchi terroristici" nel territorio europeo, attentati che, secondo le informazioni in possesso dalle Agenzie Statunitensi, sarebbero organizzate da "Al-Qaeda ed organizzazioni affiliate". Sulla nota si legge una certa vaghezza sia sulla metodologia degli attentati (il tipo di armi utilizzate, e l´entità degli attacchi), che sulle destinazioni a maggior "rischio attentato" (ad esempio gli obbiettivi: privati od istituzionali, mezzi di trasporto o mete turistiche e religiose), e ai cittadini vengono date solo assicurazioni sulla stretta collaborazione con gli alleati europei che "condividono quotidianamente le informazioni per sventare eventuali piani terroristici". La portata dell´avvertimento comunque rimane di basso profilo per ora, e secondo il Washington Post essa é in sede di discussione tra gli stati membri dell´Unione Europea e gli Stati Uniti, poiché i primi si dicono molto preoccupati per le possibili ricadute sul settore turistico in caso di una maggior pressione mediatica sull'argomento.

HAQQANI – E' innegabile comunque che vi sia fermento per quanto riguarda le attività di sorveglianza in Europa, e al centro delle indagini congiunte da parte dei servizi d´intelligence americani ed europei, si trova soprattutto il gruppo di Haqqani. Si crede il gruppo sia situato nell´area di Miranshah, nella regione del nord Waziristan, Pakistan. Maulvi Haqqani, il leader della rete terroristica, che ha avuto relazioni con la CIA e si é anche recato alla Casa Bianca durante il mandato di Reagan, ha ricevuto finanziamenti e supporto della ribellione con i Sovietici, ed ora é al comando di un numero di talebani compreso tra i 4000 e i 12000 uomini, esercito che si finanzia tramite una diffusa rete di finanziatori con profonde radici in Europa, ma anche attraverso estorsioni, rapimenti, e una serie di crimini nelle province ad est dell´Afghanistan. Si ritiene che il gruppo di Haqqani sia responsabile di una lunga serie di attentati terroristici negli ultimi due anni, tra cui quello del 14 gennaio del 2008 al Serena Hotel di Kabul con 6 vittime, o l´attacco che ha portato all´uccisione di 58 vittime nell´Ambasciata Indiana di Kabul il 7 luglio del 2008. Altri attentati come quello costato la vita a 18 persone nel maggio 2010, e il tentato omicidio di Hamid Karzai nell´aprile del 2008 sono sempre ritenuti essere di responsabilità della rete terroristica di Haqqani. E' recente la notizia fatta uscire dal direttore di Sky News, Tim Marshall, di un piano terroristico sventato nel centro d´Europa, con obbiettivi quali Gran Bretagna, Germania e Francia, a seguito degli sforzi congiunti della Nato e dei servizi nazionali europei di sicurezza. L´intensificarsi degli sforzi contro la rete di Haqqani, possono essere letti come un segnale del livello di preoccupazione che gli Stati hanno riguardo questo gruppo. Le azioni congiunte contro la rete hanno portato nel giugno 2010 all'uccisione di uno dei leader della rete di Haqqani, Fazil Subhan e di un numero imprecisato di militanti.

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SIS E SIS II – Le dinamiche legate al controllo di un possibile attacco terroristico sono molteplici e molto complesse. In questo momento inoltre l´Europa sta affrontando un periodo molto particolare, essendoci numerose discussioni sul futuro dell´allargamento, ed in particolare sulle modalità di controllo delle frontiere in un sistema così ampio di stati. Proprio in questi giorni il dibattito in seno al Parlamento Europeo ha portato in luce alcune criticità riguardo il controllo delle frontiere, per gli eventuali paesi membri dell´UE che ad oggi sono richiedenti alla Commissione. Il SIS, "Schengen Information System", é un sistema che permette alle autorità competenti di ottenere informazioni su determinate categorie di persone o proprietà. L´utilità di tale sistema non si mette in discussione, tuttavia sono recenti i dibattiti sull´urgenza di far entrare in vigore il SIS II, il cui progetto é stato approvato nel 2001 dal Consiglio e i cui fondi sono stati disposti dalla Commissione.

EUROJUST ed EUROPOL – Sono inoltre numerose le agenzie che si occupano della sicurezza transfrontaliera in Europa, tra cui Eurojust ed Europol, ed entrambe spingono per un aumento della cooperazione alla lotta al terrorismo, e all´elaborazione di un sistema di sicurezza più efficace. Sia Aled Williams, presidente del Collegio di Eurojust, sia Rob Wainwright, direttore di Europol, presenti all´ultimo incontro con il Parlamento Europeo e i Parlamenti Nazionali, non hanno fatto tuttavia menzione di questa preoccupazione riguardo attacchi terroristici in Europa, argomento che avrebbero potuto utilizzare per rendere esplicita l´esigenza di maggiori fondi per le agenzie. Rimane da capire se per caso si tratti di cautela, o se, in un clima di vigile nervosismo, le Agenzie e i Servizi di Intelligence preferiscano non esporsi.

Samuele Poletto 8 ottobre 2010 [email protected]

Deterrenza nucleare e deterrenza petrolifera

La questione dello sviluppo di tecnologie nucleari in Iran, nella lettura strategica oggi più popolare, è legata al rischio che Teheran sviluppi un arsenale nucleare da puntare contro Israele. Non in un quadro di reciproca deterrenza, ma in vista di un bombardamento genocida. Israele non lo smentisce di certo, e le periodiche invettive del presidente iraniano sulla inesistenza della Shoah e sulla futura sparizione dello stato ebraico certo inducono l’opinione pubblica a fare due più due con il programma atomico. Quanto tale lettura è vicina alla realtà?

 

LA LETTURA APOCALITTICA – Nell’attuale costellazione strategica e di politica internazionale un attacco iraniano contro Israele comporterebbe l’autodistruzione dell’Iran: se davvero l’Iran attaccasse Israele, vi sarebbero risorse militari e volontà politica che garantirebbero una sicura, anzi automatica, massiccia ritorsione sia da parte degli Usa che da parte della stessa Israele. Lo scenario di un possibile attacco nucleare a Israele che si delinea in alcune ipotesi mescola il fanatismo di parte dell’elite e delle masse alla fredda consapevolezza di un nuovo ordine mondiale. Questo nuovo equilibrio non è proprio all’orizzonte, ma non si può escluderlo dal futuro possibile, e naturalmente l’arsenale nucleare è un investimento geopolitico di lungo periodo. Si dovrebbe infatti immaginare una costellazione di forze in cui non semplicemente la Cina sia diventata una superpotenza globale almeno pari agli Usa (e questa è la profezia più facile e condivisibile, anche se dal punto di vista militare il divario tra i due Paesi è ancora gigantesco), ma si siano stabiliti rapporti conflittuali tra questi due grandi poteri, come ai tempi della guerra fredda. In un simile scenario (che, va detto, attualmente è tutt’altro che all’ordine del giorno), l’Iran poi dovrebbe essere parte così integrata del Blocco Cinese da meritare una sorta di “garanzia cubana”. O israeliana, appunto. E ciò rende il gioco a somma zero: in ogni caso su ciascuno dei due contendenti mediorientali, varrebbe un interdetto nucleare da parte dei rispettivi “protettori”. In altri termini, potrebbe anche essere possibile che in un futuro prossimo l’Iran diventi politicamente “intoccabile” come oggi lo è Israele grazie alla garanzia Usa. E’ ben difficile immaginare che però cada quella vitale garanzia su Tel Aviv: chi volesse bombardare lo stato ebraico con armi nucleari dovrebbe comunque mettere in conto la propria apocalisse, se non la guerra mondiale.

 

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UNA LETTURA PIU’ REALISTICA – Questa ricostruzione è indebolita da una riflessione. In una densa intervista di due anni fa a Oil Tabloid (bimestrale dell’Eni) il grande scrittore israeliano Abraham Yehoshua, tra molte acute considerazioni di ordine storico e sociale, e memorie personali, sviluppava una interessante lettura geopolitica del petrolio, della dote petrolifera nel contesto mediorientale. La presenza di enormi risorse di idrocarburi nei paesi arabi (in particolare del Golfo e in Iraq, ma anche in Egitto e Maghreb) e islamici (Iran), rappresenterebbe una manna economica, ma anche un formidabile tallone d’Achille strategico: le riserve, e ancor più l’infrastruttura di trasporto e distribuzione, sono particolarmente vulnerabili a un eventuale attacco militare, costituiscono un naturale deterrente rispetto a iniziative militari su Israele (che non soffre reciprocità), quasi un ostaggio strategico che avrebbe di per sé inibito politiche aggressive da parte degli arabi. E’ una ipotesi solida, e utile. Viene da chiedersi, pensando all’impasse iraniana, se questo paradigma non operi, rovesciato, a favore di Teheran, quando la questione verta sulla deterrenza nucleare. L’atomica è la più potente, e la meno controllabile delle armi, il suo impatto è enorme, durevole e scarsamente circoscrivibile: è, appunto, lo strumento dell’Armageddon, la rottura del Settimo Sigillo. Oltre ad uccidere milioni di esseri umani, di fatto si renderebbero inaccessibili per molti decenni, o per sempre, giacimenti di idrocarburi che ammontano a una quota esorbitante delle riserve mondiali. L’Iran, il Golfo non sono la Russia, la concentrazione territoriale di quelle risorse è elevatissima. Solamente il complesso gasifero (offshore) di South Pars/north Field tra Iran e Qatar vale quasi una intera Russia.

 

In quel teatro ci si deve muovere col bisturi, se si deve preservare l’accesso alle risorse. Rispetto al deterrente nucleare le posizioni si rovesciano: il tallone d’Achille è occidentale (e mondiale), l’ostaggio in mano ai persiani. Eppure, perfino in un ipotetico e un po‘ fantapolitico futuro in cui dovesse indebolirsi la garanzia nucleare americana sullo Stato ebraico, questo comunque sarebbe in grado di portare il suo second strike, quel secondo colpo da mettere a segno anche dopo aver subito il bombardamento – dalle batterie montate sui sottomarini atomici della marina israeliana.

 

La lettura apocalittica, comunque, non sembra essere quella prevalente (o prescelta) nel governo o nell’intellighenzia di Israele.

 

Andrea Caternolo

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Golpe fallito?

Il presidente dell’Ecuador Rafael Correa ha affrontato lo scorso 30 settembre il momento più difficile per il proprio governo dalla sua elezione nel 2007. Le manifestazioni organizzate dalle forze di polizia per protestare contro recenti tagli salariali sono degenerate velocemente. Violenti scontri ed incidenti hanno attraversato la capitale, coinvolgendo lo stesso presidente, ferito a un piede. Secondo Correa, dietro alle proteste un vero e proprio tentativo di colpo di stato organizzato dalle forze di opposizione.

LE PROTESTE – Lo scorso 30 settembre agenti di polizia e militari sono scesi in piazza a Quito, a Guayaquil ed in altre città minori dell’Ecuador, per protestare contro un nuovo progetto di legge che determinerebbe alcuni tagli nei loro benefici salariali. Nella capitale la situazione è degenerata in poco tempo: si sono verificati violenti scontri e saccheggi, il parlamento è stato bloccato e l’aeroporto, invaso dai manifestanti, è stato chiuso.

Lo stesso presidente Rafael Correa è stato coinvolto negli incidenti, ferendosi ad un piede mentre si allontanava dal Regimiento Quinto, dove si era recato per discutere con i manifestanti. Correa è stato subito condotto all’Ospedale della Polizia Nazionale, dove però è rimasto bloccato dai poliziotti. Per diverse ore, infatti, alcuni manifestanti hanno assediato le stanze in cui si trovava il presidente; solo un vero e proprio blitz di truppe fedeli al presidente è riuscito a mettere fine al “sequestro”.

UN TENTATIVO DI GOLPE? –  La prima reazione del governo dell’Ecuador alla situazione è stata la dichiarazione dello stato di emergenza in tutto il paese per cinque giorni. Il presidente Correa, sin dalle prime ore, non ha esitato ad denunciare un tentativo di colpo di stato contro il suo governo organizzato dalle forze di opposizione e dalle frange delle forze di polizia vicine al Partido Sociedad Patriótica. In particolare, il presidente ha puntato il dito contro l’ex presidente Lucio Gutierrez, accusandolo di voler destabilizzare il suo governo e di voler impedire lo sviluppo della Revolución Ciudadana. Dal canto suo, Gutierrez ha negato di essere coinvolto ed ha dichiarato che dovrebbe essere il governo di Correa a sentirsi responsabile per le attuali tensioni sociali che attraversano il paese.

Conseguenza delle manifestazioni, un cambiamento radicale ai vertici delle forze di polizia; dalla direzione, infatti, sono usciti sei generali, e ne sono entrati quattro nuovi. In particolare, il comandante Generale Freddy Martinez ha annunciato la rinuncia al suo incarico, e sarà sostituito da Patricio Franco.

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LE REAZIONI – A livello internazionale, il sostegno a Correa e al suo governo è venuto da ogni parte del mondo, dagli Stati Uniti con una dichiarazione del Segretario di Stato Hillary Clinton, all’Unione Europea e all’ONU. In particolare, a livello regionale, sia l’Organización de los Estados Americanos (OEA) sia l’Unión de Naciones Suramericanas (Unasur) hanno organizzato riunioni straordinarie lo stesso 30 settembre per fare il punto sulla situazione. Da Washington, il Consiglio Permanente dell’OAS ha approvato una risoluzione nella quale esprime la propria disapprovazione verso qualsiasi atto che possa minacciare un sistema istituzionale democratico e mette a disposizione del governo ecuadoregno la propria completa cooperazione.

A Buenos Aires, alle 3 del mattino del 1° ottobre anche i capi di Stato e di Governo dell’Unasur hanno condannato il tentativo di golpe in Ecuador e hanno riaffermato il proprio impegno per la salvaguardia delle istituzioni democratiche e dello stato di diritto negli stati membri dell’organizzazione. Significativa dell’impegno di questa organizzazione la presenza in Argentina di tutti i presidenti degli stati membri, ad esclusione di Lula (Brasile) e di Fernando Lugo (Paraguay).

Valentina Origoni

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Nuove dal Sol Levante

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Rapida ma esaustiva panoramica degli avvenimenti fondamentali che hanno riguardato il Sol Levante durante il periodo estivo appena trascorso: dalla politica all’economia, sino all’ultima crisi diplomatica e a i rapporti con la Cina. Un viaggio che ci aiuta a comprendere come stiano mutando gli equilibri mondiali e come Tokyo stia cercando di rispondere al nuovo ordine internazionale.

NAOTO KAN PREMIER – Nonostante la sua popolarità fosse scesa precipitosamente nei primi giorni di luglio, poco prima delle elezioni della Camera Alta del Parlamento nipponico, Naoto Kan ha battuto lo sfidante Ichiro Ozawa con 412 voti contro 400. Tra i Grandi Elettori, Ozawa ha raccolto solo 491 voti, perdendo la battaglia per la succesione. Kan, inoltre, ha totalizzato 721 preferenze interne al Partito Democratico.  Il premier, in carica da soli tre mesi, ha dovuto affrontare la questione ancora aperta sulla base di Okinawa e sfidare le condizioni economiche avverse che hanno assistito al sorpasso cinese durante i mesi estivi. "Ringrazio molto tutti: gli iscritti, i consiglieri, i parlamentari e soprattutto il popolo giapponese", ha detto il premier subito dopo la proclamazione del risultato. Ha poi aggiunto: "ora il Giappone si trova in un momento molto difficile e dobbiamo lavorare tutti insieme al massimo".

IL SORPASSO CINESE – La Cina mette a segno il sorpasso sul Giappone, registrando un aumento del Pil nel trimestre aprile/giugno. Pechino diventa così la seconda economia mondiale, rimanendo comunque dietro gli Stati Uniti. Facendo fede ai valori ufficiali, nel trimestre considerato, la Cina ha registrato un Pil di 1.339 miliardi di dollari, contro i 1.288 del Giappone. Gli analisti sono tuttavia critici sul fatto che si sia considerato solo un trimestre su un periodo semestrale che vedrebbe comunque il Giappone avanti con un Pil pari a 2.578 miliardi di dollari contro i 2.532 cinesi. Rimane inoltre fondamentale il fatto che per l’economia mondiale ed il Fondo Monetario Internazionale lo yen sia la valuta più stabile per la finanza internazionale, in grado di ristabilire le fluttuazioni del mercato e di fungere da boa di salvataggio nel mezzo della crisi dei consumi attuale. 

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ZHAN QIXIONG LIBERO – Il capitano del peschereccio cinese che l’8 settembre aveva speronato due motovedette della marina nipponica nelle acque dell’arcipelago di Senkaku è stato rilasciato dopo 16 giorni di reclusione grazie all’arrivo di un aereo mandato da Pechino e atterrato in Giappone. Le isole sono rivendicate sia dalla Cina che da Taiwan, ma sono suolo nipponico nel Mar Cinese Orientale. La collisione è avvenuta nonostante lo stop intimato all’imbarcazione dalle due motovedette. Le critiche nei confronti della decisione sono state molto dure, in particolare quelle provenienti da alcuni leader politici conservatori e dal governatore di Tokyo, Shintaro Ishihara, il quale ha dichiarato che “il governo non ne esce bene” e che “ci sono interessi in gioco, scambi economici e turismo. Ma esiste un’altra valuta che è il bene del Paese”. La Cina aveva definito l’arresto “illegale ed invalido” e da quel momento le relazioni bilaterali erano state messe in crisi. Pechino aveva chiesto che l’uomo fosse liberato “immediatamente e senza precondizioni”. La Cina aveva poi deciso di alzare la tensione con l’annullamento dei negoziati sullo sfruttamento congiunto di giacimenti di gas nel mar Cinese Orientale. A influenzare la decisione di Tokyo, potrebbe anche essere stato l’arresto di quattro cittadini giapponesi accusati di raccogliere informazioni riservate su strutture militari e la decisione di Pechino di non vendere al Giappone minerali utili alla produzione di auto elettriche, settore fondamentale per l’economia nipponica.  Acceso il dibattito tra Cina e Giappone sia per la dinamica dello scontro, sia per quanto riguarda la legittima territorialità delle isole Senkaku (Diaoyu in lingua cinese). Per il ministro dei trasporti nipponico, Seiji Maehara, qualsiasi imbarcazione può attraversare le acque territoriali secondo il principio del “passaggio inoffensivo”, ma è vietato calare le reti. Jiang Yu, portavoce del ministero degli Esteri cinese, ha dichiarato che “le isole Diaoyu sono state territorio cinese fin dall’antichità. Seguiremo da vicino la situazione e ci riserviamo il diritto di prendere altri provvedimenti”.

Alessia Chiriatti

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E se la crisi ci insegnasse qualcosa?

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La crisi economica globale, che ha colpito il mondo intero nel 2008 ma i cui effetti si sentono ancora, soprattutto in Europa, potrebbe cambiare in maniera decisiva gli scenari internazionali. Ecco un viaggio nel sistema della principale istituzione finanziaria mondiale, il Fondo Monetario, all’interno del quale i Paesi emergenti stanno iniziando a pretendere maggior peso decisionale

CONSEGUENZE DI BREVE PERIODO  – E’ innegabile che questa profonda crisi economica, colpendo le fondamenta stesse dell’Economia Mondiale, si sia dimostrata prova inconfutabile di un problema strutturale nell’organizzazione delle dinamiche globali. Gli economisti si dividono, ma in termini assoluti rimangono i numeri a dare dimostrazione di quanto debole possa risultare la rete di copertura per prevenire le imprevedibili (o prevedibili) variazioni del mercato: tra il 2007 e il 2010 ammonterebbero ad una cifra compresa tra i 3600 e i 4000 miliardi di Dollari le perdite dovute alla crisi, secondo le stime del Global Financial Stability Report del FMI (2009).

NORD E SUD DEL MONDO – Ma come si sono riassestati gli equilibri del mercato globale negli ultimi tre anni? Osservando in questo momento una mappa della crescita reale del PIL a livello globale, ci si accorgerebbe che il Nord e il Sud del mondo sembrano essersi invertiti di ruolo, con picchi del 10% di crescita in Cina, e una crescita compresa tra il 6 e l’8% in India, ed una quasi speculare perdita che arriva al  4% negli Stati Uniti, e sfiora punte del 10% in Russia. Al profondo scossone degli equilibri economici, si accompagna un riassestamento dei poteri, e dunque una ridistribuzione delle competenze nella governance globale. O per lo meno così vorrebbero i paesi delle economie emergenti, cui ovviamente si contrappongono gli interessi ormai consolidati dei paesi del Vecchio Continente. Ed è proprio in quest’ottica che i paesi del Bric (Brasile, Russia, India e Cina) chiedono modifiche del sistema di distribuzione di quote del capitale per i membri del Fmi, per poter arrivare ad avere un maggior peso decisionale all’interno di uno dei più influenti, forse il più influente, strumento di decisione e di leva nell’assegnazione di potere economico globale: il Fondo Monetario Internazionale appunto. A queste richieste dei paesi emergenti, gli Stati Uniti rispondono con favore, poiché consapevoli da un lato di non poter più imbrigliare queste potenze emergenti, e dall’altro perché ormai decisi a riordinare le quote di potere sbilanciate a favore dell’Europa.

FMI– Dal maggio del ’46, data di creazione del FMI, moltissimi sono gli avvenimenti che hanno portato ad una riconsiderazione degli assetti economici globali, e benché ci siano stati dei passi verso una ricomposizione degli equilibri interni all’organizzazione, le quote partecipative dei paesi rispecchiano ancora una netta prevalenza di “una parte” degli attori decisionali globali: basti pensare che gli Stati Uniti con i loro 37149,3 milioni di DSP (dove la sigla DSP sta ad indicare i Diritti Speciali di Prelievo, ovvero una sorta di denominatore comune per il calcolo di un paniere tra le diverse valute) possiedono una quota superiore al 17%, e dato che il voto è ponderato rispetto alla la percentuale di partecipazione della quota, e considerando che per le decisioni di maggiore rilevanza servono maggioranze molto alte (dei 2/3 o dei 3/4), di fatto gli Stati Uniti e il blocco europeo hanno potere di veto nelle decisioni in seno al Fondo Monetario Internazionale.

LE PROMESSE DEL G-20 – Tappa fondamentale nell’orientamento delle politiche economiche è stato l’incontro del G-20 di Pittsburgh (settembre 2009) dove si sono decisi alcuni provvedimenti intesi a migliorare le condizioni economiche globali in una nuova ottica di sviluppo più coerente alle attuali condizioni economiche. In particolare, nello statement siglato dai venti paesi nella conferenza, si legge la volontà di “voltare pagina rispetto alla precedente era di irresponsabilità, e di adottare un insieme di politiche, regolamenti e riforme che incontrino i bisogni dell’economia globale del XXI secolo”. Sperando questa non rimanga solo una dichiarazione “d’intenti”, ci sono state promesse specifiche in numerosi settori, a partire dalla lotta alla disoccupazione, ad un generale riordino del comparto bancario, per finire alla lotta alle speculazioni e ad interventi atti ad evitare manipolazioni di mercato.

Ma alla conferenza di Pittsburgh si sono anche trattati temi di più “specifico” riordino degli equilibri capitali.

In particolare al punto 20 della dichiarazione, si legge la volontà di concedere almeno il 5% della quota dei paesi “over-represented” ai paesi in via di sviluppo (definiti “under-represented”) nel FMI e di contribuire con 500 miliardi di dollari per rinnovati e più estesi Borrow Arrangements (NAB, Nuovi accordi di prestito).

Inoltre, si legge all’articolo seguente, la volontà di cedere almeno il 3% del potere di voto dei paesi economicamente sviluppati ai paesi in via di sviluppo, all’interno della Banca mondiale, perché questa assuma il ruolo di “guida nella risoluzione dei problemi globali, sempre in -un’ottica di riordino- dei problemi economici”.

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DAL PUNTO DI VISTA DELL’EUROPA– Analizzando la situazione da un punto di vista europeo, non si riesce a scorgere una posizione comune, tale da permettere all’Europa di negoziare il “forzato ridimensionamento” cui dovrà far fronte. Infatti, benché nel 2009 sia stata avanzata questa proposta, ad oggi i provvedimenti promessi rimangono ancora inattuati, ma sono evidenti le pressioni di Cina e Russia, affinché ciò avvenga prima del prossimo meeting del G-20 a Seul. Ad oggi risulta essere 9 il numero di seggi di rappresentanza europea nel Fmi, ma con il blocco del rinnovo a 24 membri del board del fondo (ad opera degli Stati Uniti) e la prevista riduzione a 20, l’Europa dovrà sicuramente veder ridotto la sua quota di rappresentanti. Benché l’Europa risulti non proporzionatamente rappresentata (tanto che lo stesso presidente del FMI Stras-Kahn ha definito gli europei “lievemente sovra rappresentati in seno al Fondo), è ovviamente restia a concedere ai paesi in via di sviluppo i suoi attuali seggi.

In caso di riduzioni comunque, i seggi tolti all’Europa sarebbero due, e secondo la testata del 24ore, i posti sarebbero tolti dal gruppo di paesi formato da Italia, Spagna, Belgio, Olanda e Danimarca, seggi che andrebbero in rotazione con una delle constituencies emergenti.

COME DISSE SENECA –  Aliena vitia in oculis habemus, a tergo nostra sunt (Abbiamo davanti agli occhi i vizi degli altri, i nostri invece ci stanno dietro). Sicuramente spetta agli stati membri dell’Unione Europea prendere coscienza delle nuove e mutate condizioni sociali ed economiche globali. In quest’ottica sarebbe opportuna una posizione comune, per un rafforzato spirito di coesione interna all’Unione, perché essa si possa affacciare al Mercato mondiale come un unico blocco compatto. Anche da parte degli altri attori economici globali è richiesto uno sforzo affinché vi sia chiarezza sulla questione, e perché la crisi possa rappresentare anche un momento di crescita costruttiva, e al suo termine essa presenti una società migliore e più equa di quanto non lo fosse prima.

Samuele Poletto

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I rapporti tra Italia e Romania

Per il nostro Focus “A cavallo del confine: tra Europa ed Eurasia” – Seconda parte. Rispetto ad altri paesi ex comunisti dell'Europa orientale, la Romania ha avuto un ritmo di sviluppo più lento e travagliato, ma è riuscita a fare un passo importante lontano dal suo passato, aderendo alla NATO nel 2004. La sua posizione strategica sul Mar Nero ha reso il Paese strategicamente molto appetibile per l’Alleanza atlantica, che è riuscita a “strapparlo” all’area di influenza post-sovietica.

Parte 2 di 6I rapporti tra Italia e Romania

ROMANIA ED EUROPA – Governata a lungo dal dittatore comunista Nicolae Ceaucescu, deposto ed ucciso nel 1989, la Romania è stata gestita da partiti di ispirazione comunista fino al 1996, quando un governo centrista è salito al potere. Faide politiche prolungate hanno bloccato lo sviluppo economico, impedendo al Paese di avviare le procedure di ingresso nell’Unione Europea fino al 2005, anno della firma del Trattato di adesione all'Unione Europea, ratificato e ufficializzato dal Parlamento rumeno nel gennaio 2007.

RELAZIONI ECONOMICHE – I rapporti tra Italia e Romania hanno conosciuto nell’ultimo decennio un incremento notevole, soprattutto per quanto riguarda l’interazione a livello economico. Secondo i dati dell’ICE (Istituto per il Commercio Estero), le relazioni commerciali sono aumentate moltissimo. Le esportazioni dirette da parte del nostro Paese alla Romania sono praticamente raddoppiate, passando da un valore complessivo di circa 3 miliardi di euro nel 2001 ad oltre 6,2 miliardi nel 2008; anche le importazioni sono aumentate sensibilmente, anche se il trend in questo caso è meno significativo (da 3 miliardi a circa 4,3). Tra il 2008 e il 2009 si è verificato però un brusco calo nei flussi commerciali, che ha visto l’export crollare fino a 4 miliardi di euro (-35,2%) e l’import calare a 3,7 miliardi (-38%). Il trend è tornato ad essere positivo nel 2010, segno che sta avvenendo un recupero dalla crisi economica che ha colpito in maniera particolarmente dura Europa e Stati Uniti tra il 2008 e il 2009. Per quanto riguarda le tipologie di beni che vengono maggiormente scambiate, le esportazioni vedono ai primi posti prodotti non lavorati o semi-lavorati come tessuti e pellami, mentre i beni più importati sono prodotti finiti come abbigliamento, calzature e autoveicoli.

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DELOCALIZZAZIONE E RICADUTE SULLE DUE ECONOMIE – Negli ultimi anni la Romania ha potuto attirare una quantità crescente di IDE (Investimenti Diretti Esteri), soprattutto grazie a due fattori: il costo relativamente basso della manodopera e la bassa tassazione sulle imprese. In più, l’ingresso di Bucarest a pieno titolo nella UE nel 2007 ha determinato un’ulteriore semplificazione per gli investitori dell’Europa Occidentale. L’Italia si trova ai primi posti tra gli investitori in Romania, destinando circa 350 milioni di euro di capitali. La questione della delocalizzazione è molto importante non solo a livello economico, ma anche a livello sociale e politico. Se infatti da tale processo hanno potuto trarre vantaggio i detentori di capitale (un fattore che è diventato “mobile” con l’approvazione del Trattato di Maastricht) e i lavoratori rumeni (il tasso di disoccupazione è abbastanza basso e sotto al 5%), gli “sconfitti” sono soprattutto gli operai italiani, che in alcuni casi hanno perso il lavoro per la scelta fatta da molte imprese di trasferire all’estero la propria produzione. Le forze politiche devono tenere conto di tutti questi fattori per elaborare politiche economiche che non siano disgiunte dagli impatti sociali.

LA QUESTIONE DELL’IMMIGRAZIONE – La comunità rumena è una delle più numerose tra quelle che compongono la popolazione straniera residente in Italia. Dal 2005 ad oggi ha registrato un aumento del 283% (dati ISTAT), passando da circa 250 mila residenti regolari ad oltre 950 mila. Il forte incremento dei dati può derivare anche dal fatto che l’ingresso nell’Unione Europea della Romania nel 2007 ha comportato l’emersione di molti immigrati dalla loro condizione di clandestinità. Nel recente passato sono stati oggetto di cronaca diversi episodi di criminalità compiuti da immigrati rumeni, i quali sono stati spesso oggetto di dibattito politico. Molti possono essere gli spunti di riflessione in questo senso. Quale politica dovrebbe adottare una nazione per quanto riguarda l’immigrazione Quale modello di società dovrebbe essere pensato dalle autorità? Esistono tre principali modelli per le società multietniche del giorno d’oggi: multiculturalismo, pluralismo culturale e assimilazionismo. Il primo propone una parità di fatto di tutte le espressioni culturali presenti nella società, il secondo ammette la differenza tra le culture, richiedendo però il rispetto di una serie di valori comuni nella sfera pubblica, mentre l’ultimo propende per un’assimilazione delle altre culture all’interno di quella dominante a livello nazionale. E poi ci sono le espulsioni.

Pietro Costanzo, Jacopo Marazia, Alberto Rossi, Davide Tentori, Stefano Torelli 2 ottobre 2010 [email protected]

Spagna in rosso

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Il paese iberico, considerato per molto tempo come nuovo baluardo di crescita e sviluppo nel panorama europeo, sta attraversando un momento delicatissimo di forte instabilità economica e di aspra contestazione sociale. Ecco come e perchè si è giunti allo sciopero generale, che presenta un bilancio drammatico: 60 feriti e 43 arresti

LA FINE DELL’IDILLIO – Sembrerebbe esser giunta al capolinea la liaison politica tra l’elettorato spagnolo ed il governo socialista di Josè Luis Rodriguez Zapatero. E’ obbligatorio usare il condizionale poiché sarebbe decisamente avventato escludere potenziali colpi di scena ma la sensazione comune è che il leader del PSOE non goda più di quella grande fiducia accordatagli all’epoca delle elezioni del 2004 e poi in maniera più ridotta nel 2008.

Le ragioni di questo disinnamoramento sono molteplici e le responsabilità di Zapatero sono con molta probabilità da condividere con quella crisi economica che ha frenato bruscamente la crescita dell’Europa negli ultimi anni.

DAL BOOM ALLA RECESSIONE ECONOMICA – Durante il governo Aznar, tra il 2000 ed il 2004 e per buona parte del successivo primo esecutivo targato Zapatero, la Spagna ha vissuto un florido periodo, un boom economico con conseguenti grandi benefici in diversi ambiti. Di notevole portata è stato, in primis, lo sviluppo registrato nell’edilizia e nelle infrastrutture. Edifici futuristici, autostrade, alta velocità sono stati i simboli di un paese che ha dichiarato inconfondibilmente la voglia di troncare con un passato buio, non troppo lontano, caratterizzato dal regime franchista. La crescita ha prodotto inoltre nuovi posti di lavoro, ha favorito lo sviluppo delle energie alternative (Siviglia può vantare la più grande centrale di produzione di energia solare in Europa), ed ha segnato anche una notevole incremento nel settore turistico.

La velocità con la quale la Spagna è stata etichettata come piccolo miracolo economico europeo è proporzionale alla caduta libera registrata da qualche anno a questa parte. La crisi economica ha avuto effetti importanti sui conti pubblici e sul PIL spagnolo; le aspettative di crescita non sono state soddisfatte, gli investimenti effettuati anni prima non hanno fruttato come nelle attese, la disoccupazione ha raggiunto cifre da capogiro e l’ombra della recessione si è rivelata in breve tempo una pericolosa realtà. Ed a causa della difficile situazione finanziaria la Spagna, insieme al Portogallo, Grecia ed Irlanda, si è guadagnata l’ingresso nella sigla PIGS (che diventa PIIGS nelle occasioni in cui viene inserita anche l'Italia), acronimo dispregiativo coniato poco elegantemente dalla stampa britannica che riporta le iniziali di questi paesi.

AUSTERITY E SCIOPERO GENERALE – Preso atto della situazione critica, il governo Zapatero si è subito attivato proponendo alcuni tagli alla spesa pubblica con l’obiettivo di ridurre quanto prima il deficit e rimettere in marcia il paese. Tali misure hanno comportato la riduzione del salario dei funzionari pubblici, dei politici stessi ma anche l’abolizione di alcune importanti agevolazioni per le famiglie ed una contestatissima riforma del mercato del lavoro, con la diminuzione delle indennità di licenziamento. Proprio contro questa riforma i lavoratori spagnoli insieme ai due principali sindacati, Ugt e Ccoo, nella giornata di mercoledì 29 settembre hanno proclamato il primo sciopero generale dell’era Zapatero.

Migliaia di persone si sono riversate nelle piazze delle città iberiche per manifestare il proprio dissenso contro questa manovra e nei confronti della già prevista riforma delle pensioni. Ma la mobilitazione generale di mercoledì è stata anche un monito pesantissimo verso il Partito Socialista al governo, che per ragioni storiche e non solo, secondo molti, sarebbe dovuto essere più vicino alle esigenze dei lavoratori.

PROSPETTIVE – Tra un anno e mezzo circa in Spagna si ritornerà al voto per scegliere nuovamente i rappresentanti del governo. Il Partito Popolare di Mariano Rajoy, dopo anni di sterile opposizione avverte ora la possibilità di compiere un vero e proprio ribaltone alle prossime elezioni politiche. Compito a dir poco arduo per Zapatero ed il PSOE sarà riproporsi e riconfermarsi per terza volta consecutiva ed in tal senso i segnali che arrivano dalle piazze non sono certo confortanti.

Andrea Ambrosino 30 settembre 2010 [email protected]

L’Apocalisse messicana

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Da Città del Messico – Il problema del narcotraffico è ancora ben lontano dall’essere risolto nel grande Stato centroamericano  ed è un fattore di insicurezza e instabilità economica e sociale. Il Governo in carica, guidato da Felipe Calderón, ha deciso di affrontarlo utilizzando però metodi poco “ortodossi” che hanno alzato il livello della violenza. Direttamente dal Messico, inizia oggi un reportage del “Caffè” all’interno di questa realtà.

IL CAMBIO – Dieci anni fa il Messico intero, destra e sinistra, commercianti e contadini, brindava per la fine dell’egemonia del Partido Revolucionario Institucional (PRI) che per 71 anni aveva ininterrottamente governato. Finalmente, un esponente di un altro partito era riuscito a prevalere ufficialmente nelle elezioni presidenziali. Era già successo nel 1988 quando Cuauhtémoc Cárdenas Solórzano, leader del Partido de la Revolución Democratica (PRD), aveva ottenuto il maggior numero di voti nelle urne fino a quando il computer che conteggiava le preferenze si era stranamente spento per un blackout, riaccendendosi due ore dopo con in vantaggio il candidato del PRI. Nel 2000 invece, Vicente Fox, segretario del Partido de Acción Nacional (PAN), divenne il primo presidente del Messico non del PRI.

PABLO ESCOBAR – Parallelamente al PRI, si è sviluppata in Messico una fitta rete di potere basata sul traffico di droga e le conseguenti e connesse attività illegali; fin dal 1940 il triangolo d’oro messicano, Durango, Sinaloa y Chihuahua, è stata la principale zona di produzione di marijuana e papavero da oppio, che riforniva i vicini statunitensi e permise la crescita dei primi cartelli messicani, i quali, grazie ad accordi locali con diversi esponenti della classe politica, riuscirono a svilupparsi e creare una infrastruttura criminale leggera ma con un forte radicamento territoriale. Alla fine degli anni ‘80 i cartelli colombiani, ispirati da Pablo Escobar, che aveva adottato la stessa strategia con altre organizzazioni criminali, si avvicinarono ai loro fratelli messicani per stringere alleanze per trasportare cocaina negli Stati Uniti attraverso il Messico. Inizialmente, i commandos messicani ricevevano pagamenti in denaro contante per trasportare e distribuire la droga.

L’IMPERO – Poi, quando i cartelli colombiani nei primi anni ‘90 si combattono in una lotta fratricida, i corrispondenti messicani capiscono che è arrivato il momento per sostituirli nel dominio del traffico di droga verso gli Stati Uniti e utilizzano il loro forte radicamento nel territorio per diventare i padroni del commercio di sostanze stupefacenti in tutta la regione americana. Mentre producono in casa marijuana e eroina, comprano la cocaina in Colombia e la trasportano fino alla frontiera statunitense, dove si appoggiano con bande criminali di latinos che si occupano della vendita al dettaglio. Per il Dipartimento di Stato americano quasi il 70% del traffico di droghe che entra illegalmente negli Stati Uniti è controllato dai cartelli messicani, che generano annualmente un guadagno tra i 13.6 e 48.4 miliardi di dollari, denaro che viene riciclato in migliaia di imprese, dalle costruzioni alle compagnie aeree, alle griffe di moda. Si stima che solamente nel traffico di droga lavorino più di 150.000 persone, oltre a coloro impegnati nelle altre attività illegali, come il traffico di immigrati, lo sfruttamento della prostituzione o lo smaltimento illegale di rifiuti tossici. Quindi non sorprende che il fatturato prodotto dal crimine organizzato messicano corrisponde al 40% del Prodotto interno lordo.

GUERRA CIVILE – Con l’arrivo al potere di una nuova classe politica, l’impero economico del narcotraffico messicano non poteva rischiare un ridimensionamento. Improvvisamente gli accordi politici che per tanti anni avevano garantito la pace sociale erano messi in discussione; il PAN, nuovo partito al potere, aveva fatto della lotta alla droga la sua bandiera elettorale. Vicente Fox, primo presidente panista, decise di combattere questo crimine, attendendo però solamente la fine del suo mandato per effettuare alcune operazioni militari nel nord, a Ciudad Juárez, che è ormai una delle più violente città al mondo. Tuttavia è solo con l’arrivo al potere di Felipe Calderón (foto a destra) che la violenza raggiunge livelli altissimi. Il presidente in carica decide di farla finita con l’insicurezza dilagante e investe milioni di dollari nella lotta armata contro le mafie, inviando migliaia di militari in tutto il paese con un unico obiettivo: fermare con qualunque mezzo i narcotrafficanti. In tutto questo, l’unico cartello ad essersi rafforzato è quello di Sinaola, il più potente, comandato da Joaquin “El Chapo” Guzman. Da più parti sono state sollevate accuse e sospetti contro Calderón, che avrebbe “chiuso un occhio” verso il cartello di Sinaloa per poter  riuscire ad eliminare le varie bande che terrorizzano i cittadini e costruire un minimo di pace sociale. Gli altri cartelli però, quello del Golfo, di Tijuana, los Zetas, non possono che rispondere al fuoco con altra violenza: è cominciata così la guerra civile non dichiarata più violenta di questi ultimi anni. Secondo le cifre ufficiali governative, dal 2007 alla fine del 2009 si contano quasi 28.000 morti, più di 8000 solo nel 2010. Quotidianamente si scoprono fosse comuni dove si ritrovano centinaia di giustiziati a morte in maniera sommaria. Più di 60.000 immigrati centroamericani spariti nel nulla nell’attraversare il Messico negli ultimi 5 anni. Tremila messicani spariti negli ultimi 3 anni, probabilmente finiti nel traffico di persone, la maggior parte donne e bambini. Migliaia di persone che hanno subito estorsione, imprenditori che invocano i  caschi blu dell’ONU, città bloccate dal per protestare contro la cattura di uno dei suoi uomini, narco-terrorismo: il Messico di oggi è questo, stretto tra un’economia ricca di potenzialità di sviluppo e dall’altra parte una realtà criminale ancora ben lontana dall’essere contrastata.

Andrea Cerami (da Città del Messico) [email protected]

Vince Chávez. O forse no?

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Nelle elezioni per il rinnovo de la Asamblea Nacional della scorsa domenica Hugo Chávez conferma la maggioranza parlamentare, ma il risultato ottenuto delle opposizioni riduce di fatto il potere del Comandante. L'opposizione ha infatti superato il PSUV, partito del Presidente, per quanto riguarda i voti espressi (52% di preferenze), ma un ingegnoso sistema elettorale ha permesso al leader bolivariano di ottenere la maggioranza dei seggi.

DI NUOVO ALLE URNE – Lo scorso 26 settembre 17 milioni di venezuelani sono stati chiamati alle urne per eleggere i propri rappresentanti alla Asamblea Nacional, il Parlamento di Caracas. Nel 2005, praticamente tutti i partiti di opposizione avevano deciso, in un tentativo malriuscito di delegittimare la Asamblea, di boicottare i comizi, consegnando a Chávez e al suo Partido Socialista Unido de Venezuela (PSUV) il monopolio del parlamento. Nel corso degli ultimi 5 anni, quindi, il Comandante aveva potuto legiferare a proprio piacimento, producendo quella strana aderenza tra potere esecutivo e potere legislativo che al naso di molti analisti internazionali non profumava esattamente di democrazia. Dopo cinque anni di bolivarismo, gli antichavisti hanno imparato la lezione e si sono presentati alle elezioni sotto una unica bandiera, quella della Mesa de la Unidad Democratica (MUD).

I RISULTATI – L’affluenza del 66,45% (un dato storico per il Venezuela) ha prodotto risultati chiari seppur ancora provvisori: su 165 seggi disponibili, la MUD ha ottenuto ben 64 deputati, un numero sufficiente a bloccare iniziative unilaterali di riorganizzazione in senso autoritario dello Stato venezuelano. Il PSUV sará invece rappresentato da 95 deputati. Chavez mantiene quindi la maggioranza assoluta al Parlamento, ma non raggiunge l’obiettivo che aveva indicato ai suoi nelle settimane precedenti al voto: quei 2/3 dei seggi che avrebbero garantito al suo progetto rivoluzionario un cammino spedito e senza scossoni. Il dato interessante é comunque un altro: una attenta analisi dei risultati diffusi dal Consejo Nacional Electoral (CNE) mostra come la MUD abbia ottenuto il 52% dei voti espressi dai venezuelani. É solo grazie alla machiavellica organizzazione dei collegi elettorali (di recente il sistema di voto è stato mutato da proporzionale a maggioritario) partorita dal governo in carica che l’opposizione ha ottenuto un numero di seggi meno che proporzionale rispetto al totale dei voti ottenuti. Come detto, si tratta di risultati provvisori (restano da assegnare ancora 6 seggi) ma la sostanza é chiara: nonostante Chávez si sia affrettato a definire “solida” la vittora del PSUV su Twitter, egli non potrá piú disporre a piacimento del Parlamento come ha fatto negli ultimi cinque anni. Anche le opposizioni, del resto, hanno accolto i risultati con soddisfazione.

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E ORA? – A questo punto é lecito porsi delle domande su cosa succederá nei prossimi anni a Caracas e dintorni. L’assenza di un parlamento monocolore obbligherá Chavez a confrontarsi con le opposizioni sui temi piú sensibili della revolución, a meno di colpi di mano piú o meno legali. D’altra parte, la MUD (che raggruppa 22 organizzazioni che vanno dalla destra conservatrice alla sinistra moderata) dovrá confermare l’unitá elettorale anche nella quotidianitá parlamentare. L'estrema frammentazione dell'opposizione, infatti, è stata in questi anni uno dei fattori che ha agevolato il Presidente in carica. Nemmeno in questa occasione è riuscita a presentarsi compatta: il partito di sinistra Patria Para Todos, alternativo al PSUV come alla Mesa, si è presentato da solo ottenendo due seggi. Inoltre, sullo sfondo, gli elevati indici di corruzione che caratterizzano la política venezuelana, l'alto tasso di criminalità, le incognite sugli andamenti futuri del prezzo del petrolio e le relazioni politico-diplomatiche con alleati e oppositori dentro e fuori dal continente americano. Solo una cosa é certa, la strada che porta alla rielezione del 2012 non é per Chávez cosí in discesa come pensava.

Vincenzo Placco

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Problemi di successione

L'establishment nord-coreano si trova ad affrontare un momento estremamente delicato: la designazione del successore di Kim Jong Il e la definizione delle strategie su alcuni temi caldi mettono Pyongyang sotto la lente d'ingrandimento. Periodo caldo in Asia Centrale, dove la militanza islamica sembra rafforzarsi, preoccupando Russia, Cina e Stati Uniti. Elezioni in Lettonia, Bosnia-Herzegovina, Madagascar.

L'Assemblea Plenaria del Partito del Lavoro, che detiene il potere in Corea del Nord (nell'immagine il manifesto dell'assemblea), sinora più volte rinviata, dovrebbe tenersi in settimana per affrontare parecchie questioni di massimo rilievo per le future decisioni politiche del Paese. Su tutte, designare il successore di Kim Jong Il, attuale capo del Governo da tempo molto malato. Sul tavolo anche le strategie economiche e la posizione sulle trattative per lo sviluppo dei progetti sul nucleare, da sempre motivo di contrasto con la comunità internazionale.

Ancora fermento in Tajikistan. Dopo la grave evasione carceraria di alcune settimane fa, durante la quale sono fuggiti 25 detenuti accusati di terrorismo, e dopo i recenti attacchi da parte di miliziani islamici, vengono registrati ancora atti di violenza. Numerosi sono infatti i movimenti islamici armati che nelle regioni dell'Asia Centrale trovano da tempo terreno fertile per crescere, soprattutto nelle Valli del Fergana e del Rasht. Il costante peggioramento del contesto preoccupa molto i grandi attori regionali, con la Russia che già da tempo si muove rafforzando la presenza militare presso le proprie installazioni ospitate nell'area. Sarà importante osservare come i Paesi interessati reagiranno ad un eventuale ulteriore aumento delle violenze.

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ALTRI EVENTI DELLA SETTIMANA

  • L'Azerbaijan sarà molto attivo sulla scena internazionale. Sono anzitutto previsti degli importanti meeting: con una delegazione cubana, per discutere di cooperazione economica tra i due Paesi; con rappresentanti iraniani ed uzbeki per discutere di scambi culturali e di questioni di sicurezza. Infine, si terranno in territorio azero delle esercitazioni NATO volte alla formazione delel forze armate locali.

  • Russia ed Ucraina dovrebbero firmare un importante accordo bilaterale su energia, sicurezza e trasporti, proseguendo il percorso di distensione tra i due Paesi, ma anche legando sempre più Kiev a Mosca.

  • Istanbul ospita la Iraq Future Energy 2010 Conference, durante la quale sono attese importanti discussioni sulla gestione e regolamentazione degli investimenti e dello sfruttamento delle risorse irachene.

  • Si tiene il primo forum sino-arabo per incoraggiare la cooperazione tra Cina e Paesi della Lega Araba.

  • Entra in vigore il Comprehensive Iran Sanctions Accountability and Divestment Act, approvato dal Congresso Americano in luglio: prevede ulteriori sanzioni contro Teheran.

  • In India si decide su una questione che ricorda, in parte, la vicenda della moschea nei pressi di Ground Zero, a New York. La Corte Suprema indiana dovrà decidere (dopo avere già rimandato la decisione) se consentire la costruzione di un tempio indù su un terreno precedentemente occupato da una moschea (Moschea Babri), oppure se permettere la ricostruzione della moschea distrutta. Già in passato la questione legata a quest'area ha generato scontri e tensioni inter-religiose.

  • Nigeria: continua la lunga marcia verso le elezioni presidenziali. Nel delicato bilanciamento dei poteri tra i gruppi politici ed etnici del nord e quelli del sud, non si è ancora trovato un accordo per una candidatura che rispetti le consuetudini politiche radicate in materia. Nei prossimi giorni sono previste delle manifestazioni e non si escludono tensioni. L'Assemblea Nazionale inoltre dovrà valutare la richiesta della Commissione Elettorale Indipendente di posticipare la tornata elettorale, attualmente prevista per gennaio 2011.

  • Sempre in tema di elezioni, in settimana si voterà in Madagascar per il rinnovo del Parlamento, in Lettonia per le elezioni generali, in Bosnia-Herzegovina per il Parlamento ed il Presidente.

La Redazione – Pietro Costanzo 27 settembre 2010 [email protected]

Un colpo al cuore dell’Europa

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La crisi politico-istituzionale che ha investito il Belgio da alcuni anni a questa parte sembra ancora lontana dal trovare una soluzione. Le fratture linguistiche (fiamminghi contro valloni, con in più la minoranza germanofona) si innestano anche su quelle economiche: il Nord più ricco si contrappone al Sud meno sviluppato. Il rischio di una disgregazione investe anche l'Unione Europea: cosa accadrebbe se l'UE perdesse la sua capitale, Bruxelles?

"L´UNIONE FA LA FORZA" – Forse quando al termine della Guerra degli Ottant’anni fu apposto sullo stemma del futuro Stato Belga il motto L’Union fait la Force, la visione in prospettiva di uno Stato era alquanto migliore di quanto non sia quella degli attuali amministratori politici belgi. Nell´ultimo periodo si é assistito in Belgio ad un notevole inasprimento dei rapporti interni, tensioni che per molti versi fanno presagire una concreta ipotesi di rottura tra le aree politiche di rappresentanza (e dunque tra le comunità che esse rappresentano) con notevoli ripercussioni sulle politiche europee, sia per quanto riguarda le dinamiche relazionali tra stati membri, sia per un possibile proseguo di tale tendenza anche all´interno di altri paesi -in Catalogna, Scozia e anche in Italia-. La situazione attuale in Belgio tuttavia non è né nuova, né in qualche modo inaspettata, infatti alla base della creazione del Belgio risulta esserci una forte scomposizione interna, un´articolata frammentazione che nel tempo non è stata limata (o per meglio dire tutelata nel rispetto delle differenze, e insieme alla ricerca di un equilibrato processo di armonizzazione ed integrazione) ma al contrario alimentata dalle diverse parti politiche, con risultati negativi per l´intero paese, soprattutto in termini di gestibilità degli affari pubblici.

IL PUZZLE BELGA – Al momento di separazione dai Paesi Bassi (1830), la monarchia costituzionale ereditaria a carattere parlamentare si presentava con un unico parlamento ed un unico governo, ma le spinte autonomiste nei confronti dei Paesi Bassi furono ben presto sostituite alla fine del XIX secolo da un progressivo allontanamento delle due anime interne del Belgio, divario che è aumentato fino a divenire negli ultimi anni un aperto scontro tra queste due metà di un Paese che ora sembra davvero sull´orlo del baratro politico. Il Federalismo su cui il paese si fonda è sostanzialmente di tipo regionale e linguistico, e questa netta divisione si ripercuote non solo sull´apparato amministrativo, ma è alla base, e insieme conseguenza, di più profonde tensioni, poiché a questi elementi più prettamente culturali si accompagna anche una mancanza di gerarchia legislativa tale da poter conferire un maggior ordine all´evoluzione del paese. "An artificial kingdom moves closer to its end" ("Un Regno artificiale si avvicina alla sua fine"), così intitolava l´”Economist” il 14 giugno 2010, ed in effetti per quanto alcuni possano vedere nell´artificiosità dei rapporti strutturali del paese la causa di questa spaccatura, è impensabile non riflettere sulle pesanti responsabilità della classe politica che continua a far leva su queste differenze per accaparrarsi un bacino elettorale fedele ai suoi interessi (siano essi economici o culturali).

In questo senso si possono leggere i provvedimenti volti a vietare l´uso della lingua non ufficiale nelle due regioni, o la serie di revisioni costituzionali atte a conferire un assetto più decentrato al paese, in un´ottica di riconoscimento dell´autonomia regionale (culminato nel 1993), per finire in questa tornata elettorale dove i Separatisti Fiamminghi Democristiani del N-VA hanno raggiunto il numero maggiore di seggi, 27, con un incremento di ben 18 seggi rispetto al 2007, e separati da una sola unità rispetto al PS (Partito Socialista Francofono e Germanofono) che si afferma con 26 seggi e 6 seggi in più rispetto al 2007.

Ma per comprendere l´enorme difficoltà di gestione e la frammentarietà della situazione, basti pensare a quanto è ristretta la soglia tra il primo partito, l´N-VA (con 17.3%) e il settimo partito VB (Separatisti Fiamminghi di estrema destra), con il 7.8%, e alla complicatissima ipotesi di alleanza tra due partiti come l´N-VA e il Partito Socialista, alleati in una coalizione di governo fragilissima poiché rappresentanti di interessi opposti, e con alle spalle elettori di due differenti comunità. I toni sempre più accesi nell´arena politica trovano fertile terreno di scontro nella difesa delle differenze linguistiche, essendo lingua ufficiale delle Fiandre l´Olandese e della Vallonia il Francese, mentre nella più piccola e neutrale regione di Bruxelles vige un bilinguismo sotto cui si nasconde la necessità di tutelarla in quanto porto franco delle Istituzioni Europee. Tuttavia alla base delle volontà di separarsi ci sono anche forti discrepanze economiche, essendo la Regione del Nord molto più sviluppata economicamente e presentandosi come regione trainante dell´Economia del paese, e anche come principale finanziatrice della regione della Vallonia negli ultimi 35 anni.

Naturalmente lo status quo della situazione belga provoca ripercussioni all´interno dell´Unione Europea su più fronti, essendo, come se non bastasse, il turno della Presidenza Belga al Consiglio dell´Unione Europea. Innanzitutto si presentano effettivi scenari di scissione del paese, dopo le dimissioni del Primo Ministro Yves Laterme, che incaricato da Re Alberto II di creare un Governo, ha abbandonato l´incarico dichiarando i limiti di tale modello federale.

Inoltre le pretese autonomiste (o secessioniste) del partito democristiano fiammingo sembrano essere sempre più forti, elemento riscontrabile anche nella molto tesa campagna elettorale, e in quest´ottica Bruxelles rischia di divenire il centro per un´eventuale contesa tra la regione delle Fiandre e la Vallonia, dove ovviamente ci sono in gioco interessi economici e politici molto importanti.

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IL RUOLO DI BRUXELLES – In uno scenario di reale separazione le eventuali conseguenze, come la probabile entrata della Vallonia nel territorio Francese e la possibile adesione delle Fiandre nel territorio dei Paesi Bassi, sono ancora tutte da definire. Più in generale, questa tensione (ormai non più latente) insinuata proprio al centro dell´Europa, crea un´atmosfera di logorante fervore.

Resta da capire se questa tendenza generalizzata al regionalismo, che in alcuni tratti sembra palesare la fine degli stati nazionali (perlomeno così come noi li conosciamo) sia una conseguenza diretta del processo di integrazione europea, e dunque sia inscrivibile in quegli effetti collaterali -positivi- o comunque gestibili, o se invece sia l´avviso di un´imminente rottura degli equilibri europei fino a qui raggiunti.

Sarebbe necessaria una forte presa di posizione da parte dell´Unione Europea, perché si faccia carico di questo sentimento di smarrimento e riporti nella "giusta rotta" le politiche interne degli stati membri.

Samuele Poletto

[email protected]