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Muore un leader, nasce un mito?

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La morte improvvisa di Néstor Kirchner, leader della scena politica argentina, apre scenari molto ampi ed incerti in vista delle elezioni presidenziali che si terranno nel 2011. In questo articolo ripercorriamo le vicende della carriera di Kirchner, che dal 2003 al 2007 è stato Presidente dell’Argentina prima di lasciare il posto alla moglie Cristina, attualmente in carica.

IL MATRIMONIO KIRCHNER –  Il 27 ottobre la morte improvvisa per infarto di Néstor Kirchner ha risvegliato negli argentini le peggiori recenti paure di instabilità politica e crisi. Marito della Presidente in carica, Cristina Fernández, ex Presidente in un dei periodi più duri per la storia di questo Paese, Kirchner ricopriva ora il ruolo di capo del Partido Justicialista, il più forte sulla scena politica. Ma non solo. Perché in realtà Kirchner faceva molto di più: era il principale consigliere del governo di sua moglie, diretta continuazione del proprio (tanto che si parlava di governo del “matrimonio K”), prendeva, decisioni cruciali per l’economia e soprattutto sceglieva gli uomini chiave a tutti i livelli, dal locale al nazionale. Eccellente negoziatore, Kirchner era anche un punto di riferimento della politica di integrazione sudamericana, in veste di presidente dell’UNASUR, e insieme a Chávez e Lula costituiva i pilastri della sinistra al potere nel continente.

FATTORE “K” – I tre giorni di lutto nazionale decretati da sua moglie hanno visto una partecipazione popolare enorme alle sue esequie, come in nessun altro caso eccetto probabilmente quelli di Perón ed Evita. Escluse le personalità politiche dissidenti dalle visite ufficiali, il modello K ha continuato sulla sua linea, in un bagno di folla di Cristina Fernández di populista e peronista memoria. La ragione di tale partecipazione di massa, totalmente spontanea, è da ricondursi alle condizioni in cui Néstor Kirchner prese iL potere nel 2003: un Paese a pezzi, a livello economico e finanziario, ma anche stremato da decenni di gestione politica volta allo sfruttamento e alla corruzione. La grande abilità di questo presidente fu quella di saper ridare fiducia alla gente in una fase storica nella quale tutto, dopo la crisi del 2001, sembrava perduto. E al di là dei difetti del suo modello produttivista, è innegabile che l’Argentina sotto il suo mandato sia cresciuta a livelli sostenuti, e abbia visto un riavvicinamento dei giovani all’interesse politico. Il “pinguino” – così chiamato perché era stato per molto tempo governatore della Provincia di Santa Cruz, vicino alla gelida Terra del Fuoco – aveva inoltre riunito intorno a sé, in una gestione poco incline alla formalità e al protocollo, moltissimi movimenti e associazioni civili per i diritti umani, per la sua clamorosa decisione di ritirare la Ley de Obediencia Debida ai militari della dittatura del ‘76, e così porre in marcia un’epurazione dei corpi di polizia che fino a pochi anni fa nascondevano molti assassini e torturatori impuniti. La stessa speciale relazione con las Abuelas de Plaza de Mayo è testimonianza di quanto fatto da Kirchner per i familiari dei desaparecidos.

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PROSPETTIVE – Adesso si aprono scenari interessanti: mentre la popolazione si sente orfana, e teme un crollo del governo, la Presidente ha voluto dare forti segnali di continuità del modello economico. Ma le elezioni sono nel 2011, e Kirchner era il principale candidato di un PJ diviso da correnti interne e alleanze scomode – come quella con il sindacalista Moyano- che solo lui riusciva a mantenere unito. Mentre già si parla di ricandidare Cristina Fernández (anche se la Costituzione non lo consente), entra in gioco Máximo, figlio della coppia e militante a Santa Cruz, e c’è chi si divide le spoglie di un impero politico capillare, esteso e complesso. Finora nessuno dei dirigenti sembra in grado di cogliere questa ingombrante eredità.

Clara Marrone

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Il puzzle europeo: se il multiculturalismo passa di moda – II

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Seconda parte della nostra carrellata su come l'integrazione degli immigrati è intesa in Europa. Dopo avere trattato Germania ed Inghilterra, vediamo come Francia, Paesi Bassi, Nord Europa ed Italia vivono questo momento di potenziale contrasto tra culture e tradizioni all'interno delle proprie società. Esiste, o esisterà, una sintesi europea? Parte II

Parte II

FRANCIA E ASSIMILAZIONISMO – La Francia si é sempre posta in un'ottica di forte contrapposizione al modello tipico di multiculturalismo. A causa della sua storia, e degli eventi alla base della sua formazione, la Repubblica ha continuamente insistito sulla necessità che gli immigrati siano assimilati nel suo sistema sociale, e in questo il sistema francese si pone in netta contrapposizione con l'idealtipico sistema britannico più definibile come "integrazionista". Questo é riscontrabile ad esempio nell'applicazione del diritto, che solitamente non riserva un trattamento preferenziale a minoranze o gruppi etnici, e per il quale solo recentemente sono stati adottati provvedimenti contrari a questa logica (provvedimenti spinti dal numero molto alto di comunità islamiche nel paese). Rimane quindi il fatto che in entrambi i paesi sia stata notevole l'attenzione per la diversità, benché forse l'obbiettivo sia stato dettando da esigenze di controllo sociale più che ad un effettivo miglioramento delle vite dei cittadini. Le immagini degli eventi della Banlieue Parigine hanno ovviamente fatto il giro del mondo, e benché siano state prova del fatto che alcune crepe sociali siano profonde e difficili da ricucire, il sistema "assimilazionista" non viene messo in dubbio. Rimane comunque il fatto che spesso i 3.5 milioni di stranieri, su una popolazione di 62 milioni di abitanti, siano usati come leva dalla classe politica di destra per suscitare pressioni populiste verso l'elettorato. I 6 milioni di mussulmani presenti in Francia sono stati coinvolti in numerose situazioni conflittuali a seguito delle decisioni politiche (ad esempio quella che vieta l'uso del burqa nelle scuole), e le percentuali degli studenti musulmani iscritti alle scuole, superano in alcune zone il 50% degli studenti iscritti. Recentemente inoltre le politiche di allontanamento delle popolazioni di etnia Rom hanno suscitato aspre critiche nel dibattito europeo, e la Commissione ha già inviato una lettera formale per chiedere che le circolari "incriminate" fossero rimosse.

PAESI BASSI E CRISI DEL MODELLO DI TOLLERANZA – Il sistema culturale olandese, ad oggi, sembra essere fortemente in crisi riguardo il Multiculturalismo. Esempi di questo sono le risposte politiche alle uccisioni di Theo Van Gogh e Pim Fortuym. Il PVV, Partito della Libertà di Geert Wilders, ha ottenuto un sempre più ampio margine di vantaggio in Olanda, cavalcando l'onda di paura generata, tant'è che ad oggi risulta essere la terza forza politica nel paese, e sulla spinta di questi valori anti-integrazionisti sta per diventare l'ago della bilancia dell'arena politica olandese. 

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I PAESI DEL NORD EUROPA – Aumentano secondo i sondaggi i sentimenti di carattere populista anche nei paesi nordici. Le percentuali di immigrati sono considerevolmente cresciuti nel tempo, e date le caratteristiche strutturali del sistema di assistenza sociale, molti degli Stati hanno improvvisamente invertito la rotta in fatto di immigrazione. Sono richiesti maggiori titoli per l'inserimento lavorativo, test di lingua o di cultura generale, al fine di risiedere nello stato (ad esempio in Norvegia). In generale quindi la reazione é quella di un "ripiegamento impaurito sulle identità nazionali" (Offeddu –Corriere della Sera).

ITALIA: UN PONTE "TRAFFICATO" PER L'EUROPA – La situazione in Italia é particolarmente delicata per quanto riguarda il tema del multiculturalismo. Se infatti la sua posizione geografica la pone in evidente difficoltà poiché tramite per flussi migratori che si spingono verso il centro Europa, le politiche conseguentemente adottate non sembrano essere state apprezzate dal resto del "sistema Europa". La percentuale dei votanti per i partiti di destra xenofobi é sempre in crescita, e crescono in Italia i fenomeni di non accettazione della diversità. Ad accompagnare questo evidente disinteresse per il multiculturalismo vi é una notevole difficoltà per l'inserimento nel mondo del lavoro, una scarsa struttura di accoglienza, un forte carico burocratico per le eventuali richieste di soggiorno, a cui si accompagna la spesso più facile via dell'illegalità che non fa che rendere più instabile la situazione sociale e più facilmente attaccabile il sistema attuale di "multiculturalismo". Il sistema di integrazione italiano rimane a cavallo tra quello britannico e francese, ed é importante il recente richiamo del Presidente della Repubblica affinché le istituzioni italiane ed europee guardino ad un sistema di integrazione che si accettabilmente condiviso, e che vada a tutelare le minoranze in un processo di armonizzazioni con le culture dominanti locali.

UN CAMMINO DIFFICILE – L'ultimo decennio si é dimostrato uno dei più complessi per la gestione dei processi di gestione del multiculturalismo. Le banlieue parigine, i problemi nelle baraccopoli africane di Rosarno, e più in generale l'aumento delle problematiche relative ai fenomeni migratori in tutta Europa, sono solo alcuni degli esempi di quanto complessa e tesa sia la situazione in Europa. I giovani di seconda o terza generazione (termine che spesso non risulta opportuno utilizzare) dei paesi con una tradizione migratoria più radicata, si sentono maggiormente legati ai paesi di origine dei genitori o dei nonni che a al paese nel quale sono nati e cresciuti; al contempo la popolazione locale si sente minacciata dagli elementi culturali non autoctoni che sembrano soffocare la cultura sociale del luogo. Molto si può decidere in questo delicato momento della storia europea, poiché l'Unione rischia di diventare un quadro desolante di conflitti sociali brucianti, se non vi sarà un intervento congiunto ed unitario da parte delle istituzioni per evitare che ciò accada.

Samuele Poletto [email protected] 4 Novembre 2010

Il puzzle europeo: se il multiculturalismo passa di moda – I

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Le recenti dichiarazioni della cancelliera tedesca Angela Merkel, e il trend politico di molti stati, hanno scosso lo spirito europeo alle origini profonde della sua essenza. Benché il motto dell'Unione Europea continui formalmente ad essere "In Varietate Concordia", i fragili equilibri interni sono messi a repentaglio dall'insorgere di nazionalismi e localismi, e sembra quasi che in questo momento la prima parte del motto sia l'unica ad essere considerata. Parte I

Parte I

HOMO HOMINI LUPUS – E' evidente che l'Europa stia vivendo un periodo di profonda difficoltà, e rischiano di essere rivisti i pilastri culturali su cui la stessa Unione si fonda. Grande responsabilità ha la crisi economica che, lacerando i tessuti sociali di molti paesi, ha riacceso un primitivo istinto di sopravvivenza che pare avere la meglio sui nobili valori sedimentati nel tempo all'interno delle culture politiche europee. Spetta ovviamente alle dirigenze nazionali trovare soluzioni adatte all'interno dei propri confini, ma allo stesso tempo dovrebbe esserci un impegno congiunto delle istituzioni europee al fine di dare un orientamento insieme unitario e non conflittuale delle politiche nazionali.

INTEGRAZIONE POSITIVA – In una recente intervista, Jacques Delors, uno degli architetti dell'Unione Europea, ha riaffermato la necessità che l'Europa si apra ad un'integrazione positiva, parlando dell'esigenza che sia una "comprensione reciproca", e non solo "interessi comuni", a formare quello spirito d'unione che ad oggi sembra venire meno. "Una volta ho detto che l'Europa ha bisogno di un'anima, bisogna tenere viva questa fiamma", parole che assumono un significato particolare in riferimento ai recenti avvenimenti che si sono susseguiti in Europa, e ai diversi orientamenti che molti paesi stanno adottando recentemente.

L'ANIMA SMARRITA DELL'EUROPAIn questo momento tuttavia, pare che molti degli stati membri abbiano preso una svolta decisiva nel rapporto con le culture presenti entro i propri confini, e viene da chiedersi quali possano essere i risvolti di politiche così orientate. Passiamo in rassegna le politiche nazionali dei maggiori paesi europei, evidenziando punti di criticità nell'evoluzione delle politiche sull'integrazione, e la conseguente crisi del sistema "multiculturale" degli stati membri in questione. 

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GERMANIA DI FRONTE AD UN PUNTO DI SVOLTA – Durante il recente congresso svoltosi a Potsdam, per i giovani del Cdu e Csu, la cancelliera Merkel ha pronunciato parole la cui eco si è rapidamente diffusa in Europa, generando non poche perplessità. "In Germania il modello multiculturale é totalmente fallito". Queste le parole che avrebbe pronunciato, e che, anche se lette contestualizzate suonano particolarmente minacciose. La Merkel ha poi continuato su questa linea, affermando che gli immigrati devono necessariamente integrarsi e far propri i valori della cultura tedesca, andando oltre nel dire che la Germania non ha bisogno dell'immigrazione poiché questa non fa che pesare sul sistema sociale tedesco. Se però queste parole vengono rilette in un'ottica di più ampio respiro, la "mossa" della Merkel assume connotati politici ben diversi. Innanzitutto come sottolinea anche Danilo Taino (Corriere della Sera -18 ottobre 2010) si tratta più di un'ammissione di colpa da parte della classe dirigente, che della volontà politica di voltare le spalle agli immigrati e alle policies di sostegno all'integrazione. In secondo luogo, dato lo recente sviluppo del partito di destra estrema in Germania, le parole della Merkel paiono indirizzate ad un allargamento del bacino elettorale del suo partito con il tentativo di frenare alla partenza l'espansione del movimento xenofobo in rapida espansione in questo momento nel territorio tedesco. A questo si accompagna la consapevolezza che le politiche in fatto di immigrazione adottate fino ad ora abbiano guardato agli immigrati sempre e solo come forza lavoro; in quest'ottica di corto respiro la figura dell'immigrato ha perso il valore dell'integrazione nella società tedesca, società che ad oggi conta più di 16 milioni di cittadini di origine straniera, ed é rimasta ancorata ad una visione miope di integrazione multiculturale. Sono infatti le seconde generazioni ad aver creato un nuovo stile di unificazione sociale, ed é visibile una certa difficoltà in questo melting pot culturale, tant'é che più della metà della popolazione tedesca dichiara di voler vedere "significativamente limitati" i diritti dei mussulmani, pur nella loro libertà religiosa.

INGHILTERRA E APPROCCIO ALLA DIVERSITA' – Anche nella patria europea del multiculturalismo qualcosa sta cambiando. Sembra che alcuni equilibri consolidatisi nel tempo siano in fase di profonda revisione, e che l'approccio all'integrazione stia mutando. Modood, uno dei critici della forzatura delle politiche che vadano a rinforzare la secolarizzazione delle identità a discapito delle religioni minoritarie, insiste da tempo sulla necessità che le religioni siano preservate dalle forze politiche, e nel suo "Multicultural Politics: racism, ethnicity and Muslims in Britain -2005-" afferma che il multiculturalismo non dovrebbe essere abbandonato, punto su cui ritorno anche a seguito degli attentati a Londra che "rischiano appunto di minacciare secoli di politiche di integrazione". Il problema è forse ancora più complesso nel Regno Unito, poiché la revisione dei processi integrativi ha spostato l'enfasi dell'integrazione da una prima, orientata a valorizzare gli elementi di nuova introduzione, ad una "integrazione da fast-food chain" dove l'accento é posto sulla più rapida assimilazione di questi valori all'interno della dimensione britannica. In Inghilterra tuttavia la larga maggioranza della popolazione rimane convinta dell'assoluta necessità del multiculturalismo, e benché alcuni conservatori ne paventino l'immediata fine, sembra più giusto parlare invece di "aggiustamenti" che su questo approccio andrebbero apportati.

Samuele Poletto [email protected] 3 Novembre 2010

Guerra nell’ombra

Diplomazia o attacco militare: queste sono le due opzioni oggi considerate per impedire all’Iran di costruire la bomba atomica; eppure nessuna appare avere sufficiente efficacia. In questo articolo, il primo di due, evidenziamo quale altra opzione esista e come essa si stia evolvendo lontano dai riflettori.

 

DIPLOMAZIA O GUERRA? – L’opinione comune è che esistano sostanzialmente due modi per evitare che l’Iran si doti dell’arma nucleare. In primo luogo vi è la via diplomatica, un mix di incentivi e sanzioni che porti la leadership di Teheran a rinunciare agli usi bellici fornendo sufficienti garanzie. In alternativa esiste l’opzione militare, presumibilmente una serie di bombardamenti aeronavali eseguiti da Israele e/o USA che danneggi o distrugga gli impianti nucleari coinvolti e rallenti il programma di almeno una decina d’anni. Tuttavia il primo è considerato inefficace, poco incisivo e non sta dando i risultati sperati; il secondo è invece temuto per le conseguenze diplomatiche e l’instabilità – o peggio – che potrebbe portare all’intera regione, in particolare nel caso il conflitto si allarghi.

 

Esiste tuttavia un’altra opzione, poco pubblicizzata anche se attualmente già in corso, e che pur basandosi sull’uso della forza la impiega in maniera mirata e nascosta.

 

GLI EVENTI – Le prime avvisaglie di un conflitto sotterraneo si sono avute nel 2007 con la sparizione del Generale Ali-Reza Asgari in Turchia. Asgari era stato un membro importante dell’intelligence iraniana in Libano e Iraq e oppositore di Ahmadinejad che si ritiene sia stato reclutato da intelligence occidentali, disertando quindi prima di essere scoperto dal VEVAK (il servizio segreto di Teheran). In seguito l’Institute for Science and International Security di Washington ha rivelato come la scoperta dell’impianto di Fordow vicino a Qom e altre informazioni sul programma nucleare iraniano siano stati ottenuti tramite dati racchiusi in un portatile esportato in segreto da uno scienziato coinvolto nei lavori.

 

Più recentemente l’intero sistema industriale iraniano è stato oggetto di un virus informatico chiamato “Stuxnet”, che ne ha parzialmente compromesso l’attività, con oltre 60.000 computer dichiarati infetti – anche se si sospetta la cifra possa essere più alta. Tale virus appare aver colpito anche i sistemi del reattore nucleare di Busher ed è forse alla base di un calo del 15% nel numero di centrifughe funzionanti nel sito di Natanz, secondo quanto riportato dall’AIEA. In tali occasioni le agenzie stampa iraniane hanno in seguito annotato l’arresto di alcuni scienziati accusati di essere spie per USA e Israele.

 

Il caso più recente si è invece avuto proprio durante la visita di Ahmadinejad in Libano; con l’attenzione mondiale rivolta al Paese dei Cedri, il 14 ottobre 2010 una serie di esplosioni ha colpito i sotterranei della base Imam Ali nelle montagne dello Zagros, considerata una delle installazioni missilistiche iraniane più avanzate e protette. Secondo le informazioni trapelate (pur senza conferme ufficiali) potrebbero essere stati colpiti numerosi lanciamissili normalmente destinati al vettore iraniano Shahab-3, capace di raggiungere Israele.

 

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QUALE EVOLUZIONE? – Tutti questi eventi hanno in comune la caratteristica di colpire il potenziale umano e materiale coinvolto nel programma nucleare iraniano e le sue eventuali applicazioni belliche, senza tuttavia provocare particolari reazioni diplomatiche. In alcuni casi tali eventi sono stati rivelati con giorni o anche mesi di ritardo dalle autorità locali, poiché per Teheran di fatto costituiscono un’ammissione della propria incapacità di proteggere i propri assets più importanti. Allo stesso modo la natura di tali operazioni di sabotaggio e spionaggio non permette alla leadership iraniana di puntare il dito pubblicamente contro un avversario particolare; mancano infatti spesso le prove di chi sia il responsabile.

 

Se da un lato questo mette in imbarazzo l’Iran, dall’altro rimane comunque difficile valutare la reale efficacia di tale strategia. Teheran tende a minimizzare i danni subiti, eppure i rapporti di intelligence fatti filtrare al pubblico su alcuni siti specializzati indicano l’introduzione di significativi ritardi ed ostacoli alla normale attività di arricchimento dell’uranio e alla capacità missilistica a lungo raggio. Questa strategia può evitare un conflitto più grande? Il problema nel rispondere a tale domanda risiede appunto nella scarsa conoscenza degli effetti provocati. E’ necessario esaminare infatti quale impatto essi possano avere sul programma nucleare iraniano.

 

(continua)

Caos caucasico

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L’azione terroristica imbastita dai guerriglieri ceceni lo scorso 19 ottobre contro il Parlamento di Grozny ha lasciato sul terreno sei morti tra i ribelli e forze dell’ordine ma ha anche nuovamente evidenziato la forte instabilità politica che caratterizza la Repubblica autonoma cecena, tormentata da anni di guerriglie intestine e da un cordone ombelicale con Mosca che le spinte autonomiste vorrebbero recidere al più presto. Andando oltre la cronaca, proviamo a ripercorrere le tappe principali di questa vicenda.

LOTTA PER L’INDIPENDENZA – Approfittando del collasso del sistema egemonico sovietico, i movimenti indipendentisti ceceni a partire dai primi anni novanta entrarono in conflitto con quella che fino a poco tempo prima veniva considerata giocoforza come la propria Madrepatria. Auto dichiarando l’indipendenza dalla Russia nel 1991, Dudaev, l’allora presidente della Repubblica cecena, sfidò il governo moscovita di Boris Eltsin che, dopo molte trattative mai consolidatesi, inviò le truppe russe sul territorio caucasico per riportare la situazione sotto controllo. Anni di aspri conflitti portarono alla firma di un trattato di pace nel 1997 e alla successiva elezione, sotto la supervisione degli osservatori internazionali, di Alslan Maskhadov come nuovo Presidente ceceno. Ma la pace fu quanto mai effimera, a tal punto che appena due anni più tardi ripresero i combattimenti con la Russia a causa di un tentativo di fuoriuscita territoriale ad opera dei guerriglieri ceceni. Grozny, la capitale, fu ripetutamente rasa al suolo e divenne l’emblema della desolazione in cui versava la Cecenia. Ad oggi la situazione non si è mai risolta del tutto, generando anno dopo anno una serie di spaventosi atti terroristici ad opera dei separatisti ceceni.

TERRORISMO SENZA FINE – I cosiddetti ribelli separatisti ceceni hanno dato ripetutamente sfoggio d’imprevedibilità ed efferatezza per ciò che concerne le azioni terroristiche volte a generare sconcerto nell’opinione pubblica mondiale e con l’intento indiretto di richiamare l’attenzione della comunità internazionale sulla drammatica situazione in cui versano le piccole Repubbliche caucasiche.

Il sequestro nel 2002 di 800 civili nel teatro Dubrovka di Mosca, l’assalto alla scuola di Beslan, nell’Ossezia del Nord, che causò nel 2004 la morte di centinaia di persone, tra cui quasi duecento bambini.

L’attacco alla città di Nazran, capitale della piccola Repubblica autonoma dell’Inguscezia, da considerarsi forse come lo smacco politicamente più rilevante contro alla Russia governata nel 2004 da Putin.

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LA FALLITA NORMALIZZAZIONE – Questo susseguirsi di attività terroristiche evidenzia quanto sia utopistica l’aspettativa di pacificazione dei territori del Caucaso, almeno per quel che riguarda il breve periodo.  Quella “normalizzazione cecena” decantata circa un anno fa da Putin è lungi dall’esser attuata. La Russia sovvenziona lautamente ormai da anni il governo ceceno ma l’aspetto più controverso riguarda il monitoraggio e la gestione di questi finanziamenti a fondo perduto. Con un tasso di disoccupazione alle stelle ed un forte aumento delle discrepanze sociali, i conflitti nel mosaico caucasico sono all’ordine del giorno e l’impressione comune è che dietro questa perpetua situazione di caos vi siano degli interessi più o meno condivisi che allontanino costantemente ogni possibilità di risoluzione del conflitto.

LE POTENZIALI CAUSE – In un gioco di potere che ha come principale scopo quello di destabilizzare ogni tentativo di pacificazione, ricercare le cause della crisi non è certamente un compito semplice, tuttavia alcune di esse sono perlomeno ipotizzabili: il controllo di alcune vie privilegiate che portano all’estrazione del petrolio nel Mar Caspio, la presenza dei cosiddetti signori della guerra che reclutano i ribelli e hanno il controllo del traffico delle armi, gli scontri di matrice religiosa connessi a quell’estremismo islamico che vorrebbe la creazione di un emirato nella regione cecena. A questa breve lista potrebbero sommarsi altre diverse potenziali concause meno identificabili. Il ruolo fondamentale nel ricercare un’auspicata risoluzione dei conflitti nell’area del Caucaso spetterà alla Russia di Medvedev che dovrà dar prova di una certa maturità politica cercando di dar vita ad un modello federale differente.

Andrea Ambrosino [email protected]

Sui fatti avvenuti in Cecenia la scorsa settimana, leggi anche l'articolo di Simone Comi "Tutto come prima?"

Quasi fatta?

Domenica 31 ottobre 110 milioni di brasiliani saranno chiamati nuovamente alle urne per il ballottaggio delle elezioni presidenziali. La favorita Dilma Rousseff, candidata del Partito dei Lavoratori, se la vedrà con José Serra, che nei sondaggi è dato però troppo distante per poter sperare in una vittoria. Ecco come sta per volgere al termine la campagna elettorale che nominerà il successore di Lula.

PRIMO TURNO – I sondaggi di Datafolha, l'istituto di inchieste brasiliano che da mesi ormai sforna quotidianamente aggiornamenti sull'andamento della campagna elettorale, non sbagliavano. Ballottaggio doveva essere e così sarà: in occasione del primo turno delle elezioni presidenziali, infatti, la grande favorita Dilma Rousseff, candidata del Partito dei Lavoratori (PT) attualmente al governo con Lula, non è riuscita ad ottenere la maggioranza assoluta dei suffragi, fermandosi al 46,91%. Il suo rivale, l'esponente del Partito Socialdemocratico José Serra, ha riportato il 32,61%, subendo un distacco notevole ma non così ampio da decretarne la sconfitta immediata. Il motivo della mancata vittoria della Rousseff risiede nell'inattteso successo avuto dalla terza candidata, Marina Silva del Partido Verde, che con il 19,33 % dei voti ha sottratto una buona parte di voti al “delfino” di Lula, intercettando una fetta davvero sostanziosa dell'elettorato di sinistra deluso da alcune posizioni prese da Dilma in campagna elettorale.

 

SI TORNA ALLE URNE – Domenica 31, dunque, i brasiliani dovranno tornare in cabina elettorale e scegliere chi, tra la Rousseff e Serra, sarà il nuovo Presidente dello Stato più grande e importante di tutta l'America Latina. Una potenza in straordinaria crescita, che nei prossimi anni potrà giocare un ruolo fondamentale sulla scena internazionale, i cui rapporti di forza sono in fase di ridefinizione in questi anni. La campagna elettorale non è stata particolarmente entusiasmante, anche perchè su tutti i candidati pesava l'inevitabile confronto con Lula, che in otto anni e due mandati presidenziali ha raccolto consensi pressochè in tutto il mondo grazie alle sue politiche accorte ed efficaci, volte a favorire lo sviluppo economico del Brasile ma anche a ridurre sensibilmente disuguaglianza e povertà. Il tono dello scontro non è stato mai particolarmente acceso, anche per la distanza non eccessiva tra il PT e il PSDB (Partito Socialdemocratico Brasiliano) di Serra, che nello schieramento partitico locale si colloca moderatamente al centro. Il programma di Serra, oltre a dover proseguire quanto fatto negli anni precedenti, si differenzia da quello della Rousseff per la volontà di attribuire un peso minore al ruolo dello Stato nella sfera economica (il Governo, per fare un esempio, ha recentemente aumentato la propria presenza all'interno della compagnia energetica Petrobras, principale azienda del Paese, detenendo il 48% del capitale azionario).

La Rousseff ha dovuto fronteggiare alcune difficoltà legate ad alcuni scandali di corruzione che hanno colpito il suo entourage e all'appoggio dato pubblicamente all'aborto: tali dichiarazioni non sono state gradite da una larga parte della popolazione, specialmente dalla numerosa comunità evangelica, che ha preferito in maniera massiccia Marina Silva (anch'ella evangelica). Serra ha cercato di approfittare dei punti deboli della propria avversaria, accusandola di incoerenza durante i dibattti televisivi.

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PROSPETTIVE – Dopo l'ultimo scontro in tv, i sondaggi di Datafolha danno ancora saldamente in testa la Rousseff con il 56 % delle preferenze (anche se un altro istituto di inchieste, GPP, afferma che questo vantaggio sarebbe in realtà solo del 5,5 %). A scanso di grosse sorprese, il risultato dovrebbe rispecchiare i sondaggi, anche se Serra potrebbe guadagnare punti a causa delle difficoltà incontrate dalla candidata del PT e in virtù della sua maggiore popolarità (è stato Ministro della Sanità durante il Governo di Cardoso e Governatore dello Stato di São Paulo, cariche che ha ricoperto con successo ed efficacia). Sembra comunque troppo tardi per ribaltare l'esito di un confronto elettorale nel quale il vero vincitore sarà colui che, in base alla costituzione brasiliana, non poteva partecipare: il presidente uscente Lula. Il carisma del personaggio, unitamente ai successi ottenuti, costituiranno per il suo successore un metro di paragone molto arduo da sostenere.

 

Davide Tentori

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Gilad Shalit era un soldato

…lo era fino al 25 giugno 2006, giorno del suo rapimento da parte di Hamas vicino al confine tra Israele e la striscia di Gaza. Da quel momento è iniziato il processo che lo ha trasformato in molte altre cose. Gilad shalit era un soldato; ora è un simbolo, uno strumento politico, una moneta di scambio, una giustificazione, un fenomeno mediatico, un intero esercito che in termini israeliani è anche un’intera società.

PERCHÉ PROPRIO ORA? – L’argomento Shalit segue un andamento ondulatorio con picchi d’interesse che si alternano a periodi in cui l’ostaggio viene messo in fondo alla lista degli impegni dei politici. Da domenica 17 Ottobre assistiamo ad una crescita di attenzione grazie al rinnovato appello del Primo Ministro Benjamin Netanyahu alla radio (non a caso) dell’esercito israeliano che domenica 17 ottobre ha assicurato un’attiva partecipazione delle trattative per il rilascio di Gilad. Cosa determina l’andamento di interesse per l’ex soldato? Secondo alcuni una casualità, secondo altri meno; fatto sta che il governo sembra usare la “carta Gilad” nei momenti di crisi. A pochi giorni dal rischio di mandare a rotoli le ormai già stagnanti e alquanto discutibili trattative di pace per mezzo di una moratoria che autorizza la costruzione di 238 abitazioni in zone di Gerusalemme oltre la Linea Verde (che anche se “legali” per alcuni, sono pur sempre provocatorie in un momento delicato), il Primo Ministro sembra interessarsi nuovamente e improvvisamente alle sorti del giovane nelle mani di Hamas dopo un lungo periodo di oblio; l’atmosfera politica si scalda, c’è bisogno di un punto a favore di Israele verso cui dirigere l’attenzione, di mostrare alla società Israeliana che si agisce nel suo interesse, e di ricordare al mondo che c’è un “buono” nelle mani dei “cattivi”. Ed ecco che Gilad diventa ancora un simbolo in questo gioco di legittimazione e delegittimazione, un modo di spiegare un conflitto complesso e difficile da capire scomponendolo in semplici fattori: bene e male. Questa tecnica politica è molto efficace come si è già visto in passato nella realtà Americana di George W. Bush (che sembra essere lo specchio di quella israeliana), dove è servita a giustificare l’entrata in guerra quando non c’erano abbastanza motivi per farlo (intervento in Iraq contro le armi di distruzione di massa mai trovate).

PARANOIA COSPIRATRICE O REALTÀ POLITICA? – Preso come singolo fatto può sembrare un paranoico intento di mostrare come il governo usi l’interesse verso il giovane Gilad per raggiungere altri obiettivi che vanno oltre a quelli morali, ma osservando più a fondo la situazione israeliana ritroviamo un pattern che si ripete non solo nelle manovre politiche ma anche nel modo di pensare della società. Un esempio è l’operazione Piombo Fuso a Gaza, dove il motivo per l’intervento, ribadito continuamente dai media durante il conflitto, oltre al fermare la pioggia di missili che raggiungevano il territorio israeliano era quello di liberare il soldato-simbolo. Allo stesso modo il jolly Shalit è usato spesso durante discussioni politiche popolari, e quando messo in gioco da cittadini di destra sembra bastare a giustificare qualsiasi azione politica contro gli argomenti dei sostenitori della sinistra. La forza di questo simbolo è dovuta al fatto che ogni cittadino Israeliano è anche un soldato, e non sostenere un soldato in pericolo è come ripudiare tutta la società. Ma cosa ha fatto effettivamente Israele in 4 anni per supportare il suo jolly?

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ATTIRARE L’ATTENZIONE – Questo è stato fatto. Gilad è stato trasformato in un fenomeno mediatico e la sua storia e quella della sua famiglia sono ormai presentate come una sorta di reality show che ha raccolto un grande audience. La marcia che Noam Shalit (padre di Gilad) ha intrapreso quest’estate insieme a migliaia di Israeliani per la liberazione del soldato ha attirato un’enorme attenzione mediatica che altro non fa che mostrare quanto importante sia il soldato per Israele. E qui l’errore. Più qualcosa è importante, più alto diventa il suo costo. Una semplice legge del mercato: all’aumentare della domanda aumenta anche il prezzo; solo che in questo caso non si parla di moneta e beni di consumo, ma di persone.

QUANTI PALESTINESI VALE UN ISRAELIANO? – Gilad ne vale circa 1000 secondo l’offerta Israeliana per un eventuale scambio di detenuti; 450 criminali definiti “pesanti” (per gravi atti commessi contro la popolazione) secondo Hamas (cifre risalenti al 2009). Una registrazione video del soldato invece è più economica e bastano 20 prigionieri palestinesi donne per averla (scambio avvenuto nell’ottobre 2009); un costo più abbordabile per le tasche del governo, ma non per le famiglie che hanno perso qualcuno in un attentato e che si oppongono al rilascio del soldato in cambio di libertà per i terroristi. In questo vero e proprio mercato umano pieno di paradossi sguazza Hamas, che sempre più consapevole di avere una gallina dalle uova d’oro tra le mani sa di poter dettare condizioni più pesanti nel momento del bisogno. E anche il gruppo islamico fondamentalista utilizza l’immagine dell’ostaggio facendone un cartone animato che nell’aprile 2010 diventa in breve tempo il più scaricato dal sito internet del braccio armato di Hamas, Al-Qassam.

UNA DOMANDA, TROPPE RISPOSTE – Che ne sarà di Gilad Shalit? Troppi scenari diversi si srotolano di fronte a questa domanda. Un intervento armato per salvarlo, uno scambio, una trattativa diplomatica, un altro calo d’interesse fino alla prossima crisi, un ricordo lontano, un simbolo sempre vivo e presente, un altro Ron Arad mai ritornato, un eroe che riabbraccia la sua famiglia, una pedina diplomatica da mantenere in gioco. In questo circo di politici, media e conflitto restano un giovane in pericolo e un padre distrutto che lotta ogni giorno per mantenere viva una speranza.

Ruben Salvadori

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Tutto come prima?

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Ritorna la violenza nel Caucaso: un commando di guerriglieri ha dato assalto al Parlamento di Grozny, la capitale della Cecenia. Al di là delle volontà di autonomia nei confronti di Mosca, nella repubblica caucasica sono in corso lotte per il potere tra diversi clan. A questo va aggiunta l'importanza strategica della regione dal punto di vista geopolitico, in quanto nodo chiave per il transito del petrolio dall'Azerbaigian.

DA: Centro di Formazione Politica

DI NUOVO VIOLENZE – Ancora scontri in Cecenia, ancora un attacco al cuore del potere, portato da quelle milizie islamiche irriducibili che l'esercito russo era riuscito a far arretrare nelle zone del nord del Caucaso dopo anni di sanguinosi scontri. Un commando composto da quattro guerriglieri ha dato l'assalto al Parlamento ceceno, immolandosi per la causa separatista e riportando il terrore in una città che è stata teatro di uno tra i conflitti più duri degli ultimi anni. Due dei componenti del commando si sono fatti esplodere appena entrati nell'edificio che ospita l'organo legislativo ceceno, gli altri attentatori hanno invece aperto il fuoco contro funzionari tecnici cercando di raggiungere l'ufficio di Dukvakha Abdurakhmanov, presidente del Parlamento. Le forze speciali hanno attaccato l'edificio supportate dalle guardie parlamentari, riportando l'ordine dopo uno scontro a fuoco in cui sono stati uccisi i due guerriglieri ceceni. I mezzi di informazione russi hanno definito l'attacco come una delle più dure sfide al regime di Kadyrov e al potere centrale di Mosca. La strategia russa per la stabilizzazione della regione sembra essere fallita, l'attacco al Parlamento ceceno è un segnale inequivocabile: il governo guidato da Kadyrov, il premier filorusso, non è in grado di esercitare il pieno controllo su una situazione che rimane caratterizzata da instabilità.

LOTTA PER IL POTERE – Le dichiarazioni del presidente ceceno riguardo alla vittoria sulle milizie islamiche sembrano essere semplici spot per la propaganda. Il valore simbolico dell'attacco sembra supportare questa tesi: nello stesso giorno dell'azione dei guerriglieri era prevista la visita a Grozny del Ministro degli Interni russo Rashid Nurghaliev. Alcuni osservatori considerano gli scontri in Cecenia nulla più che una guerra tra clan diversi: da una parte i guerriglieri, dall'altra la polizia cecena e i ventimila effettivi russi presenti nel paese ormai da anni. Non bisogna dimenticare che alla lotta per il potere si intrecciano scontri e omicidi per il controllo sulle risorse petrolifere ed il traffico di droga ed armi che alimentano la traballante economia locale. Le milizie anti-russe, inoltre, sono cambiate nel corso degli ultimi anni, trasformandosi da guerriglia nazionalista a gruppo combattente islamico che vagheggia della creazione di un califfato in tutte le repubbliche nella regione del Caucaso del nord. Secondo molti, quella che dagli attuali combattenti ceceni è definita una “guerra santa” altro non sarebbe che uno scontro tra gruppi mafiosi che tentano di assicurarsi il controllo sulle scarsissime risorse e i traffici del paese. La popolazione cecena, prostrata da anni di scontri e sangue, sembra non voler più sostenere i gruppi combattenti che si sono rifugiati nel nord del paese, guidati da comandanti che ora si fanno chiamare emiri.

CECENIA NODO GEOPOLITICO – La situazione è quindi caratterizzata da momenti di instabilità latente a cui si alternano scontri aperti e azioni simboliche un po' in tutto il paese. Nello scorso agosto, ad esempio, i guerriglieri hanno attaccato il villaggio natale del premier Kadyrov, che sembra ora in difficoltà anche con l'esecutivo russo. Dopo la rimozione del sindaco di Mosca, in molti pensano che il Cremlino potrebbe decidere di destituire il leader ceceno sostituendolo con un personaggio più gestibile. Il Consiglio per i Diritti umani presso il presidente della Federazione Russa ha chiesto a Medvedev di controllare maggiormente l'operato di Kadyrov; sebbene Putin abbia concesso al governo ceceno un prestito da cento milioni di euro per la realizzazione di opere pubbliche non sarebbe da considerare improbabile un ricambio al vertice del potere nella piccola repubblica caucasica. La Casa Bianca ha taciuto sull'attacco dei guerriglieri ceceni, mentre l'Alto rappresentante per gli affari esteri e la politica di sicurezza dell'Unione Europea Catherine Ashton si è detta scioccata e ha confermato la disponibilità dell'Unione a rafforzare la collaborazione con Mosca nella lotta contro il terrorismo internazionale. La Cecenia è fondamentale dal punto di vista geopolitico, perchè punto di transito per il petrolio azero verso il porto russo di Novorossisk e territorio da cui poter proiettare la potenza militare in tutto il Caucaso. Il Cremlino sarà quindi costretto a cambiare strategia nei prossimi mesi per poter tenere sotto controllo questa stretta valle, importante per gli interessi russi quanto per i detrattori del Cremlino. Non sono in pochi a Washington a sostenere che il conflitto russo-ceceno potrebbe favorire gli Stati Uniti in una delle regioni geopoliticamente più importanti per il futuro energetico dell'occidente intero.

Simone Comi

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Per il Centro di Formazione Politica

Moldavia e Transnistria, il confine tra due mondi

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Per il nostro Focus A cavallo del confine: tra Europa ed Eurasia” – Quarta parte – La Repubblica di Moldavia è uno Stato indipendente dal 1991. Originariamente parte della Romania, di cui condivide l’impianto linguistico e culturale, fu poi inglobata all’interno dell’Unione Sovietica. Formalmente invece la Transnistria esiste solo dal punto di vista geografico e si qualifica come la regione situata a Est del fiume Dnester: infatti, sebbene al momento della dissoluzione dell’URSS la Transnistria decise di separarsi dalla Moldavia, l'indipendenza non ne è stata riconosciuta

LA MOLDAVIA DALL'URSS A OGGI – Con la dissoluzione dell’URSS, la Moldavia divenne autonoma, compiendo tuttavia un percorso differente da quello intrapreso dai cugini della Romania. Mentre quest’ultima iniziò ad avvicinarsi all’Unione Europea, divenendone membro nel 2007, in Moldavia le elezioni del 2001 videro la vittoria del Partito Comunista (Pcrm), con la nomina a presidente del filorusso Vladimir Voronin. Nel 2009 si sono tenute due tornate elettorali: la prima aveva confermato la leadership comunista, ma poi scontri di piazza hanno imposto il ritorno alle urne, che hanno decretato invece l’impossibilità per il Pcrm di ottenere i 3/5 dei voti in Parlamento, necessari per la nomina del Presidente. La coalizione di opposizione, denominata Alleanza per l’Integrazione Europea, ha così formato dopo numerose difficoltà un Esecutivo ad interim, guidato dal Presidente Mihai Ghimpu. La Costituzione impedisce che il Parlamento possa essere sciolto per più di due volte nell’arco di dodici mesi, quindi per nuove elezioni bisognerà attendere presumibilmente almeno la fine del 2010. Dal punto di vista economico, la Moldavia è uno degli Stati più poveri e arretrati dell’area. Priva di grandi risorse naturali, la sua economia si basa prevalentemente sull’agricoltura ed è strettamente dipendente dalla Russia, che rimane il partner strategico sia dal punto di vista commerciale che per quanto riguarda l’approvvigionamento energetico. Altri partner di rilievo sono gli Stati confinanti, Romania ed Ucraina.

LA TRANSNISTRIA – Come detto, la sovranità di questa regione come Stato autonomo non è ad oggi riconosciuta dalla comunità internazionale. Dunque, anche se la Transnistria batte una propria moneta, ha una sua polizia e proprie Forze Armate, è ufficialmente una provincia della Moldavia. Questa entità politica, che è l’ultimo baluardo del comunismo di matrice sovietica in Europa, è in realtà nelle mani di un industriale locale, Igor Smirnov, che occupa la carica di Presidente dal 1991, anno in cui venne eletto nel corso di una dubbia consultazione. La maggior parte delle attività economiche sono controllate, direttamente o indirettamente, dalla sua famiglia. (Nella mappa la Transnistria è indicata sulla sponda orientale del fiume Dniester).

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DISPUTE DI FRONTIERA E PROBLEMI CON LA RUSSIA – La Moldavia, così come tutti gli altri Stati della comunità internazionale, non hanno mai riconosciuto l’indipendenza della Transnistria. Il problema del riconoscimento è una questione spesso ricorrente nell’ambito delle relazioni internazionali e che si è presentato in maniera acuta e spesso violenta in relazione alla dissoluzione dell’Unione Sovietica. La guerra scoppiata in Cecenia, nella regione del Caucaso, a metà degli anni ’90, oppure la più recente disputa tra Russia e Georgia in merito alle rivendicazioni indipendentiste dell’Ossezia, dimostrano come la “cintura” sorta attorno alla Russia sia ancora fonte di numerose instabilità geopolitiche. Questo problema può influire sulle relazioni internazionali e sui flussi commerciali ed energetici nella regione, come già evidenziato in più punti.

La Russia ha supportato de facto le rivendicazioni della Transnistria, che occupa un ruolo strategico per quanto riguarda le rotte del gas che da Mosca sono dirette verso Romania e Bulgaria. La disponibilità di risorse naturali, dunque, ma anche le rotte sulle quali esse viaggiano, sono indice di influenza geopolitica. Queste dinamiche possono intervenire nel caratterizzare i rapporti di queste nazioni con la Russia e nell’influenzare la loro scelta di appartenere al campo dell’Europa Occidentale simboleggiato dall’Unione Europea.

IL CONCETTO DI “STATO FALLITO” – Oltre a non essere riconosciuta dagli altri Stati, la Transnistria può essere catalogata nella categoria dei cosiddetti “failed States. Si tratta di entità politiche che si caratterizzano per l’impossibilità di dare vita a processi stabili e duraturi di “State building” e “nation building” (costruzione dello Stato e della nazione), divenendo fonte di instabilità non solo a livello interno ma anche a livello regionale.

La Transnistria è stata definita “il buco nero d’Europa”, in quanto il Presidente Smirnov ne ha fatto un ricettacolo di tutti i principali flussi criminali, in particolare droga e armi; Tiraspol, capitale della regione, sembra infatti essere la destinazione preferita di gruppi criminali da molte parti del mondo.

Pietro Costanzo, Jacopo Marazia, Alberto Rossi, Davide Tentori, Stefano Torelli 25 ottobre 2010 [email protected]

Dopo le urne i machete: voci di guerra in Burundi

Da Bujumbura – “Se faranno la guerra per cambiare questo governo li supporterò senza esitazioni, spero che non sia solo per il loro interesse”. La violenza come ultima arma rimasta per far sentire la sua voce, per A.Z., giovanissimo militante dell’opposizione che mi confida di riporre le sue ultime speranze per un futuro migliore nella formazione politica FNL. FNL che, secondo la vox populi, dopo il ritiro dal processo elettorale sarebbe impegnato nell’organizzazione di una resistenza armata.

Burundi, 21/10/2010

Dopo mesi di elezioni accompagnate dalle polemiche e abbandonate a metà percorso dall’opposizione (vedi il nostro precedente articolo dal Burundi “Elezioni in Burundi: tra democrazia e (in)stabilità”), il Burundi si trova in preda alle voci di una nuova ribellione.

TRA VOCI E SMENTITE – Difficile distinguere la verità tra assassinii mirati, più di cento giornalisti e militanti in carcere, leader politici in esilio da mesi, e un governo che ha vinto le elezioni tra mille polemiche. Di certo ci sono 16 cadaveri ritrovati sulle sponde del lago Tanganica nelle ultime due settimane (nella foto: il fiume Rusizi, che sfocia nel lago Tanganica): militanti dell’FNL arrestati e uccisi senza processo, secondo le associazioni dei diritti umani. Cui si sommano le decine di morti all’indomani delle elezioni contestate di maggio, e le altre decine denunciate durante il primo mandato del governo in carica. Le voci di una rivolta si moltiplicano tra la gente e sui siti internet, ma la linea ufficiale è che si tratta di banditi armati. Banditi che si nascondono nelle stesse foreste dove si annidavano i ribelli qualche anno fa. Mentre crescono anche misteriose aggressioni e furti ai civili. E se ufficialmente l’esercito ha affermato la sua “unità, neutralità e imparzialità” nella difesa dello stato, salgono le voci di malcontenti e abbandoni tra i militari, motivati, si dice tra i corridoi, da salari bassi, simpatie per l’opposizione, e forse anche tensioni etniche residue tra i ranghi armati.

Chi sia dietro a questi ultimi eventi è ancora poco chiaro: il governo accusa l’opposizione di ricorrere alla violenza per capovolgere l’esito delle elezioni perdute, ma l’opposizione si dichiara perseguitata e contraria all’uso della forza. Anche se, per bocca di qualche leader, dice che “tutto può arrivare”, pur di riprendersi dei voti secondo loro rubati con la frode. Cattivi perdenti o idealisti rivoluzionari? Il governo, intanto, continua la sua deriva autoritaria, rifiutando il dialogo con chi è al di fuori dalle istituzioni, e minacciando (o provocando?) chi si oppone con continui arresti e limitazioni delle libertà fondamentali.  (Nella mappa seguente: incidenti di violenza elettorale tra giugno e ottobre 2010 in Burundi – dal progetto Amatora mu mahoro).

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CHE PROSPETTIVE? – Resta da chiedersi che sostegno darà la popolazione e chi finanzierà questi nuovi ribelli. Vero è che in Burundi la gente è stanca di guerra, ma lo spettro di una nuova dittatura può motivare tanti, dai poveri ai giovani come A.Z. Il denaro è un'altra incognita: non ci sono molte risorse per i dissidenti in questo paese povero, senza miniere, che vive di un’agricoltura di sussistenza. Ma sono poche le ore di cammino che li separano dal Kivu, la regione più instabile del Congo, crocevia di traffici d’armi, gruppi ribelli ancora attivi e mercenari.

Il rappresentante della missione ONU in Burundi ha appena dichiarato che se gli attori politici rifiutano il dialogo “il ritorno alla violenza non è da sottostimare”. Che oltre al sostegno popolare i “banditi” trovino anche le armi e il denaro, questo è il timore, o la speranza, di tanti.

Manuela Travaglianti [email protected] 22 ottobre 2010

Iran, un assedio per evitare la guerra

Terza ed ultima parte dell’analisi sul contesto iraniano: dopo aver trattato i rischi connessi al programma nucleare di Teheran e dopo aver illustrato la varietà dei rapporti tra i Paesi del Medio Oriente e la complessità della questione legata alla proliferazione degli armamenti, oggi prendiamo in considerazione l’efficacia delle contromisure e delle sanzioni. Imbrigliare Teheran è la chiave di tutto?

 

NESSUN ATTACCO – Scalando i gradi della possibile risposta all’Iran, lanciato verso lo sviluppo delle tecnologie nucleari, si deve fare i conti con l’ipotesi di un attacco convenzionale per bloccare tale sviluppo. Sui possibili scenari strategici e politici di questa possibilità si sono versati e si versano fiumi di inchiostro. Questa minaccia da parte americana appare una pistola scarica, gli USA non possono letteralmente permettersi una nuova grande campagna militare, né dal punto di vista di economico, né da quello dell’impegno militare. E d’altra parte è noto che l’infrastruttura nucleare persiana è articolata, diffusa sul territorio, mimetizzata e sepolta a grandi profondità fortificate, quando non integrata nel tessuto metropolitano di grandi città: un semplice attacco aereo anche prolungato, non fermerebbe il programma atomico. Potrebbe però rallentarlo per un po’, e il tempo guadagnato potrebbe rivelarsi decisivo (ricordare il bombardamento israeliano del sito iracheno di Osirak, nel 1981: neanche quello di per sé risolutivo, eppure di fatto fondamentale). Però, bombardare decine di siti nucleari comporta incognite enormi, in termini di diffusione nell’atmosfera del materiale radioattivo, e di permanente inaccessibilità a un territorio dove la densità di risorse energetiche (idrocarburi) è la più elevata al mondo.

 

SANZIONI, EMBARGO COMMERCIALE E FINANZIARIO – Formalmente l’embargo si sta stringendo, con Cina e Russia che aderiscono, e l’UE che inasprisce unilateralmente le misure, eppure il suo esito è incerto, la tenuta appare labile. Il quadro è in realtà abbastanza complesso, e opaco. Apparentemente Teheran ha trovato fuori dall’Occidente molti e potenti amici interessati ad essere presenti, come acquirenti e come investitori, nel suo vasto mercato energetico. Inoltre, le sanzioni dell’ONU, non contemplano misure per quel settore (queste sono state adottate unilateralmente da USA e UE), ma solo contro banche e imprese presumibilmente coinvolte nel programma nucleare iraniano, le forniture di armi e le imprese legate ai pasdaran: nulla infatti si può imputare alle società petrolifere di India, Cina, Russia (e Turchia) che continuano a operare nel paese. E già si è aperto un sapido battibecco diplomatico tra Washington (“non approfittate delle sanzioni UE per guadagnare posizioni in Iran”) e Pechino (“stiamo ottemperando rigorosamente al dettato ONU”). Così da un lato Teheran si affretta a garantire ai contendenti russi o cinesi condizioni contrattuali migliori di quelle già stabilite per Repsol o Shell che abbandonano il campo, dall’altro Mosca e Pechino mostrano interesse, o magari firmano proprio in questi giorni importanti accordi di cooperazione energetica. Un altro importante attore della partita iraniana si rivela essere la Turchia, già emersa come potenziale mediatore globale sulla questione, assieme al Brasile. Il sorprendente boom economico turco non è certo un sottoprodotto dell’embargo contro l’Iran, e del resto attrae capitali importanti anche dalle monarchie del Golfo, ma sicuramente una sua quota importante fa capo al fiorire di export e accordi con Teheran.

 

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IL SUPPLENTE ORIENTALE – A uno sguardo più attento però queste prospettive mostrano limiti importanti: appare molto improbabile che la “supplenza orientale” possa colmare il vuoto lasciato dalle compagnie occidentali. Il gap tecnologico delle compagnie nazionali rispetto alle multinazionali storiche permane, ma soprattutto l’India si è già sfilata dal progetto per il grande gasdotto dall’Iran al Pakistan, sicuramente per la altissima tensione con Islamabad seguita agli attentati di Bombay, ma forse anche per ragioni più profonde e strutturali. Pare che New Delhi sia orientata a soddisfare le proprie esigenze puntando in gran parte sulle risorse interne, destinate a un notevole sviluppo nei prossimi anni grazie alla scoperta e messa in opera di nuovi giacimenti, all’intensificazione delle estrazioni dai siti esistenti, e allo sviluppo di risorse non convenzionali (shale gas). Prospettive del genere del resto si aprono anche per la Cina, e comunque le compagnie di Cina e India stanno investendo massicciamente sul gas non convenzionale nordamericano, e trovano molto allettanti i mercati africani e iracheno. In breve, Pechino e New Delhi sembrano intenzionate a mantenere le posizioni in un mercato molto importante, ma molto problematico, come quello iraniano, ma nulla di più. Infine, il trattato di cooperazione energetica tra Mosca e Teheran, firmato questa estate, è roboante nei termini, ma delinea una vasta collaborazione di lungo periodo, ed è ancora da vedere quali e quando saranno le sue implementazioni.

 

PROBLEMI PIU’ AMPI – A Teheran le preoccupazioni però non riguardano solo le sanzioni e dei malumori americani, che comunque hanno pure un loro peso. L’industria petrolifera iraniana, con cui comunque le società estere dovrebbero cooperare, appare sempre più come l’Armata Rossa alla vigilia della guerra mondiale, drammaticamente indebolita non solo e non tanto dall’embargo (cioè dal mancato accesso a finaziamenti e tecnologie occidentali), quanto dalle purghe operate dai fedelissimi di Ahmadi-Nejad alla guida delle imprese, che hanno perso gran parte del capitale di expertise accumulato negli anni a favore di nuovi quadri inetti ma fedeli alla linea. Nel medio periodo le conseguenze per l’Iran possono essere devastanti: l’industria petrolifera e gasifera sconta una trentennale scarsità di capitali e di investimenti, che ha precluso lo sviluppo dei giacimenti. La produzione va avanti da pozzi ormai antichi che corrono verso l’esaurimento, anche per la scadente tecnologia utilizzata. Nel breve periodo la situazione appare già critica: per la cronica carenza di capacità di raffinazione e le sconsiderate politiche di sussidio al consumo energetico Teheran dipende dall’import per il 40% dei suoi consumi, in particolare dalle “flebo” di Cina e Russia. Dovesse rinunciarvi, la situazione si farebbe veramente instabile. L’impressione è che cinesi e russi (questi ultimi in realtà hanno già parzialmente staccato la spina dei rifornimenti, con Lukoil, per ripensarci in agosto) abbiano il dito sull’interruttore dell’Iran, e del suo programma nucleare, ma la trattativa con Washington sia ancora in corso. Esiste poi, come detto, un aspetto energetico della questione, perché le riserve iraniane sono comunque enormi e difficilmente aggirabili, per la “fabbrica del mondo”, sopratutto se Pechino non intende assolutamente cadere nella dipendenza russa. Su un piano più squisitamente geopolitico Teheran deve apparire un boccone troppo grosso per lasciarlo agli americani, già dislocati tra Iraq e Afghanistan, e dunque in condizioni particolarmente favorevoli per approfittare del collasso persiano.

 

Andrea Caternolo

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La tragedia greca

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Alla fine del 2009 una scossa ha percorso le già fragili borse europee: la possibile bancarotta greca. Il brivido si é poi diffuso nei mercati dell´Asia e degli Stati Uniti. Ma all'eco mediatica seguita a questo tuono (a ciel non del tutto sereno), é seguito il silenzio. Da maggio nessuno parla più della situazione in Grecia… Proviamo a riprendere le fila del discorso ed a capire quali siano le possibili ricadute.

I DATI – A partire dalla Crisi Globale, la Grecia si é dimostrata molto più vulnerabile di altri paesi agli sconvolgimenti delle borse. Dal 2008 la struttura economica del paese ha visto un incremento notevolissimo del tasso di disoccupazione, un aumento del numero di fallimenti delle aziende (15%) e un netto peggioramento nelle condizioni di libera economia (attestandosi al penultimo posto in Europa, appena prima della Polonia). Dal 1993, é la prima volta che la Grecia entra in fase di recessione, e le stime del deficit sono ingenti, poiché si aggirano intorno al 12.5 del PIL stesso. Dato ancor più significativo é quello del debito pubblico, che si aggirava intorno al 113.4 % nell'ultimo trimestre del 2009 e che é previsto salire al 120 % entro il 2010, per attestarsi al 135% nel 2011. Alla fine delle elezioni del 2009, lo stesso premier della penisola ellenica ha annunciato la possibile bancarotta del paese, dando così inizio alla serie di reazioni, prima in Europa, poi nel mondo, atte ad arginare questo fenomeno di ampissima portata.

COSA SI NASCONDE DIETRO LA CRISI?Uno dei grandi problemi che si nasconde dietro questa crisi é sostanzialmente legato al sistema dell'economia globale in senso lato. La struttura economica globale é infatti collegata ai prestiti che spesso avvengono tra enti privati e gli stati stessi, prestiti che vengono poi restituiti con alti tassi d´interessi. La richiesta dei titoli statali immessi nel mercato é direttamente proporzionale ad alcuni valori che le agenzie di rating pubblicano su ogni stato, sostanzialmente una sorta di punteggio "sull'affidabilità" di un paese. Ovviamente più il punteggio é elevato, più i titoli emessi dagli stati sono richiesti, e dunque sarà minore il tasso d´interesse nella restituzione dei prestiti. Il problema greco si gioca proprio in riferimento al rating delle agenzie, che, data la situazione problematica dei conti greci, hanno abbassato i punteggi in modo netto. Alla scadenza dei titoli la Grecia si è ritrovata quindi ad avere un debito altissimo e un tasso d´interessi ingentissimo, e come ovvia conclusione, l´incapacità di pagare i prestiti emessi: tutte le premesse per una bancarotta.

IL CONTAGIO – Questo "downgrading" da parte delle agenzie internazionali ha aperto scenari di crisi del debito pubblico in numerosi paesi europei, in particolare nei cosiddetti PIGS: oltre alla Grecia, Portogallo, Italia, e Spagna. I tagli all´affidabilità creditizia della Grecia dovuti al dissesto delle finanze pubbliche trovano risposta nella pessima gestione dei fondi messi a disposizione dalla BCE alle banche greche a seguito della crisi economica, con un conseguente aumento di un sovrapprezzo (solitamente pari al 5% del prestito stesso). Una volta privata di finanze pubbliche, la Grecia si é trovata costretta a reperire nel mercato i fondi necessari, e in una situazione di contingenza economica così negativa, questo si é dimostrato un ostacolo praticamente insormontabile

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EFFETTO DOMINO – La Grecia non rappresenta di per sé un elemento in grado di sconvolgere l´economia europea, in quanto non dipendono da essa i risultati del mercato economico europeo e globale, tuttavia il "caso greco" ha rappresentato una fonte di preoccupazione di natura "politica".

Perché? Perché il problema nella questione greca é di origine strutturale, e perché un´eventuale rottura degli equilibri di mercato così come concepiti fino ad ora, potrebbe aprire la porte ad un effetto domino che andrebbe a ripercuotersi su tutti gli altri paesi che fanno affidamento sul sistema creditizio tra stati. Per evitare che questo avvenga il Fondo Monetario Internazionale ha stanziato una somma di 45 miliardi di euro a copertura del deficit di bilancio della Grecia, a seguito delle rassicurazioni del governo ellenico di un utilizzo oculato di tale somma e dell'elaborazione da parte dello stesso di un duro piano di risanamento del debito pubblico.

DI CHI E' LA COLPA? – Se si indaga sull´origine remota della crisi, forse, si può risalire al 1981. L´entrata della Grecia nella Comunità Europea coincise con l´arrivo delle sovvenzioni europee nel paese, finanziamenti che arrivarono cospicui e senza precisi controlli. Un errore che oggi l´Unione non rischia di ripetere con i paesi richiedenti di entrare a far parte dell´Ue. Dopo questi 30 anni di erogazioni, benché il paese abbia alzato i propri standard economici, la Grecia rimane un´economia sostanzialmente meno sviluppata rispetto ad altre realtà europee, e il suo tenore apparentemente alto risulta tale perché "artificialmente alimentato" dal flusso ininterrotto della Comunità Europea. C'é chi, fa risalire a tempi ancor più distanti nel tempo le origini di questa crisi, in particolare negli elementi costitutivi della stessa cultura politica greca. Il rigido centralismo e la burocrazia farraginosa del periodo bizantino hanno infatti portato alla nascita della prassi del "meson", ovvero del tramite, uso che sembra essersi adattato nei secoli alla democrazia rappresentativa. In quest´ottica politica, il voto nelle elezioni si basa sul calcolo di un beneficio che il singolo parlamentare può procurare al votante. Proprio secondo questa logica vengono quindi distribuite cariche pubbliche a seconda delle esiti delle votazioni, con un conseguente altissimo livello di corruzione e sovrannumero di personale nell'impiego pubblico.

CHI PAGHERA'?Ovviamente le promesse del governo greco sul piano di risanamento non possono non essere mantenute a questo punto, e data la gravità della situazione i tagli annunciati dal governo sono di notevole entità. In primo luogo una riforma delle pensioni, e secondariamente un blocco salariale dei dipendenti pubblici. A seguito di queste decisioni sono ovviamente sorte contestazioni e scioperi in tutto il paese, che sono sfociati anche in scontri violenti tra la popolazione e gli organi di controllo.

L'UNIONE EUROPEA – La questione greca ha portato a galla dei problemi che erano rimasti nell´ombra per lungo tempo, rendendoli nuovamente attuali. La risposta che l´Unione Europea ha dato (anche su pressione degli Stati Uniti), intervenendo a salvaguardia della Grecia, é una risposta politica forte, ma non sufficiente, poiché é evidente che sia trattato di una toppa momentanea più che di una soluzione permanente. Sembra quindi che ancora una volta l´Europa preferisca nascondere la testa sotto la sabbia come uno struzzo, invece di trovare soluzione strutturali efficienti in grado di sciogliere i nodi alle origini. E´auspicabile che un intervento atto a riportare i conti della Grecia in ordine e che miri a responsabilizzare i dirigenti dei paesi europei sia presto attuato, perché l´Unione Europea si dimostri essere guida di uno spirito economico "nuovo".

Samuele Poletto [email protected] 21 ottobre 2010