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Rinascimento petrolifero

Tutti a caccia di energia in Africa. La grandi possibilità di accedere a nuove risorse di energia fossile (petrolio e gas naturale) fanno gola al mondo intero. Tutto questo sfocerà in un ennesimo saccheggio, o vi sono effettive possibilità di sviluppo autonomo e durevole per il Continente nero?

LE RISORSE – L’Africa subsahariana, il continente dimenticato della globalizzazione, torna al centro del Great Game energetico. Le attenzioni di compagnie asiatiche (cinesi, coreane, giapponesi, indiane), brasiliane, russe, occidentali sono per le sue risorse, in gran parte ancora da esplorare, di energia fossile (petrolio e gas naturale). Questa sarebbe apparentemente la solita vecchia storia di sfruttamento, o di vero e proprio saccheggio coloniale, di scambio ineguale. E’ in realtà un intrico ben più complesso, che trama le possibilità di uno sviluppo industriale e umano autonomo per il Continente nero.  

CACCIA ALL'ORO NERO – Vi è anzitutto una costellazione di fattori e sviluppi nell’upstream degli idrocarburi (cioè tutto il segmento industriale che va dall’esplorazione e sviluppo di campi petroliferi/gasieri, fino all’estrazione), che si profila come particolarmente favorevole alla posizione dei Paesi produttori dell’Africa. La sete di petrolio e gas brucia forte nelle gole dell’economia globale. Non si tratta solo della conclamata voracità dei giganti asiatici, è anche il drammatico profilarsi di vari peak oil nazionali (ovvero il picco di massima estrazione, oltre il quale si ha la fase di rendimento declinante), da quello britannico a quello messicano, passando per il lungo addio del petrolio statunitense, a spronare le grandi compagnie internazionali e alcuni “campioni nazionali” in questa corsa verso l’Africa. In particolare prezzi più alti significano per le compagnie la possibilità/opportunità di finanziare nuovi progetti di prospezione (tecniche di indagini del territorio) in territori rimasti finora inesplorati, o in ambienti più di frontiera (e dunque più costosi, come l’offshore, l’alto mare). E infatti, benchè l’Africa sia tuttora una regione relativamente poco esplorata dalle compagnìe petrolifere, è stato proprio nell’offshore, nelle acque profonde al largo rispettivamente del Ghana e del Sierra Leone, che si è fatta la scoperta più importante di questi anni. Così promettente da far ben sperare per l’esistenza di una vasta nuova regione petrolifera estesa su tutta la fascia costiera tra i due paesi (nel West African Transform Margin). Il rinascimento petrolifero (ma il gas ha un ruolo in prospettiva forse più importante) apre interessanti prospettive di sviluppo all’Africa, anzitutto sotto due profili.

I PROTAGONISTI – Le scoperte più importanti le stanno realizzando non le grandi compagnie integrate (le IOC) come Shell o Exxon, bensì piccole e medie società come Anandarko e Tullow, grazie alla loro maggior propensione al rischio e superiore agilità di manovra nella scelta dei siti e nell’innovazione tecnica e concettuale (il campo petrolifero Jubilee, al largo del Ghana, è situato in una regione in realtà già esplorata in passato, dove si è deciso di procedere secondo una diversa rappresentazione della geologia dell’area, e con tecnologie nuove). Alcune di queste sono però compagnie locali (sia indipendenti, come la nigeriana Oando, che nazionali – come Sonangol), che hanno raccolto e messo a frutto le competenze, il capitale umano locale creato in anni di sfruttamento delle risorse ad opera delle grandi compagnìe internazionali. Si tratta di realtà industriali solide e dinamiche, capaci di aggiudicarsi licenze anche in paesi esteri, e in grado di rafforzare il potere contrattuale dei rispettivi governi nelle trattative con le majors degli idrocarburi (in quanto alternativa possibile).

Il secondo aspetto strutturale è che l’entrata in scena delle società asiatiche (Cina, India, Giappone, Corea del Sud), brasiliane e russe ha creato un quadro di notevole concorrenza dal lato della domanda, nell’upstream degli idrocarburi; una condizione potenzialmente molto favorevole ai paesi esportatori. In particolare le compagnie asiatiche sono mosse da una domanda energetica, nei rispettivi paesi, esorbitante e in crescita tumultuosa, dispongono di notevoli capacità finanziarie (amplissime nel caso cinese), e rispondono a governi meno propensi (ancora la Cina) a condizionarne la libertà di movimento a vincoli di opportunità politica e inerenti alle relazioni internazionali o agli auspici dell'Onu. Grande attenzione, e grandi speranze nei governi e nei paesi produttori del continente, aveva suscitato la politica di oil for infrastructures inaugurata in Africa dai paesi asiatici circa un decennio fa. Eppure il bilancio risulta essere relativamente magro, e soprattutto contradditorio: ricco e positivo per entrambe le parti in Angola, pressochè nullo e molto travagliato da opzioni saltate e progetti annullati in Nigeria.

L'INTERESSE EUROPEO – Tutto questo deve pur essere considerato nell’ottica degli interessi europei, per cui tutto quanto può produrre sviluppo autonomo e durevole all’Africa, aumentarne l’integrazione economica interna e con l’Unione, ridurne l’emorragia migratoria, è da promuove e sostenere. Non si tratta solo di governare la pressione demografica: lo stabilirsi di un’Eurafrica dell’energia negli idrocarburi può essere il precursore della futura integrazione nel campo delle energie rinnovabili, cui già mirano alcuni progetti comunitari (come Desertec). E’ inoltre interesse generale l’affermarsi del soft power europeo nel continente nero, come moneta buona che può scacciare altre più pericolose egemonie o influenze (come quella russo-nucleare, o – peggio ancora – quella iraniana).

Andrea Caternolo [email protected]

Bel colpo, Presidente

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La Conferenza di Washington sul nucleare ottiene risultati soddisfacenti. Obama rilancia la leadership internazionale americana e annuncia un obiettivo fondamentale: mai l'atomica in mano ai terroristi. Intanto, la pressione sull'Iran sale, e il ruolo della Cina sulla questione diventa sempre più strategico.

I RISULTATI – Il presidente statunitense esce vincitore dalle giornate della Conferenza, poiché è riuscito a far nascere una coalizione internazionale che condivide obiettivi comuni e una strategia definita. La dichiarazione di chiusura è infatti chiara ed inequivocabile: è di fondamentale importanza ora, e lo sarà ancor di più nei prossimi anni, impedire ai gruppi terroristici di ottenere materiale nucleare. Questa la prima intenzione dei 47 firmatari dell’accordo raggiunto dopo lunghi incontri e discussioni serrate. Obiettivo che implicherà quindi controlli ancor più rigidi sulla produzione di uranio arricchito e plutonio separato, entrambi definiti materiali pericolosi perché utilizzabili da cellule terroristiche per produrre ordigni nucleari definiti “sporchi”. Capaci cioè di portare morte e distruzione ma più semplici da assemblare, nascondere e trasportare.

FATTI CONCRETI – Secondo quanto deciso a Washington, entro la fine del 2012 dovranno essere messi in sicurezza tutti i depositi nucleari a rischio. Al contempo verrà sostenuta l’Agenzia Internazionale per l’Energia Atomica (AIEA), che diverrà sempre più importante all’interno della struttura delle Nazioni Unite, affinché possa garantire la sicurezza collettiva. Stati Uniti e Russia si impegneranno ad eliminare, a partire dal 2018, oltre 34 tonnellate di plutonio a testa. Un po’ come dire che cancelleranno 17 mila armi nucleari. Mosca ha poi confermato la chiusura dell’ultimo reattore a plutonio, mentre l’Ucraina eliminerà entro il 2012 le scorte nucleari trasferendole in depositi protetti sia negli Stati Uniti che in Russia. Ai paesi che dispongono di reattori ad uranio arricchito si è chiesto di convertirli in siti che utilizzano carburante nucleare non in grado di servire a fini militari. Gli Stati Uniti in primis, con Messico e Canada, si sono impegnati a convertire l’uranio arricchito in un tipo di carburante meno pericoloso e un reattore messicano, in grado di effettuare questo tipo di procedura, sarà messo a disposizione dell’AIEA, così che si possa tentare di risolvere diplomaticamente alcune delle controversie internazionali aperte proponendo una formula simile.

PRESSIONE SULL'IRAN – Il primo pensiero va all’Iran e allo sviluppo del programma voluto dalla leadership di Teheran: secondo la testimonianza resa al Senato da James Cartwright, Capo di Stato Maggiore delle Forze Armate statunitensi, il paese degli ayatollah potrebbe infatti essere in grado di produrre entro i prossimi dodici mesi il combustibile nucleare per costruire una bomba atomica. Forse anche per questo la Casa Bianca ha deciso di affrettare i tempi e cercare nuove soluzioni, riunire una coalizione forte e provare a far desistere gli iraniani da propositi che potrebbero rivelarsi pericolosi per l’intera comunità internazionale. Mahmoud Ahmadinejad ha indetto un contro-summit a Teheran in cui verranno discussi temi come il disarmo e la non proliferazione. Al momento pochi paesi hanno confermato la presenza di delegati ufficiali all’incontro e se si escludono i tradizionali alleati iraniani, Siria e Venezuela su tutti, solo Cina ed India hanno risposto all’invito dell’ex pasdaran. Pechino e New Delhi invieranno però funzionari di basso livello, scelta che può essere letta come un segnale importante al governo iraniano: rispondere all’invito è forma di cortesia, inviare funzionari di seconda fascia significa considerare il summit poco più che una perdita di tempo. La Cina sembra essere sempre meno disposta ad essere il parafulmine della leadership iraniana nei consessi internazionali e a Washington il premier Hu Jintao si è detto disponibile a parlare di nuove sanzioni. I colloqui sono già iniziati a New York e quello che è stato descritto dal sottosegretario di Stato statunitense William Burns come un senso di urgenza collettivo sembra poter essere il preludio a decisioni rapide e dure nei confronti di Teheran.

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RICATTO NUCLEARE – La sensazione è che il pragmatismo che guida Barack Obama nelle scelte di politica internazionale stia iniziando a dare i primi frutti. Senza lanciare proclami ideologici e procedendo con una tattica che prevede piccoli passi, e una maggiore concretezza sui temi da trattare, il presidente statunitense sembra essere riuscito ad ottenere successi di non poco conto, almeno sulla questione dell’approccio alla questione del nucleare. La pressione sulla leadership iraniana aumenterà ancora nelle prossime settimane e se anche una soluzione della contesa rimane lontana, l’accordo raggiunto alla Conferenza di Washington preoccupa molto Teheran. Ahmadinejad ha accusato Obama di voler perpetrare un “ricatto nucleare” nei confronti dell’Iran e in una lettera inviata alle Nazioni Unite ha condannato le dichiarazioni di Robert Gates, secondo cui tutte le opzioni per fermare lo sviluppo del nucleare iraniano sono sul tavolo. Opzione militare compresa. L’iniziativa del leader iraniano sembra essere l’ennesima trovata diplomatica per prendere tempo e tentare di gettare ulteriore discredito sui progetti della Casa Bianca.

IL RUOLO DI PECHINO – Probabilmente Mahmoud Ahmadinejad ha capito che si trova a dover fronteggiare ora un avversario, Barack Obama, che è molto più insidioso del suo predecessore, quel George W.Bush capace di lanciare proclami ideologici contrapposti nella sostanza, ma simili nella forma, a quelli dell’ex pasdaran. L’attuale tattica del presidente democratico, che prevede la creazione di una ragnatela internazionale, fatta di decisioni condivise, per fermare lo sviluppo del programma nucleare iraniano, potrebbe portare al successo. Il paese degli ayatollah, anche se i funzionari governativi dichiarano ogni giorno il contrario, sembra essere sempre più isolato. Se la Casa Bianca riuscirà a coinvolgere ancor di più Pechino nella strategia di lungo periodo per la “questione Iran” si vanificheranno anche le residue speranze del governo di Teheran di possedere armi atomiche. La partita che si gioca ora riguarda gli equilibri geopolitici dell’intera regione asiatica e anche la questione del nucleare iraniano è sempre più inserita all’interno del processo di definizione dei futuri rapporti di forza sino-statunitensi nell’area. Il corso degli eventi e le modalità decisionali con cui verrà disinnescata la minaccia iraniana saranno forse un buon argomento di studio per poter fare previsioni sulle possibilità che avrà la Cina di sostituire gli Stati Uniti nel ruolo di potenza principale nella regione asiatica. Al momento però, sul fronte dell’iniziativa politica e ancor più sul fronte strategico-militare, Washington non sembra ancora avere rivali in grado di competere.

 

Simone Comi [email protected]

Settimana dal 12 al 18 aprile

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La diciottesima e diciannovesima puntata:

– Focus nucleare: Usa, Russia e dintorni

– Israele e Turchia: ferri corti. E ora?

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Politica vincente… non si cambia

Il neo eletto presidente del Cile Sebastián Piñera ha scelto Buenos Aires e Brasilia per il suo primo viaggio ufficiale in America Latina. Durante gli incontri con la Kirchner e Lula si è discusso soprattutto di cooperazione economica e politica. Le linee guida della politica estera cilena non dovrebbero cambiare rispetto agli anni passati, nei quali il Paese sudamericano ha saputo affacciarsi con dinamismo sui mercati regionali ed internazionali.

PARTNERSHIP STRATEGICA – Il risultato più rilevante della prima tappa del viaggio di Piñera in Argentina è stata la firma di una dichiarazione congiunta che mette in luce l’impegno dei due presidenti nel promuovere la partnership strategica bilaterale; atto, questo, che fa seguito al Trattato di Maipú di Integrazione e Cooperazione siglato l’ottobre scorso tra la stessa Kirchner e Michelle Bachelet. Sul tavolo, quindi, la promozione della cooperazione economica. Entrambi i paesi, infatti, hanno importanti interessi nel mantenere e nel potenziare i loro rapporti: il Cile rappresenta il terzo mercato di destinazione più importante dei prodotti argentini (secondo stime del governo argentino nel 2009 avrebbero raggiunto i 55 miliardi di dollari), mentre l’Argentina è la prima meta degli investimenti dei cileni. Piñera, inoltre, si è rivolto agli imprenditori argentini per attrarre nuovi investimenti nel proprio paese, sottolineando come il Cile possa rappresentare un mercato interessante, considerati i trattati di libero scambio che condivide con 58 paesi.

 

INVESTIMENTI – In Brasile, Piñera si è incontrato non solo con l’attuale presidente Lula, ma anche con i due candidati principali alle elezioni presidenziali di ottobre, Dilma Rousseff del Partido dos Trabalhadores (PT) e José Serra candidato del Partido da Social Democracia Brasileira (PSDB), con l’obiettivo di preparare il terreno alla collaborazione con il nuovo governo. La vicinanza all’orientamento politico di quest’ultimo, e il fatto che sia stato in esilio in Cile negli anni ‘70, sembrano rendere Serra più affine a Piñera.

Con Lula si è discusso di investimenti reciproci, e soprattutto di muoversi per favorire quelli brasiliani in Cile che ammonterebbero a soli 2 miliardi di dollari rispetto agli 8 miliardi di quelli cileni in Brasile. Inoltre il presidente brasiliano ha proposto di allargare l’integrazione anche a livello monetario, promuovendo la sostituzione del dollaro nelle transazioni commerciali con le monete locali, il Real e il Peso. Rilevante, inoltre, la presa di posizione di Piñera a sostegno delle ambizioni di Brasilia in seno all’ONU; il presidente ha dichiarato che un seggio permanente per il Brasile rappresenterebbe una garanzia per i paesi della regione latinoamericana.

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NUOVA POLITICA ESTERA?  L’elezione di Piñera il 17 gennaio scorso ha rappresentato una svolta per il Cile che da vent’anni non sceglieva un presidente di centro-destra. La coalizione di partiti di centro-sinistra “Concertación de Partidos por la Democracia”, infatti, aveva governato questo paese dalla fine della dittatura di Pinochet. Questo cambio di colore politico, pur potendo avere delle conseguenze sulle scelte di politica estera, non sembra destinato a modificarne radicalmente le direttrici. Ciò si spiega soprattutto con l’approccio moderato scelto dai governi di centro sinistra, sia prima che più di recente con l’ex presidente Michelle Bachelet. Basti pensare che, a differenza di altri paesi della regione con tendenze più radicali, il Cile ha sempre intrattenuto buoni rapporti con gli Stati Uniti, con cui ha siglato un trattato di libero scambio nel 2004, sostenendo allo stesso tempo le iniziative di livello regionale, come la recente Comunidad de Estados Latinoamericanos y Caribeños (CELC, Comunità di Stati Latinoamericani e Caraibici, che comprenderà tutti gli stati del continente americano, esclusi Stati Uniti e Canada.). D’altra parte, un governo di centro-destra conservatore e neo-liberale potrebbe assumere posizioni meno moderate in relazione ai governi latinoamericani radicali e potrebbe scegliere di avvicinarsi ulteriormente agli Stati Uniti.

 

Valentina Origoni

15 aprile 2010

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Prime elezioni libere in Sudan. Forse

 È passato il terzo giorno di votazioni in Sudan. Doveva essere l’ultimo, ma la commissione elettorale nazionale ha deciso di allungare di due giorni le operazioni di voto per compensare i rallentamenti e le carenze logistiche dei seggi in molte regioni del paese, soprattutto al sud.

Da Khartoum, Sudan

Tutto sembra cristallizzato e immobile, in attesa dei risultati di una tornata elettorale storica, a distanza di 24 anni dall’ultima, messa in agenda dall’accordo comprensivo di pace del 2005, grazie al quale si è posto formalmente fine alla ventennale guerra tra il nord a maggioranza araba-musulmana e il sud prevalentemente animista e cristiano.

Sono in pochi a mettere in discussione la vittoria e la legittimazione politica dell’attuale presidente Omar Hassan El-Bashir (nella foto sotto), giunto al potere nel 1989 con un colpo di stato, sul quale pende un mandato di cattura per crimini di guerra e contro l’umanità, sancito dalla Corte Penale Internazionale dell’Aja.

Questa tesi si è rafforzata quando, a pochi giorni dall’inizio delle consultazioni, i principali partiti di opposizione hanno deciso di boicottare le elezioni, accusando El-Bashir di irregolarità durante la campagna elettorale e di poca trasparenza nella preparazione delle schede e dei seggi. I candidati del Movimento di liberazione del Sud Sudan, Yasir Arman, e del partito conservatore Umma, Al-Sadiq Al-Mahdi, erano considerati gli unici in grado di impensierire l’attuale presidente, nonostante si fossero presentati 11 candidati presidenziali, tra cui una donna, Fatima Abdel-Mahmood, dell’Unione dei socialisti democratici.

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Oltre al Presidente, i 16 milioni di cittadini chiamati a votare, dovranno eleggere i 450 membri dell’Assemblea nazionale, 25 governatori statali, i membri delle relative assemblee. Inoltre nel Sud Sudan, regione semi-autonoma, si voterà anche per il presidente del governo locale e dei 171 membri dell’Assemblea.

Queste consultazioni non potranno essere analizzate senza prendere in considerazione un altro importante appuntamento dell’agenda politica del paese, anche in questo caso previsto dall’accordo di pace, il referendum previsto per il gennaio 2011, tramite il quale i popoli del Sudan meridionale sceglieranno se dar vita o no ad un nuovo stato autonomo e indipendente. 

Per gli analisti politici, la probabile vittoria di El-Bashir, e la conseguente legittimazione politica che ne deriverebbe, può essere considerata come una sorta di scambio, nella logica del do ut des, in grado di accontentare entrambe le parti in causa: al nord le elezioni e la presidenza del paese, al sud il referendum e l’autodeterminazione. Nei prossimi mesi sarà più facile capire se l’apertura dell’attuale governo sia solo uno strumento di campagna elettorale oppure no.

Mirko Tricoli

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Pace perpetua?

Evidentemente no. Cambiare strategia nucleare non significa rinunciare allo strumento della deterrenza atomica. Ecco cosa c’è veramente nella nuova politica di difesa nucleare statunitense

LA NUOVA STRATEGIA –  La pubblicazione della Nuclear Posture Review (NPR), la nuova politica di difesa nucleare statunitense, sembra aver scatenato un’ondata di ottimismo che ha portato roboanti titoli sui maggiori quotidiani e un effluvio di buoni sentimenti ed ottimismo. In altre parole, un’attesa pericolosa per una pace perpetua in cui forse credono solo gli idealisti. Il documento presentato dal Pentagono nei giorni scorsi rappresenta un parziale punto di svolta rispetto al recente passato, ma resta chiara la volontà statunitense di non voler sacrificare la deterrenza atomica. Nella nuova versione della NPR gli Stati Uniti dichiarano di rinunciare all’impiego di armi atomiche anche se attaccati con armi biologiche o chimiche da parte di paesi firmatari del Trattato di Non Proliferazione (Npt). Resta comunque la possibilità di utilizzare testate nucleari nel caso in cui lo sviluppo di armi chimiche o biologiche raggiungesse un livello tale da rendere possibile un attacco letale per il paese. Discorso differente nel caso dei paesi che non hanno firmato o non rispettano l’Npt: rischiano ritorsioni nucleari anche in caso di uso di armi convenzionali, oltre che chimiche o biologiche. Nella precedente edizione del documento, pubblicata durante il primo mandato dell’amministrazione guidata da George W.Bush, era prevista la possibilità di rispondere ad attacchi di ogni tipo contro gli Stati Uniti utilizzando testate atomiche. L’ utilizzo di armi di distruzione di massa, nucleari, chimiche, biologiche, convenzionali e anche azioni terroristiche efferate avrebbero giustificato, per quanto era contenuto nella precedente versione della Nuclear Posture Review statunitense, una ritorsione di tipo nucleare.

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QUALCOSA È CAMBIATO? – In realtà ben poco. Innanzitutto c’è da sottolineare che la “versione Bush” fu pubblicata nel 2002, momento particolare dato quanto era successo nel settembre dell’anno prima. Giustificata era quindi la decisione di mostrare una postura rigida e quasi sfrontata dopo il primo attentato su suolo statunitense, lasciando nell’incertezza un potenziale aggressore rispetto alla possibile ritorsione. In secondo luogo, la decisione di Obama è stata resa possibile dal progresso raggiunto nel campo delle armi convenzionali. Diventate letali quanto lo furono un tempo le armi atomiche, segnano ora il punto di divario maggiore tra gli Stati Uniti e gli altri attori internazionali, alleati compresi. Nessun altro paese sembra essere al livello della superpotenza, almeno per ora e nel medio periodo. E questa condizione di supremazia fa la differenza quando ci sono da prendere decisioni così importanti. A Washington sanno bene che nuova strategia non significa pace perpetua, ma solo un differente approccio alle situazioni di crisi internazionale. Più morbido rispetto al passato, ma non per questo più arrendevole. Lo stesso Obama ha infatti messo in guardia Iran e Corea del Nord con un messaggio piuttosto chiaro: attenzione voi che sfidate gli Stati Uniti e la comunità internazionale, non pensate di essere al sicuro.

Simone Comi

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Le molte ombre del caso Emergency

L’arresto di tre medici italiani, e di altri sei membri del personale, nell’ospedale di Emergency di Lashkar Gah, nell’Afghanistan meridionale, è una vicenda in cui non mancano le ombre e i punti interrogativi.

I FATTI – Le questioni da affrontare sono principalmente tre: la dinamica dell’accaduto, le motivazioni dei servizi di sicurezza afghani, e la reazione del governo italiano. Per quanto riguarda la dinamica, è lecito domandarsi per quale motivo, se i servizi afghani stavano tenendo d’occhio l’ospedale da mesi, come emerge dalle dichiarazioni dei vari portavoce susseguitesi nelle ultime ore, abbiano fermato solo gli esecutori materiali dell’ipotetico attentato, senza curarsi andare a monte, senza cioè individuare e attaccare chi faceva da tramite tra i cooperanti italiani e la Shura di Quetta, il consiglio talebano che dal Pakistan detta le mosse della resistenza afghana, e con cui, stando a dichiarazioni poi confusamente smentite, gli Italiani sarebbero stati in diretto contatto. Inoltre, a sentire i portavoce governativi, i servizi di sicurezza erano informati nei minimi dettagli di ciò che sarebbe successo: apparentemente, il piano consisteva nel compiere un primo attentato in un mercato cittadino, per poi portare a termine un secondo attacco nel momento in cui il governatore della provincia di Helmand si fosse recato a visitare i feriti nell’ospedale di Emergency, il che avrebbe implicato necessariamente la distruzione dell’ospedale stesso. A parte i dubbi generati dall’idea che dei medici con anni di esperienza umanitaria alle spalle potessero pensare di portare la guerriglia all’interno di un ospedale, anche la fin troppo dettagliata descrizione dei piani della presunta cellula terroristica desta qualche sospetto. Infatti, tanti dettagli possono venire, alternativamente, o dalla fantasia o da un informatore; lasciando da parte la prima ipotesi, nel caso di una “soffiata” si torna alla domanda precedente, ossia, come mai non si è andati a monte?

LA NATO, KARZAI ED EMERGENCY – Altro particolare di non poco conto è la presenza o meno di truppe ISAF durante il raid nell’ospedale, e il coinvolgimento della NATO nell’operazione in generale. Nonostante le smentite dei vertici militari, esisterebbe un video che ritrae soldati ISAF all’esterno e all’interno dell’ospedale, e inoltre il Sottosegretario italiano agli Esteri Alfredo Mantica avrebbe confermato il coinvolgimento della Coalizione nella vicenda. Anche in questo caso, sono tante le domande: è possibile che l’ISAF, di cui il contingente italiano è parte integrante, partecipi ad un’azione di polizia diretta contro un ospedale gestito da un’organizzazione italiana, prendendo in custodia personale italiano, senza che il nostro Governo, o perlomeno i vertici militari italiani, ne siano a conoscenza? Perché, nonostante la gravità delle accuse formulate ai danni dei tre italiani, è così difficile definire con certezza quali forze siano coinvolte nell’azione che ha portato al raid e agli arresti? Il governo afghano, da parte sua, sembra avere un conto aperto con Emergency. Già tre anni fa, in occasione del sequestro del giornalista di Repubblica Daniele Mastrogiacomo, la polizia afghana aveva imprigionato un membro afghano dello staff di Emergency, Ramatullah Hanefi, con l’accusa, poi rivelatasi infondata, di essere implicato nella vicenda. I contrasti sono dovuti principalmente al fatto che Emergency, attraverso la sua rete di ospedali e centri di primo soccorso, fornisce assistenza a chiunque ne abbia bisogno, includendo dunque combattenti talebani, comportamento che ha generato la diffidenza del governo di Kabul, portando ad accuse più o meno esplicite di fiancheggiare la resistenza talebana. Non sembra a questo punto così inverosimile la lettura dei fatti che vedrebbe il governo Karzai, i cui due pilastri fondamentali sono l’appoggio incondizionato di Washington e una vasta rete clientelare, tentare di estromettere l’ONG italiana per poter controllare senza condizionamenti il rapporto con la guerriglia. Sono noti, infatti, i tentativi di apertura di Karzai verso i Talebani, tentativi mirati però più ad un accordo di power-sharing che a un dialogo più ampio sul futuro dell’Afghanistan; all’interno di questa linea d’azione, peraltro appoggiata più o meno apertamente dalla NATO e da Washington, l’azione umanitaria di Emergency risulta senza dubbio un elemento di disturbo, sganciato dai giochi di potere tribali e clientelari di Karzai.

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IL SILENZIO DI ROMA – In questo contesto può essere letta anche la manifestazione contro Emergency, tempestivamente organizzata davanti all’ospedale di Lashkar Gah all’indomani del raid, e a cui è stata garantita ampia copertura mediatica. In tutta la vicenda, però, desta stupore soprattutto il comportamento del governo italiano e della rete diplomatica della Farnesina. Non ci sono state richieste di chiarimento né al governo afghano né tantomeno ai comandi ISAF, solo un generale monitoraggio della situazione. Nonostante la reputazione di Emergency, guadagnata in quasi due decenni di lavoro in tutto il mondo, la Farnesina pare essersi allineata alle (confuse) posizioni della polizia afghana, col ministro Frattini che dichiara che “un eventuale coinvolgimento sarebbe una vergogna per l’Italia” o che le dichiarazioni di Gino Strada, fondatore dell’ONG, “sembrano dichiarazioni politiche, e non quelle di un medico che vuole salvare la vita alla gente”. L’atteggiamento rilassato, per usare un eufemismo, della Farnesina, è spiegabile in alcuni modi diversi: è possibile che a Roma fossero a conoscenza di tutti i dettagli della vicenda già in precedenza (il che costringe a rivedere la questione del coinvolgimento dell’ISAF e le dichiarazioni della Farnesina), oppure che stiano rispondendo a una direttiva proveniente dall’Afghanistan, che li spinge a non intervenire in maniera eccessivamente pesante in questa impasse, che si configura sempre più come una sorta di resa dei conti tra Kabul ed Emergency.

GLI SCENARI – La vicenda è ancora in pieno svolgimento e ben lungi da una conclusione chiara ed univoca, ed è quindi prematuro dare giudizi troppo netti. Il coinvolgimento del personale di Emergency, benché a prima vista inverosimile, potrebbe essere reale, come potrebbe trattarsi di una montatura per esautorare Emergency, minandone la reputazione di imparzialità e il ruolo di organizzazione al servizio della comunità. Ad ogni modo, è possibile delineare le principali fonti di incertezza in tutta questa strana vicenda: il coinvolgimento dell’ISAF, e quindi della NATO, resta un notevole punto interrogativo, e non solo per quanto riguarda gli affari interni afghani, ma anche, evidentemente, in relazione al ruolo svolto del governo e dai vertici militari italiani. Il rincorrersi di dichiarazioni e smentite riguardo presunte confessioni, accuse, coinvolgimenti e piani terroristici, non aiuta certamente a far luce su quanto sta avvenendo nella provincia di Helmand; sembra, però, che le azioni dei servizi di sicurezza afghani abbiano, fino ad ora, seguito un canovaccio prestabilito, ma al momento la situazione stia sfuggendo di mano a tutti. In ultimo, appare quantomeno strana la posizione adottata dalla diplomazia italiana, che pare aver accettato senza riserve la versione afghana secondo cui l’ospedale di Lashkar Gah ospitasse una cellula terroristica pronta a colpire. Rimane da stabilire se la posizione italiana sia dovuta a un malcelato fastidio nei confronti di Emergency, a una direttiva impartita dall’Afghanistan, o a una conoscenza dei fatti più approfondita di quanto le dichiarazioni vogliano far intendere.

Lorenzo Piras

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Scuola Latina – seconda parte

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La seconda parte del nostro viaggio all'interno della situazione educativa in America Latina. Le statistiche che riguardano il livello di istruzione sono in netto miglioramento, ma c'è ancora parecchio da fare. Lo sviluppo economico e sociale passa anche attraverso la scuola.

PROGRESSI ANCORA INSUFFICIENTI – Di certo l’educazione in America Latina ha fatto passi da gigante dal dopoguerra a oggi. Nel 2005, 69 milioni di studenti accedevano all’educazione di base (secondo le norme internazionali il ciclo fondamentale si compone di due livelli, basico e secondario), cioé il 95% della popolazione in età scolare. L’analfabetismo si é ridotto drasticamente anche se il 10% della popolazione totale del subcontinente ancora non sa né leggere né scrivere. Ciononostante molti problemi rimangono da risolvere. Alla fine dello scorso millennio solamente il 70% degli alunni accedeva al livello secondario. Tale percentuale deve ridursi della metá se si esamina l’accesso all’universitá o alla formazione tecnica. Considerando che sempre piú questi livelli educativi rappresentano un minimo indispensabile per consentire ad una persona di accedere ad un salario e condizioni di vita degne, si capisce quanta strada rimanga da percorrere. Le popolazioni che vivono nelle zone periferiche o rurali sono anche quelle che maggiormente soffrono di uno scarso accesso a educazione. A discapito della tendenza positiva sperimentata negli ultimi cinquant’anni, il numero di analfabeti nella regione é aumentato di 1,6 milioni dal 1995 ad oggi. Ció principalmente si annovera ad alcuni paesi come Guatemala e Nicaragua, e chiaramente Brasile che da solo conta con il 40% degli analfabeti della regione. Che tali annotazioni facciano riferimento a paesi ad alta percentuale indigena non ha nulla di sorprendente. Sono infatti le minoranze etniche ed i popoli originari, i raggruppamenti che in maggioranza occupano le zone rurali dove i sistemi educativi della regione ancora stentano ad arrivare o lo fanno con poche risorse o bassa qualitá.

In una valutazione della qualitá dell’educazione effettuata su scala mondiale dalla OCSE (Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo in Europa) nel 2003 si è constatato che tra il 34% ed il 63% degli alunni con minori risultati in prove standardizzate si trovavano in paesi a reddito basso o medio, fra cui Brasile e Messico. Una prova similare realizzata dall’UNESCO nel 2007 solamente nella regione latinoamericana ha rivelato disparitá importanti esistenti fra gli alunni di zone rurali ed urbane in favore di quest’ultime. Tali differenze, una volta di piú si devono alle disparitá di risorse economiche delle famiglie, ma anche l’etnia, le differenze linguistiche ed il sesso (i maschi sono favoriti rispetto alle femmine) giocano un ruolo. Generalmente peró, la localizzazione delle famiglie rimane una costante che influisce sull’accesso ed i risultati degli alunni. Alcune zone periferiche o marginali, come per esempio in Guatemala, possono addirittura presentare statistiche inferiori alle zone rurali. Inoltre, la possibilitá che i giovani abbandonino la scuola é maggiore in queste zone dove l’offerta educativa é spesso quasi inesistente o nulla.

Questo scenario rende l’azione di “Fé y Alégria” (oggi una rete di 1.603 centri e quasi 40.000 persone ) ancora piú pertinente e attuale. Non si tratta infatti solamente di raggiungere le localitá remote e colmare i vuoti che ancora esistono. Appoggiare lo sviluppo dell’educazione in tali zone viene al riscatto di culture popolari e tradizionali di cui é ricco il continente ma che corrono il serio rischio di sparire a causa delle poche risorse e l’emigrazione di massa verso le cittá.

 

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SPENDERE DI PIÚ E MEGLIO – Due fattori impediscono ai sistemi educativi latinoamericani di raggiungere progressi ancora piú significativi. L’ America Latina é la regione piú disuguale al mondo in termini di distribuzione del reddito, ben davanti all’Asia che la segue con 10 punti di distacco nell’indice GINI (un indicatore che misura le differenze nella distribuzione). Il 10% piú ricco possiede il 48% della ricchezza mentre il 10% piú povero solo gode del 1,5% di questa. Tale fenomeno é strettamente vincolato con il processo di privatizzazione, il secondo fattore che incide sulla qualitá dell’educazione, che investe l’América Latina in generale e che negli ultimi anni ha abbracciato i sistemi educativi. Ció rappresenta un problema, derivando sulle famiglie il peso (ed il costo dell’educazione) che prima era invece una sola prerogativa dello stato.

Per l’UNESCO e molte altre organizzazioni internazionali che difendono l’educazione come un bene pubblico ed un diritto (per cui dovrebbe essere esente da pagamenti) i governi del pianeta dovrebbero dedicare almeno il 6% del PIL all’educazione. Ciononostante in America Latina tale cifra non raggiunge in media il 4%. In paragone, i paesi della regione investono cinque volte meno in educazione che i paesi dell’OCSE. Ma quello che é piú preoccupante é il tasso d’efficienza di questi investimenti. Infatti, i sistemi educativi di Lituania e Macao-Cina, per esempio, dedicano approssimativamente le stesse risorse ma i risultati di questi nelle prove internazionali superano abbondantemente quelli dell’America Latina.

QUALI CONCLUSIONI? – É evidente che le sfide dell’educazione non sono finite per l’America Latina. Per tale ragione l’azione di Fé y Alegría che nel 1985 ha aggregato al suo nome il nuovo termine “Entre-kultura” con l’obbiettivo di meglio definire la propria missione, rimane piú che mai attuale. Oltre all’educazione scolarizzata l’organizzazione nata 55 anni fa in un quartiere di Caracas presenta oggi una struttura variata composta da strumenti di comunicazione, programmi di formazione per gli adulti, formazione professionale e progetti di sviluppo comunitario. Nonostante queste evoluzioni, la principale preoccupazione del fondatore per le popolazioni rurali, le comunitá indigene ed emarginate, ed i piú poveri del continente é peró rimasta intatta.

Gilles Cavaletto

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La guerra e’ anche sul web

Sono ormai anni che i vari social network (Facebook e Twitter su tutti) rappresentano uno dei principali motivi di utilizzo della rete internet. Si possono postare foto, messaggi si può chiacchierare con gli amici e si può anche accedere a moltissimi giochi on-line. Ma secondo il movimento di resistenza islamico palestinese di Hamas sono molte altre le possibilità di utilizzo di Facebook e Twitter specialmente quando a farne uso è il Mossad israeliano.

ACCETTI L’AMICIZIA? – Tutto nasce da un articolo della BBC la quale, riprendendo fonti locali, apre con un titolo ad effetto: “Israele adopera Facebook per reclutare collaboratori a Gaza”. A lanciare l’allarme è il portavoce del ministero dell’interno Ehab al-Hussein. Secondo il politico palestinese, il Mossad raccoglierebbe informazioni sulla vita di migliaia di suoi concittadini per poi ricattarli qualora rifiutassero di divenire spie al soldo dei servizi segreti israeliani. Già nel 2009 il quotidiano siriano Tishrin aveva molto provocatoriamente affermato che proprio Facebook fosse uno dei principali canali di reclutamento della CIA e del Mossad. Per quanto possa far sorridere l’idea di agenti segreti del Mossad che passino ore su Facebook a richiedere amicizie a possibili terroristi o futuri collaboratori, l’allarme è stato preso in seria considerazione dagli uomini di Hamas. Soprattutto dopo i fatti di Dubai, il movimento islamico ha recentemente rafforzato le maglie interne della propria sicurezza annunciando la pena di morte per quanti collaborino con Tel Aviv. Anche perché la tattica israeliana di minacciare i palestinesi in cambio di collaborazione è tutt’altro che sconosciuta alle cronache locali.

Molti esperti di intelligence non credono comunque che il Mossad possa utilizzare una strategia così prevedibile e superficiale, mentre altri provano a fornire un’altra chiave di lettura. Paradossalmente ancora più semplice. Secondo Ronan Bergman, l’intelligence israeliana utilizzerebbe direttamente l’immensa quantità di informazioni pubblicate su internet dai gaziani setacciando fra le stesse possibili dettagli utili per le indagini. Del resto pensare che il livello di tecnologia israeliano permetta solo ed esclusivamente di spiare i palestinesi attraverso i social network è decisamente impensabile.

 

NUOVA INTIFADA “VIRTUALE”? – Ma alcune settimane fa, il più popolare social network in circolazione era stato teatro di un altro scontro, sempre virtuale, fra palestinesi ed israeliani. The First Facebook Intifada. Così era stato denominato il gruppo che richiamava i musulmani nel mondo ad un “risveglio elettronico” per salvare la Moschea Al-Aqsa ed i luoghi sacri dell’Islam. Del resto nel 2009 anche lo Shin Bet, servizio di sicurezza interno dello stato israeliano, aveva avvisato i propri cittadini dei rischi derivanti da un incauto utilizzo di Facebook. Secondo Tel Aviv, il social network sarebbe infatti utilizzato dagli estremisti islamici come strumento per reclutare spie. Corsi e ricorsi storici direbbe qualcuno.

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NON SOLO FACEBOOK – Non è comunque solo Facebook il virtuale campo di battaglia dove Israele ed Hamas si fronteggiano e le parole del capo dell’intelligence israeliana Amo Yadlin non lasciano spazio a molte interpretazioni. In un intervista rilasciata agli inizi di aprile alla rivista Aviaton Week, Yadlin ha dichiarato che “lo sfruttamento del cyberspazio è di fondamentale importanza poiché questo racchiude in sé tutti gli elementi della dimensione militare: raccolta di informazioni, difesa e offesa”.

 

Del resto nel web è già da tempo in corso una vera e propria guerra propagandistica fra le parti: video, immagini e soprattutto blog che raccontano ognuno la propria versione dei fatti attaccandosi vicendevolmente senza risparmio. Anche internet appare come una nuova frontiera della guerra fra palestinesi ed israeliani, un nuovo luogo di scontro dove dare vita ad un intifada elettronica che comunque ha almeno il vantaggio di non procurare vittime. Almeno per ora.

Marco Di Donato

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Katyn ancora tragica. Polonia decapitata

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Un incidente aereo ha provocato una strage senza precedenti ai vertici di un Paese europeo. Muoiono il Presidente polacco, alcuni ministri, il Capo di Stato Maggiore e il Presidente della Banca Centrale. Erano in volo per commemorare la strage di Katyn.

E’ accaduto stamattina, nei pressi dell’aeroporto di Smolensk, nella Russia occidentale. E’ precipitato il Tupolev-154 che avrebbe dovuto portare il presidente Lech Kaczynski (nella foto in basso) e la folta delegazione polacca, all’appuntamento diplomatico di commemorazione – a Katyn – per rendere omaggio alle vittime dell'eccidio di 22mila ufficiali e soldati polacchi durante la Seconda Guerra Mondiale, ad opera dei militari sovietici. Quei 22 mila ufficiali erano la classe dirigente polacca che fu dunque sterminata, perché al tempo i giovani rampolli dell’aristocrazia polacca venivano tutti introdotti alla carriera militare. L’ironia macabra della storia, che mezzo secolo dopo vede una nuova decapitazione dell’elite polacca proprio nel sessantesimo anno dall’eccidio e la morte dei familiari degli ufficiali sterminati, anch’essi sull’aereo.

Nel volo erano presenti –oltre al presidente polacco – numerosi membri dell’esecutivo, il presidente della Banca Centrale polacca, Slawomir Skrzypek, il capo di stato maggiore dell'esercito polacco, l'ex presidente Ryszard Kaczorowski, alcuni deputati, il vice-ministro degli esteri, il candidato conservatore alle prossime presidenziali, persino il vescovo cappellano dell'esercito. L’alta dirigenza polacca è insomma decapitata. Sembrerebbe un incidente: la fitta nebbia avrebbe indotto un errore umano e l’aereo avrebbe urtato le cime di alcuni alberi prima di schiantarsi al suolo. Ciononostante il presidente russo, Dimitri Medvedev, ha immediatamente avviato una commissione d’inchiesta per accertare le cause dell’incidente e fugare ogni possibile dubbio.

Ricordiamo che i rapporti tra Polonia e Federazione Russa erano in ripresa e la commemorazione delle vittime di Katyn ne era la dimostrazione. Per la prima volta in Russia, si era parlato apertamente dei crimini commessi dall’Armata Rossa e la scorsa settimana – dopo molto tempo dall’uscita – era stato trasmesso alla televisione russa il film sulla strage, che non dispensa certo i russi dalle loro responsabilità; e si sa quanto non sia semplice per l’orgoglio russo, accettare tante atrocità ad opera dei figli della madre patria. Successivamente Putin e il suo omologo polacco Tusk avevano commemorato l’evento e nelle parole del premier russo, “polacchi e russi erano stati egualmente vittime dei crimini di Stalin”. A margine dell’incontro i due leader avevano annunciato il raggiungimento di un accordo sulla fornitura di gas fino al 2037. Insomma, un’armonia ritrovata che i due Paesi sperano possa sopravvivere alla terribile tragedia che ha trasformato il 10 Aprile in un nuovo giorno di lutto nazionale, per lo sfortunato popolo polacco.

Fabio Mineo (anche per Lo Spazio della Politica)

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Nuovi equilibri in Eurasia

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La rivolta nella repubblica del Kirghizistan rappresenta un ulteriore tassello nel cangiante scenario dei confini meridionali del vecchio impero sovietico. Trattasi di episodio isolato? O della continuazione di un braccio di ferro tra Mosca e Washington per il controllo delle ex repubbliche socialiste?

CAOS – Ieri in mattinata, Vladimir Putin si è affrettato a dichiarare che la Federazione Russa non ha nulla a che fare con gli eventi rivoluzionari che si stanno verificando in queste ore nella ex repubblica sovietica del Kirghizistan e che avrebbero causato – stando alle ultime notizie – all’incirca una settantina di morti e 400 feriti all’interno del paese. La situazione è ancora caotica: continuano a verificarsi scontri, il presidente Kurmanbek Bakiyev, dopo aver lasciato la capitale Bishkek, sarebbe “ospite” nella città sud-occidentale di Osh, comunque controllata dalle forze di opposizione.

LA TRANSIZIONE – La leader dell'opposizione, nonché ex ministro degli Esteri, Rosa Otunbaieva, è stata nominata a capo del governo transitorio. La Otumbaieva ha dichiarato sciolto il parlamento precedentemente in carica e ha detto di voler negoziare le dimissioni di Bakiyev, assicurando nel contempo il rispetto degli accordi internazionali precedentemente sottoscritti e dunque che la base militare statunitense di Manas non sarà chiusa, ma forse affittata ad un canone più alto. Fino a ieri tuttavia un portavoce del Dipartimento di Stato aveva dichiarato che gli Usa consideravano il vecchio governo ancora al potere, specificando che non erano ancora sufficienti elementi a sostegno della tesi che riconoscerebbe un nuovo governo formato dall’opposizione. Intanto, nella mattinata di oggi, Otumbaieva ha parlato al telefono con il primo ministro russo Valdimir Putin ed è notizia di poche ore fa, la disponibilità della Russia a fornire sostegno “umanitario” alla ex-repubblica sovietica.

LA BASE USA DI MANAS – Alcuni analisti – fra questi Reginald Dale del Center for Strategic and International Studies – hanno recentemente ipotizzato che l'aumento dei dazi doganali per i prodotti petroliferi verso il Kirghizistan sarebbe stata una ritorsione di Mosca per il mancato "sfratto" delle forze Usa dalla base di Manas da parte di Bakiyev. E sarebbe stato proprio l’aumento dei dazi e conseguentemente della benzina, la scintilla che avrebbe innescato la ribellione in atto. E’ per questo che si era rapidamente diffuso il sospetto di una manovra architettata da Mosca per recuperare la sfera d’influenza perduta nella vecchia repubblica socialista ed è anche per questo che la crisi kirghiza sarà oggetto anche al centro dei colloqui tra i presidenti di Stati Uniti e Russia, Barack Obama e Dmitri Medvedev, riuniti oggi a Praga per la sigla del nuovo accordo sulla riduzione delle armi nucleari. Del resto, non era la prima volta che la dirigenza russa ricorreva agli aumenti del gas per mettere in difficoltà i governi “ostili” sorti nelle repubbliche vicine; ad esempio era accaduto qualcosa di molto simile in Georgia dopo l’avvento al potere di Saakashvili.

QUALI COLORI ORA? – Certamente, questi avvenimenti certificano la fine dell’era delle “rivoluzioni colorate” ed il fallimento dell’idea di una certa classe dirigente americana per cui gli Stati Uniti, unica superpotenza rimasta, avrebbero dovuto estendere la loro influenza nelle aree di precedente competenza sovietica, isolando e circondando la Federazione Russa. Va completandosi infatti il fallimento di quest’ondata “rivoluzionaria” nelle repubbliche ex-sovietiche, che se non ritornano direttamente sotto l’influenza del Cremlino, si pongono quantomeno in una posizione di equidistanza, maggiormente rispettosa della ritrovata potenza russa. Resiste per ora la Georgia; vedremo se la nuova politica estera di Obama, che sembra tesa a limitare l’influenza americana ad aree del mondo più circoscritte, porterà a nuovi profondi mutamenti geopolitici anche nel Caucaso, così come sta accadendo in altre propaggini del vecchio impero sovietico.

Fabio Mineo

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Disarmo? Andiamoci piano…

Una parola fin troppo abusata sulla stampa italiana, e da utilizzare con cautela. Il grande impatto mediatico del Trattato Start 2 sulla riduzione delle testate nucleari non corrisponde a cambiamenti radicali nella sostanza. E la questione del sistema di difesa antimissile americano è un nodo fondamentale da sciogliere per rendere effettivo l’accordo

FORMA E SOSTANZA – In molti parlano di disarmo nucleare, Obama ha definito il mondo un posto più sicuro in cui vivere. Il nuovo Trattato Start2 firmato a Praga ieri è sicuramente un accordo storico, almeno nella forma. Serve a migliorare ulteriormente le relazioni tra Washington e Mosca in un momento in cui ci sono partite particolarmente delicate da giocare in ambito internazionale. Nella sostanza, però, sarebbe bene usare con cautela il termine disarmo. Passare da 2000 a 1550 testate nucleari non rappresenta un cambiamento epocale, per due motivi. In primis le testate che saranno smantellate fanno parte dell’arsenale strategico e non tattico, che rimane immutato nel numero. Sebbene siano meno potenti, le testate tattiche sono altrettanto letali. In secondo luogo la firma del Trattato consente ai due paesi di risparmiare non poco in spese militari, dettaglio che in tempi di crisi diventa fondamentale. Mediaticamente la firma ha quindi molta risonanza, dal punto di vista militare però non cambia fondamentalmente la sostanza delle cose. Politicamente rimangono ancora in sospeso dei punti importanti.

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SCUDO CHIAVE – Lo Start2, secondo quanto dichiarato nella nota unilaterale rilasciata dal Cremlino contemporaneamente alla firma, sarà effettivo nel caso in cui non si presenti la possibilità di sviluppo quantitativo e qualitativo di sistemi di difesa missilistica degli Stati Uniti. Questo è il nodo cruciale della questione, il punto che rischia di far deragliare le discussioni avute finora. Barack Obama ha precisato che lo scudo di difesa missilistica europeo non ha lo scopo di mutare l’equilibrio strategico con la Russia, quanto di combattere la potenziale minaccia rappresentata dagli altri paesi. Il presidente ha auspicato un dialogo serio con il Cremlino sulla questione, difficilmente però l’establishment russo digerirà il progetto statunitense lanciato da Bush e portato avanti, con qualche differenza, dall’attuale amministrazione Democratica. Storicamente la Russia ha sempre sofferto la paura di un possibile accerchiamento da parte dell’Occidente e non sembrano ancora essere maturi i tempi per il cambiamento di questa percezione. Obama ha detto di volere una ratifica del Trattato da parte del Senato entro la fine dell’anno, ma la nota rilasciata dal Cremlino definisce chiaramente quali sono, per Mosca, i termini della questione.

CONTRO LA PROLIFERAZIONE – Al momento, la sensazione è che entrambi i governi siano disposti a fare, almeno formalmente, un passo indietro, per lanciare un messaggio forte a quei paesi che tentano di destabilizzare un panorama internazionale già di per sé anarchico e caratterizzato da instabilità. Entrambi i governi cercano di evitare il rischio che si inneschi una corsa agli armamenti in Medio Oriente ed Asia orientale. Qualcuno ha definito la firma del Trattato come il momento di definitiva chiusura delle relazioni da “Guerra Fredda” tra i due paesi. In realtà sarebbe bene utilizzare maggiore cautela prima di lanciare proclami di tale portata. Nel caso in cui da parte statunitense permanesse la volontà di proseguire con il progetto di difesa missilistica europea potrebbero infatti riaccendersi fuochi di sfida coperti ora dalla cenere e dagli applausi che sono seguiti alla firma del Tratatto da parte dei due presidenti.

Simone Comi [email protected]