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Il ritorno delle camicie rosse

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Continuano le manifestazioni in Thailandia. Oggi le “camicie rosse” sono riuscite ad entrare nel cortile della società Thaicom per protestare contro l’oscuramento della rete televisiva “Canale del Popolo” ordinato dal governo in seguito alla proclamazione dello stato di emergenza.

I ROSSI CONTRO I GIALLI– Sono scesi in piazza ormai da quasi un mese le “camicie rosse”, i sostenitori dell’UDD (United Front of Democracy Against Dictatorship) e dell’ex Premier Thaskin Shinawatra deposto dai militari nel 2006. A riaccendere le proteste la decisione della Corte Suprema thailandese di confiscare il 60% dei beni della famiglia Thaskin, sostenendo che fossero stati ottenuti in seguito a decisioni illecite prese durante il suo governo. L’ex Primo Ministro era diventato popolare soprattutto grazie alle politiche sociali a favore della popolazione più povera e rurale, che costituisce la maggioranza dei cittadini thailandesi. Mentre da una parte ci sono i ceti medio-bassi, dall’altra i sostenitori dell’attuale Governo sono soprattutto membri della classe media urbana, dei militari, della corte e della vecchia classe politica. Nonostante le accuse di corruzione e di conflitto di interessi che colpirono Thaskin (nella foto qui sotto), il partito a lui vicino, il People Power Party (PPP), vinse le elezioni nuovamente nel 2007. La situazione si è poi ribaltata in seguito alle manifestazioni del movimento antigovernativo delle “camicie gialle” (People Alliance for Democracy, PAD) che cominciarono a maggio 2008 e si conclusero con la decisione della Corte Costituzionale di sciogliere il governo del PPP. In poche settimane Abhisit Vejjajiva, sostenuto dal PAD, riuscì a formare una coalizione e ad essere nominato primo ministro.

Il colpo di stato che ha deposto Thaskin nel 2006 non è mai stato accettato dalle “camicie rosse” che da quasi un mese occupano il cuore commerciale e turistico di Bangkok e minacciano di farlo fino a quando non otterranno le dimissioni dell’attuale Primo Ministro Vejjajiva e nuove elezioni.

 

GLI ULTIMI AVVENIMENTI – Le proteste sono cominciate a metà marzo con il lancio di sangue contro il palazzo del Governo, la sede del partito e la casa del premier Vejjajiva. La situazione si è aggravata alcuni giorni fa quando i manifestanti sono riusciti ad entrare in Parlamento, costringendo alla fuga parlamentari e ministri. All’irruzione delle “camicie rosse” il Governo ha risposto proclamando lo stato di emergenza nella capitale e in altre cinque province del paese. Nonostante i manifestanti si siano ritirati poco dopo, come richiesto dai leader per poter mantenere il carattere non violento delle proteste, lo stato di emergenza rimane: tra le misure che questo prevede, un aumento del potere dei militari nel controllo dei media, nella gestione della manifestazioni e una maggiore libertà nei metodi per disperdere gli assembramenti. Per far fronte alla situazione, inoltre, il Governo ha schierato altri 31mila poliziotti e 2mila soldati, portando a 80mila il contingente delle forze di sicurezza nella capitale.

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CENSURA? – A due giorni di distanza la situazione non si è calmata; oggi le “camice rosse” hanno preso di mira la sede della Thaicom, la società il “Canale del Popolo” (PVT), il loro canale televisivo di riferimento oscurato per ordine del governo. Nonostante il cordone di forze armate, i lacrimogeni e i getti d’acqua con cui questi ultimi cercavano di dissuaderli, i manifestanti sono riusciti a entrare nel cortile. I leader del UDD hanno dichiarato che l’occupazione continuerà fino a quando PVT verrà autorizzato nuovamente a trasmettere. Il Governo ha difeso la sua decisione di oscurare il canale dichiarando che quest’ultimo trasmetteva informazioni distorte sulle manifestazioni e sulle reazioni dei militari, mettendo in pericolo la sicurezza nazionale. Per le stesse ragioni, il governo è proceduto anche a bloccare l’accesso ad almeno 36 siti internet che trasmettevano in diretta le manifestazioni. Organizzazioni internazionali quali Reporter Senza Frontiere hanno già denunciato che tali manovre del Governo, oltre a limitare la libertà di informazioni e di espressione, rischiano di radicalizzare il movimento e di coinvolgere altri cittadini nelle manifestazioni. La crisi, quindi, non sembra destinata a risolversi nel breve periodo. L’attuale Primo Ministro, infatti, ha dichiarato di non voler organizzare nuove elezioni prima di nove mesi, condizione inaccettabile per le “camicie rosse”.

Valentina Origoni

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Dopo Obama, le Dame in Bianco?

La proposta di conferire il Nobel per la pace alle familiari dei dissidenti cubani fa discutere. Certo è che negli ultimi tempi le voci contrarie al regime di Castro si stanno levando. Cosa sta succedendo nell'isola caraibica? Intanto, il rapporto con gli Stati Uniti rimane problematico.

NOBEL IN ARRIVO? – Dopo Obama, il Nobel per la pace potrebbe passare di mano dall'altra parte del Mar dei Caraibi e sbarcare a Cuba. La proposta, cominciata a circolare con insistenza negli ultimi giorni, è infatti quella di conferire la prestigiosa onorificenza alle Dame in bianco, familiari di settantacinque prigionieri politici cubani, che da anni ormai manifestano contro il regime di Fidel Castro affinchè i propri cari vengano liberati e i diritti umani sull'isola siano rispettati. Proprio poche settimane fa le donne erano scese nuovamente per le strade dell'Avana in seguito alla morte di Orlando Zapata Tamayo, il dissidente politico morto in carcere lo scorso 23 febbraio dopo aver intrapreso uno sciopero della fame durato più di ottanta giorni.

UN'ALTRA STORIA DI DISSIDENZA – Oltre alle Dame in Bianco, negli ultimi giorni un'altra storia sta prendendo piede nelle cronache di tutto il mondo. Un altro cubano, Franklin Pelegrino del Toro, ha appena infatti interrotto uno sciopero della fame che si è protratto per più di quaranta giorni. Del Toro, membro del Partito Repubblicano Cubano, ha iniziato la propria personale manifestazione proprio in seguito alla morte di Zapata Tamayo. La decisione di interrompere il digiuno è stata dettata dalle pressioni di amici e familiari, che lo hanno convinto “a continuare a vivere per proseguire la lotta in favore dei diritti umani”.

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LA SITUAZIONE A CUBA – L'isola caraibica è davvero un inferno, come viene dipinta dai più acerrimi oppositori del comunismo, oppure è un paradiso terrestre, stando alle descrizioni dei sostenitori più fedeli di Fidel e Raúl Castro (nella foto a destra con l'ex presidente del'Honduras Zelaya e con quello venezuelano Chàvez)? Una cosa è indubbia: la situazione interna, soprattutto dal punto di vista economico, sta diventando sempre più difficile. Il regime castrista si è distinto in passato per aver saputo avviare un efficiente sistema di stato sociale, dotando l'isola di servizi sanitari e scolastici di buon livello per tutta la popolazione. Questo è stato possibile però fino a quando esisteva l'Unione Sovietica, che con generosi finanziamenti dettati ovviamente dalla eccezionale strategicità della posizione geografica di Cuba sostenne lo sviluppo e il consolidamento del socialismo nell'isola. Oggi, tuttavia, con l'embargo imposto dagli USA che non pare per il momento in via di rimozione, è sempre più difficile per il Governo offrire servizi sociali con un alto standard qualitativo, mentre la vita per i cittadini cubani è estremamente problematica e la gran parte delle transazioni commerciali avviene sul mercato nero. Il soffocamento di ogni tipo di opposizione e il mancato rispetto dei diritti umani, dunque, stanno diventando sempre più insopportabili da parte della popolazione, che si attenderebbe invece delle aperture da parte di Raúl Castro.

WASHINGTON PER ORA STA A GUARDARE – Se dall'interno arrivano piccole “scosse” che non sono per il momento in grado di scalfire il regime dell'Avana, dall'esterno ne potrebbe arrivare invece un'altra ben più forte. Il ruolo degli USA potrebbe infatti essere determinante per cambiare la situazione a Cuba, ma per il momento l'amministrazione Obama non ha preso provvedimenti in linea con le attese. Il presidente aveva infatti promesso in campagna elettorale che avrebbe cercato il dialogo con l'isola e che avrebbe chiuso il carcere di Guantánamo entro un anno dall'entrata in carica: tuttavia, l'unico risultati ottenuto finora è stato un allentamento delle restrizioni sugli esuli cubani che vivono negli Stati Uniti per quanto riguarda l'invio di rimesse ai propri familiari.

La posizione della Casa Bianca è del resto molto delicata. Da una parte, concedere troppe aperture a Castro presterebbe il fianco all'opposizione (repubblicana e non solo), che accuserebbe Obama di eccessiva debolezza. Dall'altra, un continuo irrigidimento potrebbe paradossalmente essere ancor più rischioso da un punto di vista strategico e geopolitico, dato che potenze già “note” nell'area come la Russia e altre emergenti come il Brasile si stanno affacciando nell'isola con i loro capitali pronti per effettuare investimenti. Gli USA rischiano di perdere terreno a Cuba così come nel resto dell'America Latina, lasciando vuoti di potere che potrebbero essere colmati da altri attori.

Davide Tentori

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Minaccia alla pace

Con queste parole il Premier turco Erdogan ha bollato lo Stato di Israele, durante la sua visita a Parigi. Parole che aprono una nuova falla nei rapporti Ankara – Tel Aviv

La Pace in Medio Oriente – E’ minacciata da Israele? Secondo il Primo Ministro turco Recep Tayyip Erdogan, decisamente sì. E così, invece di gettare acqua sul fuoco delle accese discussioni tra Israele e Turchia, Erdogan decide di rincarare la dose di accuse e di non placare le polemiche che impazzano sull’asse Ankara-Tel Aviv. Nell’affermare che Israele è la “minaccia maggiore per la pace in Medio Oriente”, Erdogan (nella foto in basso) ha ricordato “l’uso sproporzionato della forza nei confronti dei Palestinesi”, così come il ricorso alle bombe al fosforo bianco, di cui Israele avrebbe fatto uso durante l’operazione nella Striscia di Gaza tra il dicembre 2008 e il gennaio 2009, la cosiddetta “Piombo Fuso”. Si tratta di un attacco molto duro che fa seguito a una serie di crisi diplomatiche tra i due Paesi, iniziate con la durissima polemica tra lo stesso Erdogan e il Presidente israeliano Shimon Peres in occasione del Forum internazionale di Davos, lo scorso gennaio 2009, che vide al centro delle accuse turche proprio Piombo Fuso. Poi vi è stata l’esclusione di Israele da una esercitazione militare congiunta che si sarebbe dovuta tenere in Turchia, ma a cui all’ultimo momento Israele non è stata invitata. In contemporanea, per di più, la Turchia faceva la sua prima esercitazione militare congiunta della storia con la Siria, Paese ancora in formale stato di guerra con Israele. Ancora, vi è stata la cosiddetta “crisi della sedia”, nel momento in cui l’Ambasciatore turco a Tel Aviv, Oguz Celikkol, fu fatto sedere di proposito su una sedia molto più bassa di quella dei rappresentanti israeliani in occasione di un incontro pubblico. Nel linguaggio diplomatico, una vera e propria umiliazione.

Il quadro della regione – E infine, dunque, è arrivata la dichiarazione di ieri. A ribadire che la Turchia non ha ancora intenzione di essere un alleato israeliano senza condizioni, in un momento in cui Israele perde sempre più interlocutori nella regione e si trova isolata con quasi tutti i maggiori alleati, perfino con gli Stati Uniti, vista l’irritazione di Obama per le politiche unilaterali dell’attuale Primo Ministro israeliano Benjamin Netanyahu. Si parla soprattutto della politica di insediamenti nella West Bank e a Gerusalemme Est, così come del rifiuto di trattare proprio sulla questione dello status di Gerusalemme che, anzi, lo stesso Netanyahu ha ultimamente definito come la “capitale unica e indivisibile” dello Stato israeliano, seppur non riconosciuta tale da nessun attore della comunità internazionale. Vi sono contenzioni aperti con la Siria, con cui Tel Aviv non riesce ad arrivare ad un accordo, e con il Libano che, con Hezbollah presente nel governo, è obiettivo delle minacce israeliane. La situazione resta calda, seppur con gradualità diverse, su almeno questi tre fronti: Palestina, Libano e Siria. E, in un siffatto clima, Tel Aviv sembra essere sempre più sola in Medio Oriente. Per non parlare dell’Iran.

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La Turchia e il suo peso – Quell’Iran su cui la collaborazione turca potrebbe essere una vera e propria chiave di volta. Se non fosse che Ankara, oltre che essere ai ferri corti con Tel Aviv, lo è anche con Washington, seppur in misura minore. Dal momento che la Turchia è attualmente uno dei 15 membri del Consiglio di Sicurezza dell’ONU, Ankara può giocare questa carta per far valere la sua posizione contraria alle sanzioni contro Teheran, con cui la Turchia ha buoni rapporti di natura economica e commerciale e dei quali non intende fare a meno. Che fare? La Turchia va avanti con la propria politica estera volta ad avvicinare tutti i vicini e a non creare dissidi con nessuno. In quest’ottica, non intende rompere il dialogo con l’Unione Europea, né intende seriamente mettere in discussione le relazioni con USA e Israele. Allo stesso tempo, però, manda segnali ben chiari: Ankara è autonoma nella definizione dei propri interessi strategici, vuole dialogare anche con i Paesi invisi all’Occidente, come l’Iran e in parte la Russia, ma proprio per questo vuole essere considerata un attore di primo piano, che può mediare con tutti. Da qui la volontà di mediare tra l’Iran e l’Occidente, così come tra la Siria e Israele. Le accuse di Erdogan allo Stato israeliano vanno lette sotto quest’ottica: la Turchia c’è e collabora, ma Israele non può proseguire le politiche unilaterali in Medio Oriente, altrimenti Ankara si distacca. E perdendo Ankara, Israele perderebbe un ottimo punto di riferimento nell’area.

Stefano Torelli

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New Start a Praga

Arrivano anche le firme: è ormai ufficiale l'accordo Start 2 tra Usa e Russia sulla riduzione delle testate nucleari. Un messaggio forte anche contro gli attuali tentativi di proliferazione nucleare, nonostante alcune questioni tra le parti (vedi scudo antimissile) siano ancora da affrontare

di Fabio Mineo (www.lospaziodellapolitica.com)

IL CAMMINO – Dopo la tanto proclamata riforma del sistema sanitario americano, si profila un altro importante successo per Barack Obama, quarto presidente americano (terzo in carica) ad esser stato insignito del premio Nobel per la pace.  Si firma oggi a Praga il nuovo trattato START (Strategic Arms Reduction Treaty) tra Stati Uniti e Federazione Russa per la riduzione degli arsenali atomici.

Ginevra, 29 Giugno del 1982: con la presentazione della proposta del presidente americano Ronald Reagan, inizia la storia dello START, trattato bilaterale tra Stati Uniti e Unione Sovietica per la riduzione e limitazione delle armi strategiche offensive, firmato a Mosca il 31 Luglio 1991 dai Presidenti George Bush e Michail Gorbacëv; una storia certamente travagliata, intrecciata con le vicende complicate di un mondo che repentinamente ed improvvisamente vedeva crollare il sistema dei due blocchi. L’entrata in vigore di START I, il 5 Dicembre 1994, fu comunque un passo fondamentale nella storia del mondo: nella sua revisione finale – nel tardo 2001 – si rivelò come il più vasto e il più complesso trattato di controllo sulle armi atomiche mai approvato, comportando l’eliminazione dell’80% delle armi nucleari in circolazione.

DOTTRINA OBAMA – Il 5 Dicembre 2009, portando con sè la naturale scadenza del patto, ha riportato in auge i colloqui tra le due ex-superpotenze, anche alla luce dei nuovi pericoli derivanti dalla proliferazione atomica, primo fra tutti – almeno nell’agenda Usa – il nucleare iraniano. Un patto con la Russia diventa così un passo fondamentale non solo dal punto di vista storico, ma anche per le conseguenze che questo può avere sugli attuali fragili equilibri all’interno dell’anarchica comunità internazionale. La “dottrina Obama” sarebbe dunque quella dell’atomica solo ad uso difensivo, pur senza ben chiarire il confine tra difesa e attacco preventivo; mostrare al mondo la visione di un futuro meno atomico, lasciando però agli americani la garanzia di sicurezza derivante da armamenti nucleari e convenzionali tutt’ora ineguagliabili per le altre nazioni; impegnarsi per la pace, mantenendo inalterata la pressione su Iran e altri stati ritenuti pericolosi.

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LE RIDUZIONI – Obama definisce il nuovo START, il ‘più vasto accordo di regolamentazione degli armamenti per almeno le ultime due decadi’. Nelle parole del ministro degli esteri russo, Sergei Lavrov, il nuovo trattato ‘riflette un nuovo livello di fiducia tra Mosca e Washington’ e  ‘apre una nuova pagina nelle relazioni tra le due maggiori potenze nucleari del mondo’. Effettivamente, l’accordo mostra convergenza su alcune delle questioni più importanti, riducendo – secondo le indiscrezioni – a 800 il numero di vettori e a 1550 quello delle testate entro sette anni. Inoltre si sarebbe risolta con un compromesso la questione spinosa dei controlli, attraverso la riduzione delle missioni permanenti con l’esclusione di diversi siti, tra i quali quello segretissimo di Votkinsk, nella Russia centrale.

 

RIMARREBBE QUELLO SCUDO… – Non è però tutto oro quel che luccica, e non tutte le diffidenze sono state superate. Ad esempio, Mosca teme i nuovi armamenti offensivi convenzionali che Washington starebbe sviluppando e che, pur senza testata nucleare, avrebbero – per gittata e precisione – efficacia eguale all’arma atomica. Dalle indiscrezioni si apprende inoltre che in una dichiarazione unilaterale al trattato, il Cremlino prevede l’uscita dall’accordo nel caso in cui il potenziale della difesa antimissilistica Usa raggiungerà ‘la soglia della minaccia degli interessi nazionali russi’. Il sottosegretario Clinton si è subito affrettata a dichiarare che il nuovo accordo ‘non tratta di difesa missilistica’ dunque scudo anti-missile e ‘new START’ non sarebbero in nessun modo legati. La stessa Clinton ha poi proseguito sottolineando come anche su questi temi piuttosto controversi, sarebbero in corso dei negoziati. Insomma l’accordo è di portata storica e pur con qualche difficoltà continua quel lento e travagliato percorso di dismissione dei retaggi della guerra fredda.

Intervista a Fabio Cavalera

L'intervista al giornalista del Corriere della Sera Fabio Cavalera, autore del libro "Repubblica (Im)popolare Cinese"

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Scuola Latina – prima parte

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Lo sviluppo economico e sociale passa anche e soprattutto per l’istruzione. Ecco dunque un interessante viaggio all’interno della situazione educativa in America Latina: luci, ombre, e il racconto di un modello come quello di “Fé y Alegria” (Fede e Allegria), probabilmente il movimento educativo “popolare” più importante della regione.

I 55 ANNI DI FE’ Y ALEGRIA – La Dichiarazione dei Diritti dell’Uomo, adottata nel 1948 dalle Nazioni Uniti, include l’educazione fra i suoi principi fondamentali. Ciononostante, piú che i governi -all’epoca occupati maggiormente a riprendersi dalle ferite della guerra- sono state alcune organizzazioni della societá civile a contribuire a fare di questo principio una realtá. In America Latina, una di queste é senza dubbio “Fé y Alégria” (nella foto sotto il simbolo). Nata in Venezuela nel 1955 con l’obiettivo di portare educazione alle popolazioni piú povere ed emarginate del continente questa si é poi rapidamente sviluppata fino a toccare altri 16 paesi. Lo scorso marzo questo movimento che oggi interessa oltre sette milioni di giovani e adulti  e che rappresenta un simbolo dell’emancipazione dalla povertá ha celebrato i suoi 55 anni d’esistenza.

UN PROGETTO EDUCATIVO REGIONALE – Dove inizia una tale impresa? Il progetto nasce  nel 1954 dall’idea di un prete di origine cilena, José María Vélaz, di creare una rete di scuole campestri in un’area rurale (Barinas) del Venezuela, dove risiedeva dopo aver trascorso diversi anni in vari paesi latinoamericani e d’Europa. Il progetto, inizialmente rifiutato dai suoi superiori, diventa una realtá un anno piú tardi quando Vélaz, nelle vesti di Rettore dell’Università Cattolica “Andrés Bello” di Caracas, fonda il "Movimiento Internacional de Educación Popular Integral y Promoción Social Fe y Alegría".  Seppur mantenendo una forte componente religiosa, l’iniziativa manterrá sempre una altrettanto importante componente laica basata sui principi dell’educazione come un diritto ed una necessitá per rendere l’uomo libero.

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Vélaz puó essere considerato un precursore della Teologia della Liberazione, un influente movimento di origine cristiana che applicava i principi della fede cattolica alle rivendicazioni dei piú emarginati, e che in ambito educativo ispiró le idee di pensatori come il brasiliano Paulo Freire -probabilmente il piú importante pedagogo e teorico dell’educazione vissuto in America Latina -che poco tempo dopo, nel 1967 quando pubblicó il suo prima libro “Educazione come pratica di libertá”, marcó una svolta nell’organizzazione dei sistemi educativi del continente. All’epoca, questa regione era fra le meno sviluppate del mondo (oggi emerge al terzo posto dopo America del Nord e Europa). Vélaz e Freire condividono infatti gli aspetti essenziali dell’educazione che deve portare alla liberazione dell’uomo e contribuire alla sociétá . Per entrambi questa dev’essere “integrale”, cioé interessare la persona in tutte le sue dimensioni, oltre che popolare. Con quest’ultimo termine Vélaz (come Freire) intende che deve essere allo stesso tempo adatta al contesto culturale ed includere gli aspetti relativi all’origine della persona, del popolo e delle sue tradizioni. Questo messaggio é innovativo per la cultura predominante dell’epoca, ancora marcata dalla colonizzazione. Ma senza dubbio rappresenta anche un riflesso dei tempi nei quali la impronta culturale europea in America usciva ridimensionata dal fallimento della guerra.

A differenza di Freire, nonostante l’influenza di quest’ultimo sul pensamento latinoamericano, l’azione di Vélaz é comunque piú concreta. Quando nel 1964 Fé y Alégria contava in Venezuela 10.000 alunni, Vélaz passó a fondarla in Ecuador, poi l’anno successivo a Panamá (1965),  in Perú e Bolivia (1966). Successivamente l’iniziativa crebbe in America Centrale, Colombia, El Salvador, Nicaragua e Guatemala fino ad abbracciare tutti i paesi iberoamericani, ed oltre, l’ultimo di questi essendo Haiti, nel 2006. L’idea di base del progetto é di rendere l’educazione accessibile a chiunque. Questa peró, per essere liberatrice -ovvero trasformare l’allievo nel soggetto del proprio sviluppo- dev’essere di qualitá. Altre organizzazioni si uniscono nel tempo alla chiamata di Fé e Alegría per democratizzare l’accesso ad una istruzione di questo tipo quando la scuola, o l’educazione formale, non é sufficiente o assente.  Ciononostante, tutto ció puó sembrare disconnesso dalla realtá dell’evoluzione dei sistemi educativi attuali. Oggi, per com’é concepita l’istruzione, oltre a mantenere la funzione essenziale di trasmettitrice di conoscenza, questa dev’essere piú che mai legata all’ottenimento di titoli e certificazioni. Ció rappresenta la porta d’accesso alla societá ed una concezione che avrebbe fatto diminuire l’importanza che l’educazione popolare si era ritagliata fin ora. Sebbene ció sia vero, soprattutto in America Latina dove sono poche le istituzioni, specie d’educazione superiore, che rilascino certificati universalmente riconosciuti, la pertinenza dell’azione di Fé e Alegría rimane assolutamente attuale.

Gilles Cavaletto

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La voce di Hamas

La recente ripresa degli scontri attorno a Gaza sembra preludere a un nuovo conflitto su larga scala nella Striscia. Tuttavia Hamas sa che non potrebbe resistere a un altro scontro diretto se Israele decidesse di invadere. Dunque perché rischiare?

 

IL RISCHIO DELL’OBLIO – I recenti avvenimenti e polemiche internazionali riguardo a Gerusalemme Est hanno cancellato dai media la situazione esistente a Gaza. Improvvisamente Hamas si è trovata non solo isolata, ma addirittura ignorata: il suo obiettivo primario è dunque diventato quello di riguadagnare visibilità. Finché l’attenzione internazionale rimane infatti puntata sulla West Bank (e quindi sul dialogo unico con l’ANP) il pericolo per il movimento estremista è che la difficile situazione della Striscia venga considerata marginale o addirittura ininfluente per la soluzione della questione palestinese. La creazione di un reale stato palestinese in Cisgiordania infatti renderebbe la scelta di resistenza armata di Hamas un’ideale perdente in quanto incapace di ottenere risultati analoghi. Tuttavia quale voce possiede ora Hamas per far valere la propria posizione?

 

QUALI APPOGGI? – Il supporto iraniano è più materiale che politico e difficilmente può garantire popolarità considerata la generale ostilità araba verso Teheran. La Siria rimane un appoggio importante, eppure anche Assad sta iniziando a sperimentare i vantaggi di migliori rapporti diplomatici con l’Occidente. Se bloccare l’appoggio al movimento di Khaled Meshal rappresenta il miglior modo per recuperare il Golan, è prevedibile che il Presidente siriano non esiti ad abbandonare Gaza al suo destino. La “Giornata della Rabbia”, un tentativo di cavalcare le recenti questioni a Gerusalemme per infiammare le proteste nell’intera West Bank e possibilmente scatenare una nuova Intifada, si è dimostrato di effetto ridotto e insufficiente. Perfino il dialogo riguardo al rilascio di Gilad Shalit appare senza progressi e caduto sotto silenzio, tanto da averne vanificato il passato effetto mediatico. Non sorprende dunque che l’obiettivo dell’attacco del 26 marzo scorso fossero altri soldati, forse proprio nel tentativo di rapirne altri. L’unico modo per Hamas per farsi sentire rimane infatti alzare il livello dello scontro. Ecco dunque il motivo più plausibile dietro i nuovi attentati e lanci di razzi, nella speranza che forniscano nuova visibilità.

 

In questo sono paradossalmente aiutati dal governo israeliano, che si trova di fatto prigioniero delle proprie stesse dichiarazioni passate. E’ infatti necessario ricordare come durante il governo Olmert, prima dell’operazione Cast Lead, Netanyahu abbia spesso criticato l’esecutivo per la mancanza di reazione di fronte agli attacchi provenienti dalla Striscia. Pertanto, nonostante la scarsa popolarità internazionale suggerisca ora misure meno estreme, il governo di Gerusalemme si trova obbligato ad azioni militari palesi per non perdere la faccia davanti al proprio elettorato. Ne seguono dunque i raid aerei di questi giorni.

 

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CAST LEAD 2? – Si avrà una nuova Cast Lead? Il vicepremier Silvan Shalom lo minaccia nel caso il lancio di razzi non cessi, ma è necessario capire come la decisione di attaccare o meno dipenda da molti fattori che, al momento, non portano ancora a tale situazione.

 

Militarmente la reazione israeliana è stata molto ridotta: i quattro tank e due bulldozer entrati nella Striscia una settimana fa non possono certo essere considerati una forza consistente: il loro obiettivo era la demolizione di una singola postazione di difesa. Analogamente i recenti raid aerei non costituiscono una campagna di bombardamento ma sono più un mezzo per placare la propria opinione pubblica. In aggiunta gli avvisi rivolti alla popolazione palestinese di evacuare i bersagli sono l’indice del timore di procurarsi un nuovo rapporto Goldstone e la condanna dell’ONU, cosa che avverrebbe ancora più facilmente in caso di invasione (nell’immagine a destra il simbolo della brigata Golani, una delle unità militari israeliani più presenti intorno alla Striscia).

 

E’ importante capire che per effettuare un’operazione militare complessa è necessario prima definire bene gli obiettivi. Che risultato si vuole conseguire? Quando l’operazione può essere definita un successo e dunque terminata? Quali rischi esistono che rendono diplomaticamente inutili gli eventuali successi sul campo? A Gerusalemme ci si sta probabilmente chiedendo se e cosa si potrebbe ottenere in più rispetto a Cast Lead.

 

Lorenzo Nannetti

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Il Cremlino bacchetta

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Non in molti se ne saranno accorti, ma in questi giorni sulle pagine del quotidiano “la Repubblica” si è svolta una piccola guerra diplomatica. Protagonisti del battibecco a mezzo stampa, confinato nelle pagine delle lettere dei lettori del giornale, sono l’addetto stampa dell’ambasciata russa e il corrispondente da Mosca di “Repubblica”, Sandro Viola.

La pietra dello scandalo è stato l’articolo realizzato dal giornalista italiano sui recenti attentati di Mosca, il cui taglio non è stato molto gradito dalla diplomazia russa. Così l’addetto stampa dell’ambasciata Alexander Paklin ha imbracciato carta e penna e scritto una lettera al vetriolo indirizzata al giornalista e alla testata su cui scrive. Paklin non si è certo risparmiato nell’esprimere l’irritazione dei rappresentanti di Mosca, con espressioni come “l’impressione è che l’autore si rallegra di cosa è accaduto contro il ‘regime autoritario’ in Russia” e domande provocatorie quali: “nella sua ostilità verso la Russia ha cominciato a simpatizzare per i commandos del terrorismo internazionale?” A queste accuse grossolane Viola ha chiaramente risposto negando qualsiasi simpatia per i terroristi.

La difficoltà con cui l’establishment russo accetta le critiche al suo operato sono arcinote (specie se provengono dai media occidentali), tuttavia un altro rimprovero del funzionario russo colpisce, almeno in parte, nel segno: “Peccato che nella giornata del lutto a Mosca il vostro giornale abbia offerto a Sandro Viola lo spazio per i suoi scopi diffamatori”. Sorvolando sugli “scopi diffamatori”, il modo in cui è stata presentata la notizia degli attentati nella metropolitana poteva suscitare a ragione una certa irritazione da parte degli ambienti legati alla leadership politica, ma più in generale urtare la sensibilità dei russi in un giorno di lutto. E’ sembrato infatti alquanto fuori luogo e pretestuoso, il continuo riferimento al “regime” di Putin come responsabile di quanto è successo, per la mancanza dei controlli e la mancata pacificazione delle aree di guerriglia del nord Caucaso. Intendiamoci non che si voglia qui negare che il comportamento di Mosca e dei suoi alleati regionali abbia avuto un’influenza sul precipitare delle regioni caucasiche della Federazione nel caos della guerra civile e del terrore fondamentalista. Viola sembra però “dimenticare” che ci sono anche influenze regionali non indifferenti che determinano l’instabilità delle turbolente regioni periferiche russe, motivazioni etniche, culturali, religiose, criminali. Insistere così tanto unilateralmente su questo versante russo delle responsabilità nel giorno in cui due persone si fanno saltare in aria uccidendo indiscriminatamente 39 ignari passeggeri della metrò della capitale russa è sembrato, ripeto, fuori luogo. Altrettanto fuori luogo è sembrato affidare il commento a Eduard Limonov, noto oppositore politico del governo attuale, fondatore del Partito Nazional-Bolscevico, scrittore dallo stile “molto pulp”, che ha rincarato la dose di accuse alle istituzioni della Federazione. Una figura controversa e sfuggente quella di Limonov, le cui critiche al governo del duo Putin-Medvedev, stante il suo diretto impegno politico, possono sembrare interessate. Tutto ciò offre il destro alle critiche dello zelante addetto stampa che può così sostenere la prevenzione del giornalista nei confronti del governo russo e addirittura della Russia in generale.

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Questa vicenda conferma ulteriormente il difficile rapporto tra le opinione pubbliche occidentali e la Russia. Un rapporto che procede su due binari paralleli e separati, senza un reale dialogo tra i due mondi, ma su reciproche recriminazioni: da un parte le istituzioni della Federazione Russa ostinatamente chiuse nella difesa degli interessi nazionali, refrattarie a qualsiasi critica, che bollano indistintamente come basata su un pregiudizio anti-russo; dall’altra le letture da parte occidentale, che troppo spesso si appiattiscono nel racconto della Russia moderna sulla critica alla leadership politica del Cremino. In mezzo si trova lo stato più grande del mondo per estensione con i suoi 140 milioni di abitanti.      

Jacopo Marazia [email protected] 

Il primo evento del Caffe’

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Video del primo incontro pubblico organizzato dal "Caffè Geopolitico" incentrato sulla Cina con la presenza di Fabio Cavalera, giornalista del Corriere della Sera, ex corrispondente da Pechino, autore del libro "Repubblica impopolare cinese". L'incontro-dibattito tenuto presso la sede della Scuola di Formazione Permanente di Lingua e Cultura Cinese a Milano, è stato introdotto da Francesco Boggio Ferraris docente della scuola.

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Lo spot del Caffè

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Lo spot del "Caffè Geopolitico": per chi ha bisogno di un buon caffè che lo aiuti a "digerire" in maniera semplice e agile tutte le notizie che arrivano (o non arrivano) dal mondo. 

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Settimana dal 29 marzo al 2 aprile

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Ascoltate il podcast della trasmissione "Il Caffè Geopolitico"!

Ecco la diciassettesima puntata:

– Nuove energie in Sudamerica

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Vinca il migliore

Tra pochi giorni la campagna elettorale brasiliana prenderà ufficialmente inizio, in seguito alle dimissioni dei principali candidati, Dilma Rousseff e José Serra, dai rispettivi incarichi istituzionali. Riuscirà Lula a “sponsorizzare” adeguatamente la candidata alla sua successione?

SI COMINCIA – Mancano ancora parecchi mesi ad ottobre, però l'interesse è già forte. Stiamo parlando delle elezioni presidenziali brasiliane, che tra sei mesi decreteranno il successore di Luis Inácio “Lula” da Silva, che dopo due mandati consecutivi non può più ripresentarsi, nel rispetto dei dettami della costituzione. Il voto in Brasile è senz'ombra di dubbio l'evento politico più importante del 2010 per il Sudamerica e potrebbe avere una valenza cruciale anche per i prossimi anni, dal momento che molti analisti sostengono che il decennio appena iniziato apparterrà (anche) al colosso latino, protagonista di una crescita economica tra le più interessanti a livello globale.

I CANDIDATI – Due sono gli sfidanti principali. Per la coalizione di centrosinistra, guidata dal Partito dei Lavoratori (PT), la candidata è Dilma Rousseff, ministro della Casa Civil dal passato controverso in quanto intraprese la strada della lotta armata durante gli anni della dittatura militare e trascorse anche tre anni (dal 1970 al 1972) in carcere. Economista, è stata anche ministro dell'Energia ed è considerata la responsabile del PAC (Programma di Accelerazione della Crescita), un vasto piano strutturale varato dal governo di Lula nel 2007 per stimolare lo sviluppo economico del Paese. È stato proprio Lula a designarla come sua potenziale “erede” alla guida del Brasile.

Dall'altra parte, invece, il centrodestra schiera José Serra (foto a destra)del Partito Socialdemocratico (PSDB). Nemmeno per quest'ultimo si può dire che si tratti di una “faccia nuova” (quest'anno compie 68 anni), dal momento che già nel 2002 si candidò alle presidenziali venendo sconfitto proprio da Lula. Attualmente è governatore dello Stato di San Paolo, motore principale del miracolo economico brasiliano.

Vi sono poi due candidati “minori”: si tratta di Ciro Gomes del Partito Socialista Brasiliano (PSB) e di Marina Silva del Partito dei Verdi, entrambi appartenenti al panorama politico della sinistra.

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LE PROSPETTIVE – La campagna elettorale sta per prendere ufficialmente il via. La Rousseff e Serra hanno appena abbandonato i loro rispettivi incarichi istituzionali e anche se quest'ultimo non ha ancora ufficializzato la propria candidatura non ha risparmiato nei giorni scorsi alcune frecciate alla sua rivale e all'autorevole “sponsor”, ovvero il presidente in carica Lula. Secondo l'esponente socialdemocratico, infatti, il governo attuale si sarebbe servito delle istituzioni per creare un sistema di potere a vantaggio esclusivo del PT, mentre il PSDB si muoverebbe in ottica dell'interesse generale della nazione. Se da una parte è vero che alcuni scandali di corruzione e appropriazione indebita di risorse pubbliche legati al partito di Lula hanno tenuto banco negli ultimi mesi, è però altrettanto innegabile come l'esecutivo in “congedo” tra pochi mesi abbia ottenuto enormi successi in campo economico. Proprio sullo sviluppo continua a puntare Lula, che nei giorni scorsi ha lanciato il cosiddetto “PAC 2”, ovvero la seconda parte del programma accelerato di crescita che prevederebbe investimenti pubblici e privati per 959 miliardi di reais (534 miliardi di dollari US) nel prossimo quadriennio, per continuare con ulteriori 632 miliardi di reais dopo il 2014. Il piano consterebbe essenzialmente di ulteriori tagli fiscali e di realizzazioni di importanti opere infrastrutturali. L'opposizione ha subito accusato il governo di fare mera propaganda politica, dal momento che il piano non è ancora stato approvato dal Congresso e, al giorno d'oggi, non è possibile sapere chi sarà alla guida del Brasile a partire dal 2011: quindi, in caso di sconfitta della Rousseff, il nuovo esecutivo non sarà vincolato ad implementare il PAC 2.

Attualmente i sondaggi danno ancora in vantaggio netto Serra, che può vantare il 36% delle preferenze contro il 27% della Rousseff. L'arma in più in mano a quest'ultima è però proprio l'appoggio di Lula, la cui approvazione popolare ha raggiunto il 76%: dunque, l'esposizione in prima persona del presidente in questi mesi ha favorito la candidata del PT, che ha già guadagnato molti punti percentuali di gradimento. Lo scenario più probabile è dunque quello di un esito che sarà tanto più incerto quanto ci si avvicinerà alle elezioni. Chiunque dovesse vincere sarà comunque vincolato a rimanere nel solco già tracciato: stimolare la crescita attraverso una diversificazione delle attività produttive e soprattutto, per i prossimi anni, un forte impulso delle opere infrastrutturali, in previsione dei Mondiali di calcio del 2014 e delle Olimpiadi del 2016.

Davide Tentori

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