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Golpe perfetto?

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Si è ufficialmente insediato a Tegucigalpa il nuovo Presidente Porfirio Lobo. È l’epilogo del golpe orchestrato da Roberto Micheletti? Di sicuro, chi si trova a governare ora l’Honduras non si trova in una posizione invidiabile

L’EPILOGO? – È entrato ufficialmente in carica il nuovo Presidente dell’Honduras. Porfirio Lobo, eletto durante le elezioni di fine novembre, ha preso in consegna il Paese da Roberto Micheletti, salito al potere a Tegucigalpa dopo che nel giugno scorso il Presidente legittimo Manuel Zelaya era stato rovesciato da un sollevamento militare. L’epilogo della storia ha visto dunque, nell’ordine: Porfirio Lobo, che era stato scofitto da Zelaya nelle elezioni del 2005, essere proclamato nuovo Presidente Costituzionale; Zelaya lasciare il paese alla volta delle Repubblica Dominicana dopo 4 mesi di reclusione nell’ambasciata brasiliana di Tegucigalpa; il generale Romeo Vásquez, nel frattempo nominato Capo di Stato Maggiore, dichiarato dai giudici “non perseguibile” per aver diretto il golpe; e infine lui, Micheletti, nominato dal Congreso Nacional “deputato a vita” e beneficiato da una amnistía politica. 

PATATA BOLLENTE – Certo è che chi si trova a governare in questo momento l’Honduras non si trova in una posizione propriamente invidiabile, sia dal punto di vista politico che economico. Lobo è chiamato a governare per il momento senza riconoscimento internazionale: nonostante i suoi tentativi di ingraziarsi la comunità internazionale, solo tre presidenti hanno assistito alla sua cerimonia di insediamento, quelli di Panama, Taiwan e Repubblica Dominicana. In compenso però, sul palco d’onore sedeva Reinaldo Rueda, Commissario Tecnico della Nazionale che ha conquistato la sua seconda, storica, qualificazione a un Mondiale. Difficilmente le soddisfazione calcistiche basteranno per risollevare la situazione economica della repubblica centroamericana. L’Honduras è il secondo paese più povero delle Americhe dopo Haiti. Occupa la posizione n. 115 nella lista dei paesi per Indice di Sviluppo Umano 2007 dell’ONU e attualmente è schiacciato da un debito pubblico che lo stesso Lobo ha definito “ingestibile” nel suo discorso di insediamento. Infatti, il prossimo 2 febbraio scadrà il termine di pagamento di un pacchetto di buoni del tesoro, piazzati nel sistema finanziario interno, di 2600 milioni di lempiras, pari a 98 milioni di euro. Il Governo uscente ha lasciato un saldo positivo, tuttavia pari solamente a un miliardo di lempiras, del tutto insufficienti a pagare il debito pubblico. Sono cifre basse per i nostri standard, ma importanti per un Paese di dimensioni così piccole e dall’economia così fragile, il cui PIL dipende in larga parte dalle rimesse inviate dagli emigranti. Nel suo primo discorso da presidente, Pepe Lobo ha sottolineato la necessità di una riconciliazione nazionale e della normalizzazione dei rapporti con la comunità internazionale.  Ha inoltre elencato quali saranno i capisaldi della sua presidenza: salute ed educazione; e lotta alla povertà, alla corruzione e alla criminalità.

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IL PROBLEMA DEL RICONOSCIMENTO – Resta da sciogliere il nodo del riconoscimento del suo governo da parte della comunità internazionale, la quale, fin dai primi giorni successivi al golpe ha espresso, almeno a parole, la sua netta condanna, minacciando di non riconoscere la legittimità di un governo scaturito da elezioni organizzate da un governo de facto. Il tema verrà trattato nel prossimo Summit del Gruppo di Rio previsto per il 21 febbraio a Cancún, Messico. Tutto lascia presagire che, in tempi e modi da stabilire, il Governo Lobo sarà ufficialmente riconosciuto e le relazioni diplomatiche con l’Honduras ristabilite. Faranno probabilmente eccezione, almeno in un primo momento, i Paesi dell’ALBA, ma non c’è ragione di pensare che l’isolamento internazionale dell’Honduras duri ancora a lungo. Il caso diplomatico dell’Honduras ha dimostrato tuttavia la mancanza, al giorno d’oggi, di un disegno politico preciso dell’amministrazione attuale statunitense nei confronti dell’America Latina: l’intervento poco riuscito di Thomas Shannon ha provocato una battuta d’arresto con un partner importante come il Brasile. Non sarà di certo un Paese dallo scarso peso internazionale come l’Honduras a mettere in crisi le relazioni emisferiche, ma l’episodio può essere usato come cartina di tornasole per verificare la mancanza di una precisa politica per le Americhe da parte dell’amministrazione Obama.

Vincenzo Placco – Davide Tentori

Si muove Washington

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Dopo mesi di attesa silenziosa, gli Usa "scendono in campo" in Honduras con una iniziativa diplomatica concreta in vista delle elezioni previste per la fine di novembre e risolvere una crisi che sta giungendo alle battute finali. Forse

ECCO GLI USA – Ad un mese dalle elezioni, Washington ha deciso incrementare i suoi sforzi nella soluzione della crisi politica hondureña e ha inviato una delegazione diplomatica a Tegucigalpa per trovare un accordo in vista delle elezioni del prossimo 29 novembre. Il sottosegretario per gli affari emisferici Thomas Shannon si è riunito con entrambi i contendenti alla presidenza dell’Honduras ripartendo dall’Accordo di San Josè che nel giugno scorso era stato proposto da Óscar Arias, presidente del Costarica. L’obiettivo dichiarato della negoziazione americana era arrivare ad un punto di incontro che permetta il libero svolgimento delle elezioni, in un paese segnato da profonda conflittualità, da serrate ai mezzi di comunicazione contrari all’opinione golpista e coi militari per le strade che da oltre un mese assediano e presidiano l’ ambasciata brasiliana in cui si è rifugiato Zelaya.  Ed ecco la soluzione. Nelle ultime ore è stato trovato un accordo tra le delegazioni di Zelaya e di Micheletti perchè il Congresso hondureño si pronunci sul ritorno al potere del primo e perchè le elezioni programmate per il 29 novembre ricevano legittimazione internazionale. Il primo punto dell'accordo accoglie la richiesta di Zelaya: in caso di voto positivo del Parlamento, tutti gli atti dell'Esecutivo presi dopo il 28 giugno 2009 (data del "golpe") saranno cancellati e il presidente legittimo tornerà in carica fino alla scadenza naturale del mandato (gennaio). Il secondo punto fa parte invece delle richieste di Micheletti, in quanto l'esito delle elezioni, che si potrebbero svolgere sotto un Governo "golpista", avrebbe potuto essere disconosciuto dalla comunità internazionale. Tuttavia non è stato fissato un termine entro cui il Congresso si pronunci e ciò si potrebbe inserire nella tattica dilatoria di Micheletti.  

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POPOLO SOVRANO? – Così teoricamente la palla dovrebbe tornare al volere del popolo, l’appiglio a cui si attaccava Zelaya per legittimare la sua presidenza e che serviva a Micheletti per dimostrare che non era un senatore ribelle. Tuttavia, come ampiamente denunciato da vari organismi di tutela dei diritti umani, mancano le condizioni per svolgere libere elezioni, che possano essere approvate della comunità internazionale. Solo nelle ultime settimane sono state represse manifestazioni, chiuse televisioni e radio ed è stato mantenuto in vigore il coprifuoco durante la notte.   

VINCITORI E VINTI – La repentina discesa in campo degli USA rappresenta nell'immediato un successo diplomatico da parte dell'amministrazione Obama. Dall'altro lato, la decisione presa rappresenta un forte smacco per il Venezuela, che non è riuscito a imporre la propria linea.  Quale sarà la posizione del presidente brasiliano Lula e degli altri premier dei paesi latinoamericani che non riconoscono il governo golpista di fronte a elezioni svolte in questo clima? Rischieranno di legittimarle in caso di vittoria della fazione di Zelaya o non riconosceranno la legittimità di qualunque presidente esca dalle urne? Di certo tutti i leader sudamericani gradiscono poco l’intervento statunitense. Per ora il Brasile, permettendo l’entrata nella capitale di Zelaya, aveva dettato la strada dell’accordo; nonostante ciò nemmeno l’intervento di Lula ha risolto la situazione d’impasse. La crisi, dunque, potrebbe ancora non essere risolta del tutto. Bisognerà infatti attendere il voto del Congresso e come questo si pronuncerà. Se Micheletti dovesse cercare di prendere ancora tempo, è probabile che la fazione di Zelaya sia ancora disposta a "dare battaglia". 

Andrea Cerami – Davide Tentori 30 ottobre 2009 [email protected]

Bye bye G-8

Il successo del G-20 di Pittsburgh decreta la fine del vecchio ordine internazionale e prende atto dei nuovi rapporti di forza globali. Il consenso raggiunto nell’ambito economico è però oscurato dallo stallo sui temi ambientali

MISURE CONDIVISE – Si può affermare che il vertice G-20 svoltosi ieri a Pittsburgh sia stato un successo? Per certi aspetti – quelli economici – la risposta può essere affermativa. In effetti, le riunioni delle venti principali potenze dei cinque continenti traggono la loro ragion d’essere proprio nella volontà di elaborare risposte condivise alla crisi economica globale; e qualche risposta concreta, una volta tanto, sembra esserci stata. Innanzitutto, gli Stati si sono accordati per continuare con le misure intraprese nel precedente summit di Londra e per contrastare, a livello delle singole nazioni, la disoccupazione con politiche che siano in grado di garantire la ripresa della domanda interna. Inoltre, a livello finanziario c’è la volontà di combattere la speculazione delegando al Financial Stability Board (organo presieduto da Mario Draghi, governatore di Bankitalia), mentre alle banche sono stati affidati due compiti: nel breve periodo quello di garantire l’accesso al credito per gli investitori, nel lungo la necessità di effettuare delle ricapitalizzazioni per avere una base più solida. Si è tentato di porre un freno anche ai bonus miliardari dei manager di banche e società finanziarie: gli “extra” saranno soggetti al raggiungimento di obiettivi di breve periodo. Last but not least, si è trovato anche un accordo per la revisione delle quote di partecipazione che regolano il meccanismo del Fondo Monetario Internazionale e della Banca Mondiale: ai Paesi in via di sviluppo saranno riservate rispettivamente una quota del 5% e del 3% in più, incidendo sul potere decisionale di tali Stati. L’unico settore nel quale non ci sono stati avanzamenti significativi è stato quello dell’ambiente, per il quale si è deciso di rimandare ogni (eventuale) decisione ad una prossima riunione ad hoc che si svolgerà a dicembre a Copenhagen.

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OTTO PIU’ DODICI – Il fattore principale che risulta da questo vertice è però la presa d’atto che vige un nuovo ordine mondiale, basato non più sui rapporti tra poche potenze occidentali ma su un mutamento decisivo dei rapporti di forza, sia politica che economica, che non si può più ignorare. Paesi come Cina, India e Brasile sono vere potenze regionali e aspirano a giocare un ruolo fondamentale anche nelle grandi questioni globali. Per questo il G-20 sarà istituzionalizzato e si riunirà ad intervalli regolari, due volte all’anno a partire dal 2010. Il G-8, che appare inevitabilmente superato, non andrà in soffitta ma rimarrà come forum di discussione prevalentemente politica, mentre al G-20 sarà data priorità economica. Un cambiamento che forse non porterà a risultati concreti nell’immediato (la traduzione negli ordinamenti nazionali di ogni membro delle politiche decise sarà tutta da verificare), ma che è indice di un profondo cambiamento nella gestione degli affari globali. E chissà che la cooptazione di dodici potenze nel consesso di “quelli che contano” non sia anche il preludio di una riforma dell’ONU. La sessione annuale ordinaria delle Nazioni Unite è passata quasi inosservata, oscurata dalla riunione di Pittsburgh: per l’ONU si sta avvicinando il momento decisivo nel quale o si riformerà per sopravvivere e contare veramente qualcosa, oppure potrebbe essere destinato ad un declino irreversibile. 

Davide Tentori 26 settembre 2009 [email protected]

Israele Latina

Il viaggio del ministro degli Esteri Lieberman in Sudamerica ha l’intento principale di ridurre l’influenza dell’Iran nella regione. Il Brasile può agire da principale interlocutore

DOPO 22 ANNI – Era dagli anni Ottanta che un ministro degli Esteri israeliano non visitava il Sudamerica. Come mai allora, se le relazioni tra Gerusalemme e le nazioni latine sono trascurabili, l’ultra conservatore Avigdor Lieberman sta compiendo una “tournée” di dieci giorni nei principali Paesi della regione? La motivazione principale è quella di contrastare l’influenza dell’Iran sugli Stati latini. Negli ultimi anni, infatti, l’ascesa al potere di governi tendenti a sinistra ha fatto sì che le relazioni con Teheran si sviluppassero, anche se in realtà la comunanza di idee va ricercata non tanto nella prossimità ideologica, quanto nella condivisa avversione verso gli Stati Uniti. Un esempio su tutti è fornito dal Venezuela: tra Hugo Chàvez e il leader persiano Mahmud Armadi-Nejad è nata una vera e propria amicizia che ha nella lotta al “Grande Satana” statunitense la sua principale ragion d’essere. La presenza dell’Iran nella regione, per la verità, non è quantitativamente importante dal punto di vista economico o politico. Tuttavia, alcuni campanelli d’allarme sono suonati negli ultimi mesi: cellule di Hezbollah (il partito libanese di matrice fondamentalista che riceve finanziamenti dall’Iran) dovrebbero essere presenti nella regione, soprattutto tra Venezuela e Colombia e al confine tra Brasile, Paraguay e Argentina. Inoltre, si sono succedute con insistenza voci secondo le quali la Bolivia di Evo Morales avrebbe concesso, con la complicità di Caracas, forniture di uranio (il Paese andino è tra i maggiori produttori mondiali) all’Iran, con la possibilità di proseguire i programmi nucleari.

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BRASILE AGO DELLA BILANCIA? – La prima tappa del viaggio di Lieberman è stata in Brasile, dove ha incontrato il presidente Lula e il ministro degli Esteri Celso Amorim. Lieberman ha chiesto a Lula di agire come mediatore presso l’Iran, in virtù dei buoni rapporti che intercorrono tra i due Paesi, affinché vengano accantonate le ambizioni nucleari. Il ministro israeliano è invece in questi giorni in Argentina: un’altra scelta non casuale, dal momento che lì vive una delle più importanti comunità ebraiche di tutta l’America Latina. Sarebbe azzardato attendersi grandi sviluppi dal viaggio di Lieberman, ma l’evento non va sottovalutato per alcuni motivi. La necessità di mantenere la sicurezza regionale, infatti, potrebbe dare la spinta per una intensificazione dei rapporti con il Brasile, che può temere la presenza di cellule terroristiche e l’esistenza di traffici illegali come una minaccia alla propria egemonia regionale. Brasilia potrebbe quindi ricevere aiuti preziosi in termini di intelligence da parte di Israele; quest’ultima avrebbe in cambio il supporto da un attore che sta acquisendo sempre più importanza a livello internazionale. 

Davide Tentori 24 luglio 2009 [email protected]

Affari d’Africa

Tra fondi sovrani per riciclare i proventi del petrolio e intese con colossi come Finmeccanica, cerchiamo di capire i piani di alcuni Stati africani per crescere e sviluppare le proprie economie

LIQUIDITA’ AFRICANA – Una delle novità più dibattute negli ultimi anni nello scenario politico internazionale sono i cosiddetti fondi sovrani, strumenti economici (con una forte valenza politica) che servono ai paesi che esportano petrolio (o che hanno una bilancia commerciale positiva, e le due categorie quasi sempre coincidono) per reinvestire la liquidità e le proprie riserve monetarie. La novità è che ora i fondi sovrani non sono più ad appannaggio dei paesi della penisola Arabica, della Cina o della Russia, ma anche alcuni paesi africani stanno iniziando ad utilizzare questo strumento per reinvestire le proprie riserve economiche. Ora dopo Botswana e Nigeria anche l’Angola, per bocca del ministro dell’Economia, Manuel Nunes Junior, ha appena annunciato che il paese varerà entro il 2009 un fondo sovrano per gli investimenti. L'Angola è un paese che conosce la stabilità politica da soli sette anni dopo trent’anni di conflitti interni e dal 2002 ha registrato dei tassi di crescita double-digit. Inoltre è uno dei maggiori produttori di petrolio al mondo: ciò ha permesso al governo di ottenere delle enormi linee di credito (in particolare da parte cinese mentre l’FMI negava i fondi)  e aprire moltissimi cantieri infrastrutturali. Ora il governo ha accumulato delle ampie risorse con i proventi del petrolio che permettono al paese di investire direttamente delle risorse per lo sviluppo della propria economia o per acquistare bond statali esteri, obbligazioni e azioni di società occidentali con prospettive di medio-lungo termine. Un salto qualitativo notevole per un paese che fino a pochi anni Tony Blair avrebbe definito una parte di quella ferita sulla coscienza per il mondo. Oggi l’obiettivo di Luanda è quello di smarcare l'economia dalla dipendenza da petrolio e materie prime, e l’obiettivo centrale del fondo sovrano è esattamente la diversificazione. Oltre a ciò un altro obiettivo è quello di dimostrare una notevole solidità economico-finanziaria del paese e di conseguenza suscitare maggiore fiducia negli investitori esteri, che è uno dei volani principali per lo sviluppo economico del paese. 

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FINMECCANICA LIBICA – Ma anche nell’Africa Sahariana si muovo investimenti sostanziali grazie a dei fondi sovrani: dopo aver acquisito una forte partecipazione in Unicredit ora la Libia, con il fondo Libya Africa Investment Portfolio (Lap) ha sottoscritto un memorandum di intesa con Finmeccanica che prevede la costituzione entro un anno di una joint venture partecipata al 50% da Finmeccanica e 50% da Lap. La joint venture sarà lo strumento principale per le iniziative congiunte di business e potrà effettuare investimenti per specifiche attività commerciali e industriali costituendo apposite società nei Paesi di interesse. Finmeccanica potrà usare la joint venture come partner preferenziale nelle iniziative da lei direttamente promosse e come cassa dove recuperare la liquidità necessaria agli investimenti più onerosi. Inoltre, utilizzando questa partnership le due parti potranno sviluppare nuove opportunità di business in particolare in aree geografiche strategiche per la futura crescita del gruppo, come Africa e Medio Oriente. La Libia invece avrà così, oltre alla possibilità di investire le proprie liquidità in uno dei maggiori colossi mondiali per solidità economica, anche l’accesso preferenziale ad un know-how tecnologico all’avanguardia in vari settori civili ma soprattutto nel settore militare.   Stefano Gardelli

Oltre la realpolitik

La visita di Berlusconi a Tripoli rischia di diventare un vero caso internazionale, nella misura in cui potrebbe togliere credibilità al governo di Roma. Ma ne vale davvero la pena?

I TEMI IN GIOCOImmigrazione (vale a dire popolarità interna e consenso dell’opinione pubblica, sempre più sensibile a questo tema); petrolio e gas (vale a dire sicurezza energetica in una congiuntura in cui tutta l’Europa si trova a dover dipendere sempre di più da fonti esterne per soddisfare il proprio fabbisogno e, inoltre, in un momento in cui gli stessi europei tentano di smarcarsi dalla dipendenza da Mosca); Unicredit ed Eni (vale  a dire un mare di investimenti e interessi economici troppo forti per poter sottostare alle regole della politica e del buon senso che pure ogni tanto sarebbe opportuno da parte dei governi in politica estera); ambizioni che portano a far sì che l’interesse nazionale e la politica estera siano confusi, a volte, con questioni di natura strettamente personale e che portano a pensare che il prestigio internazionale sia in qualche modo direttamente proporzionale al numero di “amicizie personali” che si possono annoverare tra i Capi di Stato esteri (vale a dire il modo di condurre la politica estera da parte dell’attuale Presidente del Consiglio italiano Silvio Berlusconi).

SILVIO A TRIPOLI – Sono questi i temi che sembrano muovere l’Italia nei rapporti con l’istrionico vicino della sponda meridionale del Mediterraneo, ovvero la Libia del Colonnello Gheddafi. Il 30 agosto Silvio Berlusconi, unico tra tutti i leader occidentali (in questo caso nell’Occidente può essere inclusa anche la Federazione Russa, il cui Capo di Stato Medvedev ha annullato all’ultimo momento la visita pur prevista a Tripoli in occasione dei quarant’anni di vita del regime di Gheddafi), si è recato in visita ufficiale nella capitale libica. Al centro dell’incontro vi sono stati l’anniversario del Trattato di Amicizia e Cooperazione tra Libia e Italia, con il quale quest’ultima si impegnava, nell’agosto 2008, a versare alla Libia 5 miliardi di euro come compensazione delle politiche coloniali della prima metà del ‘900, in forma di investimenti e costruzione di grandi opere infrastrutturali nel Paese nord-africano e, collegata a questo evento, la posa della prima pietra dell’autostrada costiera che, appunto, simboleggia il rinnovato interesse di Roma a volersi scusare con Tripoli per gli anni del colonialismo.

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FERMARE I CLANDESTINI – A ben guardare, come detto in apertura, gli interessi in gioco sembrano essere di tutt’altro tipo. L’Italia sembra essere quasi in balia del regime di Tripoli per quanto riguarda il continuo flusso di immigrati che, attraversato il deserto del Sahara, si imbarcano dai porti libici con destinazione Lampedusa: in questo caso Gheddafi sembra avere nelle proprie mani una vera e propria arma da rivolgere contro il vicino al di là del Mediterraneo, grazie alla propria capacità di bloccare (o meno) sul nascere, se ve ne fosse la volontà, questo fenomeno. Per Roma si tratta dunque di non inimicarsi troppo Tripoli e sperare che il Colonnello voglia contribuire a far sì che il flusso cessi. Ne va della popolarità del governo Berlusconi e dell’uso politico che ne può fare un partito di governo come la Lega Nord, che ha fatto della lotta all’immigrazione un  bandiera. Ma cosa vuole Gheddafi in cambio? Proprio quello che sta cercando di costruirsi (anche) con l’aiuto dell’Italia: legittimazione internazionale. Con le sue politiche ambigue, il Capo di Stato libico è riuscito dapprima a rientrare nel novero delle nazioni “amiche” dell’Occidente dopo anni di esclusione, ma adesso nuovamente sta compiendo dei passi in direzione opposta. Gli ultimi due sono stati, in ordine cronologico, l’accusa agli Stati Uniti di Obama di essere “terroristi come al-Qaeda” e l’accoglienza da eroe riservata al terrorista che fu responsabile dell’attentato di Lockerbie (270 vittime nel 1988), al-Megrahi, dopo la sua scarcerazione e il rimpatrio. In entrambi i casi Roma ha dato una sorta di legittimità alle azioni di Gheddafi: il discorso contro gli USA si è tenuto all’univeristà romana della Sapienza nel corso della visita ufficiale del Colonnello in Italia nel giugno scorso e, adesso, mentre USA, Francia, Gran Bretagna e Russia si dissociano dalla retorica provocatrice di Gheddafi nel caso al-Megrahi, Berlusconi è andato a Tripoli per onorare Gheddafi.

GLI AFFARI ITALIANI DI GHEDDAFI – Come già detto, oltre ad avere l’arma degli immigrati, Gheddafi ha quella delle risorse petrolifere e di gas: l’Italia ha bisogno, soprattutto  in prospettiva futura per il gas, dei rifornimenti di Tripoli che, a sua volta, ha assicurato all’Eni una sorta di partenariato speciale per i prossimi 30 anni. Inoltre la Libia è diventata la seconda azionista di Unicredit grazie ad un’operazione finanziaria portata a termine nell’ottobre del 2008, con la quale la Banca Centrale Libica, la Libyan Investment Authority e la Libyan Foreign Bank, hanno acquisito il 4,23% del gruppo bancario italiano, garantendo una notevole iniezione di liquidità nel nostro Paese. Infine, vi è da considerare il modo di condurre gli affari esteri da parte del Premier Berlusconi. Come nel caso dei rapporti con il Presidente russo Putin, il Presidente del Consiglio non sembra disdegnare l’ostentazione di rapporti amichevoli con i Capi di Stato esteri, anche nel caso di persone ambigue e controverse come il caso, appunto, di Gheddafi. Ciò rischia di mettere l’interesse nazionale italiano (sul quale sarebbero opportuni seri studi da parte degli esperti del settore, per arrivare ad una ridefinizione delle priorità di Roma in campo internazionale) in secondo piano, rispetto alla personalità forte e “acchiappa-tutto” di un Capo del Governo troppo preso dalle proprie ambizioni personali e, per di più, che ha creato un sistema in cui non vi possa essere una significativa opposizione interna alle proprie azioni. In questo modo, Berlusconi rischia di far diventare l’Italia un Paese troppo accomodante nei confronti di partner discutibili e, così facendo, di allontanare il Paese dai circoli sopranazionali che contano, in cui vi è bisogno di un’adeguata credibilità internazionalmente riconosciuta.  

Stefano Torelli

Quando il sud incontra il sud

Si è svolto in Venezuela il secondo vertice America del Sud – Africa allo scopo di lanciare la cooperazione tra i due continenti e di costituire un blocco più forte ed omogeneo. Preponderanti sono i ruoli di Chàvez e Gheddafi

AMAFRICA? – Alle nostre latitudini l’evento è passato del tutto inosservato, eppure sulla isola di Margarita, al largo delle coste venezuelane, si è svolto un importante summit internazionale che ha coinvolto parecchie decine di Stati. Si è trattato del secondo vertice America del Sud – Africa, che si è svolto domenica 27 settembre, appena dopo la sessione dell’Assemblea Generale ONU e il G-20 di Pittsburgh, e forse anche per questi motivi ha ricevuto poca copertura mediatica. L’incontro, però, c’è stato e ha prodotto anche un documento finale zeppo di articoli: 95 per la precisione. I rappresentanti delle nazioni dei due continenti hanno rilanciato la volontà reciproca di aumentare la cooperazione in vari fronti: dal commercio all’educazione, passando anche per l’impegno a fare pressione congiuntamente per riformare in senso estensivo il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite. Non è mancata anche un’idea originale del presidente venezuelano Hugo Chávez, che ha proposto di costituire due società multinazionali che pongano sotto controllo lo sfruttamento delle risorse naturali. Infine, è giunta la consueta dichiarazione politica di contrarietà all’embargo imposto dagli Stati Uniti a Cuba, e un’ulteriore dichiarazione per una risoluzione definitiva della questione delle Isole Falkland (o Malvinas), al largo dell’Argentina ma appartenenti alla Gran Bretagna.

I PROTAGONISTI – Due sono i personaggi che hanno dettato tempi e tematiche del vertice: per il Sudamerica Hugo Chávez, per l’Africa il colonnello Muhammar Gheddafi. Tra i due c’è da anni una sintonia che ha portato al reciproco riconoscimento come leader politici e morali della rinascita dei rispettivi continenti: il caudillo di Caracas vede nel dittatore libico il Simón Bolívar africano, mentre Gheddafi considera Chávez un esempio per tutti i popoli liberi e rivoluzionari. I due si sono anche riuniti privatamente al termine della riunione per un incontro bilaterale, che ha prodotto la stipulazione di otto accordi di cooperazione tra Venezuela e Libia. Meno importante è stato invece il ruolo del presidente brasiliano Lula, evidentemente poco fiducioso verso questo tipo di incontri.

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PROSPETTIVE – L’avvio di una vera cooperazione Sud-Sud, esistente non più solo a livello di teoria delle relazioni internazionali ma come la realizzazione concreta di rapporti di reciproco interscambio tra America del Sud e Africa, non può che essere considerato positivamente. L’Africa, infatti, è protagonista di una stagione di sviluppo che, seppur lentamente, sta cominciando a renderla un continente non più dato per “spacciato”, ma finalmente in grado di giocarsi le proprie possibilità di crescita. Una relazione più stretta con l’altra grande “esclusa” dal consesso delle relazioni internazionali potrebbe giovare a entrambe le regioni e portarle ad acquisire maggior peso politico, di pari passo con lo sviluppo economico. Tuttavia è lecito sollevare alcuni dubbi. Innanzitutto sull’efficacia di questi vertici, che rischiano di non portare a risultati davvero concreti. E poi perché potrebbero ridursi a cassa di risonanza della propaganda di dittatori come Chávez e Gheddafi, che potrebbero giocare la carta della multinazionale delle commodities come un tentativo per creare un nuovo “cartello” del petrolio: Venezuela e Libia sono infatti i principali produttori di idrocarburi delle rispettive regioni. Più pragmatici sembrano essere invece gli interessi del Brasile, che con Petrobras ha investimenti in Nigeria e Angola e non è interessato a trascinare i Paesi africani in una lotta politica contro le potenze occidentali.

Davide Tentori

L’Iran, Neda e la libertà

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La morte della giovane Neda negli scontri in Iran a seguito delle contestate elezioni, è stata ripresa online sotto forma della graphic novel che ha reso celebre il film Persepolis, un modo come un altro per raccontare le sofferenze e gli scontri del post-elezioni

  IL FILM – Persepolis non è soltanto un film sulla storia dell'Iran a partire dal 1978 sino agli anni novanta filtrato attraverso lo sguardo di una bambina e poi di una giovane donna, Marjane. E' soprattutto un film sulla libertà, e su come la mancanza di libertà possa incidere profondamente sulla vita di ogni singolo individuo intaccandone e modificandone irreparabilmente l'esistenza. Ambientato a Teheran, poi a Vienna, e dopo ancora Teheran, Persepolis è innanzitutto un film d'animazione, anche se guardandolo ci si dimentica quasi completamente di avere davanti agli occhi un cartone animato in bianco e nero. I suoi personaggi sono forse più vivi e reali di attori veri, ogni singola espressione ne rende la complessità e ne disegna il carattere. Centrali sono le figure femminili, non soltanto la protagonista ma anche, ad esempio, la figura della nonna, che non smette in tutto il film di dispensare consigli di vera e propria sopravvivenza nei confronti dei rapporti con l'altro sesso alla nipote. La nonna di Marjane e Marjane stessa, come anche sua madre, incarnano l'esempio di femminismo e rivendicazione dei propri diritti a dispetto della condizione femminile dettata dal regime iraniano che vuole la donna coperta dal velo, in nome di una morale religiosa imposta dall'autorità politica. La ribellione della piccola Marjane è incarnata dalla sua passione per le scarpe da ginnastica, le patite con il ketchup, e  la musica punk. La scelta di raccontare l'Iran attraverso gli occhi di una ragazza non appare causale, dato che è la donna a soffrire della condizione di maggiore vessazione e di privazioni della libertà in questo Paese 30 anni fa come oggi. Una libertà a cui però Marjane e la sua famiglia non vogliono rinunciare, ma questa lotta non è né indolore né scontata: la quotidianità è li ogni attimo a ricordare quanto sia difficile non avere paura del regime e mantenere la propria dignità in Università quanto al supermercato.

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  PREMIO A CANNES – Tratto dalla graphic novel di Marjane Satrapi, autrice di fumetti iraniana che attualmente vive a Parigi, Persepolis, vincitore del Premio della Giuria a Cannes 2007, è dotato della rara capacità di raccontare intricate e complesse vicende storiche dell'Iran – a partire dalla rivoluzione del 1979 che ha portato alla cacciata del regime oppressivo e connivente con l'Occidente dello Shah – attraverso lo sguardo della sua protagonista la cui vita viene indirettamente plasmata e travolta dalle vicende del suo Paese. La libertà forzatamente cercata all'estero (a Vienna) negli anni della guerra tra Iran e Iraq (tra il 1979 e il 1989), non è mai totale: Persepolis racconta la difficile condizione di esule impotente nei confronti della storia, che tutt'oggi la sua autrice condivide. Come affermato in un articolo comparso su Internazionale a metà luglio “per me l'Iran è casa mia, perchè anche se ho vissuto e vivo in Francia, e anche se dopo tanti anni mi sento in parte francese, per me la parola casa significa una cosa sola: Iran.”

Anna Longhini

Lemon Tree

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 Israeliani e Palestinesi: due popoli apparentemente inconciliabili. La storia di due donne, messa sullo schermo dal regista Eran Riklis, spiega la difficoltà di comunicare.

 Il conflitto israelo palestinese passa anche per un giardino di limoni. Soprattutto se sul confine con la Cisgiordania va ad abitare il Ministro della Difesa israeliano, Israel Navon, e se il giardino di Salma Zidane (interpretata dall'attrice Hiam Abbass) con i suoi alberi di limone da abbattere diventa una minaccia per la sicurezza nazionale in quanto potenziale covo di terroristi. Il film, una storia semplice, racconta di due mondi che sostanzialmente non si parlano se non attraverso i pochi sguardi, quelli di due donne, la moglie del ministro e la proprietaria del giardino. Il resto del dialogo avverrà in tribunale.  Una critica forte dell'autore alla questione mediorientale passa proprio sul piano dell'incomunicabilità quotidiana (resa anche dal fatto che nella versione originale gli ebrei parlano in ebraico e gli arabi parlano arabo) che contraddistingue le due fazioni in lotta. La solidarietà tra le due donne protagoniste, Salma e Mira, moglie del ministro, è percepita dallo spettatore, ma non si spinge mai davvero oltre questo livello.

 Il conflitto israelo palestinese passa anche per un giardino di limoni. Soprattutto se sul confine con la Cisgiordania va ad abitare il Ministro della Difesa israeliano, Israel Navon, e se il giardino di Salma Zidane (interpretata dall'attrice Hiam Abbass) con i suoi alberi di limone da abbattere diventa una minaccia per la sicurezza nazionale in quanto potenziale covo di terroristi. Il film, una storia semplice, racconta di due mondi che sostanzialmente non si parlano se non attraverso i pochi sguardi, quelli di due donne, la moglie del ministro e la proprietaria del giardino. Il resto del dialogo avverrà in tribunale.  Una critica forte dell'autore alla questione mediorientale passa proprio sul piano dell'incomunicabilità quotidiana (resa anche dal fatto che nella versione originale gli ebrei parlano in ebraico e gli arabi parlano arabo) che contraddistingue le due fazioni in lotta. La solidarietà tra le due donne protagoniste, Salma e Mira, moglie del ministro, è percepita dallo spettatore, ma non si spinge mai davvero oltre questo livello.

Anna Longhini

Arabi vs. Arabi

Non si placano gli scontri tra Egiziani ed Algerini a seguito dello spareggio infinito tra le rispettive nazionali di calcio per i Mondiali in Sudafrica. I retroscena di una battaglia. La geopolitica dietro al calcio. E Mubarak può esultare

IL CAFFE’ C’ERA – Purtroppo era tutto scritto, noi l’avevamo preannunciato soltanto una settimana fa dalle colonne del nostro Caffè. Ci dispiace fare il ruolo della Cassandra, quello di chi dice “io l’avevo detto”, a margine di eventi paventati che, poi, risultano accadere davvero. Eventi spiacevoli, si intende, irrazionali. In ogni caso, è quanto accaduto, e in parte sta ancora accadendo, nelle strade del Cairo, a seguito dell’incontro di calcio tra Egitto ed Algeria valido per le qualificazioni alle fasi finali dei Mondiali di calcio di Sudafrica 2010.

LA MADRE DI TUTTI GLI SPAREGGI  – In realtà, nel resoconto dato qualche giorno fa, alla vigilia dell’ultima partita del girone di qualificazione, un’eventualità non l’avevamo ricordata: quella che l’Egitto vincesse con due gol di scarto (ci eravamo limitati a dire che l’Egitto, per superare il girone e, quindi, l’Algeria in classifica, avrebbe dovuto vincere con almeno tre gol di scarto). In tale eventualità, dal momento che le due squadre sarebbero andate in una situazione di perfetta parità, sia dal punto di vista dei punti in classifica, che da quello della differenza reti, si sarebbe dovuto giocare uno spareggio finale, nella città di Khartoum (o meglio, nella sua “gemella” Omdurman, dall’altra parte del Nilo). E così è andata. La settimana scorsa vittoria dell’Egitto al terzo minuto di recupero ed entrambe le squadre in Sudan per lo spareggio di mercoledì scorso, quello che è stato definito “la madre di tutti gli spareggi”. Per la geopolitica del calcio, l’Egitto, la nazione africana e araba più popolosa, avendo molta più influenza politica della cugina Algeria, aveva ottenuto che si giocasse in Sudan, Paese sensibile al soft power egiziano, per entrare nel quale gli egiziani non hanno bisogno neanche del visto, a differenza degli algerini. Questi ultimi avrebbero voluto che si giocasse a Tunisi, ma la Federazione africana ha deciso per il Sudan, di fatto facendo un piacere al Cairo. Anche questo piccolo retroscena aveva fatto presagire una facile vittoria per l’Egitto, che giocava quasi in casa.

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CRISI DIPLOMATICA – La partita si è giocata e l’Algeria ha vinto, a sorpresa, 1-0. Algerini in Sudafrica ed Egiziani a guardare anche questo Mondiale, l’ennesimo (dal 1990 l’Egitto non partecipa ai Mondiali di calcio), dalle poltrone di casa al Cairo. E la guerriglia divampa nuovamente. Niente ha potuto fermare la rabbia dei tifosi, probabilmente in parte rabbia sociale repressa per tanto tempo e sfociata in questo modo. Prima era stata la volta della rabbia algerina, all’indomani della vittoria beffa del Cairo: ad Algeri la sede dell’Orascom (gigante delle telecomunicazioni egiziana) è stata presa d’assalto e i dipendenti egiziani dell’azienda sono stati rimpatriati per motivi di sicurezza, insieme ad altri 200 connazionali presenti in Algeria. Poi, dopo la vittoria definitiva di mercoledì scorso, è stata la volta della rabbia egiziana: per due giorni di seguito la folla inferocita ha marciato verso l’Ambasciata algerina al Cairo, provocando disordini e scontri con la polizia. Nel frattempo, l’Egitto ha addirittura richiamato il proprio Ambasciatore in Algeria Abdelkader Hajar ed il Presidente Mubarak ha dichiarato guerra a chi “tenta di umiliare gli Egiziani fuori dell’Egitto”. Ad Algeri, intanto, 18 persone sono morte per i “festeggiamenti” e, secondo agenzie di stampa locali, 145 persone hanno avuto un attacco cardiaco a seguito della vittoria della propria nazionale. Follia pura.

GEOPOLITICA, NON SOLO CALCIOE la geopolitica? C’entra eccome. L’Algeria è un Paese in cui è ancora presente una forte tendenza alla radicalizzazione ed in cui la presenza di “al-Qaeda nel Maghreb” (filiale di al-Qaeda nella regione Nord-africana) è molto forte. Ne sono testimonianza i molti attentati terroristici che, nel silenzio della stampa occidentale, continuano a colpire obiettivi governativi e di polizia nel Paese, causando decine di vittime. Un retaggio della guerra civile degli anni ’90, in cui i fondamentalisti islamici del Fronte Islamico di Salvezza (FIS) vinsero le elezioni ma non furono riconosciuti, facendo sì che si creasse una situazione di lotta intestina non dissimile da quella che vede testimoni oggi i Palestinesi, da quando Hamas non è stato riconosciuto dalla Comunità Internazionale come il legittimo vincitore delle ultime elezioni del 2006 ed ha scelto la via della lotta armata contro i fratelli di Fatah. Algeria ancora canalizzatrice di fondamentalismo islamico e, dall’altro lato, Egitto che viene accusato di appoggiare le politiche israeliane in Palestina. Il mix è micidiale. L’Egitto, insieme alla Giordania, è l’unico Paese arabo ad intrattenere rapporti diplomatici con Israele e, in un clima in cui la Palestina è assurta a battaglia madre e simbolo di tutti gli arabi e musulmani, è facile capire come gli animi possano scaldarsi. La geopolitica continua a farla da padrona: l’Algeria è la più grande produttrice ed esportatrice di gas naturale nell’area e l’Egitto comincia a fungere da competitore, nella misura in cui alimenta l’Arab Gas Pipeline, rete di distribuzione di gas naturale in Medio Oriente, e incrementa le infrastrutture dedite all’esportazione di GNL (Gas Naturale Liquefatto). E Mubarak, nel frattempo, gongola: i suoi concittadini sono distratti dal calcio e non pensano ai reali problemi sociali dell’Egitto. Ecco gli interessi reali, altro che panarabismo. Il panarabismo muore sotto le macerie di una partita di calcio e la competizione tra i “fratelli arabi” si fa sempre più forte. Benvenuto calcio, nel mondo della geopolitica.

Stefano Torelli

Terror football

Sabato le squadre di Egitto ed Algeria sono chiamate a contendersi un unico posto disponibile per i Mondiali di calcio del Sudafrica, previsti per la prossima estate. Una partita che nasconde attriti che vanno ben oltre il calcio e rischiano di creare tensioni diplomatiche

NON SOLO CALCIONon è una novità che il calcio diventi politica, come abbiamo già detto in precedenza a proposito dell’Argentina di Maratona (Cfr. Pallone e potere). Capita, in un mondo dove lo sport più popolare (e il più ricco) di tutti muove miliardi di euro; succede soprattutto in Paesi come quelli del continente africano e sudamericano, in cui spesso la gloria data da importanti risultati ottenuti sui campi calcistici, a fronte di situazioni politico-economiche critiche, può fungere da motivo di orgoglio e rivalsa nazionale. Se poi aggiungiamo a tutto ciò vecchie rivalità già esistenti tra nazioni vicine, il mix rischia di diventare pericoloso e micidiale, per quanto possa essere affascinante un incontro di calcio carico di motivazioni e il cui risultato è destinato a segnare, nel bene o nel male, la storia -calcistica, si intende- delle due squadre coinvolte.

L’EGITTO RISCHIA – E’ questo il caso dell’incontro valido per le qualificazioni ai prossimi Mondiali di calcio del Sudafrica 2010 (i primi della storia, tra l’altro, a tenersi nel continente nero) che vedrà opporsi Algeria ed Egitto sabato prossimo, il 14 novembre, allo stadio del Cairo. Vi sono tutte le caratteristiche affinchè la partita diventi un vero e proprio evento per ogni algerino ed egiziano. L’Egitto, vincitore negli ultimi due anni di seguito della Coppa d’Africa e vera rivelazione del calcio africano degli ultimi anni (insieme alla Costa d’Avorio ed al Ghana, dopo l’exploit di Camerun e Nigeria negli anni ’90), rischia seriamente di restare fuori dalla competizione sportiva probabilmente più importante del pianeta. Proprio a spese della squadra algerina. Nel Gruppo C delle qualificazioni africane, infatti, l’Algeria attualmente comanda la classifica con 13 punti, davanti all’Egitto con 10 punti. Nella partita di sabato prossimo al Cairo, l’Egitto dovrà vincere con tre gol di scarto per superare l’Algeria in classifica, altrimenti saranno proprio gli algerini a fare le valige per il Sudafrica, lasciando a casa ai blasonati vicini egiziani.

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  ALGERIA vs. EGITTO: GLI SCONTRI – In questo clima, la tensione sta salendo giorno dopo giorno e si temono degli scontri e dei disordini a margine dell’incontro di calcio. Sulla rete, da Facebook a Twitter a Youtube, spopolano video e commenti di Algerini ed Egiziani che si accusano reciprocamente e si promettono battaglie all’ultimo sangue. La retorica usata va ben oltre le motivazioni calcistiche ed entra a gamba tesa su questioni politiche e sociali. Sono lontani i tempi in cui, tra la seconda metà degli anni ’50 e la prima degli anni ’60, l’allora Presidente egiziano Nasser, leader indiscusso del nazionalismo arabo e della rivalsa dei popoli del terzo mondo, sosteneva economicamente e militarmente (oltre che ideologicamente, tramite la sua retorica della liberazione dei popoli arabi) l’Algeria che stava per liberarsi dal giogo francese, in quella che divenne una delle guerre di liberazione più lunghe e sanguinose del secondo dopo-guerra e che portò, tra il 1954 edil 1962, all’indipendenza dell’Algeria dalla Francia. Anzi, proprio sulla base di quegli episodi storici, oggi gli egiziani rivendicano quel ruolo di “liberatori” dell’Algeria, ricordando nei vari siti internet come abbiano “sollevato gli Algerini dalla condizione di schiavitù rispetto alla Francia”. Le accuse vanno avanti e non finiscono qui e i toni sono sempre più accesi, man mano che ci si avvicina al giorno fatidico dell’incontro al Cairo. Le autorità politiche algerine ed egiziane hanno dovuto richiamare ufficialmente i tifosi delle proprie nazionalità alla calma, dopo che persino il capitano della squadra egiziana, Ahmed Hassan, ha promesso di far diventare lo stadio del Cairo uno “stadio dell’orrore”. Il portavoce del Ministro degli Affari Esteri egiziano, Hossam Zaki, è dovuto intervenire per riportare un clima più cordiale tra le due nazioni e ha fatto appello soprattutto ai media, affinché non contribuiscano ad esasperare troppo i toni di quella che, in fondo, dovrebbe essere soltanto una partita di calcio (per quanto importante e ricca di significato per entrambi i popoli). Ed ecco, dunque, che all’arrivo al Cairo del bus della nazionale algerina, un fitto lancio di pietre da parte di circa 200 tifosi egiziani ha colpito i giocatori dell’Algeria. Il fatto è stato reputato gravissimo dal Ministro degli Affari Esteri algerino, Mourad Medelci. A questo punto, non bastano più le parole del portavoce del Ministero degli Esteri egiziano, ma lo stesso Ahmed Abul Gheit, il Ministro in persona, dovrà intervenire per condannare l’episodio e garantire tutte le necessarie misure di sicurezza. Gli scontri rischiano di creare una vera e propria crisi diplomatica tra Algeri e Il Cairo, quattro giocatori algerini sarebbero stati feriti dall’assalto a colpi di pietra e la partita rischia addirittura di saltare. 

LA DERIVA DEL CALCIO – Questo è diventato il calcio oggi. In una congiuntura internazionale in cui i problemi sociali sembrano essere sempre più pressanti sulle popolazioni non solo africane o del Sud del mondo, ma anche occidentali, il calcio continua a catalizzare più attenzione di altri problemi reali. Proprio come accade anche nel nostro Belpaese, in cui non si scende in piazza per la disoccupazione, ma si scatenano guerriglie intorno agli stadi di calcio e si assiste passivamente a giovani ventenni che guadagnano milioni di euro l’anno, mentre la soglia di povertà sale sempre di più. In questa cornice alimentiamo il business del calcio, comprando abbonamenti pay-per-view e seguendo sui rotocalchi le avventure amorose dei gladiatori del XX secolo. La partita tra Algeria ed Egitto dimostra nuovamente che, non solo in Italia, il calcio è potere. Potere di distrarre le masse rispetto ai problemi sociali che attanagliano le popolazioni, potere di attirare più investimenti di quanto possa fare uno Stato, potere di rendere due popolazioni nemiche, come se fossero in guerra. Il caso dell’ex milanista George Weah, liberiano e star nazionale, Pallone d’oro nel 1995, che riesce a candidarsi per le elezioni presidenziali nel proprio Paese, come è accaduto nel 2005, ne è un’ennesima riprova. Ma nel momento in cui lui, star del calcio in un Paese africano, perde la competizione elettorale contro una donna, Ellen Johnson Sirleaf, che diventerà la prima donna eletta come Capo di Stato in Africa e la prima donna di colore al mondo a ricoprire quella posizione, qualche speranza dovrà pur esserci.        

Stefano Torelli

Vera ripresa?

Gli effetti più devastanti della crisi economica sembrano alle spalle. Ma in Europa, per molti Stati tra cui l’Italia, la ripresa stenta a decollare

        La crisi economica ha fatto sentire un po’dappertutto i suoi effetti e la maggior parte dei Paesi occidentali hanno affrontato nel 2009 una pesante recessione. Ora si attende la ripresa, ma nella zona Euro quest’ultima stenta a decollare. Le performance di Italia e Germania nell’ultimo trimestre dell’anno scorso potrebbero infatti essere state meno positive del previsto e “frenare” la ripresa continentale. Venerdì 12 saranno rivelate le statistiche riferite a questo periodo, ma il presidente della BCE Jean-Claude Trichet ha già avvertito che il 2010 sarà un anno modesto per la crescita. Chi sembra stare peggio di tutti tra i principali membri UE è la Spagna, ancora immersa nella recessione per via di altissimi tassi di disoccupazione.

 

        Si sono incontrati oggi, lunedì 8 febbraio, il ministro degli Esteri Franco Frattini e il Segretario USA alla Difesa Robert Gates.  L’incontro è avvenuto alla Farnesina, dove i due ministri hanno discusso i principali temi riguardanti la sicurezza internazionale, dall’Iran all’Afghanistan, al Corno d’Africa. Sull’Iran è stata sottolineata l’urgente necessità di un ampio raccordo internazionale, così come di ulteriori pressioni per impedire la prospettiva destabilizzante di un Iran potenza nucleare. L’Italia ha ingenti interessi economici in Iran, essendo il principale partner commerciale europeo; un’azione di mediazione del nostro Paese potrebbe essere auspicabile, anche se Roma è stata esclusa dai negoziati sul nucleare del cosiddetto Gruppo “5+1”.  Sull’Afghanistan i due ministri hanno sottolineato il comune impegno e l’esigenza di un più efficace raccordo tra aspetti civili e militari della strategia internazionale. In relazione al Corno d’Africa, infine, il ministro Frattini ha illustrato a Gates l’idea italiana per una Conferenza internazionale, da tenersi sotto l’egida delle Nazioni Unite, che abbia come obiettivo richiamare l’attenzione internazionale sulla stabilizzazione della regione.

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        In America Latina la notizia principale è quella della vittoria di un’altra donna in un’elezione presidenziale. È Laura Chinchilla, vincente in Costa Rica per il Partido de Liberación Nacional, già al Governo con Oscar Arias. Il Costa Rica è uno degli Stati più tranquilli e prosperi dell’America Centrale, in controtendenza con il resto della regione. C’è attesa inoltre in Cile, dove il neoeletto presidente Sebastián Piñera renderà nota in questa settimana la lista dei suoi ministri: si parla di un Governo trasversale, che conterrà anche esponenti della Concertación (coalizione passata all’opposizione), in quanto il centrodestra non è riuscito ad ottenere la maggioranza in entrambe le Camere.

 

8 febbraio 2010

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