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Piccoli europei crescono

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Vent’anni fa una nuova generazione di giovani abbatteva pacificamente il muro di Berlino, dando vita ad un’Europa libera e unita. Oggi, un’altra generazione vuole provare a completare quel progetto

Venti anni fa crollava un muro e nasceva una generazione. Proprio così, perché al di là dell’evento storico in sé, delle colonne di automobili che dalla Germania Est e da altre parti del blocco sovietico si recavano, i giorni precedenti al fatidico 9 novembre, verso l’Ungheria che aveva aperto le frontiere con l’Austria e, dunque, verso l’Ovest e la libertà; al di là delle picconate che hanno abbattuto quel muro la notte del 9 novembre, dopo quasi trent’anni di esistenza; al di là delle immagini dei berlinesi che si abbracciavano dopo aver scavalcato o creato brecce in quel muro; al di là di tutti questi ricordi e della storia, c’è una generazione di ragazzi e di “Europei”.

Non si parla tanto di Europei nel senso comunitario dell’Unione Europea, quel progetto rivitalizzato proprio dalle macerie di quel muro e che per una stagione intera (tutti gli anni ’90) ha avuto l’illusione di creare un nuovo soggetto politico che potesse incidere sulla vita politica internazionale quanto (se non più) degli Stati Uniti, allargandosi sempre più verso Est e dando l’impressione che potessero nascere gli Stati Uniti d’Europa. Niente di tutto questo. A distanza di venti anni si può affermare che, se le cose rimanessero così, l’idea di un’unità politica europea, del ritorno alle relazioni internazionali intese come eurocentriche, dopo la fine della Guerra Fredda in cui il Vecchio continente è stato l’oggetto delle contese delle due superpotenze entrambe esterne all’Europa, sarebbero ormai puro idealismo, con poche o nessuna chance di realizzazione. 

E’ per questo che con la nascita di una nuova generazione di Europei si vuole intendere altro. Quell’altro è formato dalle persone, dalla società, dalle idee che sono state condivise con tutta quella parte di Europa che si trovava al di là del muro. Quei giovani che si abbracciavano e festeggiavano 20 anni fa sono diventati la classe dirigente di nuove entità statali vogliose di rinascita e libertà. Simbolo di speranza per il futuro e di sviluppo, con lo sguardo a quell’orizzonte che un muro troppo ingombrante non aveva dato loro la possibilità di essere visto, ma solo il vagheggiamento di essere sognato ed immaginato. I bambini e ragazzini che guardavano le immagini di quel muro sgretolarsi, sotto i colpi di martello di ogni singolo comune cittadino e tra le note dei Pink Floyd che accorrevano presso la Porta di Brandeburgo per celebrare l’evento, sono adesso gli stessi che, da Lisbona a Riga e da Stoccolma a Budapest, fanno parte della “generazione Erasmus”. E dunque sono loro i protagonisti di questa rivoluzione fatta a colpi di piccone e martello. Una rivoluzione quasi del tutto incruenta che ha portato milioni di persone ad interagire tra di loro, a sentirsi più liberi in un mondo tutto uguale, o almeno privo degli odiosi vincoli imposti da due generazioni sospettose e liberticide che hanno posto in essere quel muro. 

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La mente oggi va a quelle immagini, alle lacrime di gioia dei berlinesi che fanno festa, ma anche alle feste di oggi nei quartieri di Parigi e Londra, cui prendono parte ragazzi di Lubiana, Tallin, Oslo, Madrid e Roma. Questa è la più grande eredità lasciata dalla caduta del muro. Un’eredità fatta di persone e di società, dal momento che per il resto molte cose sembrano stiano tornando uguali: la Russia compete fortemente con gli Stati Uniti a suon di gasdotti e guerricciole di confine; l’Europa continua ad essere divisa e non sa schierarsi unitariamente su alcun oggetto di discussione; l’Asia e l’Africa continuano ad essere terreni di scontro in cui si inserisce anche la superpotenza cinese (e anche qui, non è una grande novità rispetto alla fine degli anni ’80…) e in Italia si continua a combattere una guerra ideologica tra destra e sinistra (che nel frattempo hanno assunto forme diverse da quelle di ieri, ma hanno mantenuto la retorica e il livello di scontro di venti o trenta anni fa, come se ancora ci fossero brigatisti contro picchiatori…). 

E allora è alla generazione Erasmus che dobbiamo guardare per sperare che la caduta del muro sia servita a cambiare davvero le cose. E, se così è, gli effetti del 9 novembre 1989 si vedranno tra una decina di anni, quando i ragazzi cresciuti senza l’ombra di quella parete saranno pronti per prendere decisioni importanti per i rispettivi Paesi, condividendo tutti quanti quello spirito di libertà e quella voglia di incontrare gli altri che hanno contraddistinto la nostra generazione. Da tutti quegli incontri, resi possibili dall’evento di quella notte di novembre, si saranno allora avuti dei risultati positivi in termini di creatività e voglia di crescere insieme. Il progetto stesso del Caffè è, in fondo, figlio del 9 novembre 1989 e la speranza è quella di poter presto cogliere i frutti di quella semina, per poter raccontare un mondo ed un’Europa diversa, protagonista, propositiva, catalizzatrice di progresso e libertà, così come lo fu Berlino 20 anni fa.

La rivoluzione è finita

O meglio, non è mai incominciata. Il ballottaggio per le elezioni presidenziali ucraine vinte dal leader filorusso Viktor Yanukovic con il 48,4% contro Yulia Tymoshenko, ferma al 45,9%, sembrano aver definitivamente messo la parola fine all’esperienza della cosiddetta rivoluzione arancione

LA POLITICA – Più che a una vera e propria rivoluzione nel governo del paese, la pacifica mobilitazione popolare che aveva portato al governo l’ex presidente Viktor Jushenko nel 2004 (uscito massacrato al primo turno con il 5%), si era risolta in un nuovo corso nelle relazioni internazionali di Kiev, più filo-occidentale. Il paese, l’ex repubblica sovietica più popolosa dopo la Russia con i suoi 46 milioni di abitanti, è infatti da sempre diviso in due tra un occidente che guarda con favore all’Europa e un oriente che vuole mantenere i forti legami con l’ingombrante vicino russo (durante le passate campagne elettorali, l’allora presidente Putin si era recato in visita in Ucraina esprimendo apertamente il sostegno per il Partito delle Regioni di Yanukovic). Negli anni di presidenza Jushenko ha speso tutto il notevole (ai tempi) carisma politico per avvicinare l’Ucraina all’Unione Europea e all’occidente. Si è incominciato a parlare di progetti di adesione all’Unione e di ingresso nel sistema NATO. Con la vittoria di Yanukovic, questi progetti, di per sé già alquanto complicati, si allontanano forse definitivamente.

Il nuovo presidente in pectore è infatti un convinto fautore dell’alleanza con la Russia del duo Putin-Medvedev e contrario all’ingresso nel sistema NATO.

Con queste elezioni gli Ucraini, per quanto ancora pericolosamente divisi in due secondo la linea di divisione est-ovest, hanno scelto la stabilità in luogo di un progetto di riforma del paese che non è mai partito. La coalizione arancione ha pagato la delusione per anni di lotte intestine che hanno avuto come conseguenza una prolungata impasse dell’azione governativa, in particolare in ambito economico. L’Ucraina uscita da 5 anni di governo proto-liberale e filo-occidentale di JušÄenko è infatti un paese in grande difficoltà economica e a rischio concreto di bancarotta. Con la leadership di Yanukovic è lecito aspettarsi un atteggiamento maggiormente conciliante da parte dei russi e in particolar modo del colosso dell’energia Gazprom, che a Kiev porta energia per combattere il rigido inverno ucraino e posti di lavoro.

Di fronte a questa situazione l’orso russo non può fare a meno di gongolare, prepararsi a mostrare magnanimità verso i fratelli ortodossi e a incassare il rinnovo dell’affitto della base militare della flotta del Mar Nero a Sebastopoli in Crimea. 

 

SEBASTOPOLI – Sebastopoli è dal 1804 il porto principale della flotta del Mar Nero della marina militare russa. Anche in seguito all’indipendenza dell’Ucraina, l’ex repubblica sovietica ha concesso all’ex padrone l’affitto della base. La presenza della base ha una notevole importanza sotto diversi punti di vista. Il primo e più evidente è quello strategico: una presenza militare russa così massiccia sul suolo ucraino rappresenta il simbolo concreto della longa manus di Mosca sul paese. La presenza della flotta del Mar Nero garantisce alla Russia di essere, dal punto di vista militare, la padrona della regione strategica intorno al bacino semi-chiuso. Il Mar Nero rappresenta una via d’acqua sul cammino delle grandi vie energetiche che portano dall’Asia centrale all’Europa. Da Sebastopoli sono partite le navi da battaglia che hanno posto il blocco alle coste georgiane durante la recente guerra per l’Ossezia tra Georgia e Russia.

La flotta russa ha un importante base sulle coste del Mar Nero anche in territorio russo, a Novorossijsk, dove sono iniziati importanti lavori di ampliamento delle strutture. Tuttavia il capo di stato maggiore della Federazione Russa generale Makarov ha già avvertito che la flotta non ha nessuna intenzione di abbandonare Sebastopoli. Anche perché la flotta e la sua base hanno anche per la Russia un importanza dal punto di vista storico-culturale non indifferente. La celeberrima corazzata Potemkin faceva proprio parte della grande unità navale di stanza a Sebastopoli, la città stessa, come Leningrado, Stalingrado e molte altre città in Russia, è uno dei simboli della resistenza sovietica all’aggressione nazista. La città della Crimea subì durante la seconda guerra mondiale 10 mesi di assedio e la guarnigione di stanza si sacrificò pressoché totalmente nella difesa della città e del porto. Se si conosce l’importanza per l’identità nazionale russa dell’istituzione militare e della sua storia, nonché l’importanza nello stesso ambito dei simboli della “grande guerra patriottica” come è ancora chiamata la seconda guerra mondiale in Russia, si capisce come anche questi aspetti non siano da sottovalutare nel considerare la questione della base militare.

Tornando agli aspetti più concreti, la base navale ha anche una rilevanza non trascurabile nella vita sociale ed economica della regione a maggioranza russofona. Molti degli abitanti di Sebastopoli sono figli di ex militari russi venuti al seguito della flotta, la regione ha uno statuto autonomo e, non a caso, è uno dei feudi elettorali di Yanukovic. La situazione di Sebastopoli ricorda molto da vicino quella dell’enclave di Kaliningrad.  

Jushenko da presidente aveva più volte invitato i russi a preparare le valigie, preannunciando l’intenzione di non rinnovare l’accordo che garantisce alla Russia l’utilizzo della base per venti anni e all’Ucraina un cospicuo canone d’affitto di 98 milioni di dollari all’anno, che termina nel 2017. Ora con Yanukovic, che ha già rilasciato dichiarazioni in questo senso, è lecito aspettarsi un rinnovo dell’affitto.

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LA QUESTIONE ENERGETICA – Il destino politico dell’Ucraina ha anche importanti risvolti per la politica energetica dell’Europa. L’Ucraina è il paese di transito principale per i gasdotti che collegano il produttore Russia al suo principale mercato, l’Europa. Come hanno dimostrato le ricorrenti crisi del gas, l’Ucraina si è dimostrata per la Russia e in definitiva anche per l’Europa, un partner non affidabile. Ogni volta che Mosca e Kiev litigavano sul prezzo del gas che la seconda avrebbe dovuto pagare alla prima, la prima riduceva le forniture e la seconda sottraeva al gas destinato all’Europa il proprio fabbisogno. In questo modo il gas di cui l’Europa ha disperato bisogno si fermava in Ucraina, con forti rischi di black out e preoccupazione dei governanti europei. L’Ucraina per la sua inaffidabilità costituiva un ostacolo nelle ottime relazioni economiche tra Russia e Europa. Anche per aggirare l’Ucraina e altri paesi giudicati inaffidabili (ex repubbliche sovietiche come Polonia, Slovacchia, Repubblica Ceca, Bielorussia, che hanno rapporti con Mosca non sempre distesi) sono stati avviati una serie di progetti di nuovi gasdotti, due in particolar modo: il North e South Stream. Il primo porterà il prezioso gas direttamente dal territorio russo a quello della Germania, uno dei principali clienti di Gazprom, attraverso tubature sotterranee sotto il Baltico. Il secondo invece aggirerebbe l’Ucraina a sud attraverso il Mar Nero, giungendo in Europa passando dalla Bulgaria.

Con un cambio così radicale degli orientamenti in politica estera di Kiev, chissà che l’Ucraina non torni a essere un partner più affidabile per Mosca anche dal punto di vista economico e che questo influisca sui progetti dei nuovi gasdotti.

 

Jacopo Marazia

15 febbraio 2010

[email protected]

 

Tango nelle urne?

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Grandi "movimenti" in Argentina: le elezioni legislative che si svolgeranno il 28 giugno in Argentina potrebbero decretare la sconfitta di Néstor e Cristina Kirchner, provocando un regolamento dei conti nel Peronismo.

L’ARGENTINA AL VOTO – Urne aperte in Argentina: domenica 28 giugno si svolgeranno le elezioni legislative, che porteranno al rinnovo di parte della Camera e del Senato. Una sorta di “mid-term”, per dirla all’americana, che rappresenta però un banco di prova fondamentale per la tenuta del “kirchnerismo”, la corrente politica che prende il nome dall’ex presidente della nazione sudamericana, Néstor Kirchner, e dall’attuale Capo di Stato, la moglie Cristina Fernández de Kirchner. Dopo sei anni al potere praticamente incontrastati, pare infatti che la luna di miele tra il popolo argentino e i coniugi al Governo sia terminata. Sull’onda della (apparentemente) irresistibile ripresa economica del quinquennio 2003-2008, seguita alla drammatica crisi debitoria del 2001, il successo dei Kirchner non sembrava in discussione; tuttavia, lo scontro con la potente lobby dei produttori agricoli prima, e quest’anno la crisi economica, hanno bruscamente ridotto il grado di approvazione della “Presidenta” Cristina.  

LA FINE DEL PERONISMO? – I Kirchner fanno parte del Partido Justicialista, che per i canoni politologici sudamericani è schierato ideologicamente nel centro-sinistra, ma che in realtà presenta tratti demagogico-populisti che lo rendono difficilmente incasellabile per gli “standard” europei. Il PJ è il diretto erede della tradizione peronista, che ha fatto del nazionalismo economico e del protezionismo alcuni dei cardini principali della propria politica. Néstor e Cristina fanno parte del Frente Amplio, corrente del PJ considerata “oficialista”, ovvero più vicina all’ortodossia peronista e la battaglia nelle prossime elezioni sarà con le correnti “dissidenti” in seno allo stesso Partido Justicialista. Nella provincia di Buenos Aires, la più popolosa di tutta l’Argentina, Kirchner sfiderà Francisco de Narváez (Unión Pro): i sondaggi per il momento danno i due candidati in sostanziale pareggio. In parecchie altre province, però, il kirchnerismo è dato per sconfitto: per esempio a Santa Fe, dove dovrebbe vincere l’ex pilota di Formula 1 Carlos Reutemann. In realtà, dunque, la battaglia è tutta interna al PJ: la principale forza di opposizione, l’Unión Cívica Radical, raramente è stata in grado di impensierire la coalizione di Governo. Se i Kirchner saranno sconfitti, probabilmente ci sarà un rimescolamento di carte, ma le linee di fondo principali della politica argentina non dovrebbero mutare con nettezza.

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RITORNO AL PROTEZIONISMO – Come si diceva, tra gli “ingredienti” principali del peronismo c’è, a livello di politica economica, una certa dose di avversione al libero scambio. Tale componente si è ripresentata negli ultimi mesi, quando la Presidenta Kirchner ha tentato di risolvere la crisi economica innalzando barriere tariffarie in difesa delle merci argentine. A farne le spese è stato innanzitutto il principale partner commerciale di Buenos Aires: il Brasile, che ha visto calare sensibilmente le proprie esportazioni. Si è poi sostanzialmente arenato il processo di integrazione del Mercosur, l’unione doganale che comprende Argentina, Brasile, Uruguay e Paraguay. Non solo: anche imprese straniere ne hanno fatto le spese, come l’italiana Telecom. La compagnia di comunicazioni nazionale, infatti, ha forti interessi in Sudamerica, ma il Governo argentino ha bloccato la partnership con la spagnola Telefónica, considerata lesiva della concorrenza locale. In un periodo in cui l’apertura alle relazioni internazionali sembra essere una risposta per uscire dalla crisi, specialmente per Paesi export-oriented come l’Argentina, sono lecite le perplessità sull’opportunità di tali politiche economiche. 

Davide Tentori [email protected] 24 giugno 2009 

Don’t cry for me

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Come previsto, alle elezioni di medio termine i Kirchner vengono sconfitti e divengono minoritari nell’ambito del Peronismo. La fine di una stagione politica?

CRISTINA SCONFITTA – Nessuna sorpresa è uscita dalle urne argentine: la coppia Néstor-Cristina Kirchner, rispettivamente ex e attuale presidente della nazione sudamericana, è uscita sconfitta dalle elezioni di medio termine. In palio c’era il rinnovo di metà del Parlamento di Buenos Aires e, come si attendeva, il Governo non è stato premiato. In realtà, la competizione si è svolta tutta all’interno del Partido Justicialista, erede della tradizione peronista (vedi anche “Tango nelle urne”). La corrente “oficialista”, tendente più a sinistra e comandata dai Kirchner, è diventata minoritaria rispetto ai cosiddetti “dissidenti”, che pendono invece per un maggior conservatorismo. L’emblema che ha caratterizzato in modo netto la dèbacle elettorale del Frente para la Victoria (questo il nome della corrente dei Kirchner) è stata la sconfitta personale dell’ex presidente, battuto nella Provincia di Buenos Aires dal rivale, Francisco De Nárvaez. Kirchner non ha potuto fare altro che prendere atto del risultato e dare le dimissioni da presidente del PJ, passando la mano a Daniel Scioli, attuale presidente della Provincia di Buenos Aires. 

ED ORA? – Da questo momento il Governo non potrà più godere della maggioranza in nessuna delle due Camere. La “Presidenta” Cristina ha cercato di mostrare la forza dell’esecutivo escludendo che ci saranno rimpasti nella compagine ministeriale. Tuttavia, la Casa Rosada dovrà fare i conti con un panorama politico in mutamento anche se, va sottolineato, solo all’interno del partito peronista. In ascesa c’è il già citato De Nárvaez, oltre all’ex pilota di Formula Uno Carlos Reutemann, eletto senatore nella Provincia di Santa Fe. Reutemann sembra in “pole position” (la metafora automobilistica è quantomai azzeccata) per le presidenziali del 2011 e non a caso ha rifiutato l’invito di Scioli a far parte del direttivo del PJ. Evidentemente il santafesino non ha intenzione di “bruciare” troppo in fretta la propria candidatura sovresponendosi in un momento particolarmente delicato per la definizione degli equilibri e dei rapporti di forza all’interno del partito. Il consenso nella provincia pampeana di Santa Fe è molto importante perché significa avere dalla propria parte la potente lobby degli agricoltori, che detengono nelle proprie mani la principale fonte di ricchezza del Paese.

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LA FINE DI UNA STAGIONE? – E’ stato proprio il conflitto con i proprietari terrieri a rappresentare l’inizio della crisi del kirchnerismo. Un anno e mezzo fa il Governo impose le cosiddette “retenciones moviles”, ovvero dei dazi variabili sull’esportazione delle derrate agricole, che provocarono un’ondata interminabile di scioperi e proteste in tutta l’Argentina. Negli ultimi mesi, poi, la crisi economica ha rimesso a nudo le debolezze strutturali della repubblica sudamericana: troppo dipendente dal prezzo delle materie prime, non ancora stabile dal punto di vista macroeconomico, l’Argentina ha accusato il colpo in maniera decisamente più forte rispetto al vicino Brasile, che è ormai una potenza geopolitica e geoeconomica a tutti gli effetti. Il successo dei Kirchner è stato agevolato dalla congiuntura economica estremamente favorevole del quinquennio 2003-2008, così come la crisi ne ha amplificato i demeriti negli ultimi mesi. La coppia appare però verso il tramonto politico, anche se difficilmente nel breve periodo ci saranno cambi radicali nell’orientamento politico argentino. Probabilmente ci si potrà aspettare una maggior cautela a livello internazionale nell’abbracciare la causa di leader discussi come il venezuelano Chàvez e, a livello interno, nell’adottare politiche impopolari come la nazionalizzazione dei fondi pensione. 

Davide Tentori [email protected]

Quelli che contano

Sono i BRICs, ovvero Brasile, Russia, India e Cina, i cui leaders si sono incontrati il 16 giugno. Hanno davvero le carte in regola per divenire le nuove grandi potenze globali?

IL NUOVO CHE AVANZA – Sono quattro e insieme formano l’acronimo, divenuto abbastanza popolare negli ultimi anni, “BRICs”, che corrisponde alle iniziali di Brasile, Russia, India e Cina. Dalla stragrande maggioranza degli analisti e della stampa vengono additati come le superpotenze del XXI secolo, ma hanno (o meglio, riusciranno ad avere) i requisiti necessari per dare vita ad un nuovo ordine globale? Da quando la crisi economica ha colpito gli Stati Uniti c’è pressoché unanimità nel dichiarare la fine dell’egemonia di Washington nelle relazioni internazionali e il successo economico conseguito dai “fantastici Quattro” negli ultimi anni lascia presumere che sia in atto un processo di redistribuzione del potere globale. 

L’INCONTRO IN RUSSIA – I rappresentanti dei BRICs (Lula da Silva per il Brasile, Dimitri Medvedev per la Russia, Manmohan Singh per l’India e Hu Jintao per la Cina) si sono incontrati il 16 giugno a Ekaterinburg per mostrare al mondo la reciproca volontà di collaborare per cambiare le “regole del gioco” che stanno alla base dell’attuale ordine internazionale. Tra le proposte principali, quelle di riformare le istituzioni finanziarie internazionali e di soppiantare il dollaro come unità di conto per gli scambi internazionali. Se la prima questione sembra concretamente realizzabile (Brasile e Cina stanno ormai diventando creditori, e non più debitori, del Fondo Monetario Internazionale), sembra invece difficile che i “verdoni” possano essere sostituiti da reais, rubli, rupie o yuan. La Cina, infatti, è il principale detentore di riserva monetaria straniera in dollari, e un brusco abbassamento del loro valore non gioverebbe alle casse di Pechino. Inoltre le quattro economie sono troppo diverse tra loro per dare vita ad un asse realmente integrato e concorde. La Russia è un Paese troppo fragile e dipendente dalle esportazioni di gas, mentre l’India possiede ancora enormi sacche di povertà e sottosviluppo

IL BRASILE IN PRIMA FILA? – L’attore che potrebbe stupire maggiormente nei prossimi anni è il Brasile. La potenza sudamericana è diventata ormai un attore riconosciuto e stimato globalmente, in grado di farsi molti amici e pochi (finora) nemici. L’economia carioca non è immune dalla crisi ma ne uscirà in maniera migliore rispetto a molti altri Stati. Inoltre, il Brasile può vantare un’amicizia abbastanza solida con gli Stati Uniti: ciò consente di giocare un ruolo attivo già all’interno dell’attuale sistema internazionale e non solo dall’esterno con tentativi riformatori. Questo è l’ultimo anno di Lula al Governo: il presidente ha candidato come sua “erede” una donna, Dilma Rousseff. Anche in questo il Brasile sarà simbolo del cambiamento globale? 

Davide Tentori

17 giugno 2009 [email protected]  

 

Accordo cercasi

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Per effetto della mediazione del Costa Rica, qualche spiraglio sembra aprirsi in Honduras. Tuttavia il presidente ad interim Micheletti (foto) non sembra intenzionato a mollare, almeno per adesso

GLI ULTIMI SVILUPPI – Da qualche giorno sono cominciate le negoziazioni tra il capo di stato del governo golpista Roberto Micheletti e il presidente legittimamente eletto dal popolo hondureño Manuel Zelaya, i quali sono stati riuniti dal presidente della Costa Rica Oscar Arias nella sua abitazione privata della capitale con il fine di ottenere un accordo che possa ristabilire l’ordine costituzionale in Honduras, recentemente violato dal golpe militare del 28 giugno. È notizia delle ultime ore l’offerta di un’amnistia, che consentirebbe a Zelaya di rientrare in patria, senza però ambire a tornare al potere. Micheletti ha intanto riaffermato che il 29 novembre si terranno le nuove elezioni

VEDIAMOCI CHIARO – Il 28 giugno forze militari ribelli hanno arrestato Il presidente Zelaya e lo hanno spedito in Costa Rica obbligandolo a chiedere un forzato asilo politico, prontamente concesso dal governo della repubblica centroamericana. Contemporaneamente a Tegucigalpa, capitale hondureña, venivano "sequestrati" dai militari golpisti anche gli ambasciatori di Venezuela, Cuba e Nicaragua, nazioni appartenenti all’ALBA . L’Honduras ne era diventato il sesto membro insieme a Venezuela, Cuba, Bolivia, Nicaragua e Repubblica Dominicana il 25 maggio 2008; esattamente come in questi paesi, il presidente Zelaya stava proponendo un referendum per chiedere alla popolazione se era d’accordo con la possibilità di effettuare una modifica costituzionale. L’obiettivo del presidente era quello di riformare la costituzione in senso socialista per adattarla agli obiettivi e ai fini dell’ALBA.Tuttavia nella costituzione hondureña non è prevista la possibilità di celebrare un referendum in concomitanza con le elezioni politiche come proponeva il presidente in carica. Con queste argomentazioni la Suprema Corte di Giustizia si era opposta con decisione unanime all’istituzione di una quarta urna referendaria nelle elezioni politiche. La sentenza ha dato il via ad una serie di pronunciamenti contrari alla proposta di Zelaya: il Congresso, le forze armate, i vescovi, altre istituzioni statali, tutti i poteri dello Stato si sono schierati contro la proposta del presidente. Nonostante ciò Zelaya ha deciso di proseguire con il suo intento referendario, sperando in una alta partecipazione al voto per poter legittimare la sua proposta. Il 25 giugno ha destituito il capo delle forze armate, il generale Romeo Vásquez, che si rifiutava di porre in pratica gli ordini del presidente in merito alla consulta referendaria. Romeo Vásquez ha presentato denuncia alla Corte Suprema di Giustizia per il licenziamento ingiustificato, la quale gli ha dato ragione, ordinando al presidente Zelaya di reincorporarlo nel suo staff. Di fronte alla negativa risposta di Zelaya i militari hanno deciso di arrestarlo e di eleggere presidente Roberto Micheletti, il quale ha cominciato a guidare il governo golpista, reprimendo violentemente le proteste della popolazione che chiedeva il ritorno di Zelaya.

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ED ORA? – Il negoziato costariccense non pare però destinato a un successo esemplare, nonostante l’esperienza internazionale del Presidente Arias . Tuttavia pare che le due parti non vogliano o non possano raggiungere un accordo, considerato anche l’entità degli interessi economici sottesi ad una modifica costituzionale in senso socialista. Si aspetta con ansia che farà la amministrazione americana che predica in tutto il mondo la democrazia e i diritti umani ma che per lungo tempo in Honduras ha appoggiato l’oligarchia aristocratica.

Andrea Cerami [email protected] 13 luglio 2009 

Sulla rotta della coca

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Un rapporto del Congresso USA sostiene che il Venezuela è una base strategica per il narcotraffico che parte dalla Colombia, con la connivenza del Governo. Chàvez respinge le accuse: un passo indietro nelle relazioni bilaterali

UN NUOVO “NARCO-STATO”? – Una nuova, importante “via della droga” proveniente dal Venezuela? Così sembrerebbe, secondo un rapporto appena pubblicato dall’Ufficio di Responsabilità del Governo degli Stati Uniti, una commissione di inchiesta legata al Congresso ma apartitica. Nel rapporto si spiega come il Venezuela sia diventato uno dei principali centri di smistamento della cocaina in tutto il continente americano. Il meccanismo sarebbe il seguente: dai centri di produzione in Colombia, la droga si sposterebbe nel confinante Venezuela, che fungerebbe da base principale per gli spostamenti verso gli Stati Uniti, attraverso il Centroamerica, e verso altre regioni. Nel rapporto pubblicato dal Congresso statunitense si afferma che dal 2004 al 2007 la quantità prodotta e smerciata tra Colombia e Venezuela sia più che quadruplicata, passando da 60 a 260 tonnellate di cocaina. Il mezzo privilegiato per l’uscita dal Paese e il raggiungimento delle destinazioni di vendita è l’aereo: i voli a bordo dei quali sono stati scoperti corrieri della droga sono aumentati seguendo la stessa proporzione della merce “esportata”. 

HUGO DICE “NO” – Ovviamente Caracas non la pensa allo stesso modo di Washington. Le autorità venezuelane hanno infatti respinto al mittente i dati emersi dal rapporto, sostenendo al contrario che in vari consessi internazionali sono stati fatti apprezzamenti in merito alle politiche nazionali per la lotta al narcotraffico. Nel dossier prodotto dall’istituzione statunitense, tuttavia, è difficile negare che ci sia del vero. Innanzitutto, la profonda corruzione che colpisce le istituzioni della repubblica bolivariana (anche se questa è una caratteristica purtroppo comune ai Paesi dell’area latinoamericana) lascia intendere che ci siano delle zone “d’ombra” nelle quali si instaurino rapporti di connivenza tra politica e narcotraffico. In secondo luogo, i guerriglieri delle FARC (Fuerzas Armadas para la Rivoluciòn en Colombia), che da decenni costituiscono un grave problema di sicurezza per la confinante Colombia, sono sostenuti abbastanza esplicitamente dal governo di Chávez e tra le attività di sostentamento per la lotta armata di questo gruppo è presente anche il traffico di droga. Infine, il Venezuela è praticamente una tappa obbligata nelle rotte che portano la cocaina in Europa e negli Stati Uniti. Pare inoltre che l’Honduras sia la tappa immediatamente successiva al transito in Venezuela e l’alleanza tra Caracas e la Tegucigalpa di Zelaya potrebbe non essere una semplice coincidenza.

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QUALI PROSPETTIVE NELLE RELAZIONI BILATERALI? – Sembrava che i rapporti tra USA e Venezuela stessero incamminandosi su binari nuovi. Prima la stretta di mano tra Obama e Chávez in occasione del vertice delle Americhe, poi il ripristino delle normali relazioni diplomatiche (in data 25 giugno) dopo che il Venezuela aveva espulso l’ambasciatore statunitense in solidarietà alla Bolivia, dove Evo Morales aveva rotto i contatti con Washington accusandola di fomentare la ribellione delle province più ricche. L’Honduras e la cocaina stanno mettendo invece nuovamente a nudo la realtà dei fatti. Nel primo caso, nonostante la comunione di vedute sulla legittimità di Zelaya al potere, persiste una divergenza nel merito della questione. Per quanto riguarda il narcotraffico, invece, gli USA sanno che si tratta di una delle priorità principali per la sicurezza dell’intero continente americano e il rafforzamento delle relazioni con i principali partner (Brasile, Messico, Colombia) si fonderà anche e soprattutto su questo pilastro. Anche il Venezuela lo sa e potrebbe “chiudere un occhio” su queste attività criminali per ostacolare le strategie regionali di Washington ma anche dei propri vicini, come ad esempio il Brasile, con il quale è in atto uno scontro di visioni geopolitiche. 

Davide Tentori [email protected] 18 luglio 2009 

Ascesa straordinaria?

L’Angola, che ha ospitato l’ultima Coppa d’Africa, è uno dei Paesi più promettenti del continente. Tuttavia, rimangono grandi problemi economici e sociali

CRESCITA INARRESTABILE – Nel 2000 il Ministero delle Finanze angolano (MINFIN) registrava un PIL di 90,5 miliardi di Kwanza, mentre tra il 2007 e il 2008 i dati elaborati dallo stesso Ministero riportavano una cifra vicina ai 4.640 miliardi (circa 70 miliardi di dollari US). La Banca Mondiale ha calcolato che l’Angola godrà di una crescita sostenuta fino al 2012 (dal 2004 al 2007 c’è stata una crescita media del PIL del 15% annuo). Il Fondo Monetario Internazionale ha recentemente elogiato il governo di Luanda. Insomma, difficile non parlare di crescita esponenziale.Sfogliando le recenti statistiche del MINFIN e degli enti economici e finanziari internazionali a proposito dell’Angola, ci si chiede quale sia il segreto del boom angolano, e se sia realistico ipotizzare che il fenomeno stupefacente di questi anni si tramuti in sviluppo e stabilità. Riguardo al “segreto”, non c’è dubbio che i fattori che hanno contribuito a questo stato di cose siano da rintracciare nella fine della trentennale guerra civile (1975-2002), e nell’aumento del prezzo internazionale del petrolio (materia prima di cui il territorio angolano è ricco e di cui il governo di Luanda è esportatore). Quest’ultimo fattore pesa sul bilancio finale molto più del primo. Se è vero infatti che la fine del conflitto ha permesso il ritorno degli sfollati nelle aree di provenienza e ha facilitato l’accesso ai mercati, è vero anche che attività come la pastorizia o il piccolo commercio non possono essere considerate un vero e proprio volano di crescita. Almeno non in un mondo globalizzato, dove le aree rurali dei paesi in via di sviluppo (com’è il caso dell’entroterra angolano) sono tagliate fuori dai circuiti internazionali. Il business del petrolio, invece, si è rivelato un vero e proprio miracolo, grazie all’unione di due elementi chiave: l’aumento del prezzo del greggio (da 35 a 70$/barile nel triennio 2004-2007) e la scoperta di nuovi campi petroliferi al largo della costa. 

NON E’ TUTTO ORO… – Se si analizza attentamente la struttura dell’economia angolana, si vedrà con facilità che essa è rigida e poco diversificata, e che la crescita straordinaria degli ultimi anni riposa quasi esclusivamente sul comparto estrattivo del greggio. Questo dato porta con sé una dose considerevole di instabilità, dal momento che un’eventuale caduta dei prezzi del petrolio  potrebbe frenare l’ambizioso progetto di sviluppo nel quale l’Angola sta investendo dalla fine della guerra. Infatti è grazie alle rendite petrolifere che il paese sta lentamente risorgendo dalle ceneri, e un rallentamento dei programmi di ricostruzione gli sarebbe fatale. Gli spettri del deficit di bilancio e dell’indebitamento con l’estero rimangono dunque in agguato.

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SVILUPPO UMANO IN SOSPESO – La spesa pubblica si sta concentrando sul settore delle infrastrutture, e quasi tutti i proventi della vendita di oro nero finiscono in maxi-progetti quali opere pubbliche e creazione di reti di trasporti. Questa politica, però, ha il difetto di intervenire solo “a valle”, perché, pur creando occupazione, non risolve i problemi strutturali dell’Angola. Anche i posti di lavoro nel settore delle costruzioni dipendono dal petrolio, poiché è da lì che provengono i fondi necessari a finanziare tutti i progetti. Il governo dovrebbe piuttosto intervenire “a monte”, diversificando l’economia e puntando anche su altri settori. Ad esempio, un serio programma di rilancio dell’agricoltura potrebbe liberare il paese dal giogo dell’insicurezza alimentare. Attualmente, l’Angola produce meno della metà dei cereali necessari al fabbisogno della popolazione, e preferisce importarli, dal momento che può permettersi di pagare le importazioni grazie alle rendite petrolifere. Tuttavia, in questo modo, lega indissolubilmente alle oscillazioni del prezzo del greggio anche la sussistenza di migliaia di persone. Fortunatamente, qualcosa sembra cambiare, e alla fine dello scorso anno Luanda ha proclamato di volersi impegnare per diversificare l’economia e rendere il paese indipendente nella produzione di cibo entro il 2013. Curioso dettaglio: tra i finanziatori del progetto spicca la China Development Bank, che però non ha ancora chiarito se e in che misura saranno favoriti i piccoli coltivatori. L’Angola è un paese infinitamente ricco, ma ha indici di povertà e disuguaglianza sociale allarmanti. Basti pensare che secondo l’indice di sviluppo umano si posiziona al 157° posto su 179, e che l’aspettativa di vita alla nascita è pari a 42 anni. Dati che fanno rabbrividire, e che non possono non far riflettere su strategie e politiche alternative a quelle attuali, in grado di favorire uno sviluppo più armonioso. Dopo la vertiginosa crescita del PIL, l’Angola non può più rimandare la crescita umana, vero e proprio banco di prova della stabilità economica, politica e sociale. 

Anna Bulzomi

Passione finita?

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All’alba delle elezioni presidenziali statunitensi del 2008, i dirigenti politici indiani temevano che la vittoria di Obama potesse modificare la politica estera statunitense nei confronti dell’India. Ad un anno di distanza, tali preoccupazioni potrebbero essere fondate

IL CORTEGGIAMENTO DI BUSH – Tradizionalmente fredde a causa della vicinanza dell’India all’Unione Sovietica durante la guerra fredda e delle aspirazioni nucleari di New Delhi, nel nuovo millennio le relazioni tra gli Stati Uniti e l’India hanno subito un radicale cambiamento. È stata proprio la linea dura delle amministrazioni USA nei confronti degli esperimenti nucleari a subire un rovesciamento: dalla condanna del programma nucleare indiano si è passati nel 2008 alla stipula di un trattato di cooperazione tra i due governi proprio in questo settore. Tale accordo, oltre a fare dell’India una potenza nucleare riconosciuta anche se non firmataria del TNP (Trattato di Non Proliferazione Nucleare), fatto che potrebbe costituire un precedente per altri stati che aspirano a dotarsi di armamenti nucleari (ma va ricordato che anche Pakistan e Israele sono nella stessa situazione), ha come obiettivo il sostegno dello sviluppo del settore civile indiano, come si legge sulla carta, ma d’altra parte non potrà che avere conseguenze anche su quello militare. Le ragioni che spiegano la scelta di giungere a concessioni così ampie nei confronti di New Delhi sono da ricercarsi nelle considerazioni geopolitiche e strategiche degli Stati Uniti, in particolare in relazione alla crescita della potenza della Cina. Tale accordo rappresenta lo strumento di Washington per equilibrare l’influenza cinese in Asia e per inserire l’India nel proprio quadro difensivo.

L’INDIFFERENZA DI OBAMA – Il discorso di Obama a Tokyo nel novembre del 2009, durante il suo primo viaggio ufficiale in Asia, rappresenta una svolta rispetto all’approccio dell’amministrazione precedente. In questa sede non si parla della relazione con l’India. Si comprende dunque come in questo momento la priorità di Washington sullo scacchiere centro-asiatico rimanga la risoluzione del conflitto in Afghanistan e non l’approfondimento delle relazioni con Nuova Delhi, anche in ottica di contenimento della potenza cinese. E qui gioca un ruolo chiave il Pakistan. La rivalutazione del rapporto con questo paese, già in passato tradizionale alleato di Washington, si spiega con la volontà statunitense di legare Islamabad maggiormente a sé per il raggiungimento dei propri scopi strategici, tra cui anche la lotta al terrorismo. Considerazioni, queste, che si contrappongono alle convinzioni dei dirigenti politici indiani, che attribuiscono proprio a Islamabad il sostegno ad alcuni gruppi terroristici. Tutto ciò va a scapito dell’India. Anche New Delhi, d’altra parte, negli ultimi anni ha aumentato la propria influenza su Kabul; tale interesse si spiega con la volontà di bilanciare il potere del Pakistan nella regione e di portare avanti i progetti degli oleodotti che, passando in territorio afghano, dovrebbero rispondere alla crescente domanda energetica dell’India. A contribuire ad un allentamento dei rapporti tra New Delhi e Washington si aggiungono le affermazioni di Obama riguardo alla questione del Kashmir; il presidente nel 2008 aveva dichiarato che si sarebbe dovuto mediare per favorire una risoluzione. Parole che non sono piaciute in India, perché mettono in discussione la sua capacità e il suo controllo sulla regione. Un intervento esterno sul Kashmir è inaccettabile, si tratta di una questione bilaterale e, secondo New Delhi, tale deve rimanere. L’amministrazione Bush aveva seguito una politica diversa, rifiutandosi di intervenire e lasciando i due paesi vedersela tra loro; secondo alcuni osservatori proprio tale politica aveva favorito lo sviluppo dei negoziati.

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PROSPETTIVE?  È difficile al momento formulare scenari precisi sull’evoluzione nei rapporti tra India e Stati Uniti nei prossimi mesi. Tale relazione potrebbe dipendere dalla parallela evoluzione dei rapporti con il Pakistan. In questo si inserisce la spinosa questione del Kashmir, sulla quale la Casa Bianca dovrà muoversi con attenzione per evitare di ledere la sensibilità dell’India e di “raffreddare” le relazioni bilaterali. 

Valentina Origoni

Ingresso vietato

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Dopo aver annunciato il suo ritorno in Honduras, al presidente deposto Zelaya è stato impedito di rientrare. L’evoluzione della situazione nella repubblica centroamericana

DIVIETO D’ACCESSO – E’ trascorsa più di una settimana dal golpe che ha sconvolto la vita politica nella piccola repubblica centroamericana dell’Honduras. Il presidente deposto Manuel Zelaya, costretto all’esilio in Costa Rica, aveva annunciato il suo ritorno in patria, forte dell’appoggio dell’intera comunità internazionale, ma l’aereo che doveva riportarlo nella capitale Tegucigalpa è stato trattenuto in volo per il divieto di atterraggio imposto dall’esercito. Nei giorni scorsi Zelaya aveva ottenuto un sostegno pressoché unanime dagli altri Stati, che lo avevano confermato legittimamente al potere: i gesti più evidenti sono stati la condanna dell’OSA (Organizzazione degli Stati Americani), che ha sospeso l’Honduras dalla membership come era avvenuto decenni fa con Cuba, e il ritiro di numerose rappresentanze diplomatiche. Le condanne formali ricevute dalle organizzazioni internazionali non sembrano tuttavia aver impensierito il presidente ad interim (almeno ufficialmente) Roberto Micheletti, che non sembra intenzionato a consentire il ritorno in Honduras di Zelaya e ha dichiarato di voler indire nuove elezioni nel giro di qualche mese. Intanto nel Paese ci sono episodi di scontri tra i sostenitori dell’ormai ex presidente e le forze dell’ordine.

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QUALI SCENARI? – Questi i fatti, dunque. Ma come si potrebbe evolvere la situazione? Il primo livello di analisi è quello che ha avuto più risonanza mediatica ma che è il più superficiale e consiste nella disapprovazione di Nazioni Unite, OSA, eccetera. È noto come in molti casi l’azione delle organizzazioni internazionali non riesca ad avere un’influenza concreta sulle decisioni di uno Stato sovrano. Ad un livello più profondo, occorre invece considerare le forze in gioco nell’area. L’attore principale è il Venezuela di Chávez, che ha manifestato pieno appoggio a Zelaya e ha imposto sanzioni all’Honduras bloccando le forniture petrolifere. Questa mossa potrebbe sortire effetti ben più importanti di una semplice sanzione “morale” da parte della comunità internazionale. Gli Stati Uniti, invece, per il momento si limitano ad intervenire in maniera "soft", con un tentativo di mediazione del Segretario di Stato Hillary Clinton tramite il presidente del Costa Rica Oscar Arìas. Washington ha attualmente altre priorità e non ha interesse a mostrarsi “interventista”, dopo che l’ingerenza sistematica negli affari interni delle nazioni latinoamericane durante la Guerra Fredda ha provocato un sentimento diffuso di antipatia nella regione e la fioritura di regimi spesso ostili. Perciò, una tattica attendista potrebbe essere l’ideale, anche perché se al potere dovesse salire un Governo antagonista del Venezuela per gli Usa non sarebbe poi così male. È indubbio però che l’isolamento in cui si trova attualmente l’Honduras è una condizione difficilmente sostenibile per uno Stato così piccolo e scarsamente dotato di risorse. 

Davide Tentori [email protected]

Ribaltone latino

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Il “golpe” appena verificatosi in Honduras riapre scenari di instabilità politica che non si presentavano in America Latina da diversi anni. Che farà ora il Venezuela di Chávez, amico del Presidente deposto Zelaya?

NO AL REFERENDUM – Forse non tutti lo sanno, ma “golpe” è una parola spagnola. Significa “colpo”: colpo di Stato appunto. Non è un caso se molti, nel mondo, utilizzano questo termine: i numerosi rivolgimenti al potere che caratterizzarono l’America Latina dal Dopoguerra fino alla fine degli anni ’80 hanno fatto sì che “golpe” entrasse a far parte anche di altre lingue. Tuttavia, sembrava che la stagione dei colpi di Stato nel sub-continente fosse terminata. E invece no: il Presidente dell’Honduras, Manuel Zelaya, è stato deposto dall’esercito e trasferito in Costa Rica. Al suo posto, per ora, è salito al potere il Presidente della Camera, Roberto Micheletti. Le ragioni dell’intervento militare stanno nel tentativo di Zelaya di ottenere, tramite referendum, la possibilità di ripresentarsi ad libitum alle elezioni, modificando la costituzione così come hanno già fatto il venezuelano Hugo Chávez, suo principale alleato, e l’ecuadoregno Rafael Correa.

I CONTI SENZA “L’OSTE” – Zelaya tuttavia deve aver peccato di eccesso di sicurezza. Se Chávez e Correa sono riusciti ad ottenere la facoltà di essere rieletti in eterno, è perchè il loro potere si poggia su basi indubbiamente più salde. In Honduras, invece, è chiaro che l’esercito non sta dalla stessa parte del leader appena deposto. Zelaya è stato eletto democraticamente nel 2005 professandosi “liberale”, ma ha poi virato a sinistra aderendo al “socialismo del XXI secolo” di cui il caudillo venezuelano è la principale espressione.  

 

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LE REAZIONI NEL MONDO – Praticamente tutti gli Stati si sono affrettati a condannare il golpe militare: anche gli stessi Stati Uniti hanno espresso la loro disapprovazione, allineandosi in questo caso al Venezuela. La Casa Bianca ha però detto esplicitamente di auspicare che non vi siano “interferenze dall’esterno”: un messaggio abbastanza chiaro rivolto a Caracas, che ha annunciato il possibile ricorso all’esercito se non verrà ripristinata l’autorità di Zelaya. Due sono dunque gli schieramenti, che nella fattispecie si intersecano come due rette perpendicolari. Da una parte, la maggior parte della comunità internazionale non può esimersi dal condannare l’evento in quanto contrario alla legalità. Dall’altra, il Venezuela rischia di perdere un alleato nella regione. Certo è che in questo momento una ripresa dell’instabilità nel continente latinoamericano non gioverebbe a nessuno. 

Davide Tentori 29 giugno 2009 [email protected]

Nuova ALBA?

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Si è svolto il vertice straordinario dell’ALBA, organizzazione latinoamericana guidata dal Venezuela. Un passo avanti verso l'integrazione regionale?

NTEGRAZIONE ECONOMICA “ANTI-USA” – Il 24 giugno si è tenuto in Venezuela il vertice straordinario dell’ALBA, organizzazione alternativa al disegno dell’ALCA.  Procediamo con ordine per non generare confusione. L’ALCA è un progetto lanciato alcuni anni fa dagli Stati Uniti per dare vita ad un’area di libero scambio potenzialmente “onnicomprensiva” del continente americano, che però non ha ancora visto la luce per l’opposizione di numerosi attori latinoamericani, guidati dal Venezuela di Hugo Chávez.  Fu proprio su iniziativa di quest’ultimo che, nel 2004, fu fondata l’ALBA, acronimo  di Alternativa Bolivariana per le Americhe, allo scopo di creare un modello di integrazione economica basato sul “socialismo del XXI secolo” di cui il leader venezuelano si fa alfiere. 

ARRIVA ANCHE L’ECUADOR – Il vertice di mercoledì scorso doveva sancire l’ingresso di tre nuovi membri: Ecuador, Saint Vincent and the Grenadines e Antigua e Barbuda. Il numero dei soci sale ora a nove, anche se i soggetti principali sono, appunto, Venezuela ed Ecuador, oltre alla Bolivia. L’ingresso di Quito rappresenta un significativo passo in avanti dal punto di vista del “peso” economico (l’Ecuador è l’ottava economia dell’America Latina, mentre il Venezuela è la quarta), ma non va esagerata l’importanza di questo evento dal punto di vista dell’integrazione commerciale e finanziaria. L’ALBA si trova infatti ancora in una fase embrionale e tra il suo principale attore, che è anche il quarto esportatore mondiale di petrolio, e gli altri membri, è presente un divario netto. 

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UN RICHIAMO ALL’IRAN – Nel corso del vertice Chávez ha anche manifestato la vicinanza di tutti gli Stati al presidente dell’Iran, Mahmud Ahmadinejad, e alla “rivoluzione islamica” che questi sta portando avanti. Venezuela e Iran sono particolarmente legati, soprattutto a livello politico dalla retorica anti-USA, e anche a livello finanziario per la recente creazione di un fondo comune di garanzia. Rimane però da chiarire quale rilevanza abbia per una nazione minuscola come la Dominica (membro dell’Alba) sostenere la “rivoluzione islamica” degli ayatollah. La verità sottesa all’ALBA, al momento, è dunque che si tratta più di uno strumento di controllo geopolitico nelle mani di Caracas più che di un effettivo esperimento di integrazione regionale.

Davide Tentori 27 giugno 2009 [email protected]