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Uruguay, successi e fragilità di un’economia proiettata al futuro

Dopo il successo sociale ed economico conseguiti da Mujica, l’Uruguay si trova oggi di fronte alla necessità di estendere il risultato della riconversione ecologica ad altri settori oltre quello primario, in modo da evitare i rischi connessi a una bassa diversificazione della produzione. Ha le carte in regola per vincere la sfida

LE RADICI DELL’ANOMALIA URUGUAYANA – Nel 1918, mentre in Europa deflagrava la Prima guerra mondiale e in America Latina la normalità era l’impazzare di elitari conflitti intestini tra liberali e conservatori, l’Uruguay concedeva il voto alle donne e il diritto alla separazione coniugale, nonché ferie pagate ad alcune categorie di lavoratori. Qualche tempo dopo, quando la crisi economica stava sconvolgendo il mondo e paesi quali il Brasile e l’Argentina cercavano di individuare lo schieramento su cui scommettere in un secondo conflitto mondiale ormai imminente, l’Uruguay dichiarava la propria neutralità e approfittava della transizione per investire ingenti risorse nell’ammodernamento della burocrazia statale, impegnandosi a commerciare efficacemente prodotti agricoli con tutti i paesi coinvolti nella guerra. Atteggiamenti anticonformisti di questo tipo, a metà tra lungimiranti scelte politiche e opportunismi contingenti, hanno reso l’Uruguay una sorta di isola felice, tanto da meritarsi il bizzarro appellativo di Svizzera dell’America Latina. Anche nelle storie più idilliache, però, si possono scorgere minacce all’orizzonte. Così, proprio quando il resto del mondo si è finalmente accorto dell’Uruguay e delle sue virtù, alcuni scricchiolii sembrano oggi minarne l’integrità. È opportuno tentare di decifrarli.

IL RITORNO DI UNA VOCAZIONE PROGRESSISTA – Dopo lunghi anni di dittatura militare e governi conservatori che hanno saputo coprire le malefatte dei regimi, il nuovo millennio ha ridestato le antiche vocazioni progressiste dell’Uruguay. La coalizione di sinistra denominata del Fronte Ampio governa infatti ininterrottamente il paese dal 2004, anno in cui è stato eletto per la prima volta il medico ed ex sindaco di Montevideo Tabaré Vázquez. La vera svolta sia politica che mediatica si è avuta però solo nel 2009, quando alla presidenza è salito José Mujica, ex guerrigliero tupamaro imprigionato per anni dalla dittatura. Al di là del troppo spesso banalizzante racconto occidentale, che ha dipinto Mujica come il fautore di una sorta di decrescita felice, anticonsumistica e pauperistica, nel quinquennio del presidente più povero del mondo, come è stato ribattezzato a causa di uno stile di vita frugale, l’Uruguay ha intrapreso profonde riforme e “balzi in avanti”, sia nel campo dei diritti civili che nella politica economica. Se dal primo punto di vista grande scalpore hanno destato la legalizzazione dei matrimoni omosessuali, delle droghe leggere e dell’aborto, non molto si è invece detto sull’indirizzo economico che Mujica ha cercato di imprimere al paese. Eppure è proprio nei nodi cruciali delle strategie produttive e commerciali che sembra giocarsi la possibilità per l’Uruguay di rimanere un’isola felice nel mezzo di un continente con ancora troppe vene aperte, come denunciò in un celebre libro uno tra i più grandi scrittori latinoamericani del Novecento, Edoardo Galeano, nato proprio a Montevideo e recentemente scomparso.

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Fig. 1 – L’ex Presidente dell’Uruguay Mujica

I RISULTATI CONCRETI DI UN PAESE AMBIZIOSO – Negli anni della sua presidenza Mujica ha più volte indicato un obiettivo irrinunciabile, insieme misura e legittimazione di un cinquantennale impegno politico: la riduzione della povertà, ritenuta l’espressione di un inaccettabile degrado umano prima che economico. Seppur non completamente, la missione può dirsi oggi compiuta. Nel 2015 i poveri uruguaiani, secondo i criteri adottati dalla Banca Mondiale, rappresentavano appena il 10% della popolazione, a dispetto del 40% di appena cinque anni prima. Con un reddito pro capite superiore ai 16000 dollari annui, l’Uruguay è inoltre il paese più ricco del Sud America, in cui spicca anche una distribuzione del reddito piuttosto egualitaria rispetto alla media del continente. Nel contesto di un incoraggiante quadro macroeconomico, le politiche intraprese da Mujica si caratterizzano per un approccio molto distante dalle facili tendenze assistenzialiste che storicamente caratterizzano il rapporto tra stato e mercato in America Latina. Ad emergere è un modello di intervento pubblico protettivo nei confronti degli esclusi ma allo stesso tempo incentivante, e inclemente in caso di abuso, rispetto al settore privato. L’esempio che emerge su tutti è l’ambizioso piano di riconversione energetica e gli effetti che questo ha avuto in particolare sulla produzione e il commercio agricolo. Se infatti l’economia uruguayana rimane caratterizzata da una certa ipertrofia del settore primario, la virata verde dell’ultimo decennio ha impresso sul paese un ulteriore marchio di originalità, oltre che di lungimiranza, ponendo al centro del dibattito politico la necessità di coniugare concretamente sviluppo economico e sostenibilità ambientale.

LA RICONVERSIONE ENERGETICA DI UN’ECONOMIA AGRICOLA – Attraverso i flussi commerciali, con appena tre milioni e mezzo di abitanti l’Uruguay “sfama” oltre trenta milioni di persone. Tradotto in termini macroeconomici, ciò significa che l’industria agricola è una voce assolutamente strategica nella bilancia commerciale. I dati, del resto, lo confermano chiaramente: il settore primario rappresenta circa il 75% delle esportazioni, raggiungendo un volume d’affari di quasi 8 miliardi di dollari. Oltre il 17% degli uruguaiani sono inoltre occupati direttamente in agricoltura, con imprese che vanno dal settore caseario a quello delle carni, passando dalle colture vinicole, risiere e cerealicole. Piuttosto impressionante è anche il rapporto tra consumo interno ed estero: il 70% delle carni e dei prodotti caseari vengono esportati, cifra che raggiunge addirittura il 97% nel caso del riso e della soia. Se certamente i dati aggregati a volte dicono poco se non contestualizzati, è altrettanto vero che emerge chiaramente un quadro di profonda dipendenza dalla domanda estera, circostanza che fa l’Uruguay un po’ meno diverso dagli altri paesi latinoamericani, specialmente quelli medio-piccoli. In un contesto simile la recente riconversione energetica assume un ruolo del tutto peculiare che va attentamente analizzato. Grazie agli investimenti diretti dello stato voluti da Mujica e agli incentivi alle imprese private, oggi l’Uruguay copre il 94,5% del fabbisogno elettrico e il 55% del fabbisogno complessivo grazie alla energie rinnovabili, in particolare l’eolico, il solare e le biomasse. Se i trasporti sono il settore ancora maggiormente legato agli idrocarburi (esattamente per il 45%), è nell’agricoltura che la svolta energetica ha avuto un impatto più radicale: oltre il 90% degli impianti, infatti, è alimentato da sistemi di cogenerazione a biomasse, che hanno ridotto di oltre il 70% i costi dovuti all’importazione di petrolio e derivati, scarsamente disponibili all’interno. È proprio in questo continuo e delicato intreccio tra l’eccezionale rivoluzione ecologica e l’emancipazione dalla dipendenza estera che l’Uruguay sembra giocare oggi la sua più importante partita economica.

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Fig. 2 – L’attuale presidente, Tabarè Vazquez (a dx) durante un incontro con l’ex premier israeliano, Olmert (a sx). 

LE NECESSARIE SFIDE FUTURE – L’utilizzo delle energie rinnovabili non rappresenta per l’Uruguay solo un irrinunciabile valore sociale e solidaristico nei confronti delle generazioni future, come Mujica ha più volte sottolineato, ma è diventata di fatto anche una strategia competitiva sui mercati internazionali. Convoglia, in altri termini, su una scelta di politica economica in grado di agire direttamente sul lato dell’offerta, ossia sulla capacità delle imprese di proporre prodotti di qualità, rispettosi dell’ambiente e a prezzi adeguatamente bassi. È una strategia che si innesta, seppur in modo del tutto peculiare, in un sentiero di sviluppo trainato dalle esportazioni. Il rischio è quindi di andare ancora incontro ai problemi tipici di un’economia extravertita, come gli studiosi dipendentisti latinoamericani definivano negli anni Settanta i paesi fortemente dipendenti dal commercio di materie prime. Così il successore di Mujica alla presidenza, Tabaré Vázquez, eletto nuovamente nel 2015, se può godere delle radicali riforme sociali ed economiche del suo predecessore si trova comunque ad affrontare i nodi irrisolti di quella stessa strategia. Quest’ultimi riguardano in particolare la capacità di diversificare la produzione e di renderla meno dipendente da una domanda estera che l’Uruguay non genera ma subisce e che è oggi rappresentata perlopiù dal Brasile, dalla Cina e dalla Russia. Dopotutto assistiamo con una certa ricorrenza alla flessione dei prezzi mondiali dei beni primari, tradizionalmente soggetti a ondate speculative e quindi inaffidabili fattori di sviluppo sul lungo periodo, nonché alla emergente concorrenza di nuovi produttori. Anche se i dati macroeconomici dell’Uruguay rimangono nel complesso buoni, con una crescita economica che si attesta all’1,4% e un’inflazione inferiore al 9%, le fragilità intrinseche a un’economia primaria possono minacciare anche le migliori isole felici. Dalla svolta ecologica che abbraccia la politica agricola sembra oggi necessario passare alla riconversione energetica come strategia complessiva di diversificazione del settore produttivo, in grado cioè di indirizzare l’innovazione tecnologia verso altri settori tendenzialmente più dinamici, come quello dell’industria verde. Aspettiamoci sviluppi importanti: lo spirito audace dell’Uruguay potrebbe ancora sorprendere il mondo.

Riccardo Evangelista

[box type=”shadow” align=”” class=”” width=””]Un chicco in più

Recentemente Mujica è approdato in Italia per presentare il suo libro autobiografico, Una pecora nera al potere. Il messaggio che ha voluto lanciare è l’emblema della sua storia: “Chi accumula denaro è un malato”. La “narrazione” anticonsumistica dell’ex tupamaro trova oggi sponda nelle denunce di Papa Francesco e propone una simbolica alleanza tra due paesi, come l’Uruguay e l’Argentina, storicamente acerrimi rivali.[/box]

Foto di copertina di jikatu Rilasciata su Flickr con licenza Attribution-ShareAlike License

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Riccardo Evangelista
Riccardo Evangelista

Sono nato nel 1987 in provincia di Frosinone. Dopo una laurea triennale in Scienze Politiche e una magistrale in Sviluppo e Cooperazione, a inizio 2016 ho conseguito il dottorato di ricerca in Sviluppo economico: analisi, politiche e teorie presso l’Università di Macerata. Mi interesso disordinatamente di politica economica, storia dell’economia e teorie dello sviluppo. La mia passione per l’America Latina nasce identificandola con un sogno, troppo spesso infranto: quello di un mondo più giusto. Io, comunque, continuo a crederci. Tra gli hobby vanno annoverati la lettura, un attento apprezzamento per il cibo e una certa morbosità per il gioco del calcio (in televisione).

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