Analisi – Dopo mesi di chiusura dei confini, l’Australia prova faticosamente a riguadagnare centralità nello scacchiere internazionale. Le esitazioni del Governo sui vaccini, i cambi di rotta nei progetti di difesa, le contraddizioni sulla politica climatica e le tensioni con la Cina rischiano di isolare ancora di più il Paese.
RIAPRONO I CONFINI (ANCHE PER I VISTI TEMPORANEI)
A quasi due anni dalla chiusura dei confini a causa della pandemia l’Australia – o meglio una parte di essa – ha finalmente riaperto le porte ad alcune categorie di viaggiatori. A partire dallo scorso 1° novembre, infatti, gli Stati del New South Wales, del Victoria e l’Australian Capital Territory consentono il libero movimento in entrata e in uscita ai cittadini australiani, ai residenti permanenti e alle loro famiglie, purché in possesso della copertura vaccinale completa.
Il Governo aveva inizialmente previsto che dal 1° dicembre i confini venissero riaperti anche per i titolari di visti temporanei di lavoro e di studio, salvo poi fare marcia indietro e rinviare di due settimane la decisione in attesa di monitorare gli effetti della nuova variante Omicron. Da martedì scorso (15 dicembre), dopo circa 20 lunghissimi mesi di attesa, migliaia di studenti e di lavoratori possono finalmente fare rientro in Australia, a condizione che siano vaccinati. Solo i prossimi mesi sapranno dire se il Paese ha mantenuto il proprio appeal internazionale, specialmente nel competitivo mercato della formazione pre e post-universitaria, che in Australia rappresenta uno dei settori più floridi e profittevoli grazie al contributo di quasi un milione di studenti l’anno, in gran parte provenienti dall’Asia. È indubbio che l’Australia non abbia badato troppo per il sottile nella gestione della pandemia, chiudendo la porta e precludendo la possibilità di rientro a centinaia di migliaia di persone che qui risiedono stabilmente.
Sul fronte dell’emergenza sanitaria i numeri risultano ormai stabili da diverse settimane, con Melbourne che registra circa un migliaio di casi al giorno, seguita da Sydney con qualche centinaio e Canberra con poche decine. Non è casuale che siano state proprio le tre città maggiormente colpite a decidere di uscire per prime dall’isolamento, dopo aver accettato l’idea che la strategia degli zero contagi fosse ormai irrealistica e irragionevole. Da poche settimane anche il South Australia ha deciso di riaprire i confini interni, una scelta alla quale si sono aggiunti nelle scorse ore anche gli Stati del Queensland e della Tasmania. Con l’unica eccezione del Western Australia, che pare deciso a resistere a oltranza, l’Australia sembra finalmente in procinto di normalizzare gli spostamenti interni in vista del periodo natalizio, per la felicità di intere famiglie che da quasi due anni attendono il momento del ricongiungimento.
Dopo le esitazioni iniziali da parte del Governo e dell’opinione pubblica il Paese ha rapidamente recuperato sul fronte vaccinale, con la percentuale della popolazione interamente immunizzata adesso al 74% (78% se si considerano anche le prime dosi). Per l’Australia rimane l’onta di essersi trovata per lunghi mesi agli ultimi posti nella classifica dell’OECD (Organisation for Economic Co-operation and Development) per tasso di vaccinazione, una strategia di attendismo miope e sterile, che ha costretto il Paese a un periodo di isolamento lunghissimo e a innumerevoli lockdown.
Fig. 1 – L’aeroporto di Sydney ancora mezzo vuoto, nonostante la parziale riapertura dei confini australiani, dicembre 2021
L’AFFAIRE AUKUS
Ad aggiungere una nota di colore al già peculiare isolazionismo australiano hanno contribuito negli scorsi mesi alcune scelte controverse adottate dal Governo a livello di politica internazionale.
Lo scorso settembre, al culmine di un concitato giro di telefonate tra Canberra e Parigi, l’Eliseo decideva di richiamare in patria l’ambasciatore francese in Australia, una mossa che nel linguaggio diplomatico rappresenta la più palese e veemente forma di protesta verso le decisioni del Governo ospite. Poche ore prima il premier australiano Scott Morrison aveva formalizzato al Presidente francese Emmanuel Macron come l’Australia avesse scelto di recedere dal contratto, firmato nel 2016 e ratificato nel 2019, del valore di 90 miliardi di dollari australiani per la fornitura di dodici sottomarini ad opera di Naval Group, fiore all’occhiello dell’industria militare e navale francese. La motivazione addotta dal Governo australiano è di natura puramente strategica: la notifica della cancellazione del contratto alla controparte francese, infatti, ha preceduto solo di poche ore l’annuncio di un nuovo accordo trilaterale tra Australia, Regno Unito e USA – denominato AUKUS – relativo allo sviluppo congiunto di capacità informatiche e militari. In termini concreti l’Australia si è impegnata ad acquistare otto sottomarini nucleari dagli Stati Uniti, non ritenendo il sistema di propulsione convenzionale dei sottomarini francesi sufficiente a contrastare la presenza di altre potenze nel Mar Cinese Orientale. Ovviamente si tratta di uno degli effetti dell’escalation di tensioni in atto con Pechino da ormai due anni.
Se per un verso la scelta ha un suo fondamento da un punto di vista militare, a far infuriare Parigi sono stati i tempi dell’annuncio e la scarsa trasparenza del processo di revisione del contratto, che evidentemente era in atto da tempo. Basti dire che Macron aveva ottenuto rassicurazioni in merito nel corso di un meeting bilaterale tenutosi a Parigi a metà giugno. A riprova della gravità dell’accaduto c’è la serie di reazioni che questo ha innescato, a cominciare da quella del Presidente americano Joe Biden, il quale si è “scusato” con la Francia per l’infelice tempismo dell’annuncio del progetto AUKUS, sostenendo inoltre di essere convinto che l’Australia avesse già avvertito la Francia nei modi dovuti della cancellazione del precedente contratto. Una gaffe internazionale di proporzioni enormi.
La tensione tra Australia e Francia è poi proseguita nel corso del G20 di Roma di fine ottobre. Incalzato dai giornalisti, alla domanda se a suo avviso il Primo Ministro australiano gli avesse mentito, il Presidente Macron ha risposto: “Non lo credo, lo so per certo”. Un giudizio pesantissimo, che è stato ripreso da tv e giornali di tutto il mondo, creando non poco imbarazzo anche all’interno della maggioranza di Governo. Sentitosi messo all’angolo, Scott Morrison ha deciso di pubblicare sui media la chat via sms tra lui ed Emmanuel Macron per dimostrare come lo avesse avvertito personalmente prima dell’annuncio di sospensione dell’accordo. Una scelta non esattamente di protocollo, che ha lasciato perplessi gli ambienti diplomatici.
Fig. 2 – Il premier australiano Scott Morrison (a destra) insieme al Segretario alla Difesa USA Lloyd Austin, settembre 2021
LA CONTROVERSA POSIZIONE AUSTRALIANA ALLA COP DI GLASGOW
L’altro grande banco di prova internazionale è stato la Climate Change Conference tenutasi a Glasgow dal 31 ottobre al 12 novembre.
Quella dell’Australia e delle conferenze climatiche è una storia travagliata, che ha portato in dote al Paese una reputazione non proprio invidiabile, di lobbista per l’industria del carbone a livello internazionale. Alla COP3 del 1997, quando il mondo si riunì a Kyoto per firmare il primo accordo globale sul clima con l’obiettivo di ridurre le emissioni di gas serra, l’Australia rappresentata dal premier John Howard ingrossò le fila delle economie emergenti intenzionate ad andare in direzione esattamente opposta, annunciando un aumento delle sue emissioni pari all’8%. L’orientamento cambiò radicalmente quando nel 2007 fu eletto premier il laburista Kevin Rudd, il quale alla COP13 di Bali si guadagnò una standing ovation annunciando che l’Australia avrebbe ratificato l’accordo di Kyoto. Il successivo Governo presieduto da Julia Gillard si spinse addirittura oltre, contribuendo a istituire il sistema di scambio di quote di emissione (Emission Trading System – ETS) a livello mondiale. Quando tuttavia la Coalizione di centrodestra tornò al Governo nel 2013 col Primo Ministro Tony Abbott, l’ETS fu tra le prime politiche climatiche a essere abbandonata dall’Australia. Il colpo di grazia a tutte le velleità ambientalista, che pure si erano fatte strada anche all’interno della Coalizione durante il Governo di Malcom Turnbull, è giunto quando a questi è succeduto l’attuale premier Scott Morrison, al culmine di una faida tutta interna al partito liberale. Nel 2018 l’Australia ha infatti deciso di uscire dal Green Climate Fund delle Nazioni Unite (GCF), vale a dire il meccanismo di sostegno finanziario dai Paesi ricchi per aiutare i Paesi in via di sviluppo ad adattarsi ai cambiamenti climatici.
Con queste premesse non stupisce che l’Australia abbia agito anche stavolta da freno alle ambizioni di vasta parte dei Paesi sviluppati di superare definitivamente la dipendenza da metano e carbone. L’epilogo è noto: dopo una mediazione estenuante la Cina, ma soprattutto l’India, hanno ottenuto di attenuare il testo della dichiarazione finale della Conferenza. Il passaggio in cui si imponeva la “eliminazione” dell’energia elettrica sviluppata tramite combustione del carbone si è tramutato in una “riduzione graduale” (da “phase-out” a “phase-down”). Questo non ha impedito al Primo Ministro britannico Boris Johnson di affermare che il vertice sul clima COP26 a Glasgow ha rappresentato “la campana a morto per l’energia a carbone”, una dichiarazione da cui il premier australiano si è immediatamente dissociato, sostenendo che ridurre gradualmente il carbone non significa la fine dei combustibili fossili. Contraddizioni ed equilibrismi semantici facilmente spiegabili, se si considera che l’Australia rimane il più grande esportatore di carbone al mondo e il secondo di gas liquido (LNG).
Nel Paese si registra da anni un dibattito fortemente polarizzato tra la visione della maggioranza di Governo, la cosiddetta Coalition che raggruppa i Liberal e il National Party, più orientata a proteggere l’industria mineraria, e l’agenda politica di stampo molto più ambientalista del partito di opposizione, il Labour. Con l’opinione pubblica sempre più preoccupata dell’impatto che i cambiamenti climatici stanno avendo sull’Australia – si pensi ai roghi devastanti di fine 2019 – c’è da scommettere che l’obiettivo delle emissioni zero sarà uno dei temi caldi della campagna elettorale in vista delle elezioni della prossima primavera.
Fig. 3 – Manifestazione ambientalista a Sydney durante i giorni della COP26 di Glasgow, novembre 2021
IL BOICOTTAGGIO DELLE OLIMPIADI INVERNALI IN CINA
Alimentando le tensioni già in atto da diverso tempo con Pechino, e nel solco di un filoamericanismo mai così forte, come testimoniato dall’affare AUKUS, l’Australia si è affrettata nelle scorse ore ad allinearsi alla decisione del Presidente americano Joe Biden di boicottare per via diplomatica i prossimi giochi invernali, in programma in Cina dal 4 al 22 febbraio 2022. È bene precisare che il boicottaggio non riguarderà gli atleti, ma solo le rappresentanze politiche e diplomatiche, che non si uniranno alla delegazione australiana.
Alla base della decisione la protesta contro il genocidio e i crimini contro l’umanità perpetrati dal Governo cinese ai danni della minoranza uigura nella regione dello Xinjiang. Una motivazione indubbiamente nobile, il cui tempismo tuttavia alimenta più di un dubbio circa la motivazione politica della scelta. La questione umanitaria in quella provincia è aperta da anni, ma è stata finora osservata con distrazione da parte dell’Occidente, all’insegna del principio di non ingerenza nelle questioni interne, tanto caro a Pechino.
L’ennesimo fronte diplomatico caldo per l’Australia, i cui confini stanno forse riaprendo, ma i cui rapporti internazionali sono ancora tutti da riscrivere.
Dario Privitera
“Sailors aboard USS New Orleans (LPD 18) wave as the ship breaks away from HMAS Canberra (L02) during operations in the Pacific Ocean.” by Official U.S. Navy Imagery is licensed under CC BY