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ABEmus premier

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Il 16 dicembre si sono tenute in Giappone le prime elezioni politiche post Tsunami, che hanno riportato al governo i conservatori, dopo la breve parentesi del triennio a guida progressista. Il partito Liberal Democratico di Shinzo Abe ha vinto con le solite parole d’ordine che in momenti di difficoltà catalizzano l’attenzione di un popolo in cerca di una guida forte. L’analisi del voto e gli scenari che si prospettano

 

UN’ANALISI DEL VOTO – Come da previsione, Shinzo Abe, leader del “Partito Liberal-Democratico”(DLP), principale formazione di centrodestra del paese del Sol Levante, ha trionfato alle elezioni politiche dello scorso 16 dicembre. Una vittoria schiacciante sul candidato del centro-sinistra, il premier uscente Yoshihiko Noda, al governo nell’ ultimo triennio, 2009-2012. Vittoria prevista quella di Abe, già primo ministro tra il 2006 e il 2007, che tuttavia, va al di là delle aspettative. Il DLP vince infatti con oltre il 60% dei consensi,ottenendo circa 300 dei 480 seggi della camera bassa e conquistando la maggioranza qualificata che permetterà di evitare l’empasse politica dei veti incrociati alla camera alta. Bene anche gli ultra nazionalisti del “Partito per la Restaurazione del Giappone”(JRP), terza forza del paese con l’11% dei consensi e i buddisti del “Nuovo Komeito” con il 6% delle preferenze. Gli sconfitti sono il “Partito Democratico del Giappone”(DPJ) al 12%, da cui il premier uscente Noda ha rassegnato le dimissioni, e gli antinuclearisti di “Giappone futuro” fermi al 2%. “Paghiamo il prezzo pesante di scelte necessarie -le prime parole di Noda- e me ne assumo la responsabilità”.

 

SCENARI PREOCCUPANTI – Le principali cause della debacle elettorale del DPJ sono da ricercarsi nella pesante crisi economica in cui versa il paese e nelle scintille con i “vicini di casa” che stanno per innescare un incendio il cui scoppio sarebbe difficile domare. Un capitolo a parte merita la vicenda sul nucleare, in un Paese ancora scosso dalla tragedia di Fukushima e che ha visto l’argomento al centro del dibattito elettorale. Abe a differenza dello sconfitto Noda è parso poco convinto sulla necessità della chiusura totale delle centrali nucleari, principale fonte energetica del Paese. La sua vittoria potrebbe far riflettere sul fatto che i giapponesi la pensino come lui: sarà determinante osservare nei prossimi mesi quali saranno le decisioni di politica energetica che verranno adottate dal nuovo governo. Ma andiamo con ordine. Sul piano economico il Giappone è in una situazione molto delicata, l’altissimo debito pubblico e l’elevata età media della popolazione incidono sul tasso di crescita economica del Paese, fermo all’1.2%. Ad ulteriore conferma, il FMI sostiene che la maggior parte dell’ enorme debito pubblico, pari al livello astronomico del 230% del PIL, sia dovuto proprio all’incremento della spesa pubblica per la previdenza sociale, in primis pensioni e sanità. I tagli alla spesa pubblica e il previsto aumento dell’iva, dal 5 all’8 % nel 2014 fino al 10% nel 2015, per far fronte a questa emergenza, non sono piaciuti ai giapponesi. Misure che si sono sommate inoltre alla grave crisi delle esportazioni verso i paesi dell’area euro e soprattutto verso il principale partner commerciale nipponico, la Cina.

 

I RAPPORTI CON I VICINI – Situazione quest’ultima, deterioratasi parecchio negli ultimi mesi a causa delle frizioni per il controllo dell’arcipelago Senkaku-Diaoyu, formalmente giapponese ma rivendicato a gran voce dal gigante asiatico. Una delle tante ambiguità territoriali lasciate in eredità dalle diplomazie occidentali dopo lo scioglimento degli imperi coloniali asiatici. In estate alcune “delegazioni” di nazionalisti di ambo le parti hanno fatto “visita” alle isole in questione muniti di bandiere e striscioni rischiando di mettere in pericolo la pace nella zona. Anche con la Corea del Sud la situazione è tesa per la disputa su alcuni isolotti da decenni sotto controllo sud coreano e rivendicati in questo caso dal Giappone, ovvero le isole Dokdo-Takeshima. Ad agosto la visita sulle isole contese del presidente Sud Coreano Lee Myung-bak, ha scatenato l’ira del governo giapponese che ha richiamato il suo ambasciatore da Seoul. Nelle prime dichiarazioni post-voto il premier neo eletto, ha rilanciato la necessità di “rispondere alle provocazioni di Cina e Corea del Sud”, dichiarazioni precedute da un infuocata campagna elettorale improntata su forti slogan nazionalistici e anti-cinesi. Non bisogna dimenticare infine il pericolo nordcoreano che poche settimane fa ha completato il lancio del missile balistico UNHA-3  provocando un terremoto diplomatico in Asia orientale e non solo. Numerose le voci di condanna, da Ban Ki Moon segretario generale dell’ONU, alle principali cancellerie occidentali, Stati Uniti in testa.

 

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IL PACIFICO E’ PIU’ LARGO? – Proprio agli Stati Uniti guarda con rinnovata fiducia il neo premier, che ha bisogno ora più che mai dell’appoggio americano. Non a caso la prima visita di Abe in gennaio sarà proprio alla Casa Bianca, un segnale che può voler dire “non lasciateci soli”. Gli Stati Uniti tuttavia difficilmente potranno schierarsi apertamente a fianco del Giappone contro la Cina super-potenza asiatica con la quale vi è ormai una interdipendenza strategica. Il Giappone ha scelto di affidarsi a Shinzo Abe, soprannominato il “falco”, per dirimere le pericolose questioni territoriali e far ripartire l’economia della terza potenza mondiale. La situazione ha bisogno di una scossa immediata, per riconsegnare al Paese del Sol Levante il ruolo chiave negli equilibri dello scacchiere geopolitico in estremo oriente. Abe sarà in grado di darla?

 

Filippo Carpen

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L’anno che verrà

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Un augurio, un grazie, e l’annuncio delle prossime, grandi novità: il saluto di fine anno della redazione del Caffè

 

Cominciamo dagli auguri: buon Natale, da tutti noi del Caffè Geopolitico! Anche noi, come tutti, ci prendiamo qualche giorno di festa. Non saremo però del tutto a riposo: e in poche righe, oltre agli auguri ne approfittiamo anche per alcune “comunicazioni di servizio”. Vogliamo quindi condividere con voi i preparativi per la grande novità del 2013: un sito completamente nuovo, pieno di novità sotto tutti i punti di vista. Siamo in piena fase di test, e fra poco tempo inizieremo il “lancio pubblicitario” e il countdown. Sarà questo un “regalo di Natale” un po’ ritardatario per ciascuno dei nostri lettori, una comunità che nel corso del 2012 è aumentata fortemente. Vi ringraziamo per averci accompagnati lungo tutto l’anno, compreso questo mese di dicembre in cui siamo stati un po’ meno presenti, proprio per questi lavori sul sito che vi abbiamo raccontato poco fa. Il 2012 è stato un anno decisamente intenso, e abbiamo cercato di raccontarvi e spiegarvi diversi tra gli scenari più importanti e intricati delle varie aree/continenti, cercando di utilizzare uno stile e un linguaggio che fossero quanto più possibile comprensibili a tutti: le analisi recentemente proposte in 10 punti o con cinque domande e cinque risposte vanno esattamente in questa direzione.

 

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Il 2013 avrà grandi novità anche in termini di contenuti, ma cercheremo anche di rispettare la tradizione del Caffè, sin dalle prime battute: come negli ultimi anni, nel mese di gennaio zaino in spalla, pronti a partire con l’edizione 2013 de “Il Giro del Mondo in 30 Caffè”, l’esclusivo outlook del Caffè che in trenta puntate circa vi accompagnerà nelle principali aree del mondo dove è a nostro avviso importante puntare l’obiettivo, raccontando e spiegando le situazioni che si stanno vivendo e i possibili scenari. Sarà solo l’inizio di un anno pieno di novità, da vivere insieme. E dunque adesso passate un buon Natale, fate festa ed abbuffatevi. Dopo le grandi mangiate, da Natale a Capodanno, serve sempre un ottimo Caffè: e per quello non preoccupatevi, ci pensiamo noi. Ancora un mondo di auguri!

 

Alberto Rossi

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Here to stay

Se, fino pochi anni addietro le risorse statunitensi erano dirette principalmente verso il Medio Oriente per la lotta al terrorismo, da qualche anno Washington, conscia delle nuove sfide geopolitiche, sta ricalibrando la distribuzione dei propri output. La Cina, mentre gli Stati Uniti erano concentrati sulla guerra contro il terrorismo dopo gli attacchi del 11/9, ha ampliato la propria influenza nel Sudest asiatico, ed è per questo che Washington sta raddrizzando il timone, dirigendo il proprio sforzo diplomatico verso l’Indocina ed i suoi paesi più influenti, come Vietnam, Indonesia, Filippine e Singapore

 

WE ARE HERE TO STAY – Con questo intervento, poco tempo fa, all’Università di Honolulu, il Presidente degli Stati Uniti Barack Obama ha aperto una nuova epoca nelle relazioni internazionali americane. Il baricentro dell’economia e della politica mondiale si è spostato verso il sud Pacifico, e Washington ne ha preso atto. Con l’amministrazione Obama, la politica estera statunitense si sta spostando sempre più decisamente verso l’area asiatica e Pacifica, rispolverando vecchie alleanze e cercandone di nuove, attraverso diversi canali.

 

LA COOPERAZIONE REGIONALE – Il principale canale d’azione è la cooperazione a livello regionale e gli organismi che regolano i rapporti tra gli stati rivieraschi. Washington, per contrastare Pechino, cerca di avere voce in capitolo nelle dispute locali, come quella per il mar cinese del Sud, e di essere attiva il più possibile nei forum politici più rilevanti, come l’ASEAN. L’ Association of South est Asian Nations, infatti, raggruppa i principali attori del Sudest Asiatico, ed è il luogo dove le questioni più scottanti vengono dibattute. Gli Stati Uniti, per ovvie questioni geografiche, non avrebbero diritto a parteciparvi ma, grazie al lavoro diplomatico di alcuni stati partner, come Singapore e Vietnam, si sta facendo strada una linea di apertura più estensiva, che potrebbe favorire gli interessi a stelle e strisce nell’area. Da qualche anno, comunque, gli Stati Uniti mantengono una missione permanente presso questa organizzazione.

 

LA COOPERAZIONE MILITARE Ad uno spostamento cosi massiccio di risorse nell’area, non poteva che corrispondere anche un maggior sforzo militare. Il principale attore messo in campo da Washington in questo ambito, è lo USPACOM, il comando militare che ha giurisdizione sull’area pacifica. Il Comando del Pacifico, sotto l’amministrazione Obama, ha visto un notevole rafforzamento e allargamento dei propri compiti, supportato da un importante ampliamento delle risorse. Questo strumento sarà infatti utilizzato sempre più nella logica di engagement statunitense, sfruttandone sia le opportunità militari, che quelle diplomatiche da esso dischiuse. A tal fine, è stato recentemente varato un piano di sicurezza e cooperazione per l’area pacifica (Theater Security Cooperation Plan). Questo piano prevede sei esercitazioni militari all’anno con gli Stati partner dell’area, frequenti scambi tra ufficiali ad alto livello, milioni di dollari stanziati in azioni di assistenza umanitaria e civile ed una miriade di conferenze di formazione sulla sicurezza internazionale, con relative sovvenzioni a decine di studenti internazionali in istituti militari americani.

 

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ERODERE L’INFLUENZA CINESE – Non solo stringere rapporti con vecchi alleati, ma crearne di nuovi, sottraendoli, possibilmente, al rivale cinese. Questa è la parola d’ordine dell’impegno diplomatico statunitense, che vede promuovere anche più ampie collaborazioni militari, oltre il TSCP. Il PACOM sponsorizza almeno altri sedici grandi progetti di esercitazioni militari internazionali con frequenze che variano dalla saltuaria alla più assidua. Tra questi ricordiamo il RIMPAC, l’esercitazione militare periodica più importante del mondo, che vede come protagonisti la Royal Navy e la USNavy, il COBRA GOLD, svoltosi il Febbraio di quest’anno in Thailandia, o ancora il GARUDA SHIELD in Indonesia, e molti altri. Gli Stati Uniti, attraverso un’intensificazione dei rapporti con i principali Paesi dell’area, cercano di recuperare il tempo perduto sullo scacchiere pacifico. Lo sforzo diplomatico e militare americano in Indocina è, a oggi, notevole, perché l’espansione di Pechino verso il Pacifico passa per il Mar Cinese del Sud, e questo Washington lo sa.

 

Marco Lucchin

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Il gigante ‘buono’

Fin dall’indipendenza dal Portogallo, datata 1822, il Brasile è stato indicato come il chiaro egemone regionale in Sudamerica: per dimensioni, popolazione e risorse nessun altro stato della regione appariva comparabile. Eppure, per anni lo stato verdeoro ha di fatto abdicato al proprio ruolo, preferendo concentrarsi sullo sviluppo interno nel timore delle reazioni dei vicini. Con Cardoso e soprattutto con Lula il Brasile sembra aver deciso di rivendicare il ruolo che le sue dimensioni gli assegnano quasi naturalmente. Il tutto, però, all’insegna del soft power

 

L’INTEGRAZIONE REGIONALE – Con Lula al governo la politica regionale brasiliana ha cambiato marcia. Già con Cardoso si erano sviluppati ambiziosi progetti di integrazione regionale, ma era mancato quel riconoscimento del ruolo di leader e di potenza egemone che il Brasile si vede assegnare da anni: per territorio, popolazione e PIL lo stato verdeoro equivale agli altri stati sudamericani messi assieme. Una volta al governo, Lula ha invece dichiarato apertamente il suo intento integrazionista, con un ruolo di primo piano per il Brasile. I forum e le organizzazioni regionali che hanno visto il Brasile come attore di primo piano o anche come principale promotore si sono moltiplicati: oltre al Mercosur, che riunisce Argentina, Brasile, Uruguay, Paraguay e da pochi mesi il Venezuela, il Brasile ha promosso la nascita della comunità delle nazioni sudamericane, l’UNASUR, il cui primo vertice si è tenuto proprio a Brasilia nel 2008. I timori della reazione dei vicini e lo spettro del balancing hanno da sempre frenato le ambizioni brasiliane, oltre ovviamente ai problemi interni che il paese ha vissuto nel corso dell’ultimo secolo. Fortunatamente per Lula, lo sviluppo di una nuova politica regionale è avvenuto in una congiuntura geopolitica quanto mai favorevole: la retorica integrazionista di Lula e la sua posizione politica di sinistra si sono ben sposate con un continente dove vari governi di sinistra e centro-sinistra sono arrivati al potere. Allo stesso modo, Lula ha sfruttato la scia della retorica integrazionista promossa da Chávez, con cui ha sempre intrattenuto buoni rapporti.

 

TRA VENEZUELA E BRASILE – Una delle chiavi di volta per accreditarsi come leader sudamericano è stato lo sviluppo del soft power brasiliano. Questo sviluppo si è fondato su tre elementi: il posizionamento (geo)politico intermedio, la proposta di un modello economico e politico di successo e gli elementi culturali di vicinanza con gli altri stati della regione. Proprio la presenza del Venezuela chavista ha favorito l’emergere del Brasile come potenza regionale: presentandosi come potenza riformista e non rivoluzionaria, a metà strada tra Stati Uniti e Venezuela, il Brasile ha guadagnato il favore di molti politici sudamericani. Diretta conseguenza del posizionamento intermedio tra Stati Uniti e Venezuela, il Brasile è stato abile a presentarsi come via intermedia tra il neoliberalismo statunitense ed il socialismo del XXI secolo di matrice chavista. Sfruttando anche il generale disinteresse di Washington per l’America Latina seguito all’11 settembre, Brasilia ha riempito un vuoto: quello di potenza egemone della regione, in grado anche di garantire dividendi importanti attraverso accordi commerciali e politici. L’abilità di Brasilia di gestire allo stesso tempo buoni rapporti con Washington e con Caracas testimonia il successo di questa posizione.

 

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IL SUCCESSO DI UN MODELLO – Il modello politico proposto sta alla base dei consensi riscossi dal Brasile nella regione: il modello brasiliano rispetta le leggi di mercato e punta alla crescita economica classica e allo sviluppo della classe media. Allo stesso tempo il governo brasiliano ha cercato di migliorare le condizioni di vita dei poveri attraverso la promozione di numerosi programmi assistenziali sullo stampo di quelli chavisti, garantendo al contempo una crescita economica sostenuta in grado di attenuare i problemi strutturali della popolazione. In questo modo ha potuto attirarsi simpatie da entrambi i fronti, pescando consensi sia fra chi si preoccupa delle condizioni socio-economiche delle fasce più disagiate della popolazione sia fra le classi medie. Molti leader politici regionali hanno ammesso di ispirarsi a Lula: l’ultimo è stato l’avversario di Chávez in Venezuela, Capriles, che sperava così di guadagnare consensi fra i sostenitori del rivale. Particolarmente significativo è il caso di Ollanta Humala in Perù: nelle elezioni del 2006 sosteneva di ispirarsi a Chavez, mentre nelle elezioni vinte nel 2011 si rifaceva a Lula.

 

LA VICINANZA CULTURALE – Storicamente, il Brasile ha scontato il fatto di essere l’unico paese lusofono fra paesi di cultura ispanica, cosa che non ha favorito l’affermazione del Brasile come potenza egemone nel tessuto sudamericano. D’altra parte, la potenza storicamente dominante nell’emisfero occidentale è Washington, che fin dalla Dottrina Monroe del 1823 ha reso esplicite le sue mire egemoniche sull’America Latina. Nel corso degli anni ’90, però, l’antiamericanismo è cresciuto esponenzialmente nella regione, aprendo opportunità interessanti per chi aveva la forza – retorica o sostanziale – di presentarsi come alternativa, culturale e politica ancora prima che economica. Pur non raggiungendo gli estremi venezuelani, il messaggio implicito della politica regionale brasiliana è quello di presentarsi come una potenza latinoamericana in grado di esercitare un ruolo di leadership per i suoi vicini, e non di mera potenza egemone sostanzialmente aliena da un punto di vista culturale. Chiaramente tutto ciò potrebbe non bastare a fugare i timori di un nuovo imperialismo brasiliano: alcune voci si sono già levate in questo senso. Inoltre, permangono a livello sudamericano numerose criticità che rallentano sia il processo di integrazione che l’affermazione di una concreta leadership brasiliana, che dovrebbe occuparsi proprio di risolvere questi ostacoli. La lista è lunga: dalla mancanza di infrastrutture moderne alle barriere protezionistiche fra i vari paesi, dai conflitti sui confini alle problematiche transfrontaliere. Infine, soprattutto con la Rousseff il Brasile sembra aver messo in secondo piano l’integrazione regionale, aprendosi al mondo ed intensificando i commerci con Cina e Africa in misura maggiore rispetto a quelli con i propri vicini. A dispetto di questo momentaneo allontanamento, il Brasile si è comunque affermato come la potenza principale del continente: ottenerne i dividendi con una politica regionale coerente sarà fondamentale per le ambizioni brasiliane a livello globale.

 

Francesco Gattiglio

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Piazza pulita

A due mesi dall’elezione di Bidzina Ivanishvili come Primo Ministro, la Georgia è spaccata da arresti di uomini politici, accuse e ambiguità. Il Presidente della Repubblica Saakashvili guarda con allarme la possibilità di una frattura interna alla nazione e lamenta il clima da “caccia alle streghe”. Ecco il ritratto di un paese spaccato

 

DUE MESI FA – Tbilisi trema” era il titolo di uno degli editoriali d’apertura dell’«Economist» del 1 Dicembre: una serie di arresti e una drammatica frattura tra le due cariche più alte della repubblica caucasica stanno scuotendo gli osservatori internazionali, a soli due mesi e mezzo dalla chiusura delle urne. Bidzina Ivanishvili e il suo partito “Georgian Dream-Democratic Georgia” hanno vinto le elezioni parlamentari con il 53% dei voti, sopravanzando di un buon 10% l’UNM, partito del Primo ministro uscente Vano Merabishvili. Forte l’impatto del voto di protesta di molti cittadini stanchi del dominio a senso unico del Movimento di Unità Nazionale. Il Presidente della Repubblica in quota UNM Mikhail Saakashvili ha assistito al disfacimento del consenso del proprio partito ma ha fatto buon viso a cattivo gioco, augurandosi una nuova fase di dialettica di cui l’intera nazione avrebbe potuto beneficiare.

 

GIUSTIZIA POLITICA” – Ben presto ci si è però capacitati della cattiva piega che stavano prendendo gli eventi. Ivanishvili e i suoi, cavalcando l’impetuosa onda del consenso popolare, hanno deciso di far arrestare e mettere sotto processo numerosi notabili dell’UNM, sfruttando vari capi d’accusa afferenti alla loro recente vita politica. Nonostante non tutte le imputazioni fossero infondate e il persistente ristagno politico avesse reso evidente tale situazione, s’è subito palesata la natura strumentale di molte delle accuse. Ben presto si è iniziato a parlare di “giustizia politica” e di assalto alla democrazia. L’indignazione internazionale s’è accompagnata a quella dei rappresentanti dell’UNM, facendo crescere le pressioni affinchè Ivanishvili recedesse dalle proprie posizioni e moderasse l’azione del proprio partito.

 

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RISCHI PER BIDZINA – Il 56enne Bidzina Ivanishvili è un uomo nuovo nella politica georgiana, ma la sua influenza nella vita economica della nazione è da anni tangibile. Ivanishvili è il 153° uomo più ricco al mondo secondo Forbes (Classifica aggiornata allo scorso settembre) e il primo in Georgia. Vanta amicizie forti in Russia, nazione in cui ha formato il proprio enorme capitale nel periodo delle grandi privatizzazioni, aumentandolo poi grazie a un’efficace speculazione nel mercato delle stock options. Il trionfo di Ivanishvili è stato dovuto al desiderio popolare di portare al potere non un politico, ma un uomo d’affari capace di risanare le casse dello stato, ricucire i rapporti con la Russia ed eliminare il malaffare e la corruzione presenti nel mondo politico. Proseguire l’irresponsabile caccia al nemico con cui ha inaugurato il proprio mandato avrà il deleterio effetto di spezzare in due la nazione e alienare a Ivanishvili il fondamentale appoggio della comunità internazionale, frustrando le speranze di chi cercava più democrazia e spaventando gli investitori esteri.

 

Andrea Ranelletti

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Islafrica?

Dopo l’elezione del nuovo Presidente, Hassan Sheikh Mohamud, e la riconquista di Chisimaio, la Somalia sta tentando di ricostruire un percorso verso la normalità. Tuttavia, al-Shabaab non è stata del tutto sconfitta, poiché i suoi miliziani si sono rifugiati tra Etiopia e Kenya per riorganizzarsi, mentre in Somalia restano bande di islamisti e, probabilmente, l’emiro del gruppo, Abu Zubeyr, collegato ad al-Qaida. Il rischio è che la diaspora di al-Shabaab possa favorire la creazione di un corridoio dell’islamismo combattente dalla penisola araba fino al Sahel occidentale

 

LA CADUTA DI CHISIMAIO – Il 28 settembre scorso, le truppe della coalizione a sostegno del Governo di Mogadiscio, composta da Kenya e AMISOM, sono riuscite a espugnare l’ultima roccaforte degli islamisti in Somalia, ossia Chisimaio. I combattenti di al-Shabaab avevano il saldo controllo della città portuale, cosicché i vertici militari di Nairobi hanno preferito non attaccare direttamente via terra, se non dopo alcune ore di intenso bombardamento aeronavale. Ai miliziani è stata interdetta ogni via di fuga, a eccezione di un corridoio controllato verso le zone rurali a nord-ovest. L’obiettivo dell’alleanza a favore di Mogadiscio, infatti, era dirigere gli uomini di al-Shabaab verso regioni più impervie a ridosso di Etiopia e Kenya, laddove per loro sarebbe stato più difficile riparare, considerate la scarsità di risorse dell’area e la tradizionale ostilità che la popolazione periferica somala ha sempre mostrato nei confronti delle formazioni combattenti islamiche.

 

PROGETTI DI RIORGANIZZAZIONE – Tuttavia, la conquista di Chisimaio non ha condotto alla sconfitta di al-Shabaab, poiché il gruppo, scisso in varie componenti minori, sta comunque riorganizzando le proprie energie sia all’interno, sia all’esterno dei confini della Somalia. Non è dato ancora sapere se il nome e la struttura del movimento saranno mantenuti, ma è evidente che i suoi miliziani stiano ricostruendo alcune cellule attive e operando per mantenere e rafforzare i collegamenti con altre organizzazioni terroristiche e gruppi di potere. Parte dei membri di al-Shabaab fuggiti da Chisimaio – definiti dai vertici del gruppo «in ritirata tattica» – ha superato la frontiera, stabilendosi nell’Ogaden, regione etiope a maggioranza somala, e nelle zone settentrionali del Kenya, come dimostrerebbero il grave attentato a Nairobi in novembre e le segnalazioni di convogli in movimento nelle aree su indicate. Abu Zubeyr, formalmente emiro di al-Shabaab e uomo fondamentale per l’alleanza con al-Qaida resa nota nel febbraio 2012, non è ancora stato individuato, mentre vicino alla città meridionale di Merca sarebbero nascosti Dahir Aweys – alla guida di Hizbul Islam, formazione sorta per scissione a settembre– e Abu Mansur “Robow”, noti esponenti dell’islamismo radicale somalo.

 

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AL-SHABAAB E AL-QAIDA – Nonostante i numerosi tentativi da parte di Stati Uniti ed Etiopia, tra il 2008 e il 2012 non sono mai emerse prove lampanti dei legami tra al-Shabaab e al-Qaida. Questo nonostante la formazione somala abbia provato a inserirsi nella rete del terrorismo jihadista internazionale, soprattutto sotto la guida dell’emiro al-Afghani (2010-2011). Probabilmente, fu lo stesso bin Laden a proibire l’unione, non fidandosi né dell’emiro, né di Abu Zubeyr, che già aveva guidato al-Shabaab fino al 2010. Al-Afghani, infatti, riteneva che le esperienze dell’Afghanistan e dell’Iraq potessero essere importate in Somalia, al punto che la sua fazione era composta di reduci del jihad e da stranieri che mal si integravano nel Corno d’Africa, tradizionalmente ostile all’imposizione di capi dall’estero. Abu Zubeyr, invece, propendeva per una soluzione somala, senza l’internazionalizzazione del conflitto contro gli oppressori etiopi, kenioti e dell’AMISOM, ma cambiò idea quando scoprì che Robow e Aweys stessero dialogando con il Governo di Mogadiscio. Dopo la morte di Osama bin Laden e di Fazul Abdullah Mohamed, suo uomo forte in Africa orientale, Abu Zubeyr, convintosi della necessità di inserire al-Shabaab nel movimento jihadista mondiale, formalizzò con al-Zawahiri l’ingresso in al-Qaida.

 

IL RISCHIO DEL CORRIDOIO RADICALE IN AFRICA – L’alleanza avrebbe dovuto condurre a un’unità d’intenti con i grandi gruppi islamisti combattenti africani, ossia al-Qaida nel Maghreb Islamico (AQIM) e Boko Haram. In effetti, nonostante l’alleanza non si sia concretata del tutto a causa della diffidenza delle altre formazioni nei confronti di al-Shabaab (prossima al collasso), ci sono due aspetti da considerare. Il primo è che sono stati provati casi di miliziani nigeriani addestrati in Somalia, sebbene per lungo periodo molti analisti abbiano teso a minimizzare il fenomeno. Il secondo è il rischio che si crei un allarmante corridoio dallo Yemen al Sahel occidentale – passando per la Nigeria – che fratturi l’Africa destabilizzandone le regioni centrali e nord-occidentali, ossia aree nelle quali le ingenti risorse naturali e il vuoto di potere favorirebbero l’insediamento di gruppi radicali. In questo senso, la Somalia, ancora da pacificare e comprendente zone in mano a bande islamiste, diverrebbe un’ottima testa di ponte verso il resto del continente. Il tutto mentre la diaspora di al-Shabaab potrebbe condurre a quell’internazionalizzazione del jihadismo somalo mai del tutto ottenuta in precedenza, sia per una precisa volontà dei suoi esponenti, sia per l’assenza di una reale sponda.

 

Corsi e ricorsi

Questa settimana le sorti della politica internazionale sembrano conformarsi alla perfezione con la concezione periodica dei cicli storici coniata da Giambattista Vico. L’ennesimo test balistico nordcoreano e un’altra manche di negoziati internazionali sul cambiamento climatico, oltre alla ricaduta in Egitto, sembrano riportare il nostro ristretto a un anno di distanza, denotando con chiarezza come il “grande gioco” sia in realtà un camaleonte globale

 

EUROPA

Lunedì 10 – I ministri degli esteri dei paesi membri dell’Unione Europea si riuniscono a Bruxelles per il consiglio per l’Azione Esterna. Sul tavolo non solo la revisione della strategia di cooperazione con gli Stati uniti dopo la rielezione del presidente Obama il mese scorso. Inoltre non mancherà l’occasione per preparare i lavori dell’ EU – Russia Summit del 21 Dicembre e dell’incontro con il Brazile e la Comunità degli Stati Latino Americani e Caraibici, in programma per il 26-27 Gennaio a Santiago de Chile. Buona parte delle discussioni sarà però ovviamente concentrata sulla crisi siriana senza fine e sulle divisioni interne all’UE riguardo allo status della Palestina in seno alle Nazioni Unite.

 

Lunedì 10 – L’Unione Europea si prepara a ricevere uno dei più discussi Nobel per la Pace, nella splendida cornice dell’inverno di Oslo, dove saranno presenti il Presidente del Consiglio Europeo Herman Van Rompuy, il Presidente del Parlamento Martin Shultz e il frontman della Commissione José Manuel Barroso. I 930.000 di premio saranno distribuiti ad istituti e fondi per il sostegno dei minori in difficoltà, attraverso gli innumerevoli progetti per l’infanzia sponsorizzati dall’UE.

 

AMERICHE

STATI UNITI – Il Gigante capitalista torna ad alzare lo sguardo e riprende la sua marcia dopo la caduta fragorosa del 2008-2009, portando una buona notizia al neo-rieletto Barack Obama. Secondo i dati del dipartimento del lavoro statunitense infatti i dati della disoccupazione sarebbero tornati a fluttuare intorno al 7,7% della popolazione attiva, numeri dimenticati durante il periodo buio della crisi. Tuttavia le incertezze relative al nuovo anno, riguardanti non solo il famigerato “fiscal cliff” ma anche l’innalzamento delle aliquote e nuovi tagli alla spesa pubblica potrebbero ridurre tali dati mensili a puri palliativi invece di rappresentare il vero rimedio ad un malanno che dura da tempo.

 

OSA – La Commissione Interamericana per i Diritti Umani rischia di perder una grossa fetta di quell’indipendenza e terzietà che ne hanno garantito il funzionamento efficace negli ultimi anni. Le bozze di revisione dello statuto e dei metodi della Commissione stessa rischiano infatti di porla sotto il controllo diretto o indiretto degli stati membri dell’organizzazione regionale, togliendo così il diritto alla compensazione internazionale a milioni di cittadini vittime di abusi e privazioni di diritti sanciti come inviolabili.

 

AFRICA

Lunedì 10 – Il Consiglio Europeo in Formazione Affari Esteri è pronto ad annunciare l’inizio ufficiale di EUTM, nome scelto per la Training mission in Mali cui prenderanno parte un gruppo di ufficiali provenienti dagli eserciti di una decina di paesi, tra cui anche Spagna, Francia, Belgio e Italia. Gli istruttori europei saranno dislocati a nord di Bamako in due delle maggiori basi militari del paese martoriato dalla guerra civile. La missione sarà attiva per un anno con la possibilità di una proroga qualora le condizioni lo richiedano, il tutto al costo di 50 milioni di euro per le casse di Bruxelles. Alla Francia di François Hollande l’onore o l’onere di condurre il mandato della missione e di assicurare la protezione del personale ivi impiegato.

 

Lunedì 10 – Martedì 11 – Grande attesa per i risultati delle elezioni presidenziali ghanesi che hanno portato milioni di elettori ad accodarsi di fronte alle stazioni di voto messe in serie difficoltà dal malfunzionamento dei sistemi innovativi di scanning biometrico. 7 contendenti tentano di insediare l’uscente John Dramani Mahma, anche se l’unica a detenere qualche speranza di successo resta il carismatico Nana Akufo-Addo, capace di raccogliere attorno a se buona parte degli oppositori al governo. Proprio nel 2008 il leader del Partito Patriottico perse le elezioni per meno di un punto percentuale di scarto con John Atta Mills, scomparso il luglio scorso.

 

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ASIA

COREA DEL NORD – Potrebbe essere il 17 Dicembre la data fatidica per il nuovo test missilistico del regime guidato da Kim Jong Un, un gesto che sa molto più di commemorazione simbolica del defunto predecessore che di conquista tecnologico-militare, visti i risultati dell’ultimo lancio balistico made in Pyongyang. I portavoce del governo hanno indicato l’intervallo tra il 10 e il 22 Dicembre quale periodo ideale per il test del missile intercontinentale, mascherato da lancio satellitare. Con Pechino che continua a chiedere moderazione, Tokyo pronta alla difesa e Seoul ormai abituata da 62 anni di convivenza armata, non ci resta che ammirare l’ennesimo fuoco d’artificio nei cieli dell’Asia Orientale.

 

VIETNAM – La polizia di Hanoi è stata costretta a rompere le file di centinaia di partecipanti alla prima manifestazione organizzata contro “la politica espansionista ed imperialista nel Mar cinese Meridionale” condotta da Pechino. L’obiettivo era naturalmente concentrare una grande folla fuori dai cancelli dell’ambasciata cinese proprio mentre episodi simili venivano registrati a Ho Chi Min City. La situazione tra i due paesi, mai tranquilla in realtà, è precipitata da quando Pechino ha dato alla stampa il nuovo modello di passaporto nazionale in cui l’intero Mar Cinese viene raffigurato come parte del territorio interno. Il governo vietnamita ha già provveduto a sottoporre prove delle svariate violazioni alla sovranità nazionale e il danneggiamento a diverse imbarcazioni armate di sensori anti-sismici.

 

Sabato 16 – Gli Opinion Polls e le tendenze di twitter, la vera novità di questa campagna elettorale made in Japan, sembrano indicare chiaramente il Partito Lilberal-Democratico dell’ex premier Shinzo Abe come il probabile vincitore di questa nervosissima contesa. Non solo l’aria di guerra che spira da Pyongyang ma anche il malcontento diffuso in tutte le classi sociali nei confronti dell’operato del Partito Democratico del deludente Yoshihiko Noda incapace di rilanciare l’economia del paese e dare risposte immediate nel dopo-Fukushima. Non resta dunque che attendere il weekend per capire a chi toccherà guidare l’arcipelago millenario in uno dei periodi più burrascosi per le relazioni internazionali dell’Asia orientale.

 

MEDIO ORIENTE

Venerdì 15 – nonostante l’annullamento del decreto presidenziale del 22 novembre scorso che rischiava di conferire a Mohammed Morsi poteri praticamente assoluti, l’opposizione egiziana costituita da gruppi spontanei riunitisi in piazza Tahrir continua a chiedere un governo democratico. Mentre la Guardia Repubblicana ha fatto sapere per vie indirette che non adopererà alcuna violenza nei confronti dei manifestanti, il peso specifico di politica, religione ed esercito in Egitto, resta ancora da definire.

 

DOHA 2012 – Accordo raggiunto, o quasi. Questo il titolo migliore per raccontare in breve la conclusione del meeting di Doha, chiamato a provvedere un successore al Protocollo di Kyoto con effettiva valenza pratica. Dopo circa 36 ore di negoziati, proposte bocciate e ripensamenti, i rappresentanti di circa 200 nazioni hanno esteso il protocollo fino al 2020, nonostante l’opposizione della delegazione della Federazione Russa. I 27 membri dell’Unione Europea accompagnati dall’Australia, la Svizzera ed altri 8 paesi industrializzati hanno approvato tagli obbligatori nelle emissioni. Cina e Stati Uniti, i due maggiori inquinatori del pianeta, continuano invece a latitare in uno status di terzietà nei confronti dell’accordo.

 

Fabio Stella

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La guerra può attendere (per ora)

Il 5 dicembre le autorità maliane, i rappresentanti del CEDEAO e una delegazione dei gruppi Ansar Eddine e MNLA si sono seduti al tavolo dei negoziati. L’incontro sembra aver scongiurato l’eventualità di un intervento immediato delle forze armate in Mali, ma c’è chi spinge perchè il dialogo salti

 

LA MIGLIOR STRADA POSSIBILE” – “Quella dei negoziati è la migliore strada possibile per risolvere la crisi maliana ed evitare un’azione militare che rischia di essere prematura”. Così Carter Ham, comandante dell’Africa Command (U.S. Army), commenta la conclusione del primo incontro svoltosi nei giorni scorsi a Ouagadougou per cercar di risolvere il groviglio maliano. Sotto gli occhi del Presidente burkinabé Blaise Compaoré e del suo Ministro degli Esteri Djibril Bassolé si è svolto l’incontro tra una delegazione del governo transitorio di Bamako, guidata dal Ministro degli Esteri Tiemen Coulibaly, e rappresentanti dei due gruppi che controllano il nord della nazione: il gruppo islamista armato Ansar Eddine e l’MNLA, movimento tuareg che si batte per l’indipendenza dell’Azawad.

 

EVITARE IL CONFLITTO – Un immediato “cessate il fuoco” e il rifiuto di ogni atto terroristico: su queste basi è stato impostato il dialogo che sembra scongiurare una guerra apparsa fino a poco tempo fa inevitabile. Posti di fronte alla minaccia di un intervento internazionale, i due gruppi armati hanno preferito isolare le componenti più estremiste e scendere a patti con le forze nazionali, cercando di ottenere il riconoscimento ufficiale delle rispettive istanze. Compaoré e Coulibaly dal canto loro sanno bene che non è attraverso l’uso della forza nel solo Nord del Mali che si risolverà il problema dell’islamismo militante armato, in progressiva espansione nel Sahel e nel Maghreb. Scendere a patti con quei gruppi aperti al dialogo è una mossa fondamentale per evitare che si trasformi in guerra di religione quella che è un’azione contro forze eversive.

 

APERTURE DAI DUE GRUPPI – Gli esponenti di Ansar Eddine hanno annunciato di aver allentato i legami con AQMI, Al Qaeda nel Maghreb Islamico. Di fronte alle affermazioni delle autorità di Bamako riguardo l’irrinunciabile necessità di un Mali laico, i delegati del gruppo islamista hanno sostenuto di non aver intenzione di applicare la Sharia nell’intero territorio maliano. Gli uomini dell’MNLA hanno invece dichiarato il loro rispetto per l’unità nazionale del Mali e sostenuto come il loro fine ultimo sia il diritto all’autodeterminazione, non l’indipendenza della regione.

 

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CHI PREME PER L’INTERVENTO – Il buon esito delle trattative ha dunque tolto forza a quei membri del CEDEAO che reclamavano un intervento armato e aspettavano il beneplacito dell’Onu per la spedizione di 3300 uomini provenienti per la gran parte da Niger e Nigeria. Alassane Ouattara, Presidente della Costa d’Avorio, ribadisce la necessità di un attacco immediato, da compiersi nel “minor tempo possibile”. Il maggior timore delle nazioni del contingente è costituito dall’interscambio di uomini, armi e intelligence tra i rappresentanti dei vari gruppi terroristici, i quali proprio nel Sahel si sono fortemente radicati sotto l’egida di AQMI.

 

Andrea Ranelletti

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Democrazia o assolutismo?

L’Egitto continua a non trovare pace: il Presidente egiziano Muhammad Morsi si attribuisce poteri quasi assoluti, mentre la bozza di costituzione è giudicata troppo filo-islamista. Ritornano le proteste in Piazza Tahrir e il paese si trova spaccato più che mai. E’ ora di fare un po’ di chiarezza su cosa succeda nel paese dei faraoni

 

Le recenti proteste in Egitto contro gli ultimi provedimenti del neo-eletto Presidente Muhammad Morsi, appoggiato dalla Fratellanza Mussulmana, derivano da un’insieme di questioni e motivazioni che possiamo riassumere in 10 punti fondamentali:

 

1) POTERE ASSOLUTO – Le nuove rivolte di questi giorni sono nate in seguito alla decisione del Presidente Morsi di attribuirsi poteri quasi assoluti decretando l’inappellabilità delle sue decisioni di fronte ai tribunali, inclusa la Corte Suprema. In altre parole significa che ogni decisione del Presidente, di qualunque natura, non è soggetta ad alcun controllo o regola e non può essere abrogata.

 

2) COME MUBARAK? – Per molti egiziani è sembrato un ritorno alla dittatura di Mubarak. Anzi, per certi versi anche peggio, perché lo stesso Mubarak non si era mai attribuito tale prerogativa – anche se nel suo caso era il controllo sui giudici della Corte Suprema a garantirgli mano libera. Ma c’è anche un altro elemento, che riguarda le parole del Presidente, scelte per tranquillizzare ma che, invece, hanno avuto un prevedibile effetto contrario.

 

3) L’OSTRUZIONE DELLA CORTE – Tutto questo deriva dal fatto che la mossa di Morsi ha un’origine ben precisa. Fin dalla sua elezione, il suo contrasto con la Corte Suprema è stato acceso: la Corte ha sciolto il nascente parlamento per via di cavilli burocratici e sta facendo ritardare i lavori dell’assemblea costituente che dovrebbe redigere la nuova Costituzione – ovvero proprio quella che regolerà, tra le altre cose, i poteri dello stesso Presidente.

 

4) INGENUITA’ – Di fronte a tale ostruzionismo, Morsi ha di fatto visto come unica alternativa lo scavalcare di fatto i giudici della Corte, ponendo unilateralmente il suo potere al di sopra del loro. Ha poi spiegato che tale iniziativa, che come detto gli ha dato un potere quasi assoluto, sarebbe stata “temporanea, provvisoria… fino a che la situazione non si fosse sistemata”. Questa frase è proprio ciò che ha maggiormente spaventato l’opposizione.

 

5) SPETTRI DEL PASSATO – In generale le dittature hanno sempre preso e mantenuto il potere instaurando una serie di regole non democratiche, spesso chiamate “Leggi di emergenza”, presentate proprio come nome “temporanee, provvisorie… fino a che la situazione non si sistema” e mai abrogate e mantenute per decenni. Per molti egiziani il linguaggio di Morsi è dunque parso uguale a quello di Nasser, Sadat e Mubarak.

 

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6) PASSO TROPPO LUNGO – In effetti la Corte Suprema è ancora piena di ex-sostenitori del precedente regime, che non hanno particolari legami con la Fratellanza Mussulmana che sostiene il Presidente, né con le ragioni democratiche della rivoluzione in generale. Tuttavia quello che ha maggiormente spaventato i laici e i moderati sono stati i mezzi impiegati da Morsi per raggiungere i propri scopi, così simili a quelli di un novello dittatore, da spingere nuovamente i rivoltosi in piazza. Molti analisti, noi inclusi, pensano che il sostegno internazionale ottenuto da Morsi per la tregua a Gaza lo abbia convinto, a torto, di poter avere la legittimità necessaria per portare avanti le sue drastiche misure interne senza opposizione. Si sbagliava.

 

7) COSTITUZIONE SBILANCIATA – Del resto la stessa Costituzione che Morsi spera di far approvare a breve appare principalmente un documento volto a ingraziarsi i movimenti islamici, piena di riferimenti poco chiari sull’importanza della Sharia come fondamento della legge dello Stato. In molti tra i laici denunciano come questo preluda a una riduzione delle libertà individuali e i nuovi poteri del Presidente, se non revocati, avvicinano questo spettro. Sarà un referendum ad approvare la nuova Costituzione ma la fretta con cui Morsi sta cercando di arrivare al voto, combinato con i metodi impiegati e la maggioranza islamica nel paese, fa temere per il peggio per quelle frange di popolazione meno estremiste che si sentono poco tutelate dal nuovo corso.

 

8) LA FORZA DELLA PIAZZA –Esistono tre fattori da tenere presenti in questa crisi: il primo è la forza della piazza. Si può considerare la Fratellanza Mussulmana come la forza dominante del paese ma è bene ricordare che durante la rivolta anti-Mubarak la Fratellanza preferì tenersi ai margini e dunque la stessa intensità di rivolta di allora si può riverificare anche ora. Forse non è un caso che Morsi abbia preferito lasciare nella notte il Palazzo Presidenziale per rifugiarsi altrove.

 

9) PIAZZA PIENA, MA NON TROPPO – Secondariamente però, secondo alcuni reporter italiani sul posto, Piazza Tahrir non è così piena come durante le rivolte anti-Mubarak. Si parla di decine di migliaia, forse centinaia di migliaia, di manifestanti, ma non ancora il milione e oltre del picco della prima rivolta. Per ora ciò sembra essere bastato a mettere qualche timore nel neo-presidente ma sarà sufficiente? E’ possibile che molta gente sia stanca di andare in piazza notando l’assenza di riforme liberali e la situazione economica ancora precaria nonostante le promesse di cambiamento. Dunque vincerà la voglia di democrazia, portando in piazza ancora le moltitudini di riformisti? O stavolta sarà la rassegnazione a dominare la scena?

 

10) LE FORZE ARMATE – L’ultimo fattore è la posizione delle Forze Armate. Morsi ha destituito i vecchi vertici, ma nella nuova Costituzione ha aggiunto la garanzia che il Ministro della Difesa sarà sempre un militare. Un accordo tra Forze Armate e Fratellanza Mussulmana potrebbe dunque portare a un nuovo ordine dove però le somiglianze con il vecchio regime sarebbero davvero tante: potere assoluto e appoggio dell’esercito, con lo spettro della legge islamica. Sono questi fattori che fanno pendere la bilancia dell’opinione pubblica laica e riformista contro il Presidente Morsi: apparentemente è un democratico, e la mossa anti-Corte Suprema potrebbe essere davvero fatta nel bene del paese per permettere le riforme da lui volute. Ma le stesse riforme proposte non appaiono così democratiche e i suoi metodi ben poco liberali.

 

Lorenzo Nannetti

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La Peña di Nieto

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Il Messico ha da sabato un nuovo Presidente. Enrique Peña Nieto ha riportato alla vittoria il PRI, ma il suo insediamento non riesce a nascondere i problemi che affliggono ancora la nazione latinoamericana. Povertà, corruzione, criminalità sono le piaghe che non sono ancora state sconfitte, a dispetto di un’economia in forte crescita con ottime prospettive per i prossimi anni

 

ESORDIO CONTESTATO – In una Cittá del Messico blindata da quasi una settimana, Enrique Peña Nieto il primo dicembre è stato ufficialmente nominato presidente del Messico, nonostante le proteste popolari che da mesi oramai riempono le piazze messicane. Anche se negli ultimi mesi si sono affievolite, l’insediamento del nuovo Capo di Stato è stato accompagnato da violenti disordini che hanno portato a scontri con le forze dell’ordine da parte di organizzazioni studentesche e di lavoratori. Per questo, il team del Parlamento messicano che sta organizando la cerimonia ha ordinato la chiusura delle strade attorno al Parlamento da domenica scorsa, circostanza che ha provocato il caos in cittá soprattutto nelle ore di punta. Nei fatti, é dal 1 luglio scorso, giorno dei comizi elettorali, che Peña Nieto non si fa vedere nelle piazze e nelle strade del paese. I suoi pochi discorsi pubblici sono stati rígidamente in hotel di lusso, circondato dal servizio d’ordine e dai militanti del Partido Revolucionario Institucional (PRI).

 

LUCI E OMBRE – Invece Peña Nieto, da luglio scorso ha cominciato un tour all’estero per allacciare personalmente i rapporti diplomatici con Paesi considerati alleati strategici: é stato in Germania, Cile, Stati Uniti, Guatemala. Recentemente ha visitato il primo ministro canadese con il quale ha ripetuto il suo messaggio: il PRI non é piú il partito autoritario del secolo scorso, definito in quei tempi la dittatura perfetta dal Premio Nobel Vargas Llosa, e il Messico é il paese giusto per investire. Tuttavia, nonostante i notevoli progressi in campo economico, il Paese nordamericano è ancora afflitto da gravi mancanze nel rispetto delle leggi (il 99% dei delitti denunciati non arriva a una sentenza) e la povertá è ancora largamente diffusa. L’INEGI, l’istituto di statistica messicano, ha segnalato che negli ultimi 6 anni sono aumentati i messicani che vivono sotto la soglia di povertá, raggiungendo i 52 milioni di persone, dei quali quasi 12 milioni in condizioni estreme di povertá. Quasi un messicano su due vive in povertá; le condizioni lavorative inique, si é appena approvata la riforma del lavoro che fissa in 7 pesos il salario minimo all’ora, 0,5 dollari, e elimina il diritto al reintegro o al risarcimento per licenziamento senza giusta causa con alto tasso di disoccupazione.

 

Alla cerimonia di insediamento ha preso parte anche il vicepresidente degli Stati Uniti d’America, Joe Biden, con cui il gabinetto di Peña Nieto ha, da prima delle elezioni, allacciato ottimi rapporti diplomatici. Ricordiamo che l’amministrazione Obama é stata la prima a congratularsi con il presidente eletto del Messico anche se erano ancora in corso i conteggi.

 

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LA VIOLENZA IMPERA – Internamente, il grande obiettivo della presidenza di Peña Nieto sará ridurre i livelli di violenza esistenti e che affliggono la popolazione messicana soprattutto del nord del paese. L’Economist ha appena pubblicato una mappa degli omicidi relazionati con il narcotraffico in Messico che mostra una media di 21.283 morti all’anno, il doppio rispetto al 2007 con un tasso di omicidi di 19 morti ogni 100.000 persone, pari alla somma del tasso di omicidi di 32 stati del mondo tra i quali si incontrano l’Italia, Cuba, la Spagna, l’Ucraina, il Congo, il Rwanda, il Mozambico. Su questo punto Peña Nieto potrebbe perpetuare le caratteristiche del vecchio PRI: collusione con il crimine organizzato in una pax romana suggellata da accordi locali in cui lo Stato ed i cartelli dei narcos velano entrambi per i loro interessi senza pestarsi i piedi. Di fatto, i suoi due bracci destri sono da una parte il suo principale avversario nelle elezioni interne del PRI Manlio Fabio Beltrones, segnalato come vicino ai narcos nei primi anni ‘90 nei rapporti della DEA. Ora Beltrones é coordinatore parlamentare del PRI e in diretta alleanza con Peña Nieto guida le principali iniziative di legge che il presidente propone. Dall’altra parte Miguel Ángel Osorio Chong, futuro Ministro di Governo di Peña Nieto, indagato nel 2010 dall’Antidroga messicana per lavaggio di denaro sporco ed associazione a delinquere, é stato associato a El Lazca, celebre capo de los Zetas, misteriosamente ucciso in ottobre del 2012 dalla marina messicana, che durante il trasporto al cimitere ha perso il corpo. E il suo curriculum si tinge di nuove competenze quando l’anno scorso Osorio Chong  é stato indagato direttamente mesi fa per corruzione ed abuso di fondi pubblici per avere permesso il deposito di quasi 100 milioni di pesos (quasi 6 milioni di euro) ai conti correnti di due dei suoi fratelli, quando era presidente dello Stato di Hidalgo.

 

DEMOCRAZIA INCOMPLETA – Per ottenere la pace, assisteremo alla istituzionalizzazione dei cartelli dei narcos che cominciano ad occupare posti importante nello Stato messicano? O ci siamo già. Sicuramente la democrazia messicana ha ancora da camminare prima di essere definita solida, nonostante i riconoscimenti della comunitá internazionale.

 

Andrés Seramide (da Città del Messico)

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Il peccato dell’Occidente

Domenica scorsa la Nigeria è stata nuovamente sconvolta da un’azione di Boko Haram contro cristiani e poliziotti. Il Governo ha reagito uccidendo uno dei maggiori esponenti dell’organizzazione, Abdulkarim Ibrahim. Cerchiamo con cinque domande e cinque risposte di capire cosa stia accadendo in Nigeria

 

Che cos’è Boko Haram?

 

Boko Haram, che letteralmente significa “l’educazione occidentale è peccato (o sacrilegio)” è il nome con il quale è più noto il gruppo terroristico islamista nigeriano a vocazione jihadista Jama’atu Ahlis Sunna Lidda’awati Wal-Jihad, ossia “il Popolo per la Predicazione degli insegnamenti del Profeta e del Jihad”. Formalmente, il movimento fu fondato nel 2001 o nel 2002 – più presumibilmente – da Ustaz Mohammed Yussuf a Maiduguri, con lo scopo di instaurare la shari’a in tutta la Nigeria. Il centro primario di promulgazione della dottrina di Boko Haram fu una scuola nella città d’origine del gruppo, nella quale confluirono molti giovani disoccupati attirati dai toni aspri dei militanti contro la corruzione dello Stato secolare. Tuttavia, come spesso accade per le formazioni terroristiche – si veda anche al-Shabaab – è difficile ricostruire l’organizzazione interna di Boko Haram. L’avvio delle operazioni militari e degli attentati risale comunque al 2009, quando il Governo nigeriano intraprese una campagna contro la diffusione dei gruppi islamisti. Da allora, Boko Haram è ritenuta responsabile, direttamente o indirettamente, di almeno 3mila morti, 600 solo nei primi mesi del 2012. I suoi obiettivi principali sono le comunità cristiane e i rappresentanti dello Stato, in particolare nelle regioni settentrionali del Paese.

 

Qual è la dottrina ufficiale di Boko Haram?

 

Definire il sistema ideologico dei gruppi islamisti è spesso complesso anche per gli osservatori più esperti, poiché si ha spesso. una sovrapposizione di correnti politico-religiose. Nel caso in esame, la linea principale è il salafismo a tendenza jihadista, ossia la dottrina che pone la necessità di inserire l’Islam nel mondo contemporaneo attraverso la riproposizione dell’epoca d’oro di Maometto. In questo senso, alcuni salafiti ritengono che il jihad sia l’unica possibilità di sconfiggere l’oppressione secolare non rettamente musulmana, intendendo così questo “sforzo” non solo con una valenza salvifica, bensì anche con un’accezione politico-programmatica. Piuttosto che ad al-Qaida nel Maghreb Islamico, l’idea è forse più vicina a quella dei somali di al-Shabaab, i quali però tendono a impiegare il jihad quale strumento di liberazione dall’occupazione straniera (le truppe etiopi, keniote e dell’Unione Africana), mentre Boko Haram lo ritiene un sistema di attuazione della propria agenda politica. Questo è il principale motivo per il quale non tutti gli esperti sono concordi nell’inserire il gruppo nigeriano nell’elenco dei movimenti del salafismo jihadista.

 

Quali sono lo scopo e la strategia di Boko Haram?

 

Prima di affrontare l’argomento è necessaria una breve digressione sulle problematiche nigeriane. Il Paese, infatti, è estremamente frammentato tra le oltre duecentocinquanta etnie nelle quali sono divisi i suoi 160 milioni di abitanti. Oltretutto, storicamente i maggiori culti religiosi in Nigeria si sono affermati in precise aree geografiche, cosicché sono divenuti elementi di diversificazione per ogni gruppo etnico: l’Islam è praticato in particolar modo al nord, mentre il Cristianesimo cattolico e protestante ha il maggior numero di fedeli negli Stati meridionali e centro-orientali. Il Paese è profondamente diviso anche per motivi politici – si pensi al fenomeno del MEND – considerato che i governi hanno acconsentito nell’arco degli anni a una serie di incessanti modificazioni in senso federalistico, arrivando a costituire 36 Stati (altri sono in progetto) con forti connotazioni etniche. L’assenza delle Autorità soprattutto nei territori periferici, gli scontri interreligiosi e la lotta per il controllo delle ingenti risorse naturali hanno esasperato il rischio per la sicurezza e favorito una dilagante corruzione. In questo contesto, Boko Haram, ancor prima che l’instaurazione della shari’a, ha un altro obiettivo nel breve periodo, ossia la destabilizzazione del nord (nella mappa le aree dove l’organizzazione è più attiva), la creazione di uno stato di anarchia violenta nel quale gli interessi personali di politici e figure di rilievo possano essere condotti senza difficoltà. Colpendo i cristiani, Boko Haram ottiene allo stesso tempo rilievo mediatico e inasprimento degli scontri interreligiosi che minano la coesione socio-politica.

 

Esiste un dialogo con il Governo nigeriano?

 

Nel passato, altre organizzazioni e singole personalità hanno proposto alla Nigeria il proprio impegno per la mediazione tra il Governo e Boko Haram. In altre circostanze, sono stati gli islamisti a individuare soggetti alle quali affidare l’apertura di un tavolo di negoziazione. Recentemente il capo di Boko Haram, Abubakar Shekau, avrebbe incaricato alcuni rappresentanti dell’ala moderata del gruppo di contattare il presidente Goodluck (foto in alto), il quale, tuttavia, ha ribadito che al momento non esistano margini di trattativa.

 

La Nigeria è a rischio collasso?

 

Secondo alcuni osservatori la Nigeria è in parte uno Stato fallito, poiché il governo di Abuja è incapace di controllare completamente i territori settentrionali. Tuttavia, non è corretto sostenere che il Paese sia di fatto collassato, poiché le Autorità stanno intervenendo spesso nelle regioni colpite da Boko Haram. Vero è, però, che alcuni Stati della Federazione, come Jigawa e Kano, potrebbero concretamente subire un processo di rapida implosione delle Istituzioni, giacché sono in molti – primi fra tutti alcuni loro amministratori – a trarre vantaggio da tale circostanza. Situazione diversa è per lo Stato di Borno, roccaforte di Boko Haram ormai del tutto ingestibile. Non bisogna inoltre confondere il rischio di balcanizzazione con quello di somalizzazione. Circa il primo caso, la Nigeria è spesso ricorsa alla divisione federalistica nel tentativo di compensare le istanze etniche, ma, sebbene l’argomento sia oggetto di dibattito, non sempre il risultato è stato negativo. Riguardo alla somalizzazione, il pericolo è soprattutto negli Stati settentrionali, laddove l’assenza del Governo è una dinamica ormai cronica e le linee etnico-religiose corrono lungo costanti faglie di scontro.

 

L’importanza di chiamarsi Stato

L’Assemblea Generale delle Nazioni Unite ha approvato a larga maggioranza di concedere lo status di “Stato non membro Osservatore Permanente” alla Palestina. Apparentemente si tratta di un evento di portata storica, eppure l’effetto sul breve termine potrebbe non essere così rilevante. Vediamo perché con cinque domande e cinque risposte

 

Cosa significa diventare “Stato Osservatore”?

 

La Palestina era già un’”entità osservatrice”, ovvero considerata un’organizzazione che, pur non essendo uno stato e non essendo ufficialmente membro dell’ONU, poteva assistere ai lavori dell’Assemblea Generale. Guadagnare lo status di Stato Osservatore non cambia nella sostanza quest’ultima parte: la Palestina continua a non essere membro dell’ONU e può solo assistere ai lavori dell’assemblea senza votare. Cambiano però due cose: innanzi tutto un passaggio da “entità” a “stato” è un riconoscimento implicito della Palestina appunto come Stato, qualcosa che finora non aveva posseduto; secondariamente può richiedere di accedere alla Corte Penale Internazionale, nella quale potrà chiedere l’incriminazione anche di militari israeliani accusati di crimini.

 

Non poteva richiedere di diventare stato membro a tutti gli effetti?

 

Per diventare Stati membri serve un voto di maggioranza del Consiglio di Sicurezza dell’ONU e tale maggioranza è più difficile da ottenere. Inoltre gli USA hanno annunciato che porrebbero il veto, dunque quel tentativo fallirebbe in partenza. Per ottenere lo status di Stato Osservatore invece basta una maggioranza semplice all’Assemblea Generale, dove i paesi favorevoli sono più numerosi, e non è possibile alcun veto. Era dunque una strada più semplice.

 

Grandi cambiamenti in arrivo dunque?

 

Molto probabilmente no. La mossa del Presidente Palestinese Abbas ha un valore più simbolico che reale. Come detto la Palestina rimane senza diritto di voto ed esistono dubbi riguardo alla possibilità che la Corte Penale Internazionale incrimini davvero tutti gli Israeliani che i Palestinesi e l’opinione pubblica filo-palestinese vorrebbero. La battaglia legale sarebbe feroce e non è detto che porti ai risultati desiderati – in molti casi la differenza tra difesa ed eccesso della stessa rimane labile e interpretabile. Pensiamo ad esempio al rapporto Goldstone sulla Guerra di Gaza del 2008-09 e alla sua successiva revisione da parte dell’autore stesso. Inoltre agli eventuali condannati israeliani basta rimanere in patria per evitare di scontare la pena.

 

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Almeno la situazione sul campo si modificherà?

 

No, neppure questo. Tutto questo non risolve infatti il problema dei negoziati bloccati o delle colonie e, nemmeno, della divisione dei territori palestinesi tra Fatah e Hamas. Sul campo dunque almeno nel breve termine non cambierà nulla. Del resto anche Israele aveva compiuto una mossa simile all’ONU nel 1948, ma fu una guerra a determinare la nuova situazione, una guerra che ora non si vuole combattere.

 

A chi paventa la possibilità che in futuro vengano inviati Caschi Blu per stabilire e proteggere i confini di uno Stato Palestinese deciso in sede ONU bypassando i negoziati va ricordato che non è realistico pensare che i paesi occidentali siano disposti a mandare i propri soldati considerando che comunque i coloni rimarrebbero all’interno dei confini palestinesi e nessuna nazione occidentale è intenzionata ad affrontare il problema di smuoverli, che facilmente scivolerebbe in scontri armati. E questo creerebbe nuovi dilemmi per l’Occidente e per Israele stesso. Vanno considerati infatti proprio l’aggressività del movimento dei coloni e l’estremismo di alcuni gruppi palestinesi.

 

Infine, serve l’autorizzazione del Consiglio di Sicurezza, dove gli USA metterebbero il veto non tanto per proteggere Israele, ma per evitare anche questo nuovo pantano diplomatico e militare. La via diplomatica rimarrà dunque quella preferita dall’Occidente e dalle maggiori potenze indipendentemente dallo status della Palestina all’ONU, almeno fino alla definizione negoziale dei confini e della questione dei coloni. Solo successivamente se ne potrà parlare.

 

Dunque tanta fatica per nulla? Perché farlo allora?

 

Per i Palestinesi è comunque una forte iniezione di fiducia e rimane un passo importante per ottenere un maggior peso negoziale nei confronti di Israele. Quest’ultimo ha annunciato che bloccherà i finanziamenti all’Autorità Nazionale Palestinese, ma va detto che tale gesto favorirebbe poi le frange più estremiste e dunque non è detto venga davvero compiuto. Inoltre era fondamentale per Abbas e il suo partito Fatah poter presentare al popolo palestinese una qualche vittoria, per non soccombere all’aumento della popolarità di Hamas in seguito al recente conflitto a Gaza. Per questo il valore simbolico rimane comunque molto rilevante. Volendo andare oltre è anche possibile che porti a un riavvicinamento tra le due parti, che potrebbero convenire l’opportunità di portare “in dote” all’opinione pubblica palestinese l’uno una popolarità militare l’altro una popolarità politica; è però ancora presto per valutarlo, causa vecchi e recenti dissapori mai domati su chi abbia la vera autorità.