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Chi l’ha vinto?

Con la tregua tra Hamas e Israele entrata in funzione mercoledì sera, termina anche questo round di combattimenti tra i due contendenti. Ora, come sempre accade dopo un conflitto, entrambe le parti si affrettano a dichiararsi vincitori e a indicare l’altro come sconfitto. La realtà è però meno netta e parlare di vittoria e sconfitta in assoluto è spesso fuorviante: cerchiamo di capirlo insieme in 10 punti

 

A tutti, media, governi, persone comuni, piace sempre molto cercare di trovare “chi vince” dopo un conflitto militare. E’ un retaggio di epoche passate quando si combatteva per obiettivi semplici ed evidenti: un pezzo di terra, il rovesciamento di un governo nemico, ecc… Era facile capire se l’obiettivo originario fosse stato raggiunto o meno. Al giorno d’oggi, dove le guerre hanno obiettivi meno chiari e molto più complessi (spesso coinvolgono risultati strategici a lungo termine che non si osservano subito), diventa più difficile determinarlo. Molto spesso, ogni fazione si trova in una situazione di successo per alcuni ambiti e di insuccesso per altri. Non fanno eccezione i combattenti del recente conflitto a Gaza.

 

1) ISRAELE HA VINTO – In appena 8 giorni Israele ha eliminato gran parte dei razzi a lungo raggio di Hamas: si parla di 1000-1500 razzi. Solo 12 sono stati lanciati verso le città più interne (soprattutto Tel Aviv e Gerusalemme) e i danni e le vittime sono state ridotte, grazie anche all’efficacia del sistema di difesa Iron Dome. Non ha dovuto impiegare le truppe di terra per raggiungere lo scopo, cosa che ha impedito ulteriori rischi per la popolazione civile, e ha impegnato l’Egitto a garantire la tregua e mantenere aperti i contatti, oltre ad aver confermato che Hamas non è in grado di competere militarmente. La sua strategia di “mowing the grass” ha dunque funzionato nel convincere i leader di Hamas che riprendere la tregua era necessario per sopravvivere (non è un caso che nella tregua lo stop alle uccisioni mirate di leader islamici sia un punto espressamente menzionato – è ciò che li spaventa di più).

 

2) MA HA ANCHE PERSO – Tuttavia, considerando che altri 1000-1500 razzi sono stati sparati dalla Striscia durante il conflitto, Hamas ne ha ancora 6000 circa in arsenale, e la sua linea di rifornimento con l’Iran non appare in pericolo. La campagna aerea ha inoltre terminato i “bersagli facili” nelle prime ore, rendendo necessario sparare anche su bersagli meno sicuri, cosa che ha alzato il numero di vittime civili. Quasi nessun danno è stato causato alle forze di sicurezza di Hamas (sarebbe stato necessario l’attacco di terra). Il potenziale bellico di Hamas dunque, anche se ridotto, non risulta compromesso e continuerà ad essere un problema: in Israele molti sono convinti che Hamas infrangerà la tregua presto. L’effetto psicologico di avere razzi colpire Tel Aviv e Gerusalemme per la prima volta da vent’anni ha inoltre scosso la sua opinione pubblica, nonostante l’efficacia delle difese.

 

3) HAMAS HA VINTO – Dunque Hamas può essere fiduciosa del fatto di aver ancora ingenti riserve di razzi e le Brigate Izz-ad-din Al-Qassam sono rimaste pressoché intatte. Può inoltre sfruttare la tregua in maniera mediatica – lo sta già facendo – annunciando di aver costretto Israele a rinunciare all’invasione di terra (almeno parte dell’opinione pubblica araba, non conoscendo i particolari della questione militare, non farà fatica a crederlo). La sua popolarità, così come quella di Hezbollah dopo la Seconda Guerra del Libano del 2006, probabilmente aumenterà nel breve periodo grazie a quest’aura di successo.

 

4) MA HA ANCHE PERSO – Hamas non ha però impedito a Israele di raggiungere i suoi obiettivi primari e il sistema Iron Dome ha ridotto enormemente l’effetto dell’unica arma efficace a loro disposizione: i razzi. Lo scontro ha confermato che il movimento islamico non ha minimamente la forza militare per resistere a Israele e può solo sperare, paradossalmente, che gli alleati di Israele lo costringano a smettere in tempo. I suoi leader continuano a essere terrorizzati dalle uccisioni mirate. A tutto ciò si aggiunge che il possibile vantaggio mediatico a breve termine si scontra con il fatto che la sua incapacità di uscire dalla situazione attuale (l’Egitto non ha comunque riaperto i confini) la mantiene in una situazione di debolezza a lungo termine soprattutto sul fronte interno – cosa a cui contribuisce la repressione interna del dissenso, testimoniata anche dalle esecuzioni sommarie di possibili traditori – spesso solo sospettati.

 

5) LA TURCHIA HA PERSO – Che c’entra la Turchia? Non è stata menzionata quasi mai in questi giorni di conflitto. Infatti il punto è proprio questo: Ankara negli ultimi anni ha spesso cercato di porsi come mediatore principale a Gaza e anzi addirittura come nume tutelare della Striscia nei confronti di Israele, sperando di ritagliarsi un ruolo regionale di primo piano. Nel recente conflitto è stata invece pressoché ininfluente mentre il ruolo di primo piano è stato preso dall’Egitto. Un bello smacco per le ambizioni turche.

 

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6) L’EGITTO HA VINTO – Il neo eletto Presidente Morsi ha negoziato tra Israele e Hamas con il plauso internazionale, guadagnando ulteriore legittimità per guidare il nuovo corso del suo paese. Nel farlo ha escluso la Turchia dai giochi, mantenendo il controllo su ciò che succede ai suoi confini, e ha guadagnato la promessa USA di nuovi e consistenti fondi, tornando a essere uno degli elementi fondamentali dell’area.

 

7) MA CORRE UN BEL RISCHIO – L’essersi posto come garante della tregua pone però la sua nuova influenza e credibilità a rischio se i movimenti estremisti nella Striscia di Gaza decidessero di riprendere a sparare: in questo soffre l’influenza dell’Iran con le sue forniture d’armi. Inoltre il Presidente Morsi potrebbe trovarsi a fronteggiare le frange più intransigenti della sua stessa coalizione che potrebbero non gradire l’atteggiamento troppo negoziale con Israele.

 

8) WASHINGTON UNICO VINCITORE? – Forse gli unici davvero vincitori sono gli Stati Uniti, che sono riusciti a spegnere un pericoloso focolaio di conflitto che avrebbe potuto espandersi e, nel contempo, riammettere l’Egitto tra le pedine chiave interessate alla stabilità della regione. Questo consente a Washington di sganciarsi ancora di più dall’area, soprattutto in ottica di pivot di attenzione verso l’Asia e la Cina, lasciando la patata bollente a qualcun altro.

 

9) RAFAEL INDUSTRIES: UN ALTRO VINCITORE – Se così si può dire, ha vinto anche la Rafael Industries che produce il sistema Iron Dome che ha contribuito a ridurre sensibilmente il numero di razzi che avrebbero altrimenti potuto colpire Israele. Ora tutti sembrano volerlo. Iron Dome non copre l’intero territorio, ma è schierato a copertura di aree particolari (di solito città) e queste le ha infatti ben difese (421 razzi sono stati distrutti). Il sistema verrà continuamente migliorato; anche se non è possibile garantire il 100% di copertura, il rapporto di forze con Hamas si è ulteriormente spostato a favore di Israele, che può ora ridurre i danni causati contro la sua popolazione dai razzi nemici.

 

10) MA QUANTO MI COSTI! Come già detto però, Iron Dome non può coprire tutto il territorio, e questo mantiene vulnerabili le zone più vicine alla Striscia di Gaza, meno popolate e dunque più “sacrificabili”. Iron Dome semplicemente costa troppo per poterne installare così tanti da proteggere tutto Israele . Ogni missile lanciato da Iron Dome costa circa 62.000 dollari e un’intera batteria costa circa 50 milioni di dollari: troppo per un uso più generale.

 

Fracking: soluzione o distruzione?

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Uno dei temi più discussi e controversi di questa nuova tecnica affrontato nel nostro focus: l’impatto ambientale. A pochi mesi dall’uscita del tanto discusso film “The Promise Land”, facciamo il punto della situazione su quelli che sono gli ultimi sviluppi al riguardo: eventi catastrofici e contromisure dei singoli stati

 

THE PROMISED LAND – Sale sempre di più il fermento negli Stati Uniti per l’attesissimo “The Promised Land” con Matt Damon, film antifracking che tante critiche o consensi sta suscitando in patria. E proprio in coincidenza dell’uscita, si fa sempre più serrata la discussione, sia negli USA che oltreoceano, sull’invasività della tecnica dell’hydraulic fracking.

 

I FATTI – Ad oggi moltissime sono le supposizioni ma pochissimi i fatti a loro supporto: innumerevoli studi sono stati condotti ed ognuno ha portato risultati diversi, in molti casi contrastanti. Con certezza si può solo affermare che il fracking, in quanto esercizio di perforazione del terreno, aumenta la possibilità di attivazione di faglie ma nessun sisma, soprattutto quelli di una certa intensità umanamente percepibili, è riconducibile scientificamente alla perforazione orizzontale (come afferma Cliff Frohlich, senior researcher dell’Università di Austin in Texas in un suo recentissimo studio). Un discorso assolutamente analogo può valere per le infiltrazioni nelle falde acquifere circostanti: nessuna infiltrazione di prodotti nocivi nelle falde acquifere dolci, derivanti dalla lavorazione delle rocce scistose, è dimostrabile scientificamente ad oggi, soprattutto perché gli effetti non possono essere visibili nel breve periodo. Quanto specificato finora ovviamente però non permette neanche di dimostrare il contrario, cioè che queste tecniche siano totalmente estranee agli strani eventi catastrofici verificatisi dopo l’inizio delle perforazioni.

 

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LE RISPOSTE – Dinnanzi a questa situazione di incertezza, ogni paese ha reagito in maniera diversa, palesando sostanzialmente quanto fosse strategica questa tecnica per il proprio futuro destino. Negli USA si è generalmente dato libero accesso alle concessioni costruendo un vero nuovo traino per l’economia del paese nell’ottica di una potenziale autosufficienza energetica, anche se nell’ultimo anno alcuni stati hanno rivisto in senso restrittivo le loro posizioni, è il caso del Vermont (primo stato a vietare la pratica) e di New York che in questo autunno ha avviato una commissione d’accertamento, sospendendo temporaneamente le licenze. In Europa la tendenza generale è stata di netto rifiuto con pochissime eccezioni anche se l’Unione Europea ha lasciato libertà di decisione ai singoli stati membri. La Francia, dopo un’iniziale apertura, ha seccamente chiuso la porta ad ogni possibile esplorazione non convenzionale con l’avvento dell’amministrazione Hollande; è stata seguita a ruota dalla Bulgaria che nello scorso gennaio, dopo numerosissime proteste (che, come già accennato, alcuni rumors indicano foraggiate dalla Russia), ha ritirato a Chevron una licenza in precedenza concessa per attività estrattive nella fertilissima regione di Dobrudja. In maniera più pragmatica, la Germania e la Gran Bretagna stanno attendendo ulteriori sviluppi sull’argomento, mente in forte controtendenza si sta dimostrando la Polonia.

 

UN AZZARDO – Il paese est-europeo, che secondo il dipartimento americano per l’energia ha il più grande bacino di risorse non convenzionali in Europa, ha dato luce verde allo sfruttamento massivo della tecnica, garantendo già oltre 100 permessi e prevedendo di produrre il primo shale gas polacco commercializzabile già dal 2014. L’apparente azzardo polacco è ampiamente giustificato dalla sfrenata voglia di questa giovane repubblica di rendersi indipendente da Mosca, un vicino da sempre troppo scomodo per essere anche fornitore unico di energia. Ne segue quindi l’assoluta importanza di queste nuove risorse per affrancarsi definitivamente dal gigante russo e liberarsi da una vera e propria fobia che attanaglia storicamente il paese. Altrettanto strategica e cruciale si sta rivelando questa tecnica per la Cina che, non avendo mai fatto del rispetto ambientale una sua bandiera, ha immediatamente trovato nel fracking un ulteriore modo per garantire stabili forniture energetiche alla galoppante crescita economica, finora collante (insieme al partito comunista) di un territorio molto più eterogeneo ed indipendentista di quanto appaia all’esterno. Quale posizione sarà quella ottimale nel lungo termine è ovviamente impossibile predirlo, di certo è auspicabile per ogni paese coinvolto ben presidiare, almeno a livello di know-how, questo campo per non ritrovarsi fra qualche anno tagliati fuori da una enorme torta che contribuirà in maniera sostanziale al fabbisogno energetico mondiale.

 

Giorgio Giuliani

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Nuove guide, vecchie sfide (I)

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Pochi giorni fa il popolo cinese ha assistito alla cerimonia di presentazione del Comitato Permanente del Politburo svoltasi presso la Grande Sala del Popolo di Piazza Tiananmen, durante il quale sono stati svelati i nomi della quinta generazione di leader, che avrà il compito di governare la Repubblica Popolare Cinese (RPC) per i prossimi cinque anni. Eccovi la prima parte dell’articolo

 

LA QUINTA GENERAZIONE – Confermata la successione di Li Keqiang (a sinistra nella foto), che eredita la poltrona del premier Wen Jiabao e di Xi Jinping (a destra), che eredita da Hu Jintao non solo la presidenza della RPC, ma anche quella della Commissione Militare Centrale, confutando le teorie che davano Hu Jintao a capo dell’esercito ancora per due anni. Ad affiancare la nuova coppia nell’ardua missione saranno altri 5 membri del Comitato Permanente, andando a confermare voci già trapelate che preannunciavano la riduzione del numero delle poltrone da 9 a 7. A rappresentare la quinta generazione di leader si aggiungeranno quindi il vice-premier con delega all’energia, telecomunicazioni e trasporti Zhang Dejiang, il segretario del Partito per la Municipalità di Shanghai Yu Zhengsheng, il direttore dell’Ufficio Propaganda Liu Yunshan, il vice premier con delega agli affari economici, energetici e finanziari Wang Qishan e il segretario del Partito della città costiera di Tianjin Zhang Gaoli.

 

CRESCITA E STABILITA’ – La leadership uscente guidata da Hu Jintao e Wen Jiabao lascia in eredità un’amministrazione strettamente focalizzata su crescita economica e stabilità, cercate di raggiungere tramite l’edificazione di una “società armoniosa”, ovvero un equilibrio sociale dettato da una distribuzione più equa delle risorse, dal limite degli investimenti nei settori a più alto rischio di speculazione e da un aumento dei redditi e dei consumi. Crescita economica e stabilità sono i concetti chiave su cui si baseranno anche le decisioni politiche della quinta generazione di leader, alle quale è inoltre chiesto di seguire le principali linee guida politico-economiche indicate dal 12° Piano Quinquennale (2011-2015) approvato dalla dirigenza uscente nel marzo 2011. Tale documento non solo sancisce la continuità degli impegni macro-economici tra vecchia e nuova leadership, ma affianca anche elementi innovativi, per spingere la crescita economica verso la sostenibilità nel medio periodo. Crescita economica e stabilità saranno possibili solo se la quinta generazione di leader, durante i prossimi cinque anni di mandato, sarà in grado di far fronte non solo alle nuove sfide, ma anche alle vecchie questioni sociali e strutturali insite da tempo nella società cinese e nel Partito stesso.

 

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IL PRIMO SGUARDO ALL’INTERNO – La prima sfida alla stabilità sarà determinata dalla capacità della nuova dirigenza cinese di consolidare il potere interno, che mai come nell’ultimo anno è stato messo alla prova con lo scandalo Bo Xilai e la fuga del dissidente Chen Guangcheng. Il consolidamento del potere interno, necessario per ottenere più diffusa legittimità sia all’interno del Partito che nella società, dovrà passare attraverso il rafforzamento dell’istituzionalizzazione e della governance del Partito stesso. Non ancora a lungo il consenso potrà essere basato solo sulla ricerca dell’equilibrio interno tra fazioni in competizione, ma dovrà essere cementato attraverso i meccanismi dettati dalla rule of law, necessari alla creazione di ambiente stabile, basato sul rispetto delle leggi, per la coesione sociale e la proliferazione degli investimenti. Il dibattito all’interno del Partito Comunista Cinese nei prossimi anni sarà dunque focalizzato su come bilanciare il quadro politico-istituzionale attuale con la necessità del rispetto di regole ben definite per contrastare il perseguimento di interessi personali, inefficienza e corruzione. (I. Continua – Seconda parte)

 

Martina Dominici

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Nuove guide, vecchie sfide (II)

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Seconda parte dell’articolo sulla successione al potere in Cina: sviluppo sociale, rinnovamente del modello economico e apertura agli investimenti. Temi cari ai Paesi occidentali, ma in verità anche alla Cina. Senza dimenticare un tema che sembra attraversare l’Oceano: la trasformazione del sistema sanitario

 

(II. Segue. Rileggi qui la prima parte)

 

UN MODELLO INSOSTENIBILE – La sfida più ardua con cui la quinta generazione di leader si dovrà misurare è rappresentata dalla ricerca di un nuovo modello di sviluppo socio-economico per il Paese, che sia al contempo di successo e sostenibile. Trent’anni di riforme e apertura economica, hanno portato all’istituzione di un sistema in Cina che ha trasformato il Paese in una locomotiva della crescita, segnata da gravi squilibri e distorsioni, il cui successo sembra ormai essere giunto al limite. Dal punto di vista economico, tali squilibri sono determinati dalla specificità del modello di sviluppo cinese, in cui la crescita è guidata dalle esportazioni, dagli investimenti diretti esteri, dalle grandi imprese di proprietà statale legate al Partito e da gruppi di interesse del mercato finanziario e immobiliare. Dal punto di vista sociale, la Cina è uno dei paesi emergenti col maggior divario tra ricchi e poveri, al quale si aggiunge la presenza di un limitato welfare state e un sempre più diffuso inquinamento e degrado ambientale.

 

STRADA VECCHIA O NUOVA? – Il tema della sostenibilità del modello di crescita cinese è da tempo al centro del dibattito non solo interno ma anche internazionale. E’ ormai universalmente riconosciuta la necessità della Cina di passare da un’economia trainata dalle esportazioni, tipica dei paesi emergenti, il cui equilibrio è attualmente minato dall’elevato surplus della bilancia commerciale e dalle ingenti riserve di valuta estera, ad un’economia trainata dalla domanda interna. Già la leadership uscente aveva iniziato a misurarsi con questa sfida inserendo nel 12° Piano Quinquennale le linea guida marco-economiche ritenute necessarie a ribilanciare l’economia del Paese e renderla sostenibile nel medio periodo. Per raggiungere tale fine, l’amministrazione Hu-Wen si è prodigata negli ultimi anni a stimolare la domanda interna e in particolar modo i i consumi privati, tramite l’aumento dei salari, l’aumento delle spese destinate alla sicurezza sociale e l’alleggerimento del peso fiscale.

 

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INNOVAZIONE E MODERNIZZAZIONE – Il processo di graduale riequilibrio dell’economia dipenderà anche dall’abilità della nuova leadership di potenziare non solo la capacità economica, ma anche tecnologica del Paese. Ciò dovrà passare in primo luogo attraverso il necessario processo di rivitalizzazione delle industrie cinesi, secondo le parole chiave “innovazione” e “modernizzazione”. L’amministrazione Hu-Wen aveva già iniziato ad agire seguendo questa rotta, attraverso l’introduzione accelerata di moderne tecnologie nelle industrie più tradizionali, garantendo maggior investimenti per scienza, tecnologia, istruzione, ricerca e sviluppo e attraverso la creazione di meccanismi atti a tutelare i diritti di proprietà intellettuale. La rigorosa aderenza alla visione di “sviluppo scientifico”, inteso come sviluppo armonico e programmato con metodo, rigore e sistematicità, che ha caratterizzato la dirigenza uscente, potrebbe essere la scelta determinante da compiere per la nuova leadership per vincere questa sfida. Il processo di revisione dell’economia cinese condurrà la nuova leadership a scontrarsi anche con l’annosa questione della penalizzazione delle imprese private rispetto a quelle di Stato, sulla scia della grande trasformazione iniziata nel 1978 e non ancora portata a compimento.

 

Attualmente a livello di élite cinese si vanno a scontrare gli interessi dell’imprenditoria privata, che contribuisce per circa un terzo del PIL della Cina, con le grandi imprese di stato, i cui leader essendo nominati dal Partito devono in primo luogo attenersi all’agenda politica. Le grandi imprese di Stato, che sono concentrate nei settori chiave dell’economia cinese come l’energia, le risorse naturali, le telecomunicazioni e le infrastrutture, se all’estero tendono ad espandersi facilmente grazie all’accesso al credito da parte delle banche, in Cina tendono a dominare gli appalti pubblici, chiudendo il mercato alle aziende straniere e strozzando la concorrenza, contribuendo a provocare la distorsione dell’economia.

 

…E TANTO ALTRO – Altre sfide che dovranno affrontare la nuova leadership sono rappresentate da questioni sociali, come la crescente iniquità tra ricchi e poveri, la gestione del processo di urbanizzazione nelle città e del profondo malcontento percepito nelle aree rurali, dove i contadini, rappresentano ormai da tempo la principale fonte di petizioni e proteste. Il dibattito sulle riforme di carattere socie in Cina ruota attorno poi alla richiesta di introduzione un sistema assistenziale dello Stato omnicomprensivo, che includa anche pensioni e assistenza sanitaria. A tal fine il governo cinese è nell’ultimo decennio già impegnato, destinando ingenti risorse ad una drastica trasformazione del sistema sanitario nazionale, caratterizzato dalla scarsa accessibilità dei servizi sanitari e dalla scarsa adeguatezza dei trattamenti erogati. La riforma del sistema sanitario deve avvenire non solo tramite la creazione e il rafforzamento di un sistema sanitario pubblico, ma anche modificando la gestione sanitaria che attualmente mira a erogare trattamenti remunerativi a prescindere dalla loro utilità ed efficacia.

 

Martina Dominici

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Hamas: prigionieri del proprio ruolo

Dopo aver discusso di Pillar of Defence e delle possibilità di una tregua tra Hamas e Israele, è ora di parlare proprio del movimento palestinese. Chiuso a Gaza dal 2007, ci si può chiedere perché non abbia mai trovato una via d’uscita a questa situazione. Anzi, di domande ce ne facciamo cinque, e diamo altrettante risposte

 

Forse non tutti si ricordano che Hamas è un acronimo per arakat al-Muqāwamah al-Islāmiyyah, che significa semplicemente “Movimento di Resistenza Islamico”, ma è anche una parola che significa “entusiasmo, zelo”. Nasce nel 1986 a Hebron, in un incontro segreto tra sette leader che diventeranno presto famosi: lo sceicco Yassin, guida spirituale, costretto sulla sedia a rotelle, Muhammad Jamal al-Natsheh da Hebron, Jamal Mansour da Nablus, lo sceicco Hassan Yousef, Mahmud Muslih da Ramallah, Jamil Hamami da Gerusalemme e Ayman Abu Taha da Gaza. Alcune di queste persone furono in seguito uccise o imprigionate da Israele. Hamas possiede un’ala militare, le Brigate Izz-ad-din Al-Qassam, e varie forze di sicurezza assimilabili a polizia.

 

Organizzazione terroristica o politica? E’ difficile inquadrare Hamas in schemi chiari.

 

Hamas è un movimento complesso. Da un lato ha costruito il suo consenso grazie a opere e associazioni caritatevoli ad esso legate, che contribuivano ad aiutare la popolazione, ma costituivano anche un modo legale per ricevere denaro da benefattori arabi di altri paesi in ottica di lotta armata. Gran parte della sua attività è infatti legata alla resistenza contro Israele in primis e opposizione agli altri movimenti palestinesi in seconda battuta. Nella sua storia è passato dalla protesta con lanci di pietre ad attacchi armati fino ad attentati suicidi, partecipando alla Prima e Seconda Intifada. Ultimamente, finanziato e armato da Siria prima e Iran poi, si è dotata di grandi quantitativi di razzi per colpire Israele a distanza.

 

Nel 2006 Hamas ha vinto le elezioni ma è stato subito ostracizzato da Israele e Occidente. Questo non ha influito sul suo comportamento?

 

La questione ovviamente è complessa e ognuno ha le sue idee. Era inevitabile che Israele e Occidente fossero contro il risultato elettorale dato che Hamas non riconosce lo stato di Israele: era una condizione scontata. Va detto però che il movimento islamico si è giocato molto male le sue carte. Hamas ha creduto che il voto popolare legittimasse la sua linea dura e oltranzista, mentre esso era nato soprattutto dalla rabbia della gente per la corruzione dei governanti di al-Fatah – era un voto di protesta, non di richiesta di conflitto. Come dice anche la giornalista Paola Caridi nel suo libro sul movimento, Hamas ha perso un’occasione d’oro di mostrarsi un’alternativa credibile perché mantenendo la linea dura ha prima escluso le altre forze politiche palestinesi dal governo – spaventando l’Occidente – e ha poi rifiutato di assumersi le responsabilità di governo (che necessariamente includono compromessi) continuando invece ad essere strumento di lotta senza mezzi termini. Difficile convincere gli interlocutori esterni della propria buona fede in questo modo.

 

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Come ha fatto Hamas a prendere il controllo di Gaza?

 

Nel 2007 il movimento si trovava al culmine del suo scontro politico con al-Fatah, il partito del Presidente Palestinese Mahmud Abbas (Abu Mazen) e in particolare con il suo uomo forte a Gaza, Mohammed Dahlan. Tra i vari motivi di disaccordo, Hamas voleva convincere il Presidente ad accettare le sue forze di sicurezza all’interno dell’esercito. Abbas rifiutava perché tali forze non sarebbero state fedeli a lui o alle istituzioni ma solo ad Hamas. In seguito a numerosi scontri tra le due avverse fazioni, Hamas decide di sfruttare la sua superiorità militare per prendere il controllo della Striscia di Gaza in un’operazione durata meno di una settimana, uccidendo, imprigionando o scacciando tutte le forze di sicurezza fedeli all’Autorità Nazionale Palestinesi. Da quel momento si arrocca nella Striscia e Israele decide di porre il blocco. L’ostilità tra le due parti, incluso il rapimento del soldato Gilad Shalit, degenera poi fino all’Operazione Cast Lead a dicembre 2008-gennaio 2009 e alla situazione attuale ultimamente.

 

Hamas non poteva trovare una soluzione alternativa, di negoziato, per evitare il conflitto? Perché non riconosce Israele?

 

Il problema di Hamas è che di fatto è prigioniera del ruolo che essa stessa si è costruita. Si è sempre presentata come una migliore alternativa rispetto a Fatah, ma anche come il movimento che non avrebbe accettato compromessi con Israele. Grazie a questo ha ricevuto il supporto di finanziatori arabi altrettanto intransigenti, ha potuto reclutare numerosi miliziani ed è quindi entrata nelle grazie di paesi esteri interessati a mantenere alto il conflitto, come Siria e Iran appunto. Eppure i leader di Hamas hanno ben presente la loro situazione di isolamento e di non poter sconfiggere Israele militarmente (lo speravano nel 2008, ma Cast Lead ha svelato l’amara verità). Hamas non può però riconoscere Israele perché, se lo facesse, diventerebbe semplicemente… un’altra Fatah! Ovvero diventerebbe un altro movimento che tratta con Israele – i miliziani intransigenti che ne fanno parte si ribellerebbero e, anche nel migliore dei casi, semplicemente si unirebbero a un altro movimento estremista (o ne formerebbero uno loro) che continui la lotta. E’ ciò che è successo ad al-Fatah quando decise di abbandonare la lotta armata: la sua ala militare, le Brigate dei Martiri di Al-Aqsa, si ribellarono e continuarono a combattere per proprio conto per anni. Per Hamas dunque cedere al negoziato significa perdere la propria ragione d’essere e per i suoi leader significa rinunciare alla propria influenza. Non appaiono ancora pronti ad accettarlo.

 

Ma la gente di Gaza apprezza Hamas?

 

Non esistono sondaggi affidabili, ma cinque anni di controllo a Gaza non hanno migliorato la situazione della Striscia e la popolazione questo lo ha mal digerito. Hamas si è sempre presentata come movimento onesto (a differenza di Fatah, considerato pieno di corrotti) e capace di migliorare la situazione. Tuttavia una volta al potere ha mostrato le stesse contraddizioni dei suoi avversari, la stessa incapacità di risolvere la situazione, la stessa repressione del dissenso. Il risultato è stato una forte opposizione che anche se non capace di rovesciare il movimento non lo apprezza e, durante Cast Lead, ha addirittura portato ad informare più volte Israele su bersagli sensibili. Del resto la stessa Hamas è in una situazione di forte contraddizione interna. Non è capace di opporsi a Israele, ma non può neanche negoziare apertamente. L’unica strada diventa dunque quella di una tregua nella quali possa mettere a frutto il suo controllo della Striscia per impedire ad altri movimenti estremisti più piccoli di attaccare Israele ed evitare altri suoi interventi. Questa appare anche la base più probabile per un accordo per terminare l’attuale conflitto ed è la strada plausibilmente battuta ora dai negoziatori di USA ed Egitto per fermare gli scontri, in quanto accettabile anche per Israele.

 

Lorenzo Nannetti

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Cosa c’è da sapere su Goma

Continua il nostro aggiornamento sulla Repubblica Democratica del Congo. La stabilizzazione delle posizioni dei ribelli di M23 sembra oramai chiara, a scapito dell’esercito regolare congolese e delle forze dell’ONU. Proviamo a rispondere a 5 domande chiave, e a darvi altrettante risposte

 

Il conflitto in corso ha carattere etnico?

 

Non sembra esserci al momento una recrudescenza dal punto di vista dello scontro tra etnie, cioè Hutu e Tutsi, che in passato hanno dato vita a violentissimi scontri e vere e proprie guerre, soprattutto nei territori di Congo e Rwanda. Gli M23, che sono in prevalenza di etnia Tutsi, hanno preso Goma, senza mirare alla “roccaforte” Tutsi che è il territorio di Masisi nella provincia del Nord Kivu. Al momento non sembra esserci il desiderio di “liberare” i villaggi Tutsi dalle FARDC (l’esercito regolare del Congo) e dallo Stato Congolese in generale.

 

Quanto contano le ricche risorse minerarie in questi scontri?

 

Di certo contano parecchio, come sempre è stato nella regione del Nord Kivu, che attrae soprattutto i vicini ruandesi. Al momento però il controllo delle risorse minerarie non sembra prioritario, e gli M23 non sembrano finanziarsi dal traffico illecito di minerali oltre il confine (fonte: UN Group of Experts reports 2012). Ad esempio le miniere di Rutchuru e Masisi non sono (per adesso?) nelle mani dei ribelli. Resta il fatto che episodi di smuggling sono stati registrati tra Goma e il Rwanda prima della caduta della città, quindi con l’aggravarsi del conflitto ci saranno sempre meno controlli alle frontiere e per via indiretta si potrebbe creare un collegamento tra M23 e il contrabbando di risorse minerarie.

 

Quali sono le implicazioni politiche di questo attacco dei ribelli?

 

Ci saranno ripercussioni nei rapporti con il Rwanda; il gruppo di esperti delle Nazioni Unite che monitora la situazione nella regione ha già più volte evidenziato che il Governo ruandese fornisce supporto diretto ai ribelli. Anche rappresentanti del Governo ruandese pare siano direttamente coinvolti, su tutti il Generale Bosco Ntaganda e il Ministro della Difesa, Generale James Kabarebe. Su Ntaganda pende anche un mandato d’arresto della Corte Penale Internazionele per crimini di guerra e contro l’umanità. M23 inoltre punta a obiettivi strategici, come dimostra la decisa conquista di Goma e il tentativo di controllo dei confini nell’area. A riprova vi è anche una non casuale maggiore instabilità dei confini: nei giorni passati ci sono stati scambi di colpi tra militari congolesi e ruandesi dalle due parti del confini e sono numerose le testimonianze di sconfinamento di militari ruandesi (raccolte ad esempio da Human Rights Watch).

 

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Cosa fanno i peacekeeper dell’ONU e la comunità internazionale?

 

Il problema del mandato dei militari della missione MONUSCO è quantomai attuale. Durante l’avanzata di M23 sono arretrati evitando combattimenti in città, sebbene prima della conquista di Goma erano stati condotti degli attacchi con elicotteri contro le posizioni di M23. Fino a venerdì 16 sembrava che i ribelli fossero stati respinti, sabato è di nuovo cambiato tutto. La domanda è se possano ricorrere all’uso della forza. La risposta al momento è dubbia. Una revisione del mandato adesso sarebbe un messaggio forte da parte della comunità internazionale, che però si troverebbe nella posizione di dover chiaramente accusare il Governo ruandese e di dover preparare scontri in aree urbane, con la conseguenza di un ulteriore aggravarsi delle condizioni dei profughi. L’esercito regolare tra l’altro non sembra assolutamente in grado di contrastare i ribelli, e ha ripiegato a circa 30 Km da Goma, verso Sake, subendo anche parecchie defezioni (nella foto: militari in fuga).

 

Cosa succede alla gente del posto?

 

Da sabato 17 novembre una grande moltitudine di gente ha cominciato a capire che la battaglia si avvicinava alla città e sono cominciati gli spostamenti. Domenica mattina Goma era piena di gente che si avviava sulla strada verso il campo profughi di Kibati. Alcuni centri di gestiti da ONG hanno accolto persone in fuga, come quello di Ngangi, del VIS, che ha ospitato fino a 10.000 persone (foto in alto: ingresso del centro ieri – di Albino Pellegrino, VIS). Fino a ieri i camion degli aiuti umanitari e delle ONG sono dovuti rimanere fermi; si spera in una rapida ripresa della distribuzione di beni di prima necessità e di farmaci. Dopo che i ribelli si sono stabilizzati e quindi gli scontri sono diminuiti, alcune famiglie hanno cominciato a fare ritorno a casa, ma la situazione è in continuo divenire.

 

Anna Bulzomi – Pietro Costanzo

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Guerra alle porte

Repubblica Democratica del Congo, Nord Kivu, Goma: gli assalti dei ribelli del gruppo M23 si sono intensificati e hanno preso decisamente di mira la città di Goma, da sempre terreno di scontro e centro nevralgico nonché simbolico per il controllo dell’area. La popolazione locale è in grave difficoltà e grandi masse di persone cercano rifugio proprio in queste ore. La zona, ricca di risorse minerarie, è obiettivo delle mire del Ruanda, che cerca di rafforzare la propria presenza anche grazie al supporto dato ai ribelli

 

COSA SUCCEDE – I guerriglieri del movimento M23 hanno attaccato la città di Goma, hanno preso il controllo di diverse aree della città, guadagnando posizioni a scapito dell’esercito regolare e delle forze delle missione ONU. Attaccato anche l’aeroporto. La situazione è particolarmente fluida, e già da un paio di giorni la situazione sembrava precipitare, con scontri alle porte della città. Oggi la situazione si è decisamente aggravata, e la popolazione locale ha cominciato a fuggire dalle case e dalle strade cercando ricovero nei campi profughi. Un inasprirsi degli scontri tra ribelli ed esercito non è da escludersi già a breve.

 

AREA CONTESA – Lo spiegavamo a luglio in questo articolo di Giorgio d’Aniello: rapporti dell’ONU, di Human Rights Watch e dei servizi di sicurezza congolesi sostengono che elementi di spicco nell’esercito ruandese stiano appoggiando l’M23, attraverso il reclutamento, l’addestramento e l’equipaggiamento dei suoi membri. Risorse minerarie, tensioni etniche e “rapporti di vicinato” non proprio buoni hanno reso la regione del Nord Kivu un terreno di scontro perenne, dove forze ribelli locali contendono al Governo ed alla Missione ONU MONUSCO il controllo del territorio, con maggiore o minore efficacia, ma sempre a scapito delle popolazioni locali che oramai trovano nei campi profughi e nei centri di accoglienza della ONG le uniche possibilità di aiuto.

 

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CHI PAGA – Le immagini spiegano più delle parole:eccovi un video girato a Goma di recente, da operatori della ONG italiana VIS – Volontariato internazionale per lo Sviluppo. Gli operatori della missione ONU e la gente del posto sono in pieno fermento, e gestire i flussi di persone in cerca di ricovero è una emergenza che richiede interventi urgenti.

 

AGGIORNAMENTI – Pubblicheremo sulla nostra pagina Facebook le informazioni che ci arriveranno da Goma: seguiteci qui.

 

Pietro Costanzo

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Alta tensione

Da sempre la tensioni tra Israele e Palestina servono da termometro per l’arena mediorientale e lo stato delle relazioni internazionali, la settimana che si apre tuttavia, rischia di vedere quel termometro esplodere per l’ennesima volta. Morsi dal vicino Egitto, Obama dal Pacifico e il Consiglio UE da Bruxelles guardano preoccupati all’escalation di violenze da entrambe le parti della Striscia di Gaza. Alzando lo sguardo, poi, gli occhi questa settimana sono puntati anche su Europa, Usa, Argentina, Cambogia, Iran

 

EUROPA

Lunedì 19 – Il Consiglio per gli Affari esteri dell’Unione Europea indossa la mimetica radunando i ministri della difesa degli stati membri per affrontare le novità all’interno dell’European Defence Agency in tema di sharing & pooling di forze armate e mezzi militari. Sotto la presidenza dell’Alto Commissario Catherine Ashton saranno inoltre analizzati gli sviluppi delle missioni nel Corno d’Africa, in Somalia e nei Balcani. Dopo la pausa pranzo i Ministri degli Esteri dei 27 discuteranno delle modalità di intervento nella crisi in Mali, dove le forze militari europee potrebbero svolgere un ruolo fondamentale nella ricostituzione dell’esercito maliano ormai allo sbando.

 

Martedì 20-Lunedì 21 – I rappresentanti dei 20 stati membri si riuniscono martedì a Napoli per un dei meeting più importanti dell’Agenzia Spaziale Europea. Sul tavolo non solo lo sviluppo di un nuovo vettore balistico per il lancio di oggetti spaziali, ma anche il futuro del sistema di posizionamento “Galileo” e del contributo dell’Agenzia alla Stazione Spaziale Internazionale in un periodo di crisi ed austerità. All’interno di questa arena galattica si scontrano come d’abitudine due posizioni in conflitto, con la Francia a sostenere un nuovo modello di vettore, l’Ariane 6, e la Germania a tentare di chiudere i rubinetti dei fondi optando per una modesta evoluzione dell’attuale Ariane 5.

 

AMERICHE

ARGENTINA – Continua la bagarre giuridico-mediatica tra la compagnia petrolifera spagnola REPSOL e il governo argentino, autore della nazionalizzazione della sussidiaria YPF attiva nel campo del gas naturale nel territorio di competenza di Buenos Aires. Passati i 6 mesi di negoziazione tra le parti in causa, il processo di arbitrato internazionale presso l’ICSID prevede ora l’intervento di un panel di esperti chiamati a giudicare l’azione del governo argentino. Il Presidente di REPSOL Antonio Brufao si dice ancora fiducioso in una soluzione amichevole tra le parti, mentre il Ministro spagnolo per gli Affari Esteri continua ad appoggiare la battaglia legale in modo da evitare ripercussioni politiche già sfiorate 6 mesi fa.

 

STATI UNITI – Mentre il Presidente Obama volge lo sguardo ad oriente, dietro le quinte della Casa Bianca si alza il polverone per la successione al trono minore di Segretario di Stato dopo i rumours che vorrebbero la Clinton rimpiazzata dall’Ambasciatrice presso l’ONU Susan Rice. I vertici politico-militari del Pentagono sono però contrari a tale nomina a causa della modalita’ con cui la Rice ha spiegato al grande pubblico le cause dell’attacco fatale al consolato di Bengasi, presentandolo come una rappresaglia seguita alla pubblicazione dei video dei marines americani offensivi nei confronti della religione musulmana. Mentre i congressmen repubblicani continuano a cercare la preda più sensibile per i classici attacchi del dopo-elezione, la Rice sembra riscuotere l’appoggio influente di diverse voci democratiche che potrebbero realmente portarla al trono di Foggy Bottom.

 

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ASIA

Lunedì 19-Mercoledì 21 – Continua il tour asiatico nel neo-rieletto Barack Obama, che dimostra il valore strategico del pacifico spendendovi il primo viaggio istituzionale del nuovo mandato presidenziale. Dopo aver passato in rassegna la Thailandia, alleato della prima ora nella regione, Obama si dedicherà alla sfida del Myanmar, dove le promesse di apertura democratica non hanno fermato l’inasprirsi delle violenze inter-etniche, per poi concludere il suo viaggio in Cambogia. Proprio a Phnom Penh il presidente avrà modo di prendere parte alla conclusione del Summit Asean apertosi domenica alla presenza dei capi di stato e di governo delle nazioni dell’Asia-Pacific.

 

ASEAN (CAMBOGIA) – La fine di un triste primato potrebbe presto trasformarsi in una semplice illusione ottica dopo che anche il gruppo asiatico dell’ASEAN ha deciso di dotarsi di una carta regionale dei diritti umani dopo Europa, America ed Africa. In realtà invece di rappresentare una conquista per lo sviluppo democratico della nuova culla dello sviluppo economico, il documento nasconderebbe numerose vie di fuga per assecondare la sete di repressione di governi liberticidi membri della formazione. Dopo le tensioni dovute alle richieste di sovranità cinese sulla quasi totalità del Mar Cinese meridionale, martedì ci sarà spazio per affrontare la sfida di una proposta di free trade zone dalle dimensioni impressionanti, andando ad includere paesi terzi come Giappone, Corea del Sud, Australia e Nuova Zelanda.

 

MEDIO ORIENTE

ISRAELE-PALESTINA – Si trema nella Striscia di Gaza tanto quanto nelle città israeliane dopo che la minaccia di una nuova invasione di terra e di un capitolo secondo dell’Operazione Piombo Fuso del 2008-2009 sembra assumere contorni sempre più realistici. L’assassinio del comandante militare di Hamas da parte di uno strike chirurgico delle Israeli Air Forces e la relativa rappresaglia missilistica del gruppo armato palestinese hanno portato la situazione ad un nuovo stallo, costringendo la popolazione d’Israele a rispolverare i mai dimenticati rifugi anti-raid. A pagare il prezzo dei venti di guerra in Palestina è invece la popolazione civile, a causa del radicamento nevralgico di Hamas nella quasi totalità dei quartieri residenziali della sottile striscia di terra. Con Morsi e la Lega Araba di Nabil el Araby assurti a mediatori della questione, truppe d’elite e riservisti israeliani sono già pronti all’ennesima riscossa in una regione “maledetta” da anni.

 

IRAN – Mentre si chiude il meeting per il futuro della Siria, disertato peraltro dal più importante gruppo dell’opposizione all’alleato iraniano Bashar al-Assad, Teheran sembra procedere imperterrita verso l’acquisizione dello status di potenza nucleare “virtuale”, secondo l’ultimo report dell’AIEA. Il pesante cappio economico delle sanzioni, pur avendo inflitto danni incalcolabili all’economia del paese, non ha intaccato le volontà della leadership politico-spirituale nel continuare sulla via della nuclearizzazione. Con Israele impegnata a sedare nuovamente la minaccia missilistica proveniente dalla vicina Palestina, i prossimi mesi si confermano decisivi per la storia delle relazioni sul filo del rasoio tra Gerusalemme e Teheran.

 

Fabio Stella

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Dietro le quinte

Mentre Pillar of Defence continua, le diplomazie lavorano alacremente e ci si interroga sulla possibilità di intervento di terra a Gaza. Qual’è lo spazio per una tregua che eviti un’escalation come a dicembre 2008? Vi proponiamo altri dieci punti, semplici ed essenziali, per spiegare in profondità quanto sta accadendo

 

Un’azione diplomatica di Turchia, Qatar, Egitto e USA sta cercando di trovare lo spazio per una tregua tra Israele e Hamas. Gli USA stanno premendo perché Israele non attacchi con le truppe di terra, mentre l’Egitto prova a usare la sua influenza su Hamas per accettare una tregua. In questo quarto giorno di conflitto a Gaza, continuiamo le nostre osservazioni su quello che avviene dietro le quinte.

 

1) COSA SERVE PER UNA TREGUA? – Perché Hamas e Israele accettino una tregua serve che si verifichino alcune condizioni di base: soprattutto che Israele creda di aver ridotto sensibilmente la capacità offensiva di Hamas e dei miliziani islamici nella Striscia di Gaza in generale.

 

2) ISRAELE E’ OTTIMISTA – Il Generale Tal Russo, GOC (Comandante) del Comando Sud di Israele, che ha in carico il fronte di Gaza, ha affermato che gran parte del potenziale bellico di Hamas è stato eliminato. Al momento non ci sono dati indipendenti a conferma di ciò se non il fatto che il volume di fuoco dalla Striscia verso Israele è stato riportato essere inferiore ai giorni scorsi. Difficile dire se sia una conferma o una casualità non collegata. Israele ha comunque richiamato 75.000 riservisti.

 

3) AZIONE DI TERRA SVENTATA? – Se però fosse vero e il potenziale di Hamas fosse davvero stato ridotto sensibilmente, questo aumenterebbe le possibilità che Israele creda di poter ottenere un successo senza necessità di attacco di terra. La probabilità di quest’ultimo dunque si abbassa mentre si alza quella di un possibile cessate il fuoco.

 

4) DIPENDE TUTTO DALLE PERCEZIONI – Questo perché se Israele ha la percezione di aver raggiunto i propri scopi con le attuali modalità, non riterrà necessario intraprendere un’operazione nella quale il vantaggio militare è tutto dalla sua parte, ma affronterebbe notevoli problemi diplomatici e mediatici. Hamas, dal canto suo, sa che non può opporsi a un attacco di terra (tutti i limiti mostrati nel 2008-2009 dalle sue forze di sicurezza esistono ancora oggi) e dunque preferirebbe conservare le proprie forze, soprattutto per mantenere la forza necessaria a conservare il dominio della Striscia. C’è un motivo per il quale Hamas potrebbe invece pensare il contrario, ovvero sperare nell’attacco di terra israeliano? Sì, la possibilità di attrarre il nemico in un conflitto in città dove le vittime civili sarebbero di più e dunque sconfiggere Israele sul piano mediatico.

 

5) MA HAMAS NON RISCHIEREBBE L’ANNIENTAMENTO? – Le brigate Izz-ad-Din al-Qassam e le forze di sicurezza subirebbero forti danni come durante Cast Lead, ma una tattica che hanno sempre usato è quella di confondersi tra la popolazione con abiti civili. I principali leader di Hamas inoltre hanno il loro rifugio sotto l’Ospedale al-Shifa, il più grande della Striscia, e dunque non sarebbe possibile arrivare a loro. Israele dunque si limiterebbe a distruggere i principali centri comando di Hamas e i depositi di armi, ma non procederebbe a una bonifica completa della Striscia – servirebbe troppo tempo, che Israele non può permettersi.

 

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6) QUALCOSA IN PIU’ SU AL-JABARI – Ha fatto scalpore un’intervista del New York Times a Gershon Baskin, negoziatore non ufficiale di Israele con Hamas, il quale ha rivelato che Al-Jabari  (foto a fianco) era in realtà anche l’uomo che aiutava a mantenere i gruppi estremisti sotto controllo e con Baskin stava trattando per una tregua più duratura e a condizioni più favorevoli per Israele. Perché dunque è stato ucciso? Probabilmente bisognerà aspettare mesi per avere la risposta a questa domanda, tuttavia possiamo avanzare due ipotesi.

 

7) DOPPIOGIOCHISTA? – La capacità di Hamas di controllare le azioni dei gruppi estremisti minori (Jihad Islamica Palestinese, FPLP…) nella Striscia ultimamente era calata. Ne sono prova il maggiore numero di razzi sparati verso Israele negli ultimi due mesi. Al-Jabari aveva perso il controllo della situazione? O faceva il doppio gioco? Israele ce l’aveva con lui perché era stato la mente dietro al rapimento di Gilad Shalit. Finché il soldato israeliano era prigioniero, Al-Jabari era considerato intoccabile, ma con la sua liberazione non lo era più. Se Israele ha pensato che non fosse più utile perché non più in grado di evitare gli attacchi, questo può spiegare la sua uccisione.

 

8) SCARSA COMUNICAZIONE – C’è però anche da dire che alcuni dipartimenti di sicurezza israeliani si parlano poco, pertanto è possibile che il dipartimento che ha autorizzato l’uccisione di Al-Jabari non fosse al corrente che quest’ultimo fosse in procinto di trattare per un accordo più serio con un altro dipartimento. Non sarebbe la prima volta che accade. Dunque, potrebbe essere stato dovuto alla mancanza di comunicazione tra dipartimenti combinata con il desiderio di eliminare finalmente uno dei numeri uno di Hamas – e vendicare il rapimento Shalit.

 

9) ANCORA ELEZIONI – A questo aggiungiamo ancora le possibili motivazioni elettorali. Uccidere Al-Jabari costituisce un colpo mediatico ad effetto per Netanyahu, che ora può anche sperare di contare sulla spinta dell’opinione pubblica a favore della sua politica di difesa. Ma allora anche l’intervento di terra potrebbe essere autorizzato per fini elettorali? E’ possibile, ma qui c’è da considerare che una tale mossa potrebbe anche ritorcersi contro se le perdite fossero più alte del previsto o se fosse eseguita con la disapprovazione degli USA – che farebbero poi pesare la propria influenza successivamente. Dunque le considerazioni elettorali potrebbero funzionare anche in senso opposto: come detto prima se pensasse di aver conseguito risultati sufficienti a ridurre la minaccia di Hamas, Netanyahu potrebbe permettersi una tregua vantaggiosa – per Israele e per lui.

 

10) MA CHI SOSTITUIRA’ Al-JABARI? – In realtà però l’uccisione di Al-Jabari potrebbe risultare un boomerang. Chi lo sostituirà? A meno che egli non fosse davvero diventato un doppiogiochista, Al-Jabari era il miglior interlocutore di Israele con Hamas. Se al suo posto arrivasse qualcuno di più intransigente, Israele potrebbe non avere nessuno con cui accordarsi per controllare i gruppi estremisti nella Striscia, a tutto svantaggio della sicurezza sul lungo termine. Il successo tattico (ovvero in piccolo) della sua uccisione diventerebbe così una sconfitta strategica (ovvero in grande) per la sicurezza di Israele.

 

Lorenzo Nannetti

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Rapporti di buon vicinato (?)

Si conclude il focus dedicato alla nascita dell’Unione eurasiatica. In quest’ultima parte cerchiamo di capire in che modo l’integrazione di Russia, Bielorussia e Kazakistan costituirà un vantaggio per l’Unione Europea senza però trascurarne gli eventuali rischi e problematiche

 

UN’OPPORTUNITÀ PER L’EUROPA – Già da anni interessata ai rapporti di “buon vicinato” con i cugini dell’est, prima grazie alla PEV (Politica europea di vicinato) e poi attraverso il Partenariato Orientale (PO), l’Unione europea potrebbe intercettare le opportunità veicolate dalla neo integrazione eurasiatica. Infatti, l’intento dell’Unione eurasiatica è quello di porsi come organizzazione in grado di interagire con altri partner, europei e non, per la creazione di un ampio spazio economico, dall’Atlantico al Pacifico, grazie alla sua posizione geograficamente strategica. Ma quali potrebbero essere i benefici per il Vecchio Continente? Il vantaggio più evidente consiste nella possibilità di poter esportare verso un’area di libero scambio che costituisce circa l’80% del potenziale economico dell’ex URSS, con un PIL pari a 2 miliardi di dollari, caratterizzata da maggiore efficienza e trasparenza doganale ed abitata da circa 180 milioni di persone. Ulteriore convenienza è rappresentata dal costo ridotto dell’energia che rende possibile un abbattimento delle spese per investitori ed imprese. E l’energia è senza ombra di dubbio la chiave di volta delle partnership economiche nell’area eurasiatica, motivo d’attrazione per investimenti esteri tra cui figurano anche quelli d’Italia, Francia e Germania. Altro aspetto da considerare è quello della sicurezza. Infatti, secondo le parole dell’ambasciatore kazako Yelemessov, dal punto di vista geopolitico l’Unione eurasiatica potrebbe rivestire un ruolo di bilanciamento – nell’ambito dell’assetto mondiale – grazie ad una rete di alleanze tra paesi dell’area euro-atlantica e paesi dell’area asiatica.

 

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NON È TUTTO ORO CIÒ CHE LUCCICA – Certo è che se da un lato ci sono prospettive allettanti, specie economiche, dall’altro bisogna considerare i pericoli che potrebbero scaturire da alleanze energetiche, commerciali e politiche con le tre ex repubbliche sovietiche. La medaglia ha sempre una doppia faccia e nel caso dell’Unione eurasiatica si tratta di una faccia particolarmente inquietante. Uno dei principali problemi riguarda la dipendenza energetica che non lascia ampi spazi di manovra e si ripercuote inevitabilmente sui rapporti diplomatici. E’ lampante il fatto che la “questione gas” resti ancora un rompicapo per l’Europa che rischia di rimanere asservita a Mosca, Astana e Minsk per il timore di ritrovarsi con produzioni industriali bloccate e cittadini al freddo. Oltretutto, le alleanze con la neo Unione eurasiatica, figlia di Putin, potrebbero far storcere il naso a quelle nazioni europee che non guardano il Cremlino di buon occhio, vedi i Paesi baltici e la Polonia, creando eventuali spaccature in seno alla stessa Unione europea.  Non di poco conto inoltre le divergenze in materia di diritti umani, pace e democratizzazione, in particolar modo di Bielorussia e Kazakistan. Potrebbe apparire stridente un’alleanza tra l’attuale Premio Nobel per la pace e Capi di Stato come Putin, Nazarbayev e Lukashenko, finiti spesso sotto accusa per aver violato i diritti civili del proprio popolo o per aver fomentato guerre in casa, emblematici i fatti di Cecenia e Daghestan.

 

AMICI MA NON TROPPO – Alla luce di quanto detto i rapporti con l’Unione eurasiatica risultano, ciò nonostante, tanto importanti quanto inevitabili, sia per gli indiscussi vantaggi commerciali che ne potrebbero scaturire, sia per la rilevanza geopolitica ed economica dell’area. Questo però non esclude il fatto che l’Unione Europea possa lavorare alla creazione di relazioni più equilibrate. Se per alcuni il bilanciamento potrebbe generarsi grazie ad una maggiore influenza di Bruxelles in merito alla revisione di strutture politiche e sociali, per altri l’unico modo che l’Europa ha per mirare a relazioni paritarie è quello di ripensare – dopo il fallimento del progetto Nabucco – all’indipendenza energetica attraverso la costruzione di una nuova pipeline contrapposta al gasdotto South Stream.

 

Maria Paterno

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Verso l’attacco di terra?

Continua l’operazione “Pillar of Defence” (nome confermato dallo stesso governo israeliano) e continuano gli attacchi con razzi di Hamas verso Israele. Si va verso uno scontro di terra? Facciamo un breve aggiornamento ragionato della situazione, in dieci punti

 

Israele non ha alcun interesse a coinvolgere l’Egitto nello scontro, e anzi l’intenzione di fermare i raid durante la visita del premier egiziano a Gaza voleva essere proprio un segno di rispetto nei confronti del vicino. Questo ha fornito ad Hamas l’opportunità di aprire il fuoco verso Israele in modo più massiccio, cosa che, a sua volta, ha costretto Israele stesso a riprendere i raid anzitempo smentendo le proprie stesse intenzioni.

 

Osservando quanto avvenuto finora, sono possibili le seguenti considerazioni:

 

1) SUCCESSO A META’ – Israele ha eliminato buona parte dei razzi a lungo raggio di Hamas, ma non tutti. Il movimento islamico ha infatti potuto colpire vicino a Tel Aviv e Gerusalemme, anche se la precisione è risultata notevolmente scarsa.

 

2) FUOCO A VOLONTA’ – Hamas dispone ancora di numerosi razzi a breve-medio raggio (si parla di circa 10.000, ma la cifra tonda indica una stima di massima dell’ordine di grandezze più che un valore effettivo), veloci da manovrare, spostare e operare: può quindi mantenere un elevato volume di fuoco che, pur non essendo preciso, ha un forte effetto psicologico.

 

3) CHI E’ IN VANTAGGIO? PER ORA NESSUNO – Israele non riesce a colpire tutti i lanciarazzi o i depositi degli stessi, cosa che la pone in svantaggio riguardo alla possibilità di terminare velocemente lo scontro. Anche Hamas però è in una situazione simile: può colpire in maniera massiccia vicino alla Striscia, dove Israele è meno vulnerabile, mentre i pochi razzi lanciati più lontano sono appunto troppo pochi per avere effetti considerevoli, spesso vengono fermati dalle difese israeliane prima che colpiscano e non sono precisi, dunque non riescono a colpire dove desiderato, diluendone l’effetto. Anche Hamas dunque non ha modo di obbligare Israele a terminare velocemente lo scontro.

 

4) “IRON DOME” FUNZIONA PIU’ DEI PATRIOT – Le difese anti-razzi israeliane, il sistema “Iron Dome”, stanno funzionando abbastanza bene. Non sono lo scudo impenetrabile che il governo israeliano sperava, ma hanno comunque eliminato circa 150 ordigni in arrivo su oltre 500. Molti di più di quanto i famigerati Patriot (che in realtà furono poco efficaci) fecero nel 1991 durante la Prima Guerra del Golfo contro i missili di Saddam, ma ancora non sufficienti a fornire una difesa totale.

 

5) MA LA PAURA RIMANE – Nonostante ciò l’effetto psicologico di vedere razzi cadere a Gerusalemme e Tel Aviv, cuore di Israele, è notevole per la popolazione, che dopo 21 anni di nuovo scopre di non aver alcuna parte del paese “al sicuro”. Difficile però che questo ponga il paese in crisi – semmai rinforzerà la determinazione a vincere (qualunque cosa questo significhi).

 

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6) VOLUMI DI FUOCO – Va detto che a fronte di circa 250 raid israeliani sono stati sparati più di 500 razzi palestinesi in 3 giorni: considerando le riserve citate sopra, potenzialmente Hamas potrebbe mantenere lo stesso volume di fuoco per 3 settimane, forse troppo per la leadership Israeliana che vuole mantenere lo scontro il più breve possibile.

 

7) ATTACCO DI TERRA – Israele si prepara dunque a entrare a Gaza via terra: potrebbe essere solo un bluff, perché i rischi di vittime aumentano, così come l’effetto mediatico contro un nemico, Hamas, che in passato ha spesso cammuffato i propri combattenti da civili o si è nascosto tra essi. Il rischio di vittime innocenti dunque salirebbe molto e sarebbe quasi impossibile impedirlo. Il risultato è che anche un successo dell’operazione israeliana sul campo potrebbe risultare una sconfitta mediatica. Se c’è una cosa che Israele finora non ha mai imparato è proprio gestire la “guerra dei media”, che invece Hamas padroneggia. Tuttavia Netanyahu e Barak potrebbero decidere che l’attacco terrestre sia l’unico modo per eliminare anche i depositi di missili leggeri a corto raggio.

 

8) CHI C’E’ DIETRO – In questo giocherebbero una forte parte l’attuale capo di stato maggiore delle IDF, Ten. Generale Benny Gantz (foto), e il Comandante delle Truppe di Terra, Generale Sami Turgeman, entrambi favorevoli all’operazione. Gantz in particolare è sempre stato un fautore dell’azione forte contro Hamas fin dai tempi di Cast Lead, quando nel ruolo di Comandante del Comando Sud di Israele aveva contribuito a formularne la strategia.

 

9) TRUPPE D’ELITE E RISERVISTI – Secondo fonti di intelligence Israele ha schierato al confine con Gaza la Brigata Givati (che comunque è quasi sempre schierata lì vicino) e la Brigata Paracadutisti, due delle unità d’elite del paese. Entrambe avevano già partecipato a Cast Lead. Israele ha anche richiamato 30.000 riservisti. Proprio i riservisti costituiscono un dilemma per Israele: richiamarli aumenta gli effettivi disponibili per operazioni di guerra, ma significa anche togliere forza lavoro al paese e, dunque, bloccarlo almeno in parte. Israele non può permettersi di tenere i riservisti sotto le armi per troppe settimane, quindi si aspetta di risolvere la questione relativamente velocemente. La cosa comunque avrà un ingente costo economico per il paese, comunque vada a finire il conflitto.

 

10) LA SPERANZA NELLA DIPLOMAZIA – Mentre il conflitto prosegue, la diplomazia prova a lavorare. Non è tanto l’ONU a poter fare qualcosa, ma gli USA e l’Egitto. Quest’ultimo in particolare mostra, come prevedibile, un forte appoggio ad Hamas, ma non gradisce che il movimento diventi troppo potente (potrebbe poi creare problemi anche in Egitto) e l’idea di un conflitto vicino ai propri confini non è per nulla auspicabile. Come in passato, potrebbe dunque presentarsi come mediatore. L’unico problema è che nessuno dei contendenti ora si fida dell’altro o è pronto a fare la prima mossa di distensione.

 

Lorenzo Nannetti

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Unitamente divisi

Dopo mesi di guerra e divisioni i principali gruppi di opposizione siriana hanno accettato di unire le forze e formare un gruppo di coordinazione unitario che possa servire a guidare gli sforzi e attrarre gli aiuti esteri in maniera mirata: cinque domande e cinque risposte per capirne il significato, come sempre nel nostro stile agile ed immediato

 

Cosa si è formato e chi l’ha voluto?

 

La notte fra l’11 e il 12 novembre 2012 ha visto la luce la Coalizione Nazionale per le Forze di Opposizione e per la Rivoluzione, un “ombrello” che, tramite i suoi esponenti, dovrà riunire e coordinare gli sforzi di tutti i gruppi che si oppongono a Bashar al-Assad. La sua creazione è stata fortemente voluta sia dall’Occidente (USA, Francia e Gran Bretagna in primis), sia da paesi arabi come il Qatar, per poter finalmente avere un interlocutore unico e, possibilmente, affidabile con cui dialogare, trattare e al quale offrire finanziamenti. Una migliore conoscenza dei gruppi ribelli, ottenuta proprio grazie alla nuova Coalizione Nazionale, aiuterà infatti i paesi amici a capire a chi si possono affidare armi e denaro e a chi no.

 

Ma l’opposizione non era molto divisa? Cosa ha reso possibile questo evento?

 

L’opposizione siriana è in effetti un insieme di più di 50 gruppi diversi, alcuni molto grandi e influenti, altri poco più di bande armate. Sono tutti nati indipendentemente l’uno dall’altro e i legami reciproci sono minimi, se non nulli. Spesso non si fidano l’uno dell’altro e rappresentano gruppi troppo diversi tra loro. In particolare il Consiglio Nazionale Siriano (Syrian National Council – SNC), che si è sempre ritenuto il riferimento n.1, è formato principalmente da esuli ormai lontani dalla madrepatria da decenni, considerati troppo distanti da chi ora affronta le milizie di Assad sul campo. Sono spesso più occupati da dispute burocratiche interne che non da come organizzare gli aiuti, cosa che ne ha fatto cadere la legittimità agli occhi dei paesi esteri che aiutano i ribelli. Inoltre sono accusati di essere dominati dalla Fratellanza Mussulmana; questo, combinato alla mancanza di autorità, li ha resi poco graditi sia all’Occidente e sia gruppi di ribelli sul campo, che preferiscono aderire all’Esercito Siriano Libero (Free Syrian Army – FSA). La formazione della Coalizione Nazionale ha quindi richiesto una forte opera diplomatica per individuare figure che fossero almeno parzialmente gradite  a tutti e garantire che nell’assemblea che la forma fossero tutti rappresentati. L’SNC in particolare ha accettato di farvi parte solo dopo che la percentuale di suoi rappresentanti nella nuova coalizione è stata raddoppiata dal 20 al 40%.

 

Chi guida la nuova coalizione? Molti hanno detto che è un cristiano.

 

No, su questo i media hanno fatto un po’ di confusione. Il leader della Coalizione Nazionale è Moaz al-Khateeb, un imam sunnita moderato di Damasco. I suoi vice sono Riad Seif, un ex-parlamentare e uomo d’affari rispettato sia in Siria sia all’estero, e Suheir Atassi, attivista donna di una famiglia siriana influente. Sono tutti esuli, ma da pochissimi anni e per questo contano ancora molti legami in Siria, al contrario dell’SNC. Si spera che la loro origine diversa e moderata possa fungere da catalizzatore per tutti i gruppi. Il personaggio citato dai media nei giorni scorsi è invece George Sabra, cristiano ex-comunista che è diventato capo non della Coalizione Nazionale ma dell’SNC. Anche la sua nomina comunque potrebbe avere il vantaggio di attirare più supporto nel caso l’SNC si affranchi dalle “etichette” che abbiamo descritto prima.

 

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I gruppi armati sul territorio siriano obbediranno ad al-Khateeb e ai suoi?

 

Questa è ovviamente la domanda chiave. Molti gruppi armati moderati, come la brigata Farouq, una delle più importanti, si sono dette d’accordo, anche perché la Coalizione Nazionale deve canalizzare aiuti, finanziamenti e direzione politica, ma non si intromette negli affari sul campo. La sua utilità dunque è quella di costruire una base per l’eventuale stabilizzazione della Siria se e quando Bashar al-Assad verrà scacciato dal potere. Tuttavia è improbabile che i gruppi più estremisti, come quelli legati ad Al-Qaeda, riconoscano la Coalizione Nazionale come legittima; per questo motivo bisogna osservare con attenzione come reagiranno tutti i gruppi nelle prossime settimane. Certamente però  l’aver creato almeno un inizio di coesione (apparentemente impossibile anche solo un paio di settimane fa) costituisce un passo in avanti incoraggiante.

 

Intanto però il regime continua a resistere. C’è qualche cambiamento sul campo?

 

Non molti. Regime e ribelli continuano a essere bloccati in uno stallo apparentemente senza fine, anche se alcune notizie degli ultimi giorni confermano le crescenti difficoltà dei lealisti: i ribelli sono penetrati nella provincia di Raqqa, precedentemente pacifica. Inoltre Bashar al-Assad ha richiamato alcune delle sue unità di elite a Damasco, cosa che ha reso difficile mantenere le sue linee di comunicazione e rifornimento con i suoi uomini ad Aleppo, considerato punto nevralgico. Il motivo? I ribelli, per quanto ancora troppo deboli, hanno ripreso a bombardare sporadicamente i quartieri più interni (e considerati più sicuri) della capitale, segno di come la loro spinta non si sia affatto affievolita. Il regime teme per il proprio cuore, e conferma di non poter più essere forte ovunque.

 

Lorenzo Nannetti

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