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Contrastare l’Europa… con le sue stesse armi

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Il nuovo “zar di tutte le Russie” e il suo fedelissimo Medvedev aspirano alla nascita dell'Unione euroasiatica, un grande progetto per realizzare un ponte economico tra Asia ed Europa ma anche per contrastare l'allargamento ad Est dell'Ue. Bielorussia, Kazakistan, Kirghizistan e Tajikistan condividono il progetto di Mosca, resta invece ancora un incognita la volontà degli altri stati dell'ex blocco sovietico

NON UNA NUOVA URSS – Tornato per la terza volta alla guida della Federazione Russa, il presidente Vladimir Putin, per la sua rinnovata esperienza al Cremlino, intende portare a termine una missione già avviata dal suo predecessore Dmitrij Medvedev, restituire alla Russia quel ruolo di superpotenza, ricoperto fino al 1991, all'interno dello scacchiere mondiale. Non un remake della ex Unione Sovietica ma una rinascita economica basata sul modello d'integrazione dell'Unione Europea. Non a caso, il primo passo per la realizzazione del grande progetto ha visto proprio la creazione di un unione doganale tra Russia, Bielorussia e Kazakistan seguendo le orme del Trattato di Roma. Accordo che vide nel 1957 l'istituzione di un unione doganale tra Italia, Francia, Germania, Belgio, Lussemburgo e Paesi Bassi con la nascita della Comunità economica europea (CEE), preludio dell'attuale Ue.

UN PONTE TRA ORIENTE E OCCIDENTE – In vigore dal 2010, l'unione doganale tra i tre paesi ex sovietici a gennaio di quest'anno ha cambiato volto, mutando in Comunità economica eurasiatica (CEEA ) e palesando quindi una chiara volontà di giungere alla creazione di un'Unione Eurasiatica entro il 2015. L'annuncio è arrivato dallo stesso primo ministro Medvedev lo scorso 15 giugno, in occasione del forum Spazio economico unico, rendendo di pubblico dominio anche il progetto per la creazione di una moneta unica nello spazio eurasiatico unito. Quest'area si porrebbe come naturale ponte economico tra l’Unione Europea e le emergenti economie asiatiche, prima fra tutte la Cina, complice anche l’ingresso della Russia nell' Organizzazione mondiale del commercio il 22 agosto di quest'anno, a seguito di 19 anni d'attesa.

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BLOCCARE L'AVANZATA EUROPEA A EST – Oltre alla crescita economica appare chiaro però che Putin ed il suo braccio destro puntino a frenare la "conquista" europea delle nazioni ex sovietiche. Caso emblematico quello dell'Ucraina, che ormai, dismessa ogni aspirazione verso l'Unione Europea, sotto la presidenza Yanukovych sembra virare in direzione della "casa Russia".

A dispetto di tutti i sogni ed i grandi progetti quello che però conta veramente è capire ora quali repubbliche ex sovietiche saranno disposte a condividere il progetto di Mosca oltre alla Bielorussia al Kazakistan ed al Kirghizistan e Tajikistan che presto entreranno a far parte dell'aera di libero scambio.

Resta difficile credere che a poco più di vent'anni dal crollo del blocco Urss i neo stati indipendenti, ad esclusione dei paesi baltici ormai europei, siano disposti a cedere porzioni della loro sovranità e a correre il rischio di dover sottostare agli eventuali diktat di Mosca.  

Maria Paterno [email protected]

Questo piano non s’ha da fare

L’ECOWAS ha elaborato un piano per un intervento militare in Mali, ma il presidente Traoré e il capo della giunta militare, Sanogo, lo respingono, chiedendo che alle truppe straniere non sia consentito l’accesso alla capitale e che i tempi dell’operazione siano decisi dall’esercito maliano. Per risposta, i Paesi dell’Africa occidentale hanno definito «insensate» le posizioni di Bamako. In Africa centrale, si continua a combattere contro Joseph Kony con 2.500 militari in più. Raggiunto un accordo nella miniera di Marikana, in Sudafrica. Ucciso il portavoce di Boko Haram. Il Sudan blocca il sito You Tube per evitare la diffusione di “Innocence of Muslims”

 

MALI: RESPINTO IL PIANO ECOWAS – Giovedì scorso, i Capi di Stato Maggiore dei Paesi ECOWAS si sono incontrati ad Abidjan per definire un progetto di intervento armato in Mali. Il governo di Bamako, infatti, aveva sollecitato sin da agosto la convocazione di una conferenza specifica che conducesse all’approvazione di una missione militare contro gli insorti dell’Azawad. Nel frattempo, nel nord del Mali, continuano gli scontri tra tuareg e miliziani islamisti di gruppi direttamente o indirettamente legati ad Ansar Dine e al MUJAO. Allo stesso modo, non cessano né la distruzione sistematica di monumenti storici pre-islamici o dell’Islam tradizionale locale, né l’imposizione della legge shariatica. In un secondo meeting, sabato 15, la discussione è stata tra i Ministri degli Interni e della Sicurezza dell’ECOWAS, con lo specifico scopo di trattare argomenti correlati alla lotta al crimine e al terrorismo. Tuttavia, il piano proposto dalla Comunità dell’Africa Occidentale non ha trovato il favore del presidente maliano, Dioncounda Traoré, cosicché, prima alcune fonti diplomatiche, quindi il capo di Stato del Burkina Faso, Blaise Compaoré, hanno criticato la posizione di Bamako. Nel contempo, Amadou Aya Sanogo, il capo della giunta militare che a marzo spodestò l’allora presidente Amadou Toumani Touré, è intervenuto specificando che le truppe dell’ECOWAS potranno intervenire «solo quando l’esercito del Mali ne avrà bisogno […] e avendo presente che sarà loro precluso l’ingresso nella capitale». La Comunità dell’Africa Occidentale ha definito «irrealiste e irresponsabili» le posizioni degli esponenti maliani, poiché la presenza di un coordinamento della missione nella capitale sarebbe indispensabile. In questo senso, il presidente Compaoré, in visita a Parigi, ha ammesso l’assenza di un accordo tra l’ECOWAS e Bamako, invitando però il Mali a non considerare i Paesi vicini come «mercenari, bensì come compagni d’armi».

 

RINFORZI CONTRO KONY – In Africa centrale continua la caccia a Joseph Kony e ai miliziani del Lord’s Resistance Army. Martedì 18 settembre, la Regional Task Force (RTF) dell’Unione Africana ha annunciato che agli uomini già impegnati nelle operazioni si aggiungeranno 2mila soldati ugandesi e 500 sud-sudanesi, che saranno alloggiati alla base di Yambio, nel Sudan del Sud. Il capo dell’Ufficio Regionale per l’Africa centrale dell’ONU, Abu Mussa, e l’inviato speciale dell’Unione Africana, Francisco Madeira, hanno mostrato apprezzamento per l’impegno posto dagli Stati coinvolti nell’effettivo tentativo di catturare Joseph Kony e costringere alla resa i suoi uomini, ponendo, però, l’attenzione sulla necessità di sopperire alle carenze logistiche ed economiche della Task Force. La RTF è stata avviata nel marzo del 2012 da Repubblica Centrafricana, Repubblica democratica del Congo, Sud Sudan e Uganda, con il sostegno di ONU e UA, per fermare le scorribande dell’LRA, una formazione militare che agisce nell’ampia regione comprendente la quasi totalità dei Paesi su indicati e che è accusata di aver commesso crimini spaventosi, dalle uccisioni in massa, fino al rapimento di centinaia di bambine e bambini allo scopo di renderli soldati o schiavi sessuali. Per dovere di cronaca, è necessario citare, tuttavia, che alcuni opinionisti ritengono che la missione armata contro Kony sia solo un pretesto per modificare determinati assetti politici internazionali, indicando, invece, nell’attuale presidente dell’Uganda, Yoweri Museveni, il vero autore di molte delle brutalità attribuite all’LRA.

 

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RAGGIUNTO L’ACCORDO A MARIKANA – Martedì notte è stato raggiunto un accordo che pone fine allo sciopero di sei settimane dei lavoratori della miniera di Marikana, in Sudafrica. Secondo quanto stabilito, i minatori, in base agli incarichi, otterranno aumenti salariali tra il 18% e il 22%, ossia di cifre tra i 1000 e i 2000 rand (90-180 euro), in aggiunta a un bonus di R2000 una tantum al rientro a lavoro, previsto per il 20 settembre. Presso la miniera, il 16 agosto scorso, nel momento più tragico della protesta, erano stati uccisi dalla polizia 34 operai, mentre altre dieci persone, tra manifestati e Forze dell’Ordine, erano morte nei giorni precedenti. Dietro la vicenda, comunque, si defila un fitto groviglio di politica e affari: basti pensare che il sindacato dei minatori ha subìto una dura scissione che potrebbe compromettere addirittura la rielezione del presidente sudafricano, Jacob Zuma.

 

UCCISO IL PORTAVOCE DI BOKO HARAM – La squadra speciale antiterrorismo della Nigeria ha annunciato di aver compiuto un’irruzione nella base centrale di Boko Haram a Kano, inferendo un duro colpo al gruppo islamista. Nell’operazione è rimasto ucciso Abu Qada, uomo chiave, nonché portavoce, dell’organizzazione. In un primo momento, la dinamica degli eventi non era stata chiara, poiché si parlava anche di un conflitto a fuoco avvenuto tra alcuni membri delle forze di sicurezza e la scorta all’auto sulla quale Abu Qada stava viaggiando con la famiglia. Tuttavia, la Joint Task Force ha confermato di aver condotto un blitz nel rifugio di Boko Haram grazie a informazioni raccolte dopo alcuni fatti di sangue nella regione attorno a Maiduguri.

 

IL SUDAN BLOCCA YOU TUBE – Nonostante non sia giunta alcuna conferma ufficiale da parte delle Autorità, il Sudan ha imposto alla National Telecommunication Corporation (NTC) di interrompere l’accesso al sito internet You Tube, nel tentativo di prevenire la diffusione di “Innocence of Muslims”, il video che ironizza sulla figura di Maometto e che ha scatenato, anche a Khartoum, violente proteste. La notizia è stata riportata dal “Sudan Tribune” e confermata dai cittadini intervistati dal giornale: il filtro a You Tube, infatti, sarebbe attivo dal 16 settembre. Il giorno prima, durante le violenze contro l’ambasciata statunitense a Khartoum, il bilancio era stato di due morti e alcune decine di feriti.

 

Beniamino Franceschini

Profondo rosso

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Da Guangzhou – Ecco in esclusiva una testimonianza unica: il racconto delle proteste anti-giapponesi che hanno infiammato la Cina negli ultimi giorni, vissute in prima persona da un nostro collaboratore. Prendete la disputa delle Diaoyu/Senkaku all’apice della battaglia diplomatica, l’anniversario dell’invasione giapponese del 18 Settembre 1937 e unite il tutto al fatto di trovarvi casualmente in Cina, precisamente a Guangzhou, davanti al Consolato giapponese. Ecco come nasce la testimonianza di un martedì 18 settembre nel mezzo delle proteste anti-giapponesi di scena a Guangzhou

 

QUANDO IL CERCHIO SI CHIUDE – Il cellulare mi sveglia di soprassalto alle 7:30, dall’ufficio mi chiedono di rimanere tranquillamente a casa data la vicinanza fisica al Consolato Giapponese preso il Garden Hotel, quartiere Yuexiu, zona Taojin. Non che l’avvertimento fosse un lampo a ciel sereno, nei giorni precedenti proteste insignificanti e slogan urlati a squarciagola avevano spezzato la monotonia della settimana lavorativa. In realtà è stato il weekend a fare aprire gli occhi all’intera Guangzhou su quanto la questione dell’arcipelago conteso fra Cina e Giappone potesse diventare esplosiva.

 

L’ANTEFATTO – Domenica 15 settembre, in tarda mattinata, un gruppo di manifestanti che stazionava al di fuori del Consolato giapponese a Taojin ripiega verso l’entrata principale del Garden Hotel, che oltre ad essere uno degli alberghi più famosi di Guangzhou, ospita anche numerosi uffici e consolati tra cui anche quello statunitense. Dopo aver letteralmente polverizzato la porta di vetro nella hall, il gruppo di violenti si vede chiuso la strada verso il Consolato giapponese e ripiega quindi verso l’obiettivo più semplice e meno protetto: il ristorante in stile nipponico del secondo piano. Vetrine distrutte, tavoli divelti e altri danni materiali il bilancio dell’azione mordi e fuggi. Dopo la paura per l’evento inaspettato, non resta che immaginare quali conseguenze porterà l’imminente 75esimo anniversario dell’invasione giapponese del 1937, che l’amministrazione del complesso chiama “giornata speciale”, nell’avviso in cui avverte gli ospiti della struttura.

 

LA “GIORNATA SPECIALE” – Passato il secondo di shock emotivo per la vacanza inattesa di martedì, mi ricordo di aver cullato per qualche tempo velleità da inviato di guerra, finendo sempre per desistere a causa della quiete italo-europea della Brianza in cui ho sempre vissuto. Cerco di trovare almeno un motivo per cui dovrei rimanere nel mio letto al sicuro e non raggiungere il mio posto di lavoro, trasformatosi in una zona di guerra nel giro di una notte. Ne trovo almeno una decina e quindi decido di uscire di casa dopo aver scelto la t-shirt piu’ politically-friendly con le ragioni della piazza: quella con il faccione di Lei Feng, immaginifico eroe nazionale, stampata in rosso su sfondo nero. L’aria increddibilmente fresca di queste ultime giornate d’estate mi riporta con la mente agli innumerevoli inviti alla prudenza ripetuti come un mantra da parenti e amici.

 

STESSA STORIA, STESSO POSTO? – Prendo al volo il bus 191, quello che ogni giorno mi porta in ufficio e mentre scruto l’orizzonte dietro i miei Rayban da perfetto espatriato mi accorgo che il Tianhe Sport Centre, il complesso dove gioca il Guangzhou Evergrande di Marcello Lippi, si è trasformato in una base militare. Circa 50 mezzi pesanti appartenenti alla Chinese People’s Armed Police Force, per gli amici Wujing, circondano l’intero stadio nei pressi del quale gli scontri del weekend hanno danneggiato anche l’auto del Console Generale d’Italia a Guangzhou, che transitava ignaro delle proteste su una TOYOTA con targa diplomatica: errore quasi fatale. Giunto a Taojin, riesco a malapena a credere ai miei occhi, quello che durante la settimana è normalmente uno dei quartieri più attivi e affollati di Canton, appare ora privo del solito traffico cui si sono sostituiti però circa 20.000 uomini appartenenti alle varie forze di polizia. L’impressione è quella di camminare ad occhi chiusi in un campo minato.

 

NON-VIOLENZA A SQUARCIAGOLA – Dopo un breve giro dell’isolato cerco di quantificare il microcosmo che mi circonda tirando le somme di partecipanti alla manifestazione e appartenenti alle forze dell’ordine. Sicuramente i secondi raddoppiano i primi, per un totale di circa 10mila controllori e 5mila controllati, cui vanno aggiunti miriadi di curiosi accorsi a Taojin per assistere allo spettacolo. La situazione si mostra subito come innocua, come testimonia il basso livello di nervosismo degli agenti della polizia locale, impegnati a godersi il mondo dei sogni, stremati dai turni di 8 ore di veglia. Iniziano ad arrivare i primi gruppi organizzati, appartenenti a Università, associazioni giovanili o aziende cinesi che per l’occasione sfoggiano t-shirts con motti patriottici, il profilo delle Diaoyu o semplicemente minacce rivolte al nemico di sempre. Con il mio cinese stentato, riesco tuttavia a comprendere i due slogan che ascolterò incessantemente per tutta la giornata, la resa improvvisata in italiano è “Le Diaouyu sono territorio cinese” e “Schiacciamo l’insignificante Giappone”, come nel più classico dei tormentoni dell’estate, il ritornello va ripetuto fino allo svenimento.

 

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PRESENTE E PASSATO – Dopo alcune ondate di perlustrazione, i gruppi organizzati di manifestanti iniziano a concentrarsi presso l’entrata ovest del Garden Hotel, dove solo una salita fortificata in maniera impeccabile li separa dalle odiate mura della rappresentanza nipponica. Bandiera ammainata, consolato chiuso e circondato da un numero sconvolgente di uomini in divisa, tanto fitti che si ha l’impressione metaforica che lanciando il famoso ago, le possibilità che tocchi terra siano davvero minime. Mentre inizia il concerto a cappella degli slogan propagandistici qualcuno nota il mio viso occidentale nella massa cinese, parte la raffica di domande, alcune addirittura in cantonese (dialetto del Guangdong molto vicino ai suoni del Sud-Est Asiatico). Fortunatamente incontro JJ, che parla un inglese sopra la media e che invece di recarsi al lavoro nella sua compagnia giapponese ha deciso di unirsi alla protesta “per una causa giusta e per ricordare l’orrore della storia”. Sembra un vizio piuttosto diffuso nella folla in cui mi trovo da estraneo quello di collegare in maniera inscindibile le recenti vicissitudini delle Diaoyu/Senkaku alla memoria di lunga data delle violenze dell’invasione giapponese e dell’incancellabile “stupro di Nanchino”, in cui circa 300.000 tra civili e volontari persero la vita in pochi giorni.

 

SALE LA TENSIONE – L’aver risposto alle domande della folla che mi circonda mi costerà il venire identificato su weibo, il twitter locale, come “l’italiano che partecipa alla manifestazione”, qualche foto compromettente insieme alle manifestanti del gentil sesso e una t-shirt contro il Giappone compresa nel pacchetto “famosi per un giorno”. La rabbia dei manifestanti inizia intanto a montare, e per l’impressionante presenza delle forze dell’ordine, e per l’assenza della tanto attesa controparte che ha preferito saggiamente ritirare dietro mura lontane dal troppo esposto consolato. Qualcuno lancia cartelloni contro le transenne, qualcun altro colpisce un sergente della polizia che filma i manifestanti con una bottiglietta d’acqua, le bandiere bruciate e gli insulti a Giappone e giapponesi si sprecano. Più che violenta, la folla inizia ad essere annoiata, tanto che si cerca di sostituire i due slogan ormai noti anche ai muri con l’inno cinese e ritornelli di sapor di Rivoluzione Culturale. D’altra parte i santini formato A4 di Mao Zedong sono veramente tanti lungo il serpentone che racchiuso tra due ali di poliziotti in assetto anti-sommossa circonda le mura di un Garden Hotel fantasma.

 

BOICOTTAGGIO UNICA VIA – Tra le menti più reattive presenti in strada c’è probabilmente quella di JJ, con cui continuo a discutere della situazione e che uso spudoratamente quale interprete per le mie domande al popolino. Alla decima risposta preimpostata sulla disputa delle Diaoyu e sulla storia dei rappoerti col Giappone decido di rimettere in tasca il taccuino, inutile carpire opinioni personali in una massa abituata alle risposte di facciata o disposta solo a mostrare solo la faccia politically correct del proprio pensiero. Dalla faccia del mio compagno di “marcia” capisco la delusione di chi ha buttato una giornata di lavoro per veder sfumare ogni possibilità di successo di una manifestazione in realtà sterile di risultati. L’unico lampo che riesce a riaccendere le speranze della piazza è il boicottaggio, richiamato da vari striscioni che ricordano la miriade di marche giapponesi o dai punti vendita Jusco e 7 eleven, prudentemente chiusi per l’occasione. “To boycott is castrate Japan” riporta nel suo inglese stentato un cartellone che svetta sugli altri, e proprio il boicottaggio, anche per un periodo simbolico, dei prodotti giapponesi sembra l’unica via per far sentire il peso dell’opinione pubblica in un paese in cui la politica estera si mischia facilmente al nazionalismo dell’eccezione cinese.

 

RITORNO ALLA NORMALITA’ – Verso le 18 Taojin inizia a svuotarsi, sia per il calar del sole sia per la fame che attanaglia l’orda di manifestanti strenuati dalle grida e da un sole che nonstante il forte vento si è fatto sentire per tutta la giornata. Il bilancio della “giornata speciale” sa di miracolo, zero danni a cose e persone, zero contusi o feriti, zero episodi di violenza vera e propria, alla fine dei conti la mobilitazione di massa richiesta dalle autorità di Guangzhou è stata un deterrente più che efficace a sedare qualunque tentativo irragionevole viste le proporzioni. L’ordine e la sensazione di controllo e sicurezza hanno fatto impallidire anche l’osservatore più cinico nei miei panni di straniero abituato al bollettino di guerra fatto circolare dopo ogni scontro scottante nella Serie A nostrana. Dopo gli avvenimenti di Piazza Tienanmen sembra che il Governo cinese abbia imparato a dosare violenza e pressione sui manifestanti, che nonostante la censura online, riescono comunque a raggiungere livelli di organizzaazione invidiabili. Occasioni come quelle di martedì sembrano rappresentare in realtà le valvole di sfogo per i risentimenti di chi rimane escluso dal benessere ormai dilagante nella classe media cinese, canta che ti passa dice il vecchio adagio, ma il concetto sembra rimanere un evergreen anche al di fuori della sbornia anti-nipponica. Ritorno verso casa sul solito 191 noto che dei camion mimetici attorno allo stadio non è rimasta neanche l’ombra, in fondo, dopo le emozioni forti della giornata il tramonto sul Pearl River sembra scacciare via le nubi delle minacce di una guerra che resta in stand by, in una Guangzhou scossa dal vento dell’est che porta lontane inimicizie.

 

Il ‘Pacifico furioso’

Ritorna l’appuntamento settimanale con la rubrica che vi aggiorna sulle principali news in arrivo da tutto il mondo. Dai vertici dell’UE con Sudafrica e Cina alle tensioni che si stanno rialzando tra Pechino e Tokyo e in tutto il mondo mediorentale, passando per gli aggiornamenti dalla campagna elettorale statunitense, ecco a voi una finestra su tutte le principali vicende di politica internazionale che animeranno i prossimi giorni

 

EUROPA

Martedi’ 18 – Mercoledi’ 19 – Bruxelles si tinge del rosso della terra del continente nero per la due giorni del V EU-South Africa Summit, cui prenderanno parte Herman Van Rompuy e José Manuel Barroso da una parte e Jacob Zuma dall’altra. L’incontro di alto livello giunge dopo un mese di scontri e proteste nella regione mineraria attorno al bacino di Rustenberg, a circa 100 km da Johannesburg. I leader delle due “nazioni” sono chiamati ad affrontare le tematiche piu’ importanti nelle loro relazioni bilaterali, in particolare il cambiamento climatico, il commercio internazionale, le politiche di sviluppo sostenibile, l’ EU-Africa Joint Strategy e la partnership strategica per la pace e la sicurezza nel continente africano.

 

Mercoledi’ 19 – Giovedi’ 20 – Sarà un’occasione di confronto e dibattito imperdibile quella offerta dall’ EU-China Mayors’ Forum, il primo incontro dell’anno all’interno della EU-China Urbanisation Partnership. Il framework riunisce sindaci, ufficiali regionali e locali e rappresentanti del settore economico finanziario e di ONG impegnate nel raggiungere modelli di sviluppo sostenibile. L’iniziativa e’ frutto del VII EU-China Summit quale scommessa sulle sfide della pianificazione urbana cinese. All’incontro prenderà parte il Primo Ministro cinese Wen Jiabao e il presdiente della Commissione Europea Barroso.

 

Giovedi’ 20 – Terminato il meeting tra I decisori locali di Cina ed Europa, Jose Manuel Barroso, Herman Van Rompuy e Wen Jiabao apriranno il 15esimo EU-China Summit, che giunge a distanza di poche settimane dall’attesissimo Congresso del Partito Comunista Cinese che dovrà approvare le nuove geometrie del potere, in realtà già palesi da tempo. Sul tavolo non solo le solite tensioni sulle misure anti-dumping applicate dall’Europa su una vasta gamma di prodotti cinesi, ma anche le nuove strategie all’interno del WTO dopo l’ingresso della Federazione Russa. Ci sarà sicuramente spazio per le tematiche scottanti da prima pagina “esteri” come la situazione ormai disastrosa in Siria e la tensione ormai esplosiva tra Iran e Israele.

 

 

AMERICHE

Lunedì 17 – Martedì 18 – Il ritmo della competizione tra Barack Obama e Mitt Romney si fa incessante, mentre il Presidente uscente sarà impegnato in appuntamenti elettorali in Ohio a Cincinnati e Columbus per poi giungere a New York martedì. Nel frattempo, la First Lady Michelle terrà un discorso pubblico a Gainesville presso la University of Florida. Dall’altra parte della staccionata della Casa Bianca, lo sfidante Mitt Romney godrà del sostegno del movimento dei Tea Party, il cui tour elettorale avrà inizio proprio lunedì nel rush finale fino al 7 di Ottobre. Florida, Pennsylvania, Ohio, North Carolina e Virginia le tappe dei raduni, che potrebbero in realtà sollevare qualche dubbio sul nome di Romney dopo il rifiuto della prima ora di supportare il candidato scelto a Tampa.

 

ASIA

CINA  – Non è sicuramente il clima desiderato dale autorità di Pechino quello con cui il paese si sta avvicinando all’attesissimo congresso del PCC che deciderà le nuove gerarchie politiche. Dopo aver fomentato l’ira popolare nei confronti del Giappone reo di aver nazionalizzato le isole Diaoyu il governo cinese si trova ora ad arginare un focolaio di proteste senza precedenti soprattutto nel Sud-Est del paese (Guangzhou e Shenzhen). Intanto calano le voci di complotto alzatesi attorno alla figura di Xi Jinping dopo le sue continue assenze nel corso di meeting diplomatici di alto livello nelle scores settimane. Dapprima l’agenzia Xinhua ha citato il suo cordoglio per la scomparsa di un gerarca dell’esercito, poi Xi è ricomparso in un evento pubblico presso l’Università dell’Agricoltura di Pechino, in cui il futuro leader ha celebrato il Festival della Scienza.

 

GIAPPONE – L’arcipelago del Sol Levante si è trovato più volte a stazionare in acque burrascose, ma questa volta la disputa con il vicino cinese per le Diaoyu/Senkaku ha raggiunto livelli che ricordano l’ostilità seguita all’occupazione nipponica durante il secondo conflitto mondiale. Come se non bastasse, è di ieri la notizia che il neo-nominato ambasciatore giapponese a Pechino è deceduto in seguito a complicazioni cardio-respiratorie, proprio nel periodo in cui il filo diretto con il governo cinese diventa fondamentale. La vita quotidiana dei giapponesi in Cina inizia a diventare insopportabile, visto che proteste e atti vandalici colpiscono ogni realtà assimilabile con l’identità giapponese. Chiusi i punti vendita della catena per la grande distribuzione Jusco, attaccati ristoranti, negozi e uffici di rappresentanza nipponici. Il coprifuoco diventa una necessità più che una precauzione, in attesa degli sviluppi della vicenda che si fa di giorno in giorno più complessa. Attenzione a Martedì 18 Settembre, anniversario dell’invasione giapponese, proteste e manifestazioni nelle maggiori città sono già in circolo su weibo e qq (social media cinesi, ndr).

 

Sabato 21 – Sarà la città di Nanning, nella Cina meridionale ad ospitare il 9th China-Asean expo, meeting tra le dieci nazioni del blocco regionale asiatico cui parteciperà anche il Presidente di Myanmar, Thein Sein. Da mesi la situazione diplomatica nell’Asia Pacific risente dei marosi delle varie dispute maritime in corso. L’evento dovrebbe anche segnare un passo in Avanti nella distensione economica di rapporti diplomatici tra I vari membri dell’Asean. L’evento potrebbe inoltre dissipare definitivamente tutta la nebbia che ancora circonda Xi Jinping dopo I 12 giorni di silenzio pubblico, visto che l’agenzia Xinhua ha confermato la sua presenza all’incontro.

 

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MEDIO ORIENTE

Lunedì 17 – I ministri degli esteri di Iran, Arabia Saudita, Egitto e Turchia si sono riuniti per la prima volta al Cairo sotto la formazione del neonato “gruppo di contatto sulla situazione in Siria”. Il Ministro iraniano Ali Akbar Salehi ha inoltre incontrato il premier egiziano Muhammed Morsi, per stabilire le line guida della nuova alleanza tra i due paesi. Secondo Salehi, la nuova formazione sarebbe in via di espansione, andando ad includere anche il Venezuela e l’Iraq, paesi sempre coinvolti nel futuro della Siria.

 

IRAN – Per non cadere nell’errore di chi guarda al ditto che in realtà indica la luna, occorre pesare in maniera cauta e ragionata la conferenza stampa con cui Mohammad Ali Jafari, il Capo di Stato maggiore delle Guardie Rivoluzionarie, ha ammesso la presenza delle forze speciali QUDS in Siria e in Libano. Le forze QUDS, da sempre punta di diamante e cuore dell’apparato internazionale di commando e contro-spionaggio dell’esercito irregolare di Teheran sono infatti presenti da sempre nel territorio degli alleati strategici con funzione di supporto logistico. Lo erano negli anni ’80 in Libano e in Siria nella valle della Beqaa, come testimoniato dall’ex agente CIA Robert Baer, lo sono ancora oggi per monitorare le sorti della Guerra civile siriana e per tastare il polso del nemico giurato israeliano. Nessuna notizia da prima pagina dunque, cosi’ come nessuna nuova minaccia, se non quelle incluse nel manuale della lirica anti-sionista: Our answer to Israel is clear. In the face of such actions by the Zionist regime, nothing of Israel would remain,”

 

LIBANO – “Dal ramoscello d’ulivo al Kalashnikov” così avevamo chiamato un nostro articolo qualche mese fa, ora la stessa situazione si ripresenta nel Libano del post-Benedetto XVI. Dopo aver accolto con un’incredibile manifestazione d’affetto e d’attesa l’arrivo del Pontefice, Beirut si prepara ad ospitare manifestazioni di protesta per tutta la settimana contro le sedi ufficiali del governo Americano in seguito alla diffusione del film L’innocenza dei musulmani”. Hassan Nasrallah ha aizzato il popolo fedele ad Hezbollah nel weekend chiedendo pubblicamente una reazione di massa alla “più grande offesa nei confronti del Profeta Maometto”. Dopo una tre giorni di pace e felicità che da tempo mancava in un Libano in cerca di stabilità, sembra che l’irrequieta “normalità” sia già dietro l’angolo.

 

Il futuro di Kabul (II)

Seconda parte della nostra analisi sulle prospettive afghane. Tra i progetti per cercare di ottenere la stabilizzazione vi è anche quello di una frammentazione del Paese in “macro-regioni” che tengano conto delle diversità etniche e culturali. Intanto, dietro l’angolo incombono le elezioni del 2014, in occasione delle quali Hamid Karzai dovrà cedere il passo. A chi? I Talebani sono sempre dietro l’angolo

 

LOCALIZZARE IL POTERE – Washington e Londra, principali “esportatori” di democrazia, stanno vagliando l’ipotesi di un Afghanistan suddiviso in regioni, ciascuna di esse amministrata da un consiglio, espressione della frammentazione etnica e culturale del paese, e “supervisionata” dal grande occhio occidentale. Pensato con il preciso intento di frustrare l’intrinseca debolezza del governo afghano e porre rimedio alle annose dispute tribali che potrebbero riportare il paese nel caos quando i contingenti internazionali deporranno le armi, il piano C, questo il nome in codice scelto, prevede otto macroregioni, ruotanti attorno ai più importanti centri di snodo, economici e strategici, del paese: Kabul, Kandahar, Herat, Mazar- i- Sharif, Kunduz, Jalalabad, Khost e Bamyan. Secondo Tobias Ellwood, assistente parlamentare del Foreign Office minister David Lidington e ideatore di “Plan C”, un Afghanistan regionalizzato riuscirebbe a fronteggiare le sfide poste da un futuro altrimenti incerto. Un riassestamento politico, quello previsto dal parlamentare inglese conservatore, che prende in considerazione la possibilità di un aperto dialogo con i talebani, disposti, sempre a detta di Ellwood, a collaborare solo se considerati “attori partecipi”, addirittura governatori potenziali dei “Kingdoms” afghani. In grado di meglio rispecchiare la moltitudine etnica e culturale afghana, una struttura di potere ramificata con chiari e riconosciuti centri di potere potrebbe rimodellare, moderandoli, gli interessi degli stessi taliban. La suggestione di Ellwood sembra riscuotere successo anche in ambito accademico. L’Afghanistan, a detta di Seth Jones (esperto di counter- insurgency presso la Rand Corporation)  “land of tribes” per eccellenza, guadagnerebbe in stabilità qualora la strategia occidentale mirasse a cercare soluzioni locali per problemi locali. Gli Stati Uniti, secondo la logica di regionalizzazione, hanno commesso l’errore di misinterpretare le mille sfaccettature regionali della politica afghana. Qualora la “regionalizzazione” fosse la soluzione, ne uscirebbe fortemente ridimensionato l’assunto sul quale poggiano i programmi di state- building di matrice statunitense, ovvero quello di stabilizzare il paese attraverso un governo centralizzato dal quale irradiare ordine sino alle regioni più periferiche.

 

LEAVE AFGHANISTAN TO THE AFGHANS! – Non è comunque esente da critiche la proposta di Mr Ellwood. Frammentare il paese in regioni, a detta di Thomas Ruttig, co- direttore dell’Afghanistan Analysts Network, concentrerebbe il potere nelle mani di quelli che oggi vengono chiamati local power brokers, altrimenti noti come warlords, il cui ruolo a cavallo tra il 1992 e il 1996 ha spalancato le porte alla presa di potere da parte dei talebani. Al coro dei critici si unisce Wazhma Frogh, direttore esecutivo dell’Afghanistan’s Research Institute for Women, Peace and Security. Rifacendosi al diritto di non ingerenza, tuona contro le intenzioni anglo- statunitensi propinate da Ellwood: spetta all’Afghanistan stabilire il proprio futuro istituzionale. Le colpe dell’instabilità, secondo Stephen Hadley e John Podesta, sono da ricondurre in maggior parte agli stessi Stati Uniti, tacciati dai due professori di non essere stati in grado di condurre l’Afghanistan sul sentiero della democratizzazione. Frustrata qualsivoglia spinta di legittimazione democratica del paese non resta che sperare.

 

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NON RESTA CHE SPERARE – La Carta Costituzionale costringerà il governo Karzai a fare un passo indietro nel 2014. Il processo elettorale potrebbe idealmente facilitare la creazione di un sistema politico maggiormente inclusivo e legittimo, ma la mancanza di adeguati registri di voto e l’incapacità organizzativa dei partiti locali, deboli e marginalizzati, rendono nebuloso il futuro afghano. La transizione politica sarà traumatica, specialmente se gli Stati Uniti e i loro alleati non convoglieranno su questa fase la stessa intensità di sforzo profuso per garantire sicurezza. La stipula, in maggio, di un Strategic Partnership Agreement sembra rispondere a tale esigenza. L’accordo prevede un impegno di lungo termine che vedrà protagonista l’apparato militare statunitense in qualità di garante per la sicurezza con il preciso intento di consolidare i progetti di institutional building, a dimostrazione di quanto l’Afghanistan possa significare per gli interessi americani, anche in vista delle imminenti elezioni. Il 2014 si avvicina. Il contingente occidentale lascerà il paese, consegnando la cosiddetta “guerra globale al terrore” ai libri di storia. Prima che ciò avvenga, dovrà essere deposto il “governo ombra talebano”, capillarmente organizzato attraverso un sistema di autorità in tutte le aeree cardine dell’Afghanistan pashtun. Il movimento agisce con più disciplina e, nonostante la corruzione e i legami con il narcotraffico, i taliban pretendono meno tangenti dei funzionari governativi o della  forza di polizia. È questo il pericolo: che l’Afghanistan scelga il regime talebano come il minore dei mali. Intanto continua la guerriglia. “Non ho idea del perché lo stiano facendo”, commentò un ambasciatore britannico in seguito all’ondata terroristica della scorsa primavera, “tra due anni ce ne andremo. Non devono fare altro che aspettare”.

 

AFPAK – Dal futuro dell’Afghanistan dipendono le sorti della stabilità della regione. Il Pakistan, potenza regionale e “santuario” per alcuni membri della resistenza afghana, agogna di poter rafforzare il suo ruolo nella regione. Obama, che ha fatto della regione Afghanistan – Pakistan uno dei pilastri attorno al quale ruota la strategia di sicurezza nazionale (la cosiddetta Af-Pak strategy), è ben conscio del fatto che dal futuro delle relazioni con il Pakistan, dipenda la stabilità generale di un’area vitale per gli interessi degli Stati Uniti. L’establishment statunitense sembra condividere i timori dell’ élite politica afghana riguardo al ruolo del Pakistan, al quale si riconduce l’intento di voler installare a Kabul un governo fedele ad Islamabad. I partiti islamici pakistani, è noto, mantengono stretti legami con i talebani afghani, avvalorando la tesi che vede il Pakistan come primo fattore causante instabilità. La presenza statunitense in Afghanistan andrà ben oltre il 2014. Che dietro ai progetti di state building  e di supporto logistico- militare alle forze di sicurezze afghane si nasconda, non troppo velatamente, l’intenzione di stabilizzare i confini tra Afghanistan e Pakistan? Che la “prospettiva regionale” sia da inquadrare in tal senso? Non sarebbe la prima volta. Già nel XIX secolo l’impero britannico rispose all’instabilità caratterizzante il confine Afghanistan-India restituendo autonomia alle tribù di frontiera. Che una strategia simile possa essere funzionale anche ai tempi della contro insorgenza?

 

Correva l’anno 2009. Il Senatore David Obey ammonì il Presidente. “Sarà la nuova strategia Afghanistan-Pakistan a divorare la sua presidenza”. Profezia o insensato allarmismo? Il primo martedì di novembre è vicino. È tempo di risposte, e l’establishment militare a stelle e strisce sa che il segreto delle guerre di contro insorgenza è esserci.

 

Simone Grassi

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Il futuro di Kabul (I)

Il primo martedì di novembre si avvicina, la superpotenza americana è pronta a scegliere il proprio timoniere. Obama contro Romney: il mondo sta a guardare, e Afghanistan e Pakistan drizzano le orecchie. La campagna elettorale guarda in buona parte alle tematiche interne, e per quanto riguarda gli esteri ora l’attenzione sembre rivolta maggiormente al Medio Oriente. Lo scenario afghano, però, non si può proprio dimenticare, e in due puntate cerchiamo di fare luce su alcune tematiche che meritano estrema attenzione

 

(Prima parte)

 

ANTEFATTO – Il Cairo, 4 giugno 2009. Così Obama: “Siatene pur certi, non abbiamo intenzione di tenere le truppe in Afghanistan. È costoso e politicamente complesso portare avanti questo conflitto.” Le “condizioni sul campo di battaglia” erano allora diverse, sicuramente mutate rispetto al 2002. Otto anni erano trascorsi dal trauma dell’11 settembre 2001 e dall’inizio della cosiddetta “guerra globale contro il terrorismo”. L’amministrazione repubblicana guidata all’epoca da George W.Bush fu costretta a misurarsi con un nuovo tipo di minaccia, sorto dal vuoto di sovranità dell’Afghanistan talebano e dalla proliferazione di organizzazioni terroristiche transnazionali, non assoggettabili al controllo degli stati. Il gigante si scoprì vulnerabile, forse per la prima volta. Messi in discussione i principi sui quali l’eccezionalismo americano fu costruito: il mantenimento della guerra a distanza, la “santuarizzazione” del proprio territorio.

 

LE QUESTIONI IRRISOLTE – Ad undici anni da quel tragico giorno, a 3 anni dalla dichiarazione del Cairo, i soliti enigmi tormentano la politica estera statunitense: l’Afghanistan si è trasformato in un pantano? È una guerra che può essere ancora vinta? La cosiddetta rivoluzione degli affari militari agognata da Donald Rumsfeld nel 2001 e perpetrata con insistenza dall’intero apparato militare ha portato i suoi frutti? Ma soprattutto, l’Afghanistan ha ancora la possibilità di consolidarsi in quanto entità statale autonoma moderna e sedersi al tavolo negoziale con la più importante controparte regionale, il Pakistan? Stando a quanto dichiarato ultimamente da Anders Fogh Rasmussen, Segretario Generale Nato, in un’intervista per la rivista Monocle, la comunità internazionale ha più volte commesso l’errore di sottostimare l’importanza delle sfide poste dall’Afghanistan, paese abbandonato a se stesso in seguito all’ormai lontana invasione sovietica del 1979 e a 30 anni di guerra civile. Incalzato sulla “qualità” dell’intervento nel paese, Rasmussen non esita a definire l’Afghanistan un “successo”. Questione di percezioni secondo il tecnocrate danese. “Dall’inizio della campagna militare, nessuno considera il paese un paradiso per il terrorismo. È un grande successo, ma c’è ancora molto da fare.”

 

C’È ANCORA MOLTO DA FARE – Fanno eco a quanto sostenuto dal Segretario Generale dell’alleanza atlantica le parole del Generale John Allen, comandante dell’ International Security Assistance Force (ISAF), convinto che quello attuale sia un momento di capitale importanza per la campagna intrapresa nel lontano 2001. Non esita a mostrare il suo orgoglio il Generale Nato riguardo all’efficacia dell’Afghan National Security Forces, chiamata, secondo gli ottimisti, a gestire autonomamente la fase di abbandono del paese da parte delle truppe occidentali, prevista per il dicembre 2014. L’ottimismo del Generale sembra però essere messo in discussione dalla realtà dei fatti. Allo stato attuale delle cose, è mera utopia pensare che la polizia e l’esercito afghani  riescano ad essere efficaci ed operativi a partire dal 2013. Assumendo il controllo delle zone sorvegliate dagli occidentali, riceveranno assistenza tecnico-militare dall’apparato militare statunitense, il cui compito verrà ripensato: “from combat to a training role”, per dirla con John Allen. Tutto ciò sembra non bastare. Isaf può essere fiduciosa riguardo all’esito della sua revisione strategica, ma le sfide poste dalla minaccia “insorgenza” non saranno rimosse con il mero impiego della forza.

 

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AL QAEDA NON PERDE SLANCIO – Lungi dall’essere costretta allo status di ideologia e dunque priva di una struttura gerarchico- decisionale, come da più parti sostenuto, l’organizzazione terroristica sembra si indebolita, ma non sconfitta, come dimostra la reviviscenza operativa che ha contrassegnato la primavera trascorsa. Gli attacchi di aprile a 7 edifici nel centro di Kabul, tra cui la sede del parlamento, quella della Nato e di alcune ambasciate dimostrano l’attualità della sfida. La  rivendicazione che seguì parlava chiaro: “Questo messaggio è per chi sosteneva che avessimo perso slancio”. Washington ha sicuramente recepito. L’Afghanistan non è pronto a marciare da solo. Lo si evince dalla realtà dei fatti, dalle percezioni politiche, dagli stessi rapporti Nato: le forze di sicurezza afghane non saranno in grado di affrontare i combattimenti senza aiuti esterni. È impossibile in uno Stato che “Stato non è, non è stato e, forse, non sarà”. L’Afghanistan come entità statale funzionante, con una politica economica unificata esiste sulla carta, non nella realtà. Le economie locali funzionano oggi come hanno fatto per secoli e le strutture statali (esercito, polizia) dipendono indissolubilmente dalla compartecipazione e dalle competenze di matrice occidentale. Quanto al governo Karzai, finora non è stato all’altezza delle aspettative e se continua sul percorso attuale è piuttosto improbabile che riesca a costituire uno Stato afghano funzionante.

 

(I. continua)

 

Simone Grassi

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Sangue e speranze

L’assassinio dell’ambasciatore USA in Libia Christopher Stevens ha riportato alla luce l’evoluzione della situazione in Libia dopo la caduta di Gheddafi. Sembra facile farsi trasportare dallo sconforto e dalle opinioni sfavorevoli di fronte agli ultimi eventi, tuttavia la situazione locale ha più di una sfaccettatura, e non tutte sono negative. Andiamo ad analizzare la situazione con cinque domande dirette, e cinque risposte

 

Chi guida oggi la Libia? Le elezioni si sono svolte da poco e tutti temevano l’emergere dei partiti islamici più intransigenti. E’ così?

 

La Libia si è proposta come un’eccezione nel panorama dei paesi usciti dalle rivolte della “Primavera Araba”. Le prime elezioni libere dalla caduta di Gheddafi hanno infatti visto la vittoria di una coalizione di liberali, laici e islamici moderati che ha ottenuto 39 seggi su 80 disponibili nel nuovo parlamento, mentre i rivali più accreditati, combinazione della Fratellanza Mussulmana locale e del partito islamico “Giustizia e ricostruzione”, ne hanno conquistati solo 17. Bisogna stare attenti però a questi dati. Solo ottanta seggi erano a disposizione tramite elezione a meccanismo proporzionale, mentre altri 120 sono stati eletti direttamente e sono indipendenti, ovvero non hanno indicato alcuna affiliazione. Non è chiaro a chi possano dare il proprio supporto. Sicuramente l’elezione di Mustafa Abushagur, un moderato educato negli USA, a Presidente il 12 settembre scorso sembra aver consolidato il nuovo corso, per quanto il candidato finora preferito dall’Occidente, Mahmoud Jibril, sia risultato sconfitto (di soli due voti).

 

Ma allora perché questa violenza di matrice islamica estremista? Il paese non è pacificato?

 

La guerra civile è finita e le elezioni si sono svolte generalmente pacificamente, ma il numero di milizie ancora attive sul territorio è molto alto. Dopo la morte di Gheddafi molti gruppi si sono rifiutati di consegnare le armi, costituendo veri e propri mini-eserciti indipendenti, spesso proteggendo singole città e procedendo a vendette incrociate. Il governo si è finora dimostrato incapace di controllare queste milizie che occasionalmente hanno aperto il fuoco per mantenere il controllo su alcune zone chiave che il governo voleva riportare sotto il proprio controllo. L’autorità sui gruppi più estremisti rimane molto dubbia – se non nulla – cosa che rende la Libia un paese tutt’altro che pacificato, nonostante i progressi. Alcuni gruppi legati ad Al Qaeda in particolare possono trovare In questa ottica un rifugio e una “mimetizzazione” che permette loro di organizzarsi e operare con poco disturbo; finora infatti il governo centrale non ha potuto – o voluto – iniziare una seria campagna per riprendere il controllo del territorio

 

Questo cosa centra con il film che tratta in maniera dissacrante l’Islam e Maometto? Questa viene definita dai media come la causa scatenante dell’attacco alle ambasciate USA, in Libia e altrove.

 

Per quanto riguarda gli attacchi contro l’ambasciata USA, la causa scatenante è stata in effetti assegnata alla messa in visione di un film che tratta in maniera dissacrante l’Islam e Maometto, tuttavia essa appare insufficiente e, molto probabilmente, solo un pretesto. L’attacco all’ambasciata è stato eseguito in maniera organizzata (apparentemente non spontanea) da un centinaio (o più) di miliziani armati con mitra e lanciarazzi e avviene dopo che altri bersagli simili erano stati colpiti nelle settimane precedenti (due moschee sciite, gli uffici della Mezzaluna Rossa e dell’ONU, il convoglio dell’ambasciatore britannico) senza il pretesto del film. L’indubbio carattere offensivo di quest’ultimo ha sicuramente contribuito a inasprire gli animi e a nascondere l’atto dietro la pretesa di semplice vendetta. L’attacco appare invece come la continuazione della strategia di tensione di alcuni gruppi estremisti ben organizzati.

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La colpa è dunque di Al Qaeda?

 

Esistono alcuni elementi che portano a pensare che i colpevoli appartengano a un gruppo affiliato ad Al Qaeda; infiltrazioni salafite sono riportate da tutte le agenzie di intelligence fin dai giorni della guerra civile e lo stesso Ambasciatore Stevens aveva richiamato l’attenzione contro tale problema. Inoltre l’attacco è stato eseguito l’11 settembre e Al Qaeda cerca da anni di ripetere un attacco ad alta visibilità in occasione dell’anniversario dell’attacco al World Trade Center: quest’anno potrebbe avercela fatta, eliminando uno dei maggiori fautori dell’amicizia tra gli USA e il nuovo governo libico, un risultato dunque non solo simbolico. Allo stesso tempo però non bisogna ignorare la possibilità che altri gruppi estremisti, frustrati dalla sconfitta politica alle elezioni, abbiano deciso di “rubare la scena” alla nomina del nuovo presidente e siano intenzionati a mantenere visibilità proseguendo la lotta violenta ora che la via istituzionale appare compromessa – almeno per il breve periodo.

 

Dunque il paese scenderà nuovamente nel caos? Magari a causa anche della risposta USA, che hanno inviato navi e marines in risposta all’attacco?

 

Il Presidente USA Barack Obama è in periodo elettorale e non può permettersi di apparire debole – tasto sul quale il suo sfidante Mitt Romney sta già premendo – pertanto l’invio di navi e marines risponde sia alla necessità di maggiore sicurezza del personale diplomatico sia alla necessità di “fare qualcosa” in ottica di voto USA. Difficile che gli USA inizino a bombardare le basi salafite o sbarchino in forze, a meno di accordi preventivi col nuovo governo libico. Non bisogna però vedere la situazione globale del paese come compromessa, perché molti indicatori sono in realtà positivi: come detto, le elezioni hanno per ora mostrato una maggioranza che rifiuta l’estremismo e che è aperta ai contatti con l’Occidente. I salafiti, per quanto presenti in molte aree, costituiscono ancora solo una piccola parte dei combattenti sul territorio e i loro modi brutali sono spesso fonte di attrito con altri gruppi locali, cosa che potrebbe far perdere loro popolarità. La produzione di petrolio sta progressivamente ritornando ai livelli pre-conflitto e questo fornirà i fondi sia per finanziare il nuovo esecutivo sia per acquietare quelle tribù che su tali ricavi basavano la propria esistenza. Infine, proprio gli attentati potrebbero finalmente dare l’impulso per un’opera di “pulizia”del paese dalle milizie ostili, finanziata e coordinata dall’Occidente e, magari, proprio dagli USA.

 

Lorenzo Nannetti [email protected]

Ancora Hugo?

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A dispetto di una condizione di salute dai contorni tuttora sfumati e poco chiari, Hugo Chávez si avvia verso le elezioni presidenziali previste per il 7 ottobre 2012 con buone possibilità di vittoria. Il suo avversario, Henrique Capriles Radonski, pur avendo raccolto notevoli consensi sembra ancora distante, anche se i margini di vittoria incolmabili delle prime elezioni sembrano un lontano ricordo per l’attuale presidente venezuelano

CHAVEZ 1998-2012 – Hugo Chávez governa il Venezuela ormai da 14 anni: si può ben dire che il presidente sia entrato nella storia del suo Paese, sia per la durata in carica sia per la profondità dei cambiamenti apportati. A dispetto di quanti sostengono il decadimento democratico del Paese, gli ultimi anni hanno visto una lunga serie di elezioni, consultazioni e referendum, quasi tutti vinti da Chávez con percentuali generalmente comprese tra il 55 ed il 60%. Già portare l’attuale inquilino di Miraflores vicino al 50% sarebbe un buon risultato per Capriles, visto che l’elettorato venezuelano si è dimostrato alquanto monolitico nel sostegno o nell’opposizione a Chávez: uno dei principali elementi di novità portati nell’ingessato mondo politico pre-chavista è stata proprio una polarizzazione estrema degli schieramenti in campo, con una distruzione pressoché totale del centro politico. Alla retorica anti o pro Chávez si è aggiunto un conflitto di classe come solo l’America Latina riesce ancora a proporre: le classi popolari sostengono l’attuale presidente, la borghesia pre-chavista e le classi alte in genere sperano in un suo defenestramento, possibilmente che passi per via elettorale. Proprio lo spauracchio di un golpe è da sempre presente nella vita politica venezuelana recente: l’opposizione tentò la via militare nel 2002, fallendo e consegnando il Paese nelle mani dell’attuale presidente; lo stesso Chávez, d’altra parte, fu protagonista di un fallito colpo di stato nel 1992, e gli analisti si interrogano sulle reazioni della parte chavista ad una eventuale sconfitta elettorale. L’OPPOSIZIONE –  Henrique Capriles Radonski è sicuramente un buon candidato per l’opposizione. Giovane, almeno apparentemente slegato dalle vecchie oligarchie, sempre vincente nelle elezioni cui ha preso parte, due volte governatore dello Stato di Miranda. Malgrado una coalizione che va dai liberali ai socialdemocratici, Capriles ha tentato di adottare un taglio “lulista”, di sostegno alla popolazione ma nel rispetto delle regole del mercato: consapevole che l’identificazione con la borghesia porterebbe ad una sicura sconfitta, ha cercato di combattere Chávez sul suo terreno, quello del populismo e dell’aiuto alle classi popolari. Pur criticando alcuni aspetti dei piani chavisti di sostegno alle classi disagiate, ne ha garantito il rafforzamento grazie all’uso delle risorse finanziarie provenienti da PDVSA, la compagnia petrolifera nazionale. In questo senso Capriles legittima di fatto l’uso che Chávez ha fatto di PDVSA in questi anni: quello di una fonte pressoché inesauribile di fondi da utilizzare a scopo politico. Ciononostante, Capriles ha fortemente criticato la politica estera di sostegno ad altri Paesi politicamente affini, che a suo dire costa al Venezuela 8 miliardi di dollari all’anno: i maggiori fondi da impiegare per programmi sociali verrebbero proprio da un taglio netto a questa politica, oltre che alla riduzione delle spese militari. Capriles propone un populismo decisamente più tradizionale rispetto a quello internazionalista di Chávez, ma che può portare i suoi frutti alla luce dei numerosi problemi concreti della popolazione: primo fra tutti l’insicurezza dilagante, vero leit-motiv delle campagne elettorali dell’opposizione. Preoccupazioni legittime in un paese con quasi 40 omicidi al giorno.  

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ANCORA CHAVEZ? – Di contro, Chávez ha incentrato la sua campagna sulla conferma dei buoni risultati ottenuti negli ultimi, primi fra tutti la diminuzione netta della disuguaglianza – l’indice di Gini è passato da 0,48 nel 1999 a 0,39 nel 2011 – e le migliori condizioni di vita della popolazione. Inoltre, Chávez ha ricordato in ogni occasione che dietro alla faccia giovane di Capriles ed alle sue promesse si celano le oligarchie pre-chaviste e borghesi, in un chiaro tentativo di rinverdire un conflitto di classe mai effettivamente sopito, anzi continuamente rinfocolato. A preoccupare sono inoltre le condizioni di salute del leader venezuelano, che nell’anno appena trascorso si è dovuto assentare frequentemente dal Paese per recarsi nell’amica Cuba: a dispetto delle esibizioni di buona salute, prima fra tutte la passeggiata verso la sede del registro elettorale, i rumors sul suo tumore si susseguono ed il dibattito sulla possibilità di un chavismo senza Chávez sembra solamente rimandato a dopo le elezioni. Per quel che contano i sondaggi, le rilevazioni governative danno Chávez in vantaggio di 10-15 punti, quelle dell’opposizione vedono i due principali antagonisti appaiati. La verità, probabilmente, sta nel mezzo. Francesco Gattiglio [email protected]

Se la scuola è un business

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Da Santiago del Cile – I giovani cileni chiedono una riforma profonda del sistema educativo che rafforzi l’istruzione pubblica. Il governo ha risposto assegnando maggiori risorse al settore attraverso borse di studio e crediti bancari per i più poveri, ma per per gli studenti questo non è ancora abbastanza

STUDIARE COSTA… – Il Cile è nuovamente scosso da manifestazioni studentesche da quando, nel 2009, la “rivoluzione dei pinguini” (soprannome derivato dalle uniformi degli studenti di secondaria) aveva messo sotto accusa il sistema educativo cileno che i giovani considerano iniquo e orientato al profitto. Il Cile infatti è un perfetto esempio di liberalizzazione nel campo educativo. L’importanza delle scuole private supera di gran lunga quella che si osserva in Italia o Francia ed altri paesi europei, o incluso latinoamericani. La preponderanza del settore privato si deve ad un marco normativo e finanziario che pone l’accento sul diritto delle famiglie di poter scegliere il tipo d’educazione per i loro figli. Di conseguenza le famiglie benestanti – la minoranza in Cile – optano per le scuole private che, per risultati, superano le scuole pubbliche (il terzo tipo è rappresentato da scuole pubbliche sovvenzionate, che a differenza delle pubbliche possono richiedere tasse d’iscrizione). Le scuole private godono di maggiori risorse, specie quelle che si localizzano nei quartieri alti e nella capitale. Ma la differenza fra pubbliche e private non sono solamente i soldi. Con l’obiettivo di posizionarsi sul mercato dell’educazione, certe scuole private rifiutano l’ingresso di alunni dallo scarso potenziale. In nome del diritto all’educazione, questi alunni vengono quindi accolti da strutture pubbliche.

MA LA QUALITA' E' BASSA – Il risultato è che le scuole pubbliche cilene occupano gli ultimi posti nelle valutazioni di standard di qualità. Di cento istituzioni che partecipano alla Prova di Selezione Universitaria (PSU, una sorta di esame di accesso all’università che si applica a tutte le facoltà), solamente due sono pubbliche. Secondo un secondo meccanismo, il Sistema Nazionale di Valutazione della Qualità, solamente una scuola è pubblica ed il restante novantanove sono private. Uno studio condotto dall’Università di Santiago, ha concluso che il beneficio per l’alunno è maggiore nelle scuole pubbliche che in quelle private in proporzione, ma che non è sufficiente per raggiungere il livello che si richiede per accedere all’università. Il Cile inoltre, presenta le tasse universitarie più care del mondo (circa 3,400 dollari americani) maggiore degli Stati Uniti, Inghilterra, Australia e Giappone, che inibisce l’accesso agli studi superiori per i ceti modesti o li obbliga alla sottoscrizione di crediti bancari. Come detto, le manifestazioni erano iniziate nel 2009, un anno che culminò con la revoca della Legge Organica d’Istruzione (LOGE nella sigla in spagnolo) e l’approvazione di una nuova Legge Generale d’Educazione (LGE) che introduceva però solo alcuni timidi cambiamenti. Le proteste hanno ripreso quindi nell’aprile del 2011 con lo slogan “senza proteste e mobilitazioni il governo non ascolta” inneggiato dai leader del movimento studentesco che ha come roccaforte la Federazione degli Studenti dell’Università del Cile (FECH), l’unica istituzione superiore pubblica rimasta, anche se nella pratica la sua gestione non differisce di molto da quella delle università private.

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LE “ASPIRINE” SOMMINISTRATE DAL GOVERNO – Di fronte a queste proteste, nel luglio del 2011, il Presidente della Repubblica, l’imprenditore e miliardario Sebastian Piñera, lanciava l’Accordo Nazionale per l’Educazione. L’iniziativa prevedeva 4mila milioni dollari e la creazione di un segretariato all’istruzione e di una super-intendenza all’educazione superiore, per mettere fine al lucro delle università. Inoltre venivano introdotte borse di studio per il 60% più povero e la possibilità d’accedere a credito per il 90% della popolazione. Per gli studenti però queste misure equivalgono ad una “aspirina” e non rispondono al problema della privatizzazione dell’educazione e meno alla richiesta per una educazione pubblica, gratuita e di qualità. La goccia che ha fatto traboccare il vaso (della pazienza degli studenti) è stata l’approvazione da parte del Parlamento, lo scorso 4 settembre, della riforma tributaria che aumenta dal 20 al 20,3% le imposte e pretende assegnare l’eccedente ricavato di circa 1000 milioni dollari annuali al sistema educativo. Sebbene la somma possa sembrare importante, il percentuale impositivo del Cile rimane inferiore ad altri paesi del continente (in Uruguay è del 23%). Ciononostante, l’indignazione degli studenti è rivolta soprattutto alla nuova misura che prevede la riduzione di imposte a titolo di spese per l’educazione, della quale beneficeranno 500,000 degli 8,2 milioni di contribuenti cileni. La misura che per il governo sarebbe rivolta  alla classe media, in realtà beneficia solo i ceti più benestanti. Il movimento studentesco critica inoltre che tali sovvenzioni vengano offerte alla domanda (le famiglie) piuttosto che all’offerta (le scuole, in particolare le pubbliche). In questo modo, le famiglie avranno un incentivo ulteriore per scegliere le istituzioni private piuttosto che quelle pubbliche. “Il governo ha aumentato la privatizzazione dell’educazione”, sosteneva Andrés Fielbaurn, segretario della FECH al commentare la legge. Il Cile è insieme con il Perù il paese con il maggior indice di Duncan. “In Cile ci sono scuole dove studiano i figli dei ricchi, quelle per i benestanti, quelle per la classe media-bassa, e quelle per i poveri”, afferma Mario Waissbluth, dell’iniziativa 2020 sul giornale  cileno La Tercera. La riforma, conclude, ha aumentato l’Apartheid educativo al quale già si assiste in Cile.

LE PROTESTE CONTINUERANNO – Per il governo di centro destra che affronterà il prossimo ottobre lo scoglio delle elezioni municipali con un tasso d’approvazione al minimo storico, la legge propone passi avanti sostanziali. Per l’opposizione, che ha votato a favore della riforma le risorse rimangono insufficienti, ma sarebbe stato irresponsabile non votarla, sostiene Ricardo Lagos junior, deputato della Concertaciòn. Intanto il movimento assicura di stare organizzandosi per portare avanti le proteste e limitare al contempo i fatti di violenza avvenuti durante le manifestazioni, e per i quali  governo e studenti si accusano mutuamente. Per il momento, l’opinione pubblica appoggia le rivendicazioni anche se però il movimento non è riuscito a fare aderire altri strati della società, ed in particolare i sindacati. Gilles Cavaletto (da Santiago del Cile) [email protected]

La crisi dell’Euro… in cinque sorsi

Da mesi, ormai, si continua a parlare del momento fortemente critico che sta attraversando la moneta unica europea. Non sempre è facile, per i non addetti ai lavori, capire davvero cosa sta avvenendo, e quali sono le ragioni e le dinamiche che stanno dietro questa situazione. Proviamo a fare un po' di luce, in una modalità il più possibile agile, immediata e comprensibile: cinque domande dirette, secche, e cinque rapide ma esaustive risposte

Che cosa ha dato origine alla crisi della moneta unica? La crisi che da mesi sta minando la tenuta dei conti pubblici di alcuni stati europei (Grecia e Spagna in primis, ma anche Italia e Portogallo) è la terza fase di un'ondata ciclica che dal 2007 sta colpendo l'economia globale. Cominciò tutto con lo scoppio della bolla immobiliare negli Stati Uniti, che portò al tracollo di alcuni colossi finanziari e al contagio mondiale attraverso la diffusione dei cosiddetti “derivati”. La crisi si spostò poi sul versante dell'economia reale, provocando nel 2009 una contrazione molto forte del PIL in molte regioni del mondo. Sembrava passata, e invece no, perchè dal 2010 ha iniziato a colpire gli Stati periferici dell'Area Euro (Portogallo, Grecia, Irlanda) che hanno dovuto riconoscere la situazione disastrosa dei conti pubblici. Gli squilibri determinati dagli alti deficit e debiti pubblici, accompagnati ad una crescita dell'economia nulla o negativa, hanno poi messo sotto la lente di ingrandimento anche Stati più grandi e importanti come Spagna e Italia.

Si parla tanto di “spread”. Ma questo differenziale di rendimenti tra obbligazioni italiane e tedesche incide davvero così tanto sulla vita quotidiana di tutti noi? Lo “spread”, ormai lo sanno anche i sassi, è il differenziali nei tassi di rendimento tra le obbligazioni a scadenza decennale tedesche e quelle degli altri Paesi europei. Si sceglie la Germania come benchmark perchè è l'economia più solida ed affidabile dell'UE: non è un caso se i bund tedeschi a dieci anni hanno un rendimento intorno all'1,3% (praticamente un rischio nullo in un orizzonte incerto come quello decennale). Quasi paradossale invece il fatto che le obbligazioni a scadenza più ravvicinata abbiano un rendimento nominale prossimo allo zero che, al netto dell'inflazione, diventa negativo. In pratica: il mercato dice che i titoli del debito pubblico tedesco sono talmente sicuri che è preferibile investire in bund e perdere soldi piuttosto che rischiare comprando obbligazioni greche (ormai ridotte al livello “spazzatura”), spagnole o italiane. È fondamentale che lo spread delle obbligazioni italiane con quelle tedesche si riduca, dunque, affinchè il costo che lo Stato italiano sostiene per indebitarsi diminuisca. Un divario dimezzato (la Banca d'Italia ha stimato un valore “plausibile” intorno ai 200 punti base, ovvero il 2%) darebbe una vera boccata d'ossigeno alle casse statali.

Alcuni sostengono che la Grecia dovrebbe abbandonare l’Euro per rivitalizzare la propria economia, mentre gli strenui difensori dell’Unione Monetaria affermano che va percorsa ogni strada possibile per scongiurare questa eventualità. Chi ha ragione? Facciamo finta che Atene dichiari di voler abbandonare l'Euro. Torna alla dracma e fissa un valore della nuova (o vecchia) moneta nazionale molto più basso dell'Euro. Sarebbe una svalutazione competitiva? Sì, se la Grecia avesse un grande potenziale esportatore, di cui in realtà non dispone. Dunque: non esporterebbe abbastanza e non sarebbe in grado di ridurre le importazioni, non essendo in grado di sviluppare un sistema produttivo autosufficiente. Morale: la situazione dell'economia peggiorerebbe ulteriormente, prestando ulteriormente il fianco alle spinte populiste, violente e xenofobe dei neonazisti di “Alba Dorata”, che oggi siedono in Parlamento. A livello continentale, invece, si creerebbe un precedente pericoloso di un Paese uscito dall'Euro e potenzialmente in grado di arrestare una reazione a catena di sfiducia da parte delle popolazioni degli Stati in difficoltà che, per esempio, potrebbero prelevare in massa dai propri conti correnti bancari nel timore di svalutazioni.

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Mario Draghi ha detto che la BCE è pronta a fare tutto quello che è in suo potere per scongiurare l’implosione dell’Euro. L’acquisto di titoli del debito pubblico è compatibile con il mandato della BCE relativo a mantenere la stabilità dei prezzi? In base al proprio Statuto, il compito primario della Banca Centrale Europea è quello di controllare l’inflazione e assicurare la stabilità dei prezzi. Come? Manipolando il tasso di interesse, ovvero il tasso che viene richiesto alle banche per comprare denaro. Oggi il tasso è già bassissimo (0,75%, ma altre riduzioni potrebbero essere imminenti). Se lo abbassa di nuovo, potrebbe circolare più denaro, ma questo può favorire l’inflazione. In periodi di ripresa economica un po’di inflazione può essere sopportata se tassi più bassi favoriscono la circolazione del denaro, e per esempio l’aumento del credito. Discorso diverso per l’acquisto di titoli del debito pubblico, operazione di cui si sta discutendo molto in questi giorni e che dovrebbe avere finalità di “calmierare” gli spread (vedi sopra). Se li acquista nel mercato bancario, e non direttamente dagli Stati, nessun problema, entrano a far parte degli assets della banca

Che fare dunque per scongiurare il pericolo? È molto difficile dare una risposta. Al di là delle manovre di breve periodo, che caratterizzano l’approccio adottato dall’UE negli ultimi anni, servirebbe una strategia di lungo periodo. Che si dovrebbe tradurre in una maggiore integrazione economica e finanziaria, basata su controlli maggiormente stringenti dell’indebitamento e della spesa pubblica. Tutto questo si dovrebbe poi reggere su un disegno politico chiaro, nel bene o nel male. Per esempio: l’UE vuole diventare una federazione di Stati o si accontenterebbe di essere un’Unione economica (il che sarebbe già molto di più rispetto alla semplice Unione monetaria)?. Rispondere a questo quesito è di vitale importanza per le sorti del nostro continente.

Davide Tentori [email protected]

L’autunno caldo di Zuma

Il 16 agosto, il Sudafrica è stato sconvolto dal massacro della miniera di Marikana, costato la vita a 34 minatori, dopo che, nei giorni precedenti, già dieci persone, tra le quali due poliziotti, erano morte negli scontri tra due sindacati. Gli eventi hanno riportato alla memoria i periodi più tetri del Paese, gli anni dell’apartheid e del dominio bianco sulla maggioranza nera. I lavoratori, infatti, protestavano (e tuttora protestano) contro il trattamento salariale riservato loro dalla società titolare della miniera di platino, la britannica Lonmin. A subirne le conseguenze, tuttavia, potrebbe essere anche la leadership del Presidente sudafricano, il cui destino politico potrebbe delinearsi tra settembre e dicembre

 

IL CONFLITTO TRA I SINDACATI – La tragedia di Marikana ha aperto un gravissimo vulnus nella sicurezza politica di Jacob Zuma, il contestato Presidente al centro di feroci critiche, ma ritenuto capace da gran parte dell’opinione pubblica sudafricana di condurre il Paese verso il pieno sviluppo. I minatori in sciopero, infatti, sono divisi tra due componenti, ossia la National Union of Mineworkers (d’ora in avanti NUM) e la Association of Mineworkers and Construction Union (AMCU). La NUM è collegata all’African National Congress (il partito di Zuma) e affiliata alla Congress of South African Trade Unions, una delle principali federazioni sindacali del Sudafrica. Dall’altro lato, la AMCU è una formazione derivata per scissione dalla precedente sigla. La questione è piuttosto complessa, poiché tra i due gruppi la tensione ha raggiunto livelli molto elevati, al punto che otto lavoratori e due poliziotti sono rimasti uccisi negli scontri tra i rispettivi aderenti. L’AMCU ha contestato alla NUM un’eccessiva sudditanza nei confronti della società Lonmin, condotta apparsa manifesta durante le negoziazioni per il rinnovo del contratto. Per risposta, i vertici della NUM hanno accusato la controparte di agire attivamente per l’esasperazione dei toni e per l’istigazione alla violenza. Un ruolo determinate, comunque, è rappresentato dalla demografia dei due sindacati, poiché gli aderenti all’AMCU, rispetto a quelli della NUM, sono generalmente lavoratori non specializzati, con salari più bassi e provenienti da zone più disagiate.

 

GLI EQUILIBRI NELL’AFRICAN NATIONAL CONGRESS – Da parte sua, il presidente Zuma sta scontando la propria vicinanza alla NUM per due motivi. Il primo di essi è che il segretario generale dell’AMCU, Zwelinzima Vavi, sta ottenendo sempre maggiori consensi, soprattutto in seguito alla strage di Marikana, in merito alla quale sono apparse evidenti le difficoltà del NUM a gestire la situazione. A settembre, il Congress of South African Trade Unions si riunirà in assemblea, e la pressione generata dall’AMCU potrebbe modificare sensibilmente gli equilibri nella federazione, anche perché gli altri esponenti sindacali sono pronti alla mediazione pur di evitare ulteriori scissioni. Zuma è fortemente legato alla NUM, cosicché in più occasioni il Presidente ha assunto posizioni decise contro Zwelinzima Vavi. Tuttavia, il Congress of South African Trade Unions ha in comune con l’African National Congress quasi 1,5 milioni di iscritti: qualora la linea più intransigente dovesse ottenere la maggioranza, Zuma potrebbe perdere il sostegno ufficiale del sindacato, che fu fondamentale per la conquista della leadership nel 2007. Tutto ciò, a pochi mesi dal rinnovo delle cariche dell’African National Congress, previsto per dicembre. In questo senso, un calo di favori del Presidente sudafricano nel partito condurrebbe a un simmetrico indebolimento a livello politico, poiché il rivale di Zuma alla leadership dell’ANC potrebbe essere il suo vice – nonché predecessore – Kgalema Motlanthe. La vittoria in dicembre è basilare, dato che in Sudafrica il Presidente è eletto dall’Assemblea Nazionale (la camera bassa del Parlamento) e per consuetudine è il capo della formazione di maggioranza.

 

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ZUMA: «BASTION OF WHITE MONOPOLY CAPITAL!» – Il secondo motivo è che fu Zuma a ordinare alle Forze dell’Ordine di tenere sotto controllo le manifestazioni alla miniera di Marikana, cosicché alcuni settori dell’opinione pubblica hanno accusato il Presidente di essere materialmente responsabile della strage. A ciò deve essere aggiunto che 270 minatori che avevano partecipato alle proteste del 16 agosto sono stati incriminati sulla base di una legge, più volte applicata in passato per contrastare i movimenti anti-apartheid, che prevede la correità dei manifestanti qualora l’intervento obbligato delle forze di polizia causi dei morti.

 

L’AUTUNNO CALDO DEL PRESIDENTEJacob Zuma, pertanto, appare sempre in più in difficoltà nella gestione di una situazione che vede i gruppi del partito e del governo uscire progressivamente dal suo controllo. Tra le molte voci contro il Presidente, una delle più forti è quella di Julius Malema, già al vertice dell’ANC Youth League e ora espulso, il quale riesce ad attirare i consensi degli elementi più statalisti e nazionalisti della politica e della società. Inoltre, sebbene il vicepresidente Motlanthe abbia cercato raramente lo scontro frontale con il Presidente in questa legislatura, la costituzione di un fronte compatto contro l’attuale dirigenza dell’ANC (soprattutto se cambierà la tendenza del sindacato) potrebbe convincerlo a entrare a pieno nell’agone: senza contromisure politiche efficaci, il rischio per Zuma è che il congresso di dicembre possa avviare il suo declino.

 

Beniamino Franceschini

Le isole del tesoro

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Da Guangzhou – Da disputa simbolica e dormiente per anni, la contesa sino-giapponese per il controllo delle Diaoyu/Senkaku si è riaccesa assumendo toni quantomai accesi dopo le vicissitudini legate allo sbarco nel piccolo arcipelago di flottiglie di attivisti di Tokyo e di Hong Kong poi. Non è però solo la simbologia a dominare lo scontro diplomatico, l’arcipelago della discordia sembra infatti nascondere un tesoro energetico preziosissimo costituito da ingenti riserve di gas naturale

 

IL PASSO FALSO – Ripercorrendo la cronaca recente di una disputa in realtà decennale, è il Sol Levante a nutrire i sentimenti più combattivi nei confronti di quella che considera come “un’estensione naturale della prefettura di Okinawa,” come si evince dalle parole di Shintaro Ishihara, governatore di quest’ultima. Già nell’aprile di quest’anno, al momento del suo insediamento Ishihara aveva gettato benzina sul fuoco latente affermando di essere pronto ad usare finanze pubbliche per acquistare i lotti di terreno delle isole appartenenti a privati cittadini giapponesi. La mossa sembrava in realtà parte di una campagna post-elettorale volta ad assicurarsi il più largo consenso possibile in vista dei primi scogli al governo della regione.

 

LA VERSIONE DI PECHINO – Da parte sua la Cina considera le Diaoyu come parte di quel territorio nazionale intoccabile da cui solo dopo il 1949 è stato possibile scacciare la tanto odiata presenza straniera. A differenza delle enclavi occidentali Hong Kong e Macau, ora regioni speciali sotto la RPC, le Diaoyu hanno assunto un carattere particolare legandosi alla sempre viva rivalità tra i due paesi simbolo dell’Asia orientale, Cina e Giappone. Non è un caso dunque che nonostante le differenze di vedute che permangono tra Hong Kong e Pechino, siano stati proprio degli attivisti dell’ex dominio britannico a tenere alta la bandiera rossa a 5 stelle nel corso delle recenti vicissitudini. Non c’è da stupirsi allora, se anche il neo-eletto premier di Taiwan, Ma Ying-jeou, si sia mosso tramite il suo portavoce per gli affari esteri per riconfermare l’appartenenza delle Diaoyu al territorio della repubblica cinese, comunque la si consideri.

 

IL NEMICO DEL TUO NEMICORicapitolando, la partita delle Diaoyu/Senkaku si gioca su tre scacchiere: lo scontro perenne tra Pechino e Tokyo, la tensione latente tra Pechino e Taipei e i rapporti ondivaghi tra i due alleati americani nell’Asia Pacific, Taiwan e ovviamente il Giappone. Ma le pedine rischiano di confondersi tra le “mille sfumature di grigio” che portano dal bianco al nero se si considera che il neo-eletto Ma Ying-jeou è stato definito dalla stampa internazionale come l’uomo di Pechino, non appena candidatosi alla guida del Kuomintang. Proprio l’erede di Chiang Khai Shek, di cui però non sembra condividere le posizioni irremovibili, sarebbe pronto a rimettere la questione dell’arcipelago nelle braccia della giustizia internazionale, sotto l’egida della CGI. Tuttavia, e qui gli amici del diritto internazionale possono fregarsi le mani, l’art. 34.1 dello statuto della CGI prevede che solo gli “stati” possono essere considerati parti del trattato.

 

GUERRA DI CORSA? – Negli ultimi tempi la marina cinese si è fatta sentire in maniera decisa nelle acque del Mar Cinese Meridionale e Orientale, giungendo fino allo scontro diretto con navi da combattimento delle Filippine nell’ormai tristemente famosa disputa della secca di Scarborough. E non sono solo le Filippine a pagare la preponderanza cinese tra i flutti del Pacifico, visto che anche il Vietnam ha dovuto desistere dal compiere atti spettacolari nel corso dell’annus horribilis per la disputa sulle isole Spratly e Paracel. Proprio la presenza dell’ombra del gigante cinese è il motivo principale per cui l’ultimo summit dell’ASEAN, l’organizzazione regionale che riunisce i paesi del Sud-Est Asiatico, si è chiuso per la prima volta senza un comunicato condiviso.

 

L’AMICIZIA PAGA – Apertosi con la grande ambizione di trasformare l’ASEAN in un organizzazione vicina simbolicamente all’Unione Europea, il meeting a cavallo tra giugno e luglio si è trasformaìto in una vera gara di ostruzionismo, con la Cambogia, presidente di turno, pronta a bloccare qualsiasi documento ufficiale che deprecasse la condotta della marina cinese nei confronti di Manila. Nemmeno i buoni auspici dell’Indonesia, assurta a mediatore del contrasto, hanno avuto la meglio contro il muro opposto da Phnom Penh alla bellezza di ben 18 bozze di dichiarazione. Sarà per il legame storico che lega i due stati, o per il fatto che Pechino vanti un credito informale di 10 miliardi di dollari nei confronti della culla di Pol Pot, ma sembra che Cambogia e Laos abbiano ormai iniziato a costituire un blocco compatto a difesa delle tematiche d’interesse cinese.

 

BEWARE OF MYANMAR – Una volta entrati in contatto con il clima particolare delle frizioni del Sud Est Asiatico, risulta facile leggere tutte le questioni aperte nello scacchiere della regione. Cambogia e Laos dirottano vertiginosamente verso la Cina? Toccherà allora agli Stati Uniti e ai loro proxies nella regione aprire le porte alla primavera birmana, se così si possono chiamare le lievi riforme introdotte dal regime di Thein Sein. In realtà il tutto può sembrare una semplificazione quasi infantile, ma è proprio quello che sta accadendo, la Birmania, sbocco naturale verso l’Oceano per le merci cinesi a basso costo prodotte nello Yunnan e nel Sichuan orientale, sta giocando la partita dell’apertura sul tavolo dell’occidente, che muore dalla voglia di ottenere un altro avamposto lungo le frontiere interne cinesi.

 

BASTA METTERE A FUOCO – Nonostante agli spettatori del Grande Gioco orientale la disputa intorno alle Diaoyu/Senkaku possa sembrare complicata se non difficile da decifrare, basta semplicemente ridurre l’ingrandimento sul piccolo arcipelago, inserendo l’intera regione nell’orizzonte, per ottenere il giusto grado di comprensione della vicenda. Resta naturalmente impossibile ignorare il linguaggio simbolico-nazionalista che si rifà ad anni e anni d’insofferenza e ai trascorsi storici dell’area. Se è vero che in questo spicchio di pianeta “sovranità e nazionalismo” sono ancora parole di senso compiuto, bisogna anche sottolineare che i due concetti non vengono mai spesi pubblicamente per mere ragioni legate al soft-power, ma solo per giustificare agli occhi delle “masse” giochi di potere altrimenti incomprensibili.

 

Fabio Stella