mercoledì, 17 Dicembre 2025

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mercoledì, 17 Dicembre 2025

"L'imparzialità è un sogno, la probità è un dovere"

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Diversi da chi?

Un’analisi tecnica, che cerca di far luce su una annosa questione, che da decenni caratterizza anche le relazioni tra Stati: bisogna “trattare” tutti quanti allo stesso modo, o ognuno nella sua specificità? Da quasi 40 anni, la Carta dei diritti e dei doveri economici degli Stati ha introdotto il trattamento differenziale, in particolare per i Paesi in via di sviluppo. Nasce così un doppio standard normativo, una discriminazione positiva nelle relazioni fra Stati che presenta però alcune contro-indicazioni: è il caso di quei Paesi in fondo alla classifica che proprio per gli aiuti ricevuti in virtù della loro condizione difficile, non sembrano avere alcun interesse a “scalare il ranking”… un circolo vizioso non facile da spezzare

I PVS SI FANNO SENTIRE: CARTA CANTA – Per comprendere le dinamiche della differenziazione è necessario risalire agli anni ’70, quando gli Stati in via di sviluppo (PVS) di recente formazione, acquisita l’indipendenza ed entrati a far parte delle Nazioni Unite, arrivarono a detenere una superiorità numerica rispetto ai Paesi industrializzati (totalizzando quasi 2/3 dei seggi dell'Assemblea Generale delle Nazioni Unite, UNGA). Fu allora che i PVS iniziarono a contestare la validità delle norme internazionali formatesi in epoca coloniale in quanto poco rappresentatrici dei loro interessi. La contestazione, che investì interi settori del diritto internazionale generale, fra cui quello economico, condusse all’elaborazione della Carta dei diritti e dei doveri economici degli Stati. La Carta, adottata dall’UNGA nel 1974 con 120 voti favorevoli (6 contrari e 10 astensioni, tutti provenienti dalle potenze occidentali) e concepita per realizzare un ordine economico equo, si poneva l’obiettivo di correggere il gap esistente fra PVS e Paesi industrializzati.

INEGUAGLIANZA COMPENSATRICE – La Carta pur presentando un modello di sviluppo stato-centrico ormai desueto e pur non avendo carattere giuridicamente vincolante, contiene un importante elemento di novità che si inserisce nel panorama internazionale: il principio dell’ineguaglianza compensatrice. Riconoscendo per alcuni Stati ineguali condizioni di partenza, il principio promuove un trattamento differenziato da realizzarsi attraverso un sistema normativo diseguale proprio perché diretto a compensare,  mediante opportune misure, la situazione dei Paesi meno progrediti. All’eguaglianza formale si affianca per la prima volta l’eguaglianza sostanziale che comporta che situazioni uguali vengano trattate nel medesimo modo, ma anche che situazioni diverse vengano trattate in modo differente, rimuovendo i fattori di disparità sociale, culturale ed economica, esistenti tra gli appartenenti alla collettività.

I BENEFICIARI – Comunemente, sono gli Stati in via di sviluppo, anche se, ad un’osservazione più attenta, la categoria si presenta molto eterogenea. La definizione di PVS si riferisce ad uno Stato con una ristretta base industriale, un livello di reddito basso, una povertà diffusa, poca accumulazione di capitale ed un basso indice sviluppo umano. All’interno del gruppo dei PVS, figura un’altra sotto-categoria, quella di “Paesi meno sviluppati” (Least Developed Countries, LDC) che indica una condizione di estrema vulnerabilità. Ad essi l’UNGA dedicò una risoluzione (1971) volta a formalizzare, per la prima volta nella storia, un elenco di 25 Paesi particolarmente e strutturalmente vulnerabili. I criteri per la classificazione considerano gli “impedimenti strutturali” alla crescita determinati dal verificarsi di tre condizioni simultanee: basso reddito nazionale lordo pro capite, basso indice di sviluppo umano ed elevato indice di vulnerabilità economica. Dopo una immediata revisione dei criteri (1975) e conseguenti successive modifiche (1991, 1999, 2005, 2011), si è arrivati a distinguere due processi consecutivi: la fase preliminare di inclusione e quella, successiva, di classificazione dei Paesi. L’arco temporale che si frappone fra le due soglie consente ad un LDC di elaborare una strategia di transizione o di allontanamento dai valori dell’inclusione verso uno sviluppo autonomo. Una volta classificato, un LDC beneficia di agevolate condizioni commerciali, finanziarie, di supporto tecnico, nonché dell’Assistenza allo Sviluppo Ufficiale (ODA), un sussidio dato dai governi a determinate condizioni concessionarie anche sotto forma di semplici donazioni.

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DOPPIO STANDARD NORMATIVO: LE CRITICITA’ – Convenzioni e trattati da tempo istituzionalizzano un “doppio standard normativo” giustificato da specifiche circostanze di gruppo che si traducono in distinte responsabilità pattizie. Se certamente è indubbia la validità della discriminazione positiva, non si può far a meno di rilevare alcune “esternalità” negative collegate al fenomeno della differenziazione. La prima criticità si riferisce al fattore necessariamente transitorio che dovrebbe avere l'appartenenza ad una certa categoria, mentre la seconda denota un mutamento nel processo di formazione delle norme internazionali.

La temporaneità è un elemento imprescindibile in quanto suggerisce la possibilità (e la necessaria aspettativa) che un Paese transiti da più bassi a maggiori livelli di sviluppo. In particolare, per gli LDC la strategia di transizione dovrebbe permettere loro di abbandonare l’iniziale condizione di vulnerabilità per intraprendere un percorso di crescita programmato nel lungo periodo. La non permanenza dello status di LDC è stato rilevato anche dalla risoluzione 59/209 (2004) dell’UNGA che ha incoraggiato i Paesi donatori a perseguire una graduale riduzione degli aiuti forniti così da incentivare la transizione dei Paesi verso un percorso di sviluppo continuato ed indipendente. I dati forniti dalle NU, purtroppo, muovono in direzione opposta: in 35 anni dall’istituzione della categoria, il numero dei LDC è raddoppiato passando da 25 nel 1971 a 49 nel 2009. Emerge dunque il rischio che, qualora la categorizzazione diventi rigida e statica, possa condurre ad una indesiderata cristallizzazione delle differenze socio-economiche, innescando un meccanismo perverso a danno degli stessi Paesi classificati. Vi sono studi a dimostrazione del fatto che la permanenza di un LDC nella categoria abbia frequentemente favorito un rinvio nelle riforme economiche ed istituzionali, una maggiore diffusione della corruzione interna e l’incrementato della dipendenza estera rispetto ai Paesi donatori. Sembra così generarsi il rischio per questi Stati di cadere nella “trappola della classificazione” ovvero di ristagnare artificialmente per poter continuare a beneficiare dello status e delle misure a supporto fornite. Da qui, emerge la necessità che il paradigma della discriminazione positiva nelle relazioni fra gli Stati debba muovere dalle azioni di semplice sostegno verso una serie di attività di capacity building che consentano ai Paesi beneficiari di intraprendere autonomi percorsi di sviluppo.

Il secondo fattore che merita attenzione si riferisce all’impatto che il doppio standard normativo, potrebbe avere sulla modalità di formazione delle norme internazionali generali. Tali norme, non scritte, ma applicabili a tutti i soggetti del diritto internazionale, sono espressione dell’omogeneità degli interessi, dei valori e degli scopi perseguiti dalla CI nel suo complesso. Ora, l’emergere di regionalismi e di “categorie” di Stati può concorrere alla perdita di uniformità e, conseguentemente, condurre alla formazione di norme particolari (“di categoria”) o regionali che rispondano a soli interessi di uno specifico gruppo di Paesi, imprimendo così un sensibile mutamento nel processo collettivo e condiviso di formazione normativa.

Emanuela Sardellitti [email protected]

E’ sempre guerra fredda

Fine dei giochi. Riflessioni sulle Olimpiadi, più o meno dopo una settimana dal sipario calato sulla XXX edizione dei Giochi Olimpici. Londra, dopo quindici giorni di overdose sportiva ed emozionale, si sveglia dal sogno olimpico. Un sogno che, secondo la filosofia decoubertiniana, dovrebbe restare apolitico… 

NON E’ SOLO UN GIOCO – “Agli idealisti che credono che sport e politica debbano considerarsi separati, i realisti replicano che non lo sono stati mai”. Stalin concordava sicuramente con W.J.Baker. Correva l’anno 1952 e l’URSS partecipava per la prima volta alla rassegna a cinque cerchi. “Gareggiamo e non senza successo con le nazioni borghesi sul piano economico e politico. Lo facciamo ovunque ciò è possibile. Perché non farlo nello sport?”. Il dittatore si era convinto e, sgravato dal timore di una sconfitta sportiva, acconsentì alla partecipazione della compagine sovietica all’edizione finlandese dei Giochi Olimpici, di scena ad Helsinki. La squadra di calcio sovietica doveva vedersela contro gli undici rappresentanti in calzoncini della Jugoslavia del revisionista Tito. L’Unione Sovietica non poteva permettersi una sconfitta: “L’incontro non rappresenta semplicemente un evento sportivo, assume il significato di atto politico dello stato”. Cosi recitava un telegramma del Generalissimo Stalin indirizzato al commissario tecnico. No, non è solo un gioco. DIVISO IL MONDO, DIVISO LO SPORT – Fu in quell’occasione che la guerra fredda fece il suo ingresso alle Olimpiadi che assunsero così, rispecchiando quanto accadeva nelle relazioni internazionali, una dimensione politica bipolare. La rassegna olimpica divenne in quell’occasione la rappresentazione materiale, sul teatro a cinque cerchi, della cosiddetta contrapposizione tra Est e Ovest. Diviso il mondo, diviso lo sport. Se infatti gli atleti dei paesi occidentali risiedevano nel villaggio olimpico di Otaniemi, quelli orientali furono costretti dal governo sovietico a preparare le competizioni nel villaggio di Kapyla. Divisi da un’invalicabile recinzione, la cortina olimpica non fu altro che un’anticipazione di quel che sarebbe stato il Muro di Berlino. Sessanta anni ci dividono dalla rassegna finlandese, eppure l’Olimpismo moderno non sembra aver varcato i confini della dimensione politica bipolare inaugurata ad Helsinki. È da poche ore calato il sipario sulla trentesima edizione dei Giochi, Londra lentamente si sveglia dal sogno olimpico. Addio isola che non c’è, si torna al mondo reale. La parata degli atleti nel corso della cerimonia d’apertura, massima espressione del legame fra sport e nazione, prometteva una nuova geografia sportiva e cosi è stato. Cipro, Guatemala, Gabon, Montenegro varcano i confini di Olimpia. Il terzo mondo alza la voce. Ma al grido degli emergenti risponde l’urlo delle grandi potenze. Il medagliere, cinico interprete delle rivalità tra i padroni del mondo, racconta sempre la stessa storia. Una storia lunga ormai sessant’anni. USA VS CINA: VERSIONE CINQUE CERCHI – Torniamo per un istante ad Helsinki, precisamente nel villaggio sovietico di Kapyla. Campeggiava all’ingresso, così che l’intero mondo lo potesse vedere, uno speciale medagliere posto per sottolineare il vantaggio sovietico nei confronti degli States. L’Olimpiade divenne l’arena in cui USA e URSS potevano dimostrare, attraverso il bilancio finale delle medaglie olimpiche, la vitalità del proprio sistema socio-economico. Oggi come allora si compete, ma i padroni del mondo sono cambiati: è la Cina la prima sfidante della supremazia statunitense. Secondo la teoria delle relazioni internazionali, supremazia militare, leadership economica e influenza intellettuale sono le risorse dell’egemonia. Ma se in termini di produzione di soft power, ovvero la capacità di attrarre e sedurre attraverso risorse quali la cultura o le istituzioni, la Cina resta molto distante dagli Stati Uniti, sul versante economico-militare il dragone è da considerare alle stregua di una minaccia reale.

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MEDAGLIE E POTERE – Dal Golfo Persico al Mar Cinese, sia esso meridionale o orientale, non mancano le arene di scontro. Lo sviluppo militare cinese allarma, e non poco, lo Zio Sam, impegnato nel condurre la traslazione delle proprie priorità militari verso l’Asia, come agognato dalla Pentagon’s Strategic Guidance 2012 resa nota in gennaio dal Segretario alla Difesa statunitense Leon Panetta. Non c’è dubbio, la Cina sta rapidamente modernizzando le sue forze armate. La spesa militare cinese è esponenzialmente cresciuta negli ultimi vent’anni. Limitandosi all’ultimo decennio, stando ai dati forniti dall’istituto di ricerca Sipri, è salita dai poco più di trenta miliardi di dollari del 2000 ai 160 di oggi. Il budget per la difesa investito dagli Stati Uniti rimane quadruplo a quello cinese ma, di questo passo, nel 2035 Pechino potrebbe spendere più di Washington.

La Cina ha sete di potere, e di medaglie. Se dal punto di vista militare la minaccia è di lungo periodo, le Olimpiadi londinesi hanno definitivamente consacrato la Cina dello sport quale grande potenza. Se il trionfo sportivo, e non solo, di Pechino 2008 fece gridare i profeti del declino statunitense, pronti a celebrare la dimostrazione empirica delle loro teorie, all’avvento del secolo cinese, la XXX edizione dei giochi sembra aver ribadito la grandezza a stelle e strisce. 104 medaglie, 46 del metallo più prezioso. Altro che declino. Sono invece 87 le medaglie cinesi, 38 gli ori. Successi maturati in seguito ad un ventennio di programmazione e di “statalismo sportivo”, un modello in grado di portare l’URSS e la DDR al vertice dello sport mondiale durante la guerra fredda. Eppure, sembra che l’oro cinese luccichi meno.

NON E’ SEMPRE ORO QUEL CHE LUCCICA – Cosa si cela dietro lo strapotere sportivo della Cina? Non sempre i cronometri raccontano la verità. L’Olimpiade ci insegna che i corpi, in alcuni casi, appartengono agli stati. Ed ecco che la contesa muove verso il più importante terreno di scontro pacifico fra le nazioni. Tanto i regimi autoritari quanto le democrazie consolidate riconoscono un valore propagandistico ai propri successi e, non di rado, cercano di discreditare le vittorie altrui. È quel che sta accadendo tra le potenze protagoniste di Londra 2012 riguardo ai tempi della “cinesina volante” Ye Shiwen, sedicenne in grado di far impallidire, cronometro alla mano, i cannibali del nuoto a stelle e strisce Phelps e Lochte. Finale dei 400 misti. La cinese, secondo gli allenatori statunitensi venuta fuori dal nulla, disintegra il record del mondo nuotando gli ultimi 100 metri in 58”68. L’ultima vasca, incredibile a dirsi, in 28”93, 17 centesimi di secondo, nel nuoto uno scarto di non poco conto, più veloce rispetto a Ryan Lochte, vincitore della prova maschile. Quella che agli occhi del mondo appare come un’impresa sportiva senza precedenti, sembra indossare le vestigia del doping genetico, stando alle dichiarazioni di John Leonard, direttore della World Swimming Coach Association. Non sarebbe una novità per l’olimpismo, non sarebbe la prima volta che un oro olimpico non sia il frutto del solo sacrificio fisico, ma che sia impachettato e fabbricato dalla politica. Resterà anche questo, della rassegna londinese. GOODBYE LONDON – Si spengono i riflettori sull’Olympic Park. Il mondo, riunitosi per due settimana a Londra, torna a casa e si riscopre diverso. Gli stati ringraziano i propri ambasciatori. La Gran Bretagna, padrona di casa, si risveglia grande potenza. La sua economia traballa, certo, ma sportivamente è la terza al mondo. Winston Churchill ne andrebbe fiero. Ringrazia la sua stella più brillante Mo Farah, suddito di Sua Maestà originario di Mogadiscio, sfuggito, c’è da credere di corsa visti i tempi sui 5000 e sui 10000 metri, dalla guerra civile somala. Cerimonia di chiusura. È tempo di ricordi e di saluti. Lì dove il guerriero Masai Rudisha (Kenya) ha scherzato con il tempo ora sfilano i grandi della musica inglese del passato. Che con Wish you were Here dei Pink Floyd l’olimpismo stia celebrando, e allo stesso tempo ringraziando, quelli che saranno i grandi assenti a Rio de Janeiro? Michael Phelps, dopo quattro rassegne a cinque cerchi e 22 medaglie, saluta il mondo del nuoto. Lo stesso dicasi per Usain Bolt, monopolizzatore, nelle ultime due edizioni, del mondo della velocità. IMAGINE – Quale storia racconterà Rio de Janeiro 2016? C’è da credere che non sia troppo diversa da quella raccontata 60 anni fa, ad Helsinki. La corsa agli armamenti, sportivi e non, è nuovamente ricominciata. Usa e Cina lo sanno bene. Il mondo è troppo piccolo per tutti e due? Nella notte londinese compare il faccione di John Lennon. Se fosse interpellato lui, risponderebbe di no. Imagine. Sull’olimpismo moderno, oggi come ieri, soffiano venti da guerra fredda. Un vento che neanche il braciere olimpico riesce ad intiepidire. Simone Grassi [email protected]

Out of Coffeece

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Qualche giorno di riposo per la redazione: arriverà comunque qualche articolo, ma si riprende ufficialmente a fine mese. Nel frattempo, per voi l’annuncio di una grande novità, e i suggerimenti per qualche lettura estiva 

 

Ebbene sì, stacchiamo un po’ anche noi. Il Caffè va in vacanza per un po‘, all’incirca un paio di settimane. Già nella prima metà di agosto abbiamo avuto un fisiologico rallentamento delle pubblicazioni, ora ci si prende una pausa, anche se qua e là qualche articolo arriverà. Seppur “sotto l’ombrellone”, saremo comunque work in progress. Come? Ebbene sì, è ora di iniziare a svelarvi questo segreto. Cogliamo l’occasione di queste poche righe per annunciarvi la grande novità che vi sarà alla ripresa: un sito completamente nuovo, più ricco, immediato, interattivo. Speriamo rappresenti per noi – e per voi! – un vero e proprio salto di qualità. Queste settimane saranno per noi utili per lavorare “dietro le quinte” e testare il nuovo prodotto. Non possiamo inoltre non sfruttare questo momento di pausa per dirvi un grande grazie, a tutti voi che ci seguite sempre più numerosi: la comunità del Caffè cresce, la famiglia si allarga, e davvero contiamo – anche tramite il nuovo sito – sul fatto che sia solo l’inizio.

 

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Vi lasciamo con qualche link. No, non sono compiti per le vacanze! Proviamo a chiamarli “letture per l’estate”: alcuni contenuti che vale la pena riprendere in questo periodo di riposo, quando magari si ha un po’ più di tempo a disposizione. Ve ne proponiamo quattro qui di seguito:

 

_ Innanzitutto, il nostro e-book, “Caffè 150: 150 anni di politica estera italiana”, che potete scaricare qui;

 

_ Le nostre rubriche sportive, in particolare “E’ solo un gioco?”, che nelle ultime settimane ha raccontato gli intrecci tra sport e politica internazionale nella storia delle Olimpiadi, e il nostro speciale “Caffè Europeo”, che ha presentato i Paesi protagonisti di Euro 2012;

 

_ Lo speciale “La Cina e i suoi vicini”, sulla politica regionale cinese, un tema di sempre più stringente attualità;

 

_ La nostra ultima analisi (prima e seconda parte) sulla “politica estera” della nostra malandata Europa, che non accenna a mostrare segni di miglioramento. Basterebbe rileggere un editoriale dello scorso novembre (“Qui si fa l’Europa o si muore”) per vedere che sembriamo essere sempre allo stesso punto.

 

_ E se vi va di leggere anche qualcosa in inglese, potete tornare sulla nostra analisi per il Security Jam 2012, con il report “Lesson from Lybia”, ripreso anche nel Final Report che è stato presentato alla NATO e ad altre Istituzioni.

 

Ci fermiamo qui, non esageriamo. Non di sola geopolitica vive l’uomo, potete anche riposarvi un po’. Buone vacanze a tutti, a presto!

 

Alberto Rossi

[email protected]

La fortezza di carta (II)

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Seconda parte dell'analisi in cui facciamo il punto sulla politica estera dell'Europa, questo strano soggetto internazionale che non ha ancora deciso “cosa vuol fare da grande”. Al di là dei mezzi della politica estera, occorre affrontare una volta per tutte le questioni interne, e decidere finalmente se puntare a una vera Unione, capace di affacciarsi sul mondo come un attore di primo piano, o ad un area tutto sommato chiusa, isolazionista, con l'illusione dell'autosufficienza, e disgregata all'interno, con una sola, possibile conclusione: un'irreversibile declino

 (II. Segue. Leggi qui la prima parte dell'articolo)

DIVERSO DA CHI? – Soprattutto in ambienti accademici europei, è ancora particolarmente diffusa la visione di un’Europa quale attore politico internazionale sostanzialmente diverso dagli altri. A dispetto di quanto si potrebbe pensare da una lettura superficiale e rigidamente realista, che vede nella presenza di forze militari e nella capacità di azione diplomatica i fondamenti di ogni politica estera propriamente detta, l’Europa del secondo dopoguerra ha dispiegato una propria caratteristica azione internazionale. Per ragioni storiche e istituzionali, tuttavia, la Comunità Europea prima e l’UE poi hanno potuto operare in quanto soggetti unitari esclusivamente in quegli ambiti – principalmente commerciali, della cooperazione allo sviluppo, del dialogo politico sui diritti umani e, non da ultimo, dell’allargamento dei propri confini ad altri paesi europei – in cui la Guerra fredda lasciava spazio di manovra e in cui gli Stati membri avevano ceduto quote della propria sovranità.

Tale attenzione alla diversità dell’attore “Europa”, entità sempre a metà tra un’organizzazione regionale e una federazione di Stati, si è declinata in vari appellativi che si sono susseguiti nel corso degli anni. Non avendo a disposizione, fino alla seconda metà degli anni Novanta, strumenti di politica estera tradizionale, soprattutto militari, François Duchêne parlò a metà degli anni Settanta della CEE come di una “potenza civile”. Mario Telò ha recentemente ripreso tale definizione, aggiornandola alla situazione internazionale degli anni Duemila; ampliando il concetto non solo al rifiuto dello strumento militare, ma alla diversità dei suoi obiettivi, l’UE sarebbe “civile” in quanto finalizzerebbe la propria azione internazionale ad obiettivi olistici, così come presentati dalla prima strategia di sicurezza europea, preparata dall’ex Alto Rappresentante Javier Solana e sottoscritta da tutti gli Stati membri dell’UE.

Gli scritti di quegli anni risentono della contrapposizione venuta a crearsi tra l’Europa – o parte di essa, la cosiddetta “vecchia Europa” – e gli Stati Uniti di George W. Bush. La volta unilateralista dell’amministrazione americana seguita all’11 settembre 2001 contribuì a rinverdire l’idea dell’Europa come di una potenza civile e “venusiana”, come ebbe modo di scrivere molto criticamente Robert Kagan, in contrasto rispetto al Marte americano.

Si trattava di un’Europa che, in realtà, già aveva abbandonato lo spirito liberale degli anni Novanta a vantaggio di un approccio più realistico e difensivo in seguito al completamento dell’allargamento ad Est. Tale cambiamento è ben testimoniato dalla politica mediterranea europea, che vide il passaggio dal modello multilaterale e paritario del Partenariato Euromediterraneo (PEM), all’inserimento delle relazioni con il paesi del Nord Africa e del Medio Oriente nel quadro della Politica Europea di Vicinato (PEV). Dall’assetto multidimensionale e olistico del PEM, si è passati dal 2003 ad un rapporto basato soprattutto sulle tematiche legate alla sicurezza tradizionale – lotta al terrorismo, contrasto alle migrazioni illegali, sicurezza energetica e liberalizzazione commerciale – e assai meno al dialogo politico, alla promozione della democrazia e dei diritti umani. Tale svolta realistica, registrata da studiosi come Richard Youngs, è riscontrabile in numerosi altri ambiti dell’azione internazionale europea.

L'IMPORTANZA DEI MEZZI: LE MISSIONI – Un esame critico della politica estera dell’UE richiede coscienza dei mezzi a disposizione di questo “strano” attore internazionale. Se nel corso della sua storia di integrazione l’Europa ha saputo agire nella politica internazionale anche senza gli strumenti militari e senza gli apparati diplomatici propri degli Stati sovrani, l’emergere di nuove grandi potenze come Cina, India e Brasile, accanto al relativo declino del potere degli Stati Uniti, hanno reso necessari passi avanti dell’UE dal punto di vista della capacità di agire nel mondo, indipendentemente dai suoi obiettivi di lungo periodo – che restano, almeno retoricamente, olistici e liberali.

Una delle più importanti novità introdotte alla fine degli anni Novanta in risposta alla palese incapacità degli europei di agire in aree di instabilità anche ai propri immediati confini è la Politica Europea di Sicurezza e Difesa (PESD). Lanciata nel 1998 superando la tradizionale contrapposizione franco-britannica sul tema, essa ha messo a disposizione dell’Unione i mezzi necessari a dispiegare missioni internazionali con strumenti civili e anche militari. Tale politica è stata parzialmente riformata dal trattato di Lisbona, diventando la PCSD (Politica Comune di Sicurezza e di Difesa).

Attualmente l’UE ha attive nel mondo 12 missioni internazionali composte da oltre 6.200 unità tra personale civile e militare. Le più significative sono attive nei Balcani, in particolare in Bosnia-Erzegovina, dove dal 2004 operano 1160 uomini impiegati nella missione militare EUFOR Althea, e in Kosovo, dov’è attiva la missione civile EULEX Kosovo, che dispiega un personale di oltre 2100 unità. Circa 1300 militari sono impegnati nella missione navale EUNAVFOR Atalanta, impegnata nella lotta contro i pirati davanti alle coste della Somalia, mentre una missione civile (EUMM Georgia), è attiva con oltre 400 persone per monitorare il rispetto dei termini previsti dalla tregua russo-georgiana dopo la guerra dell’estate del 2008.

L’attività di gestione attiva delle crisi rappresenta una delle più interessanti dal punto di vista della politica estera europea. La sua dislocazione territoriale mette in luce quali sono le aree di maggiore interesse per l’intervento comune europeo – Balcani e Africa soprattutto – e il mix di personale civile e militare, nonché delle modalità operative, rappresenta una caratteristica interessante e originale della capacità europea di gestione delle crisi. Cosa continua a mancare all’Europa, ben più della capacità di dispiegare missioni e di realizzarle, è la volontà politica comune di agire quando necessario. Il caso dell’intervento internazionale Libia è sicuramente indicativo di questo punto.

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L'IMPORTANZA DEI MEZZI: IL BILANCIO – Nel 2012, l’UE ha destinato al finanziamento della propria politica estera 9,4 miliardi di euro, circa il 6,4% del suo bilancio complessivo (che è pari ad appena l’1% del PIL europeo). Le principali voci di spesa riguardano gli interventi legati alla cooperazione allo sviluppo (2,6 miliardi) e l’assistenza finanziaria per i paesi partner della PEV (2,3 miliardi). Il bilancio per la politica estera del 2012 è cresciuto del 7,4% rispetto all’anno precedente.

La proposta di bilancio della Commissione Europea per il 2013 non prevede aumenti significativi della spesa in ambito di politica estera, privilegiando interventi mirati a incentivare la crescita economica nel continente. Se la bozza attualmente elaborata sarà approvata da Parlamento Europeo e Consiglio dell’UE, gli strumenti finanziari a disposizione dell’Unione nella sua politica estera cresceranno dello 0,7%, ossia di appena 61,2 milioni di euro. Viste le sfide che l’UE si troverà ad affrontare soprattutto nel sostegno alla transizione democratica dei paesi del Mediterraneo, la scelta sembra essere, ancora una volta, quella dell’introversione delle istituzioni comunitarie, con gli Stati membri lasciati relativamente liberi di gestire individualmente e, spesso, in concorrenza gli uni con gli altri, i propri aiuti finanziari.

È interessante infine leggere la proposta di programmazione finanziaria della Commissione Europea per il periodo 2014-2020. Per quanto riguarda i fondi destinati all’azione esterna dell’Unione, la Commissione prevede di destinare, nei sei anni previsti, un ammontare complessivo di oltre 96 miliardi di euro. Tale scenario vedrebbe un discreto aumento delle dotazioni finanziarie, che restano comunque una quota significativamente piccola dell’ammontare complessivo del già ridotto bilancio comunitario.

CONCLUSIONI – Se mai lo è stata, l’Unione Europa ha smesso di essere una “potenza liberale” all’inizio del terzo millennio. Completato l’allargamento orientale e finito il momentum unipolare americano, l’emergere di nuove grandi potenze nel sistema internazionale nonché le crescenti difficoltà dell’architettura istituzionale internazionale di rispondere a nuove sfide e nuove minacce inter e intrastatali, hanno reso l’Europa meno sicura, meno aperta e meno disposta a riconoscere gli interessi e il benessere degli altri come parte dei propri obiettivi politici.

Dal punto di vista della politica commerciale, da sempre competenza comunitaria e punto di forza dell’Europa unita, il fallimento del negoziato multilaterale per un nuovo round di liberalizzazioni, gli scontri legati all’anacronistica politica agricola comune con i paesi in via di sviluppo e gli Stati Uniti d’America, al pari dei frequenti conflitti con la Cina in sede di WTO, hanno ostacolato ulteriori passi verso l’integrazione dei mercati internazionali. Al tempo stesso, la crisi economica globale ha rallentato il commercio e incentivato in ogni paese, Europa compresa, spinte protezionistiche e mercantiliste che si credevano superate.

L’UE si trova oggi di fronte alla scelta tra ulteriori passi nell’integrazione economica e politica – che non potrà che comportare una politica estera maggiormente coesa, coerente e incisiva – e la disgregazione. Se, com’è auspicabile e plausibile, si andrà nella prima direzione, l’Europa dovrà sciogliere i suoi decennali nodi strategici, definendo i propri interessi collettivi in relazione all’assetto internazionale nel quale si ritroverà ad operare. Se l’Europa vorrà concepirsi come blocco regionale mercantilista, protezionista e chiuso in se stesso, con ogni probabilità continuerà a percorrere la strada del declino. Basti pensare all’autentico dramma demografico vissuto dal nostro continente, che arriverà a pesare sempre meno dal punto di vista economico e politico, ma anche alla necessità di reperire fonti energetiche diversificate.

Gli Stati europei possono coltivare l’illusione dell’autosufficienza e dell’isolamento come mezzo per risolvere una crisi economica e politica senza molti precedenti, ma dovranno rendersi conto che, in un mondo in cui blocchi contrapposti chiusi in se stessi gareggiano per il predominio regionale e globale, l’Europa non ha speranze di uscire vincitrice. Una fortezza può sopravvivere solo a patto di avere solide mura e la capacità di produrre da sola i mezzi per il suo sostentamento. Se l’UE sceglie la strada dell’introversione e della chiusura, diventerà una fortezza di carta in mezzo alla tempesta.

Solo in un sistema internazionale multilaterale, aperto e cooperativo, l’UE può continuare a rivestire un ruolo di primo piano in quanto attore economico e politico. L’Europa può essere “sicura”, nel senso di prospera, stabile e dinamica, soltanto in un “mondo migliore”, per il quale l’azione liberale e cooperativa degli europei resta un elemento decisivo, oggi come nel futuro.

Davide D’Urso [email protected]

Leggi qui la prima parte dell'articolo

La fortezza di carta (I)

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La crisi economica globale ha mostrato la crisi politica interna dell’Unione Europea. Le conseguenze, spesso sottovalutate, presentano ripercussioni forti anche da un punto di vista di relazioni internazionali, e di immagine dell’Europa fuori dal Vecchio Continente. In due puntate, cerchiamo di analizzare insieme questi aspetti

LE RELAZIONI COL MONDO – La crisi finanziaria dell’Eurozona non ha ancora distrutto l’Unione Europea, ma senz’altro ne ha ridotto il peso e la capacità d’azione a livello internazionale. Gli eventi degli ultimi mesi hanno infatti dimostrato la sorprendente incapacità degli europei di risolvere crisi interne, come quella finanziaria, e di relazionarsi con crisi internazionali come la cosiddetta “Primavera araba”. Divisioni tra Stati membri, debolezza delle istituzioni comunitarie e mancanza di una visione condivisa del futuro sono i principali colpevoli di una paralisi che si ripercuote giornalmente in tutti gli ambiti della vita politica ed economica del continente.

Dal punto di vista della politica internazionale, è evidente che un attore capace di trasformare l’emergenza finanziaria di uno dei suoi più piccoli Stati membri in una crisi sistemica in grado di frammentarlo e di distruggere la sua moneta, rischia di risultare assai poco credibile al di fuori dei propri confini. Nel caso europeo la percezione esterna riveste poi un’importanza particolare. Uno degli elementi più interessanti che hanno caratterizzato storicamente l’azione esterna dell’Europa in costruzione è stata una considerevole componente di soft power. Una perdita significativa di immagine, ancor peggio se accompagnata ad una paralisi decisionale e operativa come quella che stiamo vivendo, può compromettere anche la capacità dell’Europa di porsi negli anni a venire come modello per altre regioni ed altri attori del sistema internazionale.

Al momento dell’entrata in vigore del trattato di Lisbona, molto si è scritto a proposito delle innovazioni che il nuovo testo avrebbe comportato per la politica estera europea, dando all’UE la capacità di agire nel mondo come un unico e coerente attore politico. L’Europa ne sarebbe uscita rafforzata, capace di parlare con una sola voce, dotata di un proprio servizio diplomatico (il Servizio Europeo per l’Azione Esterna, SEAE), una sorta di Ministro degli Esteri (l’Alto Rappresentante per la gli Affari Esteri e la Politica di Sicurezza) e un presidente permanente del Consiglio Europeo. Inoltre, essa avrebbe dovuto trarre ulteriore forza e visibilità internazionale in ragione di un modello socioeconomico che la crisi finanziaria ed economica nata negli Stati Uniti avrebbe reso ancora più desiderabile ed imitato nel mondo. Tali auspici, risalenti ad appena quattro anni fa, suonano oggi come un ricordo lontano e quanto mai pittoresco.

LADY ASHTON E L’OTTIMISMO INGIUSTIFICATO – Non sembra dello stesso avviso l’Alto Rappresentante dell’Unione per gli affari esteri e la politica di sicurezza, la baronessa Catherine Ashton. Nominata nel dicembre 2009, la responsabile del SEAE, nonché vicepresidente della Commissione Europea e presidente del Consiglio Affari Esteri, è stata oggetto di critiche particolarmente severe, incentrate anzitutto sulla debolezza della sua leadership. Avendo un curriculum non perfettamente calzante con la carica che è stata chiamata a ricoprire, molti hanno presentato la sua nomina come una mossa degli Stati più grandi volta a disinnescare le potenzialità della nuova figura istituzionale, le cui funzioni e i cui poteri, nelle mani di personalità del calibro del suo predecessore Javier Solana, avrebbero potuto dare una svolta “federale” all’azione internazionale dell’UE.

Affermando la priorità che la politica estera dell’UE dovrebbe dare alla promozione internazionale dei diritti umani, Ashton ha recentemente ha respinto le tesi di coloro che vedono nella crisi dell’euro indizi di un declino dell’Europa e l’ultima prova della sua incapacità di agire come attore internazionale coerente ed unitario. L’UE resta la prima economia al mondo per PIL, la prima potenza commerciale e uno dei principali donatori a livello internazionale; secondo l’Alto Rappresentante, la sua capacità di agire nel mondo non sarebbe minata dalle lacerazioni tra Stati membri e da quello che negli ultimi mesi sembra un introverso assorbimento delle energie delle istituzioni comunitarie nel tentativo di portare la nave fuori dalla tempesta finanziaria.

La difesa ottimistica di Catherine Ashton potrebbe solo ingenerosamente essere definita come ingenua: i dati che ricorda sono reali, l’Europa resta un colosso economico e una superpotenza commerciale decisiva per le sorti dell’economia globale, la sua moneta – nonostante tutto – continua ad essere forte e il suo mercato interno il più ambito al mondo. Se però si va al di là dei dati quantitativi statici e si prendono in considerazione le prospettive di crescita economica e demografica in rapporto ad altre regioni ben più dinamiche del mondo, l’Europa sembra destinata a perdere rilevanza economica e quindi politica. In un’ottica dinamica e di proiezione futura, aspettare momenti migliori e chiudersi in se stessi sembrerebbe per l’Unione e i suoi Stati membri la scelta peggiore.

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UN PO’ DI STORIA, PER CAPIRE – Tra la fine degli anni Ottanta e l’inizio degli anni Novanta, con la firma dell’Atto Unico Europeo (1987) e la successiva entrata in vigore del trattato di Maastricht (1993), nasceva l’UE grossomodo come la conosciamo oggi. In quegli anni presero forza, soprattutto negli Stati Uniti, voci e timori circa il rischio che l’Europa si trasformasse in una “Europe fortress”. Il pericolo che il mercato unico europeo diventasse impenetrabile per le merci straniere e che emergesse un’identità politica europea non più legata alla sola fedeltà atlantica era tale da spingere l’amministrazione americana del presidente Clinton a lanciare progetti di liberalizzazione commerciale su base regionale (NAFTA, 1992).

II trattato di Maastricht non solo tracciava il percorso a tappe verso l’Unione economica e monetaria e l’introduzione della moneta unica, ma lanciava la Politica Estera e di Sicurezza Comune (PESC), che doveva dare alla confusa e incerta identità politica europea una capacità di azione e coordinamento superiore, in grado di rendere l’UE un attore credibile sulla scena politica del mondo post-Guerra fredda.

Un’Europa destinata a crescere in estensione territoriale, popolazione e presumibilmente in potere economico, minacciava di insidiare la posizione di predominio di Washington, contribuendo a spingere il sistema internazionale in una direzione multipolare caratterizzata da blocchi regionali in gara tra loro. Tali paure sono state smentite dai fatti: l’UE non solo non è diventata una superpotenza e non ha minato la leadership americana – rimasta tale per tutti gli anni Novanta – ma non è riuscita neppure a completare il proprio mercato interno e a garantire la stabilità dei suoi più immediati confini. Il dramma dei Balcani di fronte alla paralisi decisionale dell’Europa è un dramma ancora scolpito nella memoria di tutti.

LE CONSEGUENZE DELLA CRISI – Di fronte alla crisi economica globale e alle sue attuali ricadute sull’Europa, non sono in pochi coloro che ritengono che l’UE e i suoi Stati membri dovrebbero optare per una strategia internazionale meno “liberale”. Soprattutto dal punto di vista commerciale e dell’affermazione dei propri interessi geopolitici, l’Unione dovrebbe mettere in campo una politica maggiormente finalizzata alla difesa del proprio modello sociale e del proprio sistema produttivo, attraverso una politica estera maggiormente coesa finalizzata a garantire la sicurezza delle forniture energetiche e favorendo le esportazioni del made in Europe, attraverso politiche neoprotezionistiche e interventi di svalutazione della moneta unica.

L’ex Presidente francese Nicholas Sarkozy si era fatto alfiere di una proposta di radicale revisione degli accordi di Schengen, nella direzione di maggiori controlli e limitazioni ai confini dell’UE e della possibilità per i suoi Stati membri di sospendere gli accordi limitando la libertà di circolazione delle persone sul territorio dell’Unione. La priorità concessa dall’opinione pubblica europea alle questioni legate alla crisi economica, ha rimosso il tema del contrasto all’immigrazione clandestina dalle prime pagine dei giornali, ma significativi passi nella direzione di una fortificazione delle frontiere esterne dell’UE, una politica più severa circa la concessione di visti e permessi di soggiorno e i tentativi di definire una politica comune di contrasto agli ingressi illegali sono ancora in fase di elaborazione da parte delle istituzioni europee.

A fronte delle ribellioni in numerosi paesi del Medio Oriente e del Nord Africa, la priorità che l’Europa ha dato esternamente l’impressione di porsi non è stata quella di una revisione della propria politica nell’area o di concreto sostegno ai movimenti di ispirazione liberale, ma una chiusura in se stessa. La proiezione internazionale è sempre più lasciata all’intraprendenza di singoli Stati membri, in particolare la Francia – impegnata dal punto di vista politico nel ritagliarsi una propria posizione di media potenza – e la Germania – ormai colosso economico e commerciale che tende ad agire come autonoma potenza geoeconomica, interessata a garantirsi approvvigionamenti energetici ed accesso ai mercati esteri. In questa fase, all’Unione e alle sue istituzioni comuni, sembra restare soltanto lo spazio della ratifica di decisioni assunte a livello di capitali nazionali e queste, a differenza di quanto affermato da lady Ashton, non hanno come priorità la promozione globale dei diritti umani, quanto l’affermazione di propri interessi geopolitici ed economici. Il tutto a discapito di una coerenza e di un impegno liberale verso i principi che – stando alla lettera del trattato di Lisbona – “ne hanno informato la creazione, lo sviluppo e l’allargamento e che essa si prefigge di promuovere nel resto del mondo”.

(1.Continua)

Davide D’Urso [email protected]

Il futuro sulle ali (II)

Il ministro della Difesa Di Paola intende ristrutturare l’intero strumento militare, dotando l’Aeronautica dei mezzi più sofisticati per fronteggiare minacce convenzionali e asimmetriche. Colonne portanti della componente aerea saranno – oltre al Joint strike fighter – i droni che presto saranno armati e potranno condurre missioni di attacco

 

I PIANI – Le linee guida per la revisione dello strumento militare tracciate dal ministro della Difesa Giampaolo Di Paola, illustrate il 15 febbraio scorso al Parlamento, prevedono numerose novità per le Forze armate e per l’Aeronautica (vedi la prima parte dell’articolo). Oltre alla conferma dell’acquisto del cacciabombardiere F-35, di cui però è stata ridotta la commessa da 131 a 90 unità, il ministro intende favorire la crescita qualitativa e tecnologica della componente C4I (comando e controllo, comunicazioni, computer, informazioni) legata alla difesa cibernetica e all’utilizzo dei droni. Questi ultimi, definiti come velivoli con limitate capacità decisionali comandati a distanza, stanno assumendo un ruolo fondamentale nello scenario strategico della NATO, soprattutto per lo svolgimento di operazioni di sorveglianza, spionaggio e attacco al suolo nell’ambito di conflitti asimmetrici come quello afgano.

 

LE ORIGINI – Nati inizialmente come dimostratori tecnologici negli anni ’80, gli “aeromobili a pilotaggio remoto” (APR) sono stati utilizzati dagli USA per la prima volta in teatri operativi dopo l’attentato alle Torri Gemelle dell’11 settembre 2001. Le Forze armate americane, infatti, avevano bisogno di una classe di velivoli in grado di non essere notata dal nemico, economica e poco rumorosa, da impiegare nelle operazioni “dull, dirty and dangerous” (noiose, sporche e pericolose). La necessità di rispettare queste specifiche ha portato allo sviluppo di due tipologie di macchine, gli UAV (Unmanned Aerial Vehicle) da ricognizione e gli UCAV (Unmanned Combat Air Vehicle) per l’attacco al suolo. Dei primi fanno parte velivoli di diverse dimensioni, da quelli trasportabili a mano o a capacità biomimetiche – come lo hummingbird (colibrì) che sembra un uccello – a veri e propri aerei o elicotteri come il Predator, il Global Hawk e il Fire Scout. L’UCAV più famoso, invece, è una variante del Predator chiamata Reaper (nella foto) armata con missili “lancia e dimentica” (AGM-114 Hellfire), bombe a guida gps (JDAMJoint Direct Attack Munition) o laser (GBU-12 Paveway II).

 

NON SOLO USA – Attualmente numerosi Stati (come la Cina, la Russia e Israele) hanno avviato programmi di ricerca e destinato consistenti finanziamenti per la costruzione di droni. In questo settore, infatti, sono state avviate collaborazioni internazionali di grande interesse, soprattutto in l’Europa, come quella del 2011 fra l’Italia e la Germania (raggruppamento Alenia ed Eads-Germania) e quella tra Francia e Regno Unito (Dassault-Bae Systems). Sia la cordata italo-tedesca con il progetto Talerion, che il gruppo anglo-francese con il programma Telemos, intendono sviluppare un UAV in grado di operare ad altitudini medie per lunghi periodi, in modo da poter compiere missioni di ricognizione, intelligence e sorveglianza.

 

L’ITALIA E I DRONI – Nel 2004, il nostro Paese ha acquistato cinque Predator – per una spesa stimata di 47,8 milioni di dollari –, saliti ad otto e a cui poi sono stati affiancati alcuni Reaper privi del sistema di armamento. Il maggio scorso, però, il Wall Street Journal ha pubblicato la notizia in base alla quale il Congresso USA non si è opposto alla decisione del governo federale di armare sei nostri Reaper. In questo caso, l’Italia sarebbe l’unico Stato occidentale, a parte il Regno Unito, a disporre di droni americani armati, schierati dall’Aeronautica nella base del 32° Stormo ad Amendola (Foggia).

La richiesta di armare i droni è stata avanzata della Difesa italiana nella primavera scorsa, per superare le limitazioni – per lo più politiche – legate all’utilizzo di armi da parte dei nostri APR, che molto spesso nel teatro afgano hanno sorpreso i talebani a piazzare ordigni sulle strade senza poter intervenire immediatamente. L’importanza che i droni stanno assumendo nel nostro “sistema difesa” emerge anche dalla decisione della NATO di rendere la base aeronavale di Sigonella (Catania – foto) centro di comando e controllo operativo dell’AGS (Alliance Ground Surveillance). In pratica, l’aeroporto siciliano svolgerà un ruolo centrale, consentendo all’Alleanza di potenziare il numero di voli e “orbite” – così sono chiamate le rotte seguite dagli APR – nello scacchiere mediterraneo. Infatti in concomitanza con la crisi siriana, sono state imposte alcune limitazioni allo spazio aereo civile – in vigore dal 4 giugno fino al prossimo primo settembre – che riducono l’attività dell’aeroporto civile di Fontanarossa (Catania). Queste misure sono necessarie per garantire la sicurezza delle rotte civili perché i voli dei droni pongono seri problemi al controllo del traffico aereo e secondo quanto stabilito dall’ICAO (International Civil Aviation Organization) devono avvenire in “corsie preferenziali”.

 

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I CONTRO… – L’integrazione dello spazio aereo, infatti, costituisce un limite per gli APR, perché la tecnologia attuale non consente a chi li controlla da terra una guida in tutta sicurezza, evitando la perdita del controllo o la collisione con altri velivoli. Il numero di incidenti dei droni non è incoraggiante: secondo fonti ufficiali americane, nelle prime 100 mila ore di volo il Predator è stato coinvolto in 28 episodi, oltre il doppio di quelli relativi al caccia F-16 (solo 11). Gli altri punti deboli degli APR riguardano la possibile saturazione dello spettro elettromagnetico utilizzato per inviare i comandi, la loro vulnerabilità alle contromisure elettroniche (sistemi di disturbo del segnale) e agli attacchi degli hacker che possono prenderne il controllo (come nel caso del UAV Sentinel statunitense “dirottato” degli iraniani nel 2011). Non bisogna sottovalutare, inoltre, l’effetto “psicologico” che l’utilizzo di UCAV come il Reaper hanno sull’opinione pubblica, riducendo la percezione delle operazioni militari condotte in uno Stato straniero. Non fanno più notizia, infatti, le migliaia di missioni d’attacco compiute dai droni USA in Afghanistan e Pakistan contro le milizie talebane, anche perché l’eventuale abbattimento del velivolo non ha conseguenza per il pilota.

 

…E I PRO – Proprio l’incolumità del pilota che dirige da remoto l’APR costituisce uno dei punti di forza nel suo utilizzo, perché si annullano i rischi di cattura – che può dar luogo a estenuanti casi diplomatici – e morte in caso di abbattimento. Inoltre, le ridotte dimensioni del mezzo e la relativa semplicità della tecnologia impiegata, lo rendono più economico di un aereo da attacco pilotato. Un drone, poi, può essere rifornito in volo e la sua capacità di sorvolare a lungo un bersaglio è teoricamente infinita, potendo essere guidato a turni da piloti differenti dalla stazione di terra. Infine, non bisogna dimenticare che grazie alla caratteristiche aerodinamiche e di progettazione, questi mezzi sono molto più silenziosi di altri e possono compiere missioni che solitamente sono assegnate alle forze speciali o infiltrate dietro le linee nemiche.

 

UNA STRATEGIA SEMPRE PIÙ AMERICANA – In conclusione, la riorganizzazione dello strumento militare così come prefigurata da Di Paola ricalca il modello statunitense (si veda la National military strategy del 2011) basato soprattutto sul potenziamento delle forze speciali da utilizzare con il supporto sempre più incisivo dei droni. Questa scelta evidenzia la volontà politica di partecipare a future operazioni multilaterali – sotto l’ombrello ONU o della NATO – che differenzia ulteriormente l’orientamento italiano da quello dei principali Stati europei (Germania, Francia e Gran Bretagna) intenzionati a ridurre la loro presenza in missioni internazionali sia per motivi economici che di politica interna.

 

Francesco Tucci

Nemiciamici

Cina e USA appaiono due poli contrapposti per molti motivi e il pivot statunitense verso l’Estremo Oriente prelude forse a un confronto da Guerra Fredda. Mentre il Pentagono affila le armi e la Cina alza i toni sulle zone di mare contese, forse quella che viene già prevista come una guerra inevitabile potrebbe non accadere mai se ci fermassimo un attimo a meglio osservare gli interessi cinesi nel mondo, pensando a come volgerli anche a vantaggio dell’Occidente

 

OK CORRAL? – Esiste una tendenza comune ad accademici, politici e militari USA nel vedere la Cina solo come un futuro nemico da affrontare. “Questo mondo è troppo piccolo per tutti e due” sembrano dire, citando vecchi film western, prospettando l’inevitabilità di un conflitto militare. Non tutti ovviamente la pensano in questo modo, ma il numero di analisti convinti di tale futuro scontro tra potenze è incredibilmente grande, un’opinione che si conferma guardando i forum di discussione tra professionisti. Certamente questa è una possibilità reale, soprattutto osservando l’aggressività cinese nel Mar Cinese Meridionale. La Cina in fondo è piena di generali che non hanno mai combattuto una vera guerra e che, non conoscendone i rischi in prima persona, potrebbero mal valutare le proprie possibilità. Forse il Pentagono ha ragione quando, con la sua dottrina “Air-Sea Battle”, si prepara a uno scontro a fuoco convenzionale, perché in fondo non si sa mai. Eppure se si guarda a certi dati, il futuro che appare più probabile è un altro.

 

CINA NEL GOLFO – Diamo per esempio un’occhiata al coinvolgimento cinese nel Golfo Persico. Chiedete a un analista USA cosa ne pensa e questi, in molti casi, vi risponderà qualcosa del tipo “sono amici dell’Iran, contro gli USA e l’Occidente”. Verranno citati i dati relativi all’aumento delle importazioni di petrolio greggio dall’Iran a prezzi scontati, presentati come possibile prova del fatto che la Cina è intenzionata a stare dalla parte di Tehran sempre e comunque, anche a rischio di guerra. Se poi iniziamo a parlare della possibilità che la Pechino mandi navi da guerra nel golfo (non così incredibile nel futuro, vista l’espansione della sua “strategia del filo di perle”), il discorso verterà sulle possibilità di scontro con la marina USA, il confronto tra la tecnologia, le tattiche dell’uno e dell’altro. Se mandano le navi nel golfo insomma, l’unico motivo è prepararsi a combattere contro gli USA per proteggere l’Iran. Dunque meglio essere pronti alla battaglia. Tutto questo potrebbe anche accadere davvero, eppure se si osservano gli interessi cinesi nel Golfo Persico si arriva a una differente valutazione della loro strategia nell’area.

 

SETE DI PETROLIO – Secondo i rapporti mensili dell’OPEC e di aziende di analisi internazionali come Bloomberg, la Cina nel mese di maggio ha importato 6 milioni di barili al giorno, un record, ovvero 585.000 in più del mese precedente (+10.8%). I primi dati relativi a giugno confermano che il trend è in crescita. Dall’anno scorso, l’aumento di importazioni è stato del 18.2%. I dati OPEC confermano poi che ciò è dovuto principalmente all’aumento delle importazioni dal Medio Oriente, ma non solamente dall’Iran: Iraq, Emirati Arabi Uniti (EAU), Yemen e Arabia Saudita hanno tutti incrementato le vendite di petrolio a Pechino (Arabia Saudita +13.7%, Iraq +64%, EAU +32%). Inoltre la Cina continua a importare anche da Kuwait e Oman, ed è interessante notare che essa importa dalla Arabia Saudita circa il doppio di quanto importa dall’Iran.

 

Cosa ci dicono questi dati apparentemente complicati?

 

 

PRIMOLa Cina ha sempre più sete di petrolio. Non è una novità, è un dato confermato dai maggiori indicatori macroeconomici mondiali, e poiché la produzione cinese non sembra essere in grado di tenere il passo, questa sete aumenterà sempre di più e la Cina dovrà importare sempre più petrolio.

 

SECONDOLa Cina dipende molto di più dal petrolio non-iraniano che da quello iraniano. Attenzione, questo non rende le importazioni dall’Iran poco importanti. Come detto, Pechino ha sete di petrolio e l’Iran ne fornisce in buona quantità, a basso prezzo e quasi senza concorrenza viste le sanzioni internazionali. Ma al tempo stesso la produzione iraniana non aumenterà molto nel breve futuro: i pozzi e i sistemi di estrazione sono generalmente vecchi, poco efficienti e necessiterebbero dell’impiego di tecnologie di estrazione moderne (enhanced extraction techniques) che sono possedute solo dalle compagnie estere. Al confronto, altri paesi come l’Iraq non hanno invece tali limiti e anzi stanno beneficiando di un boom produttivo grazie ai molti investimenti stranieri. L’Iraq già quest’anno produrrà più petrolio dell’Iran e questa crescita continuerà almeno per qualche anno, mentre Arabia Saudita, Oman e EAU rimarranno produttori importanti. In breve, a meno che le sanzioni non vengano tolte a breve, l’Iran rimarrà importante ma non vitale, anche per la Cina.

 

TERZOLa Cina ha bisogno che il petrolio continui ad arrivare. Può sembrare la considerazione più banale, e in effetti lo è, ma è anche la più vitale. Pechino ha bisogno di petrolio e non vuole che nulla impedisca ad esso di arrivare alle raffinerie cinesi, dove verrà trasformato in benzina, diesel, nafta, ecc… per sostenere l’industria, le città, l’economia in generale. Dunque poiché gran parte delle importazioni provengono dal Golfo Persico, la Cina vuole che nulla ostruisca la loro estrazione e il loro trasporto.

 

ORA – Cosa significa questo nel breve periodo? Che la Cina non vuole una guerra nel Golfo Persico contro l’Iran, perché questo molto probabilmente farà cessare le importazioni di greggio dalla repubblica islamica e forse destabilizzerà anche il passaggio delle petroliere dallo Stretto di Hormuz. Questo potrebbe essere un vantaggio anche per l’Occidente, perché Pechino molto probabilmente premerà segretamente sui leader di Tehran perché non cerchi mai di chiudere davvero lo stretto: questo infatti danneggerebbe la Cina più di quanto farebbe con l’Occidente. Del resto ricordiamo anche che di tutto il petrolio che scorre fuori dal Golfo, almeno tre quarti vanno in Estremo Oriente e non verso l’Occidente… Qualche minaccia da parte di Pechino di togliere il proprio supporto all’Iran all’interno del Consiglio di Sicurezza dell’ONU potrebbe bastare a convincere gli iraniani che anche solo tentare di bloccare lo stretto potrebbe essere una pessima idea – una risposta massiccia degli USA diventerebbe non solo sicura ma anche più legittimata internazionalmente.

 

NEL FUTURO – Cosa significa in futuro, sul lungo periodo? Che la Cina non vuole nessuna guerra o seria destabilizzazione regionale nel Golfo anche nel futuro, e si impegnerà duramente per impedirlo in quanto questo rimarrà il maggiore rischio per la sua sicurezza energetica. Con così tanti interessi nel mantenere la stabilità, la Cina potrebbe diventare il migliore amico degli USA, garantendo che l’Iran non sia troppo aggressivo verso i vicini, anch’essi vitali per Pechino. Certo, i toni rimarrebbero alti e Tehran continuerebbe con le sue minacce, ma la Cina godrebbe di una maggiore fiducia di tutti (almeno fino al primo grosso pasticcio…) e potrebbe rendersi garante della pace regionale. Al tempo stesso gli USA potrebbero finalmente fare ciò che sognano da anni, ovvero ridurre sensibilmente il proprio impegno in Medio Oriente, concentrarsi meglio altrove e fare sì che stavolta sia la Cina a rimanere impantanata in una delle regioni più complesse del pianeta.

 

DUNQUE? – Per quanto sembri incredibile a molti, gli USA potrebbero guadagnare molto da una attenta cooperazione con la Cina. La dottrina Air-Sea Battle potrà anche rendere felice il Pentagono, ma non renderà più sicuro il Golfo Persico o altre aree. Lo farà invece lo sfruttamento delle debolezze economiche cinesi. Bisogna ricordarlo la prossima volta che una nave da guerra cinese si muove: invece di pensare al modo migliore per affondarla, può risultare più utile pensare a come guidarla verso interessi comuni.

 

Deriva estiva

Scade il limite indicato dalle Nazioni Unite per la risoluzioni delle questioni aperte tra Sudan e Sud Sudan e l’accordo sembra definitivamente irraggiungibile. In Mali si aggrava la crisi umanitaria e si segnala la prima esecuzione per lapidazione. Ancora scontri nel Kivu. Duri scontri inter-tribali al confine tra Etiopia e Kenya. In Somalia si riunisce l’Assemblea costituente. L’ONU sollecita il ritorno alla normalità in Guinea Bissau. Hillary Clinton comincia il viaggio in Africa. In chiusura, cos’è la Conferenza internazionale della regione dei Grandi Laghi

SUDAN: VERSO IL FALLIMENTO DELLA MEDIAZIONE – Il 2 agosto è scaduto il termine imposto dall’ONU per il raggiungimento di un accordo tra Sudan e Sud Sudan, ma al-Bashir ha rifiutato la proposta di Kiir per un secondo incontro privato. Formalmente il presidente sudanese ha motivato la propria assenza adducendo il precedente impegno assunto per un viaggio a Doha. Tra i due capi di Stato resta aperto ancora il dissidio sulla questione petrolifera: per il transito del proprio oro nero verso Port Sudan, infatti, Juba offre alla controparte $8,18 al barile, mentre Khartoum resta inamovibile dalla richiesta di 32 dollari al barile in greggio. Inoltre, sono del tutto irrisolte le problematiche legate alla sicurezza, alla neutralizzazione del confine, allo status di Abyei e ai diritti di cittadinanza dei rispettivi cittadini nell’altro Paese. Il mediatore ad Addis Abeba, Thabo Mbeki, continua a dichiararsi fiducioso circa il raggiungimento di un accordo in extremis, ma la già scarsa disponibilità di al-Bashir sembra essere svanita in seguito a un duro discorso che Salva Kiir ha tenuto a Juba in arabo, accusando il Sudan di operare attivamente per il fallimento del Sud Sudan e invocando un intervento deciso del Consiglio di Sicurezza contro gli «intransigenti» che vogliono «saccheggiare il petrolio». Resta da chiarire che cosa potrebbe accadere qualora il 2 agosto trascorresse senza alcun colpo di scena: in tale eventualità – assai probabile – la risoluzione 2046, istituente, di fatto, la roadmap, minaccia l’imposizione di sanzioni sulla base dell’art. 41 della Carta delle Nazioni Unite. IL COLLASSO ISLAMISTA DEL MALI – La grave crisi in Mali sta assumendo sempre più i connotati di una completa emergenza umanitaria. Colera, violenze e carestie stanno causando la fuga di decine di migliaia di persone in cerca di un rifugio sicuro nei Paesi confinanti, anch’essi, tuttavia, colpiti dall’allarme alimentare del Sahel. Nel nord, gli islamisti stanno procedendo a una sistematica occupazione del territorio compiuta anche attraverso l’imposizione della shari’a. Ad Aguelhok, una delle prime città conquistate dai tuareg, ma adesso controllate dalla coalizione dei gruppi legati sempre più apertamente ad al-Qaida nel Maghreb islamico, sabato scorso è stata segnalata la prima esecuzione su base shariatica: una coppia di fidanzati è stata lapidata perché accusata di aver avuto contatti fisici prima del matrimonio. Di ritorno dalla Francia, dove era sottoposto alle cure mediche in seguito all’aggressione di maggio, il presidente di transizione maliano, Dioncounda Traoré, ha invocato la collaborazione di tutte le forze sociali, ma le sue parole sono apparse più di circostanza che di reale sprone. Oltretutto, durante l’incontro tra i ministri degli Esteri dei Paesi francofoni, il francese Laurent Fabius ha sollecitato i membri dell’ECOWAS a intervenire militarmente nell’Azawad, ricevendo, tuttavia, una risposta piuttosto fredda. La Comunità dell’Africa occidentale, infatti, ha ancora in mobilitazione 3mila uomini pronti per una missione nel nord del Mali, sebbene l’invio delle truppe sia costantemente rinviato da maggio. Riguardo alle regioni amministrate da Bamako, Amnesty International ha denunciato numerosi casi di rapimenti, torture e sparizioni di persone non allineate alla giunta militare che promosse il colpo di Stato in primavera. In particolar modo, l’Organizzazione cita le testimonianze di soldati incarcerati con l’accusa di aver tentato un contro-golpe a fine aprile e tuttora sottoposti a continue sevizie. ANCORA COMBATTIMENTI NEL KIVU – Violenti scontri sono stati segnalati il 24 e 25 luglio nella Repubblica democratica del Congo, a Rutshuru, a settanta chilometri a nord-est di Goma. Secondo i primi dati, ci sarebbero stati due morti e una cinquantina di feriti, ma a preoccupare sono le migliaia di sfollati in fuga verso i territori vicini. Intanto, Germania, Gran Bretagna e Olanda hanno sospeso gli aiuti e i fondi allo sviluppo destinati al Ruanda, Paese che sosterrebbe Bosco Ntaganda, comandante del gruppo ribelle M23. Dirk Niebel, ministro tedesco allo Sviluppo, ha sollecitato Paul Kagame a collaborare con le Nazioni Unite, affinché il Ruanda dimostri apertamente di non aver favorito gli insorti del Kivu. Comunque, il presidente ugandese, Yoweri Museveni, ha convocato per il 7 e 8 agosto prossimi una riunione della Conferenza internazionale della Regione dei Grandi Laghi per tentare una mediazione. Tuttavia, l’iniziativa non ha ricevuto unanime accoglienza, poiché in molti accusano l’Uganda di sostenere il Ruanda e i ribelli di M23.

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LA REPRESSIONE VIOLENTA DI AL-BASHIR – Continuano le manifestazioni contro i rincari e le misure di austerità in Sudan. Dopo la manifestazione degli avvocati, la città di Nyala, in Darfur, resta ancora uno dei centri maggiori delle proteste diffuse esplose a metà giugno. La repressione di Khartoum non ha allentato la propria forza, tanto che martedì 31 luglio tra otto e dodici persone, per lo più giovani studenti, sono morti in seguito al massiccio impiego di gas e pallottole di plastica da parte della polizia. I gruppi di opposizione hanno parlato della vicenda definendola «una reazione criminale e premeditata», mentre il segretario generale del movimento armato Sudan People's Liberation Movement North, Yasir Arman, si è appellato a Hillary Clinton, affinché durante la visita in Africa il Segretario di Stato «lanci un messaggio chiaro e deciso ad al-Bashir contro l’uccisione di manifestanti innocenti». Nel frattempo, l’ONU ha esteso per un altro anno la missione congiunta con l’Unione Africana in Darfur, dispiegando fino a 16.200 soldati e 2.310 uomini con funzioni di pubblica sicurezza. MIGLIAIA DI PROFUGHI IN ETIOPIA – Duri scontri intertribali si stanno verificando nella regione di Moyale, al confine tra Etiopia e Kenya. Da un lato, il conflitto è tra Borana etiopi e Garri, mentre dall’altro lato i Borana kenioti stanno combattendo contro i Gabra. In entrambi i Paesi, la causa degli scontri è strettamente connessa ai dissidi sulla ripartizione delle terre. Secondo la Croce Rossa del Kenya, oltre 20mila persone avrebbe varcato il confine provenendo dall’Etiopia, mentre, all’inizio dell’anno, in 40mila avevano compiuto il tragitto inverso.

LA COSTITUENTE SOMALA – Mercoledì scorso, a Mogadiscio, gli 825 membri dell’Assemblea costituente si sono riuniti per cominciare la discussione sulla bozza costituzionale. Gli anziani delle tribù hanno approvato a metà luglio un testo provvisorio, quindi hanno nominato i delegati che approveranno, entro il 20 agosto, la nuova Costituzione somala. Tuttavia, resta ancora primaria la questione della sicurezza: tra sabato e domenica, infatti, le milizie di al-Shabaab hanno sferrato una serie di attacchi nella regione Gedo, nel sud-ovest del Paese. Le forze etiopi e somale hanno respinto i guerriglieri, ma non si hanno certezze né sulla dinamica degli eventi, né su eventuali morti.

L’ONU: GOVERNO UNITARIO IN GUINEA BISSAU – Il 30 luglio, il Consiglio di Sicurezza dell’ONU ha sollecitato le forze politiche e sociali della Guinea Bissau a cooperare per superare la fase d’emergenza e costituire un governo col maggior consenso possibile. Le Nazioni Unite hanno anche richiamato ECOWAS e Comunità dei Paesi di Lingua Portoghese, affinché queste sostengano il percorso verso la normalità della Guinea Bissau dopo il colpo di Stato militare del 12 aprile scorso. HILLARY CLINTON IN AFRICA– Il segretario di Stato USA, Hillary Clinton, sarà in Africa dal 31 luglio al 10 agosto per illustrare le linee indicate dal presidente Barack Obama circa il rafforzamento dei rapporti con il continente nero. La prima tappa del viaggio sarà in Senegal, quindi Clinton sarà in Sud Sudan, Uganda, Kenya, Malawi e Sudafrica. Il Segretario di Stato incontrerà, oltre alle personalità a capo dei suddetti Paesi, anche Nelson Mandela e il presidente somalo Sheikh Sharif. Beniamino Franceschini [email protected]

La grande famiglia infelice

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Da Bucarest – La maggioranza attualmente al governo in Romania, guidata dal Primo Ministro Victor Ponta, ha fallito nel tentativo di destituire il Presidente Basescu tramite il referendum popolare indetto, in seguito alla mozione di impeachment, lo scorso 29 luglio. Mentre i due leader restano impegnati a contendersi lo scettro romeno, c’è già chi fa i conti con le inevitabili ripercussioni politiche ed economiche che la guerra intestina sta causando al Paese

 

LI AVEVAMO LASCIATI COSI’ – Ponta e Basescu: uno al comando, l’altro in sospeso, in attesa della sentenza popolare. Sebbene solo il giudizio dei cittadini romeni potesse stabilire le sorti di Basescu, nelle ultime tre settimane i due contendenti non sono certo rimasti con le mani in mano. La strategia di entrambi ruotava attorno alla capacità di assecondare o contrastare la scarsa affluenza alle urne che aveva già caratterizzato le ultime elezioni tenutesi in Romania. Ponta ha fatto di tutto per portare i romeni al voto; Basescu per tenerli lontani. Il Primo Ministro, leader della coalizione di centro-sinistra (USL), si è giocato tutte le sue carte in Parlamento cercando di modificare, ora con un decreto-legge ora con un’ordinanza d’urgenza, la legge sul referendum. Fallito l’iniziale tentativo di cambiare la regola del quorum, che avrebbe reso sufficiente la sola maggioranza dei partecipanti al voto e non più quella degli aventi diritto, l’USL non si è certo dato per vinto. Ulteriori sforzi hanno fatto seguito, passando dai tentativi di prolungare il periodo e l’orario di voto, all’approvazione di modifiche riguardanti i modelli dei verbali, i timbri e persino lo stato dei sigilli. Dall’altra parte, il Presidente Basescu ha lasciato che il proprio schieramento accusasse il centro-sinistra di brogli elettorali e nel tentativo di boicottare il referendum ha incoraggiato membri e simpatizzanti del partito (PDL) a disertare le urne ed astenersi dal voto.

 

THE POWER OF VOTE – Il Presidente americano Lyndon Johnson definì il voto il “più potente strumento mai ideato dall’uomo per abbattere le ingiustizie”: la scorsa domenica, solo il 45% dei romeni si è ricordato dell’importanza dell’esercizio di tale diritto recandosi alle urne. Neanche l’apertura di sezioni di voto negli hotel e ristoranti sulla costa del Mar Nero, voluta da Ponta come ultimo asso nella manica per portare alle urne i vacanzieri romeni è bastato per raggiungere il quorum. La Romania ha deciso: il conservatore Basescu deve restare. Eppure la guerra non è ancora finita e, nonostante le promesse di pace, i romeni già si interrogano su quali mosse i due condottieri e i loro rispettivi schieramenti politici abbiano in serbo per le elezioni parlamentari del prossimo novembre. Agli occhi del popolo romeno sembra che nessuno dei due leader, fin troppo concentrati sulla battaglia all’ultimo voto, si sia soffermato a valutare quanto l’impasse politica stia nuocendo al Paese. Le inevitabili ripercussioni economiche, e in particolare il deprezzamento del Leu, la moneta nazionale che nei giorni scorsi ha toccato il minimo storico nel cross con euro e dollaro, andranno ad affliggere ulteriormente le tasche dei già poveri risparmiatori romeni.

 

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LA RICERCA DELLA FELICITÀ – Implicazioni non solo economiche, ma anche politiche, che stanno paralizzando le attività di un Paese considerato di grande importanza strategica nello scacchiere europeo. Non a caso, gli Stati Uniti e l’UE hanno seguito con preoccupazione le ultime vicende politiche in Romania, tanto da spingere il Consiglio d’Europa a richiedere una valutazione della Commissione di Venezia sulle procedure adottate dal Parlamento romeno per la destituzione di Traian Basescu. L’importanza geopolitica del Paese è determinata dalla sua posizione strategica nel Mar Nero, che rappresenta agli occhi dei membri dell’Unione non solo una fondamentale zona di transito di risorse energetiche, ma anche una delle regioni di maggior rilievo per la stabilità e la sicurezza dell’area euro]atlantica. Se anche in politica vale il principio di Anna Karenina secondo cui tutte le famiglie felici si somigliano, mentre ogni famiglia infelice è infelice a modo suo, l’Unione Europea, ora impegnata nel disperato tentativo di salvare l’eurozona, non sembra mai stata così lontana dalla felicità. Per di più, nella “grande famiglia Europa” la Romania sembra essere la più infelice di tutte. I recenti eventi politici, la stanno allontanando sempre più dall’Unione, che continua a rinviare l’adesione del Paese all’area Schengen, a causa di alcuni stati membri che ritengono ancora prematura l’apertura delle proprie frontiere ai cittadini romeni. Ponta e Basescu tengono ora nelle loro mani il destino di uno stato che ha tutti gli elementi per diventare il pivot geopolitico della regione e, non meno fondamentale, tengono in pugno la felicità promessa al popolo romeno.

 

 

Guarda le foto dei volantini distribuiti in questi giorni a Bucarest

 

Ciao ciao madre Russia

Il 28 giugno l’Uzbekistan ha annunciato di avere sospeso la sua membership nell’Organizzazione del Trattato di Sicurezza Collettiva CSTO lamentando di non venire considerato nelle decisioni collettive e di non aver ottenuto i benefici previsti al momento dell’adesione. La mossa permetterà a Tashkent di muoversi più liberamente in un’Asia Centrale sempre più dinamica, dove alla storica influenza russa vanno sovrapponendosi gli insistenti interessi cinesi, la voglia di emergere di governi locali da sempre emarginati e un’attenzione crescente da parte degli USA, che necessitano di una via d’uscita dall’Afghanistan, magari a nord

CSTO E UZBEKISTAN – L’istituzione, che gode dello status di osservatore all’Assemblea Generale ONU ma non è riconosciuta né dagli stati europei e nordamericani né dalla NATO, nasce nel 1992 come alleanza militare tra gli stati dell’ex URSS (esclusa l’Ucraina) e nel 1999, per via dell’intenzione russa di trasformarla in una sorta di nuovo blocco alternativo all’Alleanza Atlantica, vede l’abbandono di Azerbaijan, Georgia ed Uzbekistan (una prima volta), paesi poco propensi ad intraprendere un nuovo progetto comune insieme a Mosca. Dopo l’uscita dei membri più “scomodi” la Russia rafforza l’alleanza formalizzando, nel 2002, un nuovo accordo prevedente, con riguardo alle attività militari, maggiore integrazione e cooperazione: nessun firmatario avrà più la facoltà di unirsi ad altre alleanze militari o gruppi di stati, ogni membro disporrà del potere di veto sulle deliberazioni comuni, l’attacco ad un membro sarà percepito come un attacco a tutti gli alleati, annualmente saranno tenute esercitazioni militari e antiterrorismo congiunte. Quattro anni dopo, in un’Asia Centrale percorsa dallo spirito rinnovatore della Rivoluzione dei Tulipani kirghisa, un Uzbekistan ai ferri corti con l’occidente dopo le feroci critiche alle pesanti repressioni di manifestanti nella regione di Andijon e la decisione di cacciare gli statunitensi dalla base militare aerea di Karshi-Khanabad, fondamentale avamposto per le loro operazioni in Afghanistan, decide di rientrare nella CSTO. La scelta è strategica, Tashkent non è interessata ai progetti militari comuni né tantomeno a delegare la propria difesa alla Russia, piuttosto l’organizzazione, soprattutto grazie al diritto di veto, sembra un perfetto strumento per prevenirsi da ingerenze esterne ed evitare pressioni. Così la storia della partecipazione uzbeka alla CSTO si risolve in una serie di veti non rispettati dalla Russia, di boicottaggi alle esercitazioni congiunte, di liti con gli altri membri e soprattutto con la Bielorussia di Aleksandr Lukashenko, che in più occasioni ha sottolineato chiaramente di non gradire tali atteggiamenti. Secondo gli analisti la CSTO attuale non è nulla più che una prova della volontà della Russia postcomunista di essere considerata leader di un blocco. Esattamente come era per il Patto di Varsavia l'impianto strutturale dell'organizzazione si risolve nella somma dei rapporti bilaterali tra Mosca e gli altri membri: solo la Russia, come il mozzo di una ruota a raggi, ha il privilegio di intrattenere rapporti bilaterali a livello militare con tutti i paesi firmatari del trattato. Questi, di contro, non possono intavolare dialoghi senza passare per il Cremlino e devono assecondarne le decisioni strategiche. A fine giugno, l'epilogo. L'Uzbekistan, prima potenza militare dell'Asia Centrale, collocato al centro di un area geografica sempre più cruciale dove molteplici interessi economici e militari si intrecciano e non più bisognoso della tutela di Mosca, si autosospende dall'organizzazione per avere maggiore libertà di movimento, anche alla luce dei possibili sviluppi in Afghanistan, di un costante ma prudente avvicinamento alla Cina, del raffreddamento dei rapporti con i suoi vicini.

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VECCHIE E NUOVE ALLEANZE – Dopo settant'anni di comunismo e sottomissione a Mosca e venti di autoritarismo e piena dipendenza economica dalla Federazione (che comunque fornisce ancora a Tashkent la quasi totalità degli equipaggiamenti militari, dell'energia e dei prodotti alimentari) l'Uzbekistan del Presidente Islam Karimov (foto sopra) sembra avere la timida intenzione di sottrarsi all'avvolgente abbraccio dell'ingombrante vicino ed iniziare a muovere i primi passi nel mondo globalizzato. Le trattative per l'ingresso nel WTO sono in corso e, con grande attenzione, si guarda ad est e a sud. Il dialogo economico e militare con la Cina, conditio sine qua non del quale è uno smarcamento dalla Russia, procede spedito e sempre si intensifica, anche grazie all'obbiettivo comune della lotta al fondamentalismo islamico, al proliferare di gasdotti e oleodotti che mirano a sottrarre a Mosca il monopolio del transito di materie prime nell'area e all'attività di una Shanghai Cooperation Organization che, pur annoverando tra i suoi membri anche la Russia, sembra essere sempre di più uno strumento di Pechino per consolidare gradualmente la propria presenza nella regione centrasiatica. Se in Kazakhstan e Kyrgyzstan, paesi in rapporti non idilliaci con l'Uzbekistan per via delle mai sopite tensioni etniche risalenti all'inspiegabile ripartizione territoriale tra RSS centrasiatiche decisa da Stalin negli anni '20, la Madre Russia, con i suoi progetti di integrazione militare ed economica (vedasi lo Spazio Economico Comune divenuto operativo il primo gennaio 2012), ha ancora una certa presa, l'Uzbekistan (e il Turkmenistan) sembrano essere dell'idea che il futuro sia altrove e in questi anni stanno lavorando per prevederlo e assecondarlo. Il futuro, oltre che nell'evoluzione dei rapporti con la Cina, sta negli sviluppi a sud. Gli USA hanno annunciato che nel 2014 si ritireranno da un Afghanistan dove gran parte dei nodi problematici sono rimasti insoluti e dove, come molti osservano, forte è la probabilità che, una volta venuto a mancare il controllo americano, i vuoti di potere vengano colmati da chi governava prima del 2001 e conserva ancora, dopo undici anni di conflitto, una forte influenza. Non avendo l'Afghanistan sbocchi marittimi e visti i rapporti difficili con il Pakistan e quelli impossibili con l'Iran il Pentagono sta valutando una possibile exit strategy a nord che permetta di raggiungere lentamente il Mar Nero. Sono da tempo in corso trattative tra USA e Uzbekistan per l'acquisto di equipaggiamento militare di Washington (non solo materiale ausiliario ma anche armamenti) come contropartita per il supporto di Tashkent alla logistica americana, trattative che la CSTO, emanazione di Mosca, non può contemplare e vieta. Vista poi l'eventualità di un nuovo periodo di instabilità in Afghanistan a cui la CSTO potrebbe reagire con un netto rafforzamento delle proprie prerogative (in grado di incidere sulla sovranità degli stati membri mediante una delega al Cremlino della gestione militare delle operazioni) appare verosimile che l'autosospensione uzbeka derivi anche dall'esigenza di anticipare possibili prese di posizione di Mosca per poi trovarsi con le "mani libere" al momento della crisi ed, eventualmente, affrontarla non da alleato della Russia ma al fianco di Pechino. Vittorio Maiorana [email protected]

L’Olimpiade e l’isola che non c’è

Ormai poche ore ci dividono dalla XXX edizione dei Giochi Olimpici. Gli occhi del pianeta si concentrano su Londra, unica città ad ospitare ben tre edizioni della manifestazione sportiva più importante. Mentre Buckingham Palace apre i cancelli ai Capi di Stato, Londra spalanca le braccia al mondo. Prepariamoci a vivere 17 giorni di sport ed emozioni. E di politica

3 VOLTE LONDRA – Era il 1908. La Sfarzosa Londra vittoriana, all’epoca crocevia dell’economia e del commercio, ospitava la quarta edizione dei Giochi Olimpici moderni. Si tirava ancora la fune, si saltava senza rincorsa, la pallacorda rappresentava la normalità. Preistoria sportiva. L’Inghilterra del sovrano Edoardo VII, all’epoca unica potenza di caratura globale, assisteva alla rinascita degli irredentismi in un’Europa proiettata verso la devastazione dei conflitti mondiali. L’intera rassegna costò 60mila sterline, veniva definita austera. Preistoria economica. Incubatrice di nazionalismi, quell’Olimpiade fu comunque capace di rappresentare una realtà in evoluzione: nel decennio degli irredentismi, per la prima volta sfilarono le bandiere delle nazioni partecipanti. Sui quotidiani, ieri come oggi, si parlava di Siria, sorta da poco e partecipante per la prima volta alla rassegna. Ad un secolo di distanza, ben altri sono i motivi che portano la Siria sulle prime pagine di tutto il mondo. L’OLIMPIADE DELL’AUSTERITÀ – All’Olimpiade austera di inizio secolo fece eco quella del 1948. Ancora Londra, una città in transizione, emblema di un impero in ritirata, capitale di uno Stato potente e vittorioso ma piagato dalla distruzione della guerra. L’Europa usciva a pezzi, e divisa, dalla stagione bellica e nel Regno Unito il governo laburista di Clement Attlee, succeduto a Winston Churchill, si vedeva costretto a distribuire le tessere del razionamento alimentare. Tra l’indifferenza delle persone, cos’è una medaglia rispetto al cibo, quella londinese fu comunque l’Olimpiade della speranza e dell’orgoglio. Parsimoniosa (costò appena 750mila sterline, 20 milioni al cambio di oggi) e allo stesso tempo ambiziosa, la prima edizione dell’era bipolare covò il sogno di un mondo di pace. Fu questo il messaggio assegnato ai 6 mila piccioni viaggiatori protagonisti della cerimonia inaugurale, culminata nelle parole di re Giorgio VI, non più timoroso di parlare dinanzi al grande pubblico, che dichiaravano aperti i giochi. NUOVI EQUILIBRI, NUOVE GERARCHIE – Toccherà alla regina Elisabetta II, questa sera, pronunciare la fatidica formula quando Sebastian Coe, presidente del Comitato organizzatore dei Giochi di Londra 2012, le darà la parola. Cosi come fece il padre nel 1948, e ancor prima il nonno nel 1908, la regina dichiarerà ufficialmente aperta la XXX edizione della rassegna olimpica. Quando accadrà, il mondo sarà già sfilato sotto i suoi occhi, pronto ad essere ridisegnato. A questo servono i Giochi, a ridisegnare gli equilibri e i confini, a rivoluzionare le gerarchie. La natura ha fatto gli uomini così uguali nelle facoltà del corpo e della mente che il più debole ha forza sufficiente per sconfiggere il più forte. Se ciò è vero, tale assunto nello sport assume il rango di legge. Cosi capita che un velocista di un’isola caraibica si faccia beffe delle grandi potenze. Prova a prendermi se ci riesci. Avere una moneta forte in pista non conta. Lo sport ha altri padroni. Nuove gerarchie. Chissà se le palestre londinesi confermeranno le teorie di coloro i quali sostengono che il secolo in corso sarà il secolo cinese. Se ad Atene e Pechino gli Stati Uniti vagliarono le credenziali di peer competitor della potenza sportiva cinese, a Londra cercheranno di ristabilire il loro ruolo egemonico, ben consci che la sfida allo Zio Sam è stata già lanciata. Se politicamente il baricentro strategico statunitense ha tempo per perpetuare la traslazione verso l’Asia, come preannunciato dalla strategic-guidance emessa dal pentagono nel 2012, sportivamente il dragone rappresenta un avversario reale. Non bastano ricchezze e risorse, ai giochi il terzo mondo si prende belle rivincite. I giganti spesso hanno i piedi di argilla. L’OLIMPIADE AI TEMPI DELLO SPREAD – Anche i più forti hanno paura di perdere. Così, mentre i Capi di Stato si concentrano su Londra, capita che la quarta economia mondiale (fosse una competizione olimpica non sarebbe da medaglia), quella tedesca, si interroghi sul futuro. “Anche noi rischiamo il contagio. Che la cancelliera agisca in fretta”. Il monito giunge da Wolfgang Franz, presidente del Consiglio dei Cinque Saggi, massimo organo di consulenza economica per il governo tedesco. La Grecia, che 2800 anni fa trascinò il mondo nell’utopia olimpica e che, come da tradizione, questa sera guiderà il corteo degli atleti, rischia ora di trascinare l’Europa nel baratro. L’Europa appunto, in quanto entità politica, sarà la grande assente a Londra 2012. Non sfilerà tra poche ore sulla pista dello Stadio Olimpico, ora che è il cerchio debole del mondo. Dura la vita olimpica ai tempi del tanto temuto spread e della speculazione finanziaria. Lo sa bene la Gran Bretagna, la padrona di casa. I dati sono impietosi: recessione. Per il secondo trimestre consecutivo, il Regno Unito ha registrato una crescita negativa del PIL, confermando che la vigilia olimpica rappresenta il periodo più buio degli ultimi 50 anni. 

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LE ISOLE DELLA MERAVIGLIA – Se nel 2008 la maestosa cerimonia d’apertura della rassegna del dragone (furono investiti complessivamente 40 miliardi di dollari) sublimò l’arrembante avanzata di un capitalismo senza frontiere, la cerimonia che questa sera darà il via alla kermesse londinese è figlia della crisi. 27 milioni di sterline, questo il costo della cerimonia diretta dal regista Danny Boyle. L’evento avrà inizio con il suono della campana più grande d’Europa, costruita dalla fonderia Whitechapel. E poi, via con il ripasso di storia. Lo Stadio Olimpico prenderà la forma della campagna inglese. Il Regno Unito, del resto, nostalgico per cultura, ama il proprio passato e non vuole dimenticare le origini. Verranno omaggiati la “creatività e il genio” del popolo britannico, rammentando che sino all’edizione del 1948, fu Londra la capitale del mondo. Rapido viaggio nel XVIII secolo: siamo stati noi i primi protagonisti della rivoluzione industriale. Ma le Olimpiadi sono la dimora dei sogni. Basta con la storia, divertiamoci. Secondo il Sunday Times, il regista di Trainspotting attingerà ai tradizionali personaggi che da generazioni popolano il mondo della letteratura per bambini. Da Mary Poppins ad Harry Potter, da Capitano Uncino a Peter Pan. La Londra olimpica vola all’isola che non c’è. Del resto le Olimpiadi raccontano l’impossibile. REDIMERE IL PASSATO – Quelle di Londra racconteranno, ne siamo certi, storie meravigliose. Lo faranno a partire da questa sera. Tutto è pronto per la parata degli atleti. Le nazioni si preparano a mostrare il loro lato nuovo, migliore. Quale palcoscenico potrebbe dare al Sudafrica, un tempo ultima nella classifica dei diritti civili, la possibilità di redimere definitivamente le nefandezze del passato facendo correre un uomo con doppia protesi (Oscar Pistorius) e concedendo l’onore di portare la propria bandiera ad un ermafrodita (Caster Semenya), se non l’Olimpiade. Si, Robben Island appartiene al passato. Eppure qualcosa manca. DI OLIMPIADI SI MUORE – L’Olimpiade ha memoria, ma non il tempo per ricordare. Salvo grosse sorprese, non verranno ricordati gli 11 atleti israeliani che 40 anni or sono persero la vita (foto sopra) a causa dell’attentato terroristico dei fedayn di Settembre nero. Jacques Rogge, presidente del Comitato Olimpico, ha opposto un incontrovertibile veto alle richieste israeliane. Nemmeno l’intervento di Hilary Clinton, desiderosa di un “appropriato evento commemorativo”, ha smosso la situazione. Eppure quei morti ancora smuovono le coscienze. In quella notte, sepolta da quarant’anni di eventi, i giochi persero innocenza, sacralità. La stessa innocenza che Danny Boyle proporrà al mondo questa sera. Londra conosce bene la strada per l’isola che non c’è. La stessa isola in cui da 2800 anni alberga il sogno olimpico. È il luogo dei sogni, l’Olimpiade. Tutto diventa possibile, anche correre 100 metri in 9 secondi 58 centesimi. Un‘isola in cui una piccola ginnasta rumena ha la possibilità di sfidare le leggi della fisica e prendersi gioco della tecnologia, impreparata a cogliere la sua perfezione. Il tutto accadrà mentre la Siria esplode, la moneta unica traballa e la speculazione finanziaria impazza. Che dire, non ci resta che sedere in poltrona e goderci lo spettacolo, sperando che i potenti della terra, finita la cerimonia, non restino a divertirsi con Capitan Uncino e compagnia. Saremo 4 miliardi questa sera, tutti catturati dallo spettacolo imbastito dal premio Oscar Danny Boyle, impazienti che la regina Elisabetta II pronunci la fatidica formula: che abbia inizio la XXX edizione dei Giochi Olimpici. La storia olimpica ci ha insegnato che anche nelle palestre si può scrivere il futuro. Gustiamoci lo show. Simone Grassi [email protected]

Parole, fatti e volti nuovi

Il Mali chiede alla Corte penale internazionale un’indagine sui crimini commessi nell’Azawad, dove, nel frattempo, gli islamisti di Monoteismo e Jihad per l’Africa occidentale stanno sostituendo tuareg e Ansar Dine. Lungo il corso del Niger, infine, è arrivato il colera. Nkosazana Dlamini-Zuma, sudafricana, è la nuova Presidente della Commissione dell’Unione Africana. Salva Kiir e Omar al-Bashir si sono incontrati ad Addis Abeba, mentre in Sudan continuano le proteste contro l’austerità. La Somalia saluta con orgoglio i due atleti in partenza per le Olimpiadi, e negli stessi giorni si approva la bozza di Costituzione. E poi armi, foreste e AIDS

 

IL MALI SI RIVOLGE ALL’AIA – Il Governo di Bamako si è rivolto alla Corte penale internazionale per sollecitare il procuratore, la gambiana Fatou Bensouda, a investigare in merito a eventuali violazioni del diritto internazionale nell’autoproclamatosi Azawad. La delegazione del Mali, guidata dal ministro della Giustizia, Malick Coulibaly, ha confermato la richiesta del Gruppo di Contatto dell’ECOWAS, avanzata nelle scorse settimane. Da parte sua, il procuratore ha comunicato «di aver già avvertito, il 24 aprile, tutte le parti in causa circa la giurisdizione della Corte penale internazionale, in seguito alle notizie di uccisioni, rapimenti, stupri e arruolamento di bambini» e di aver «sottolineato il 1° luglio che la distruzione deliberata dei mausolei dei santi musulmani a Timbuctu possa costituire un crimine di guerra come da art. 8 dello Statuto di Roma». La decisione di Bensouda, comunque, non sarà resa pubblica prima di qualche giorno. Nel frattempo, nell’Azawad continuano gli scontri episodici tra tuareg e gruppi islamisti, con Monoteismo e Jihad per l’Africa occidentale che sta progressivamente sostituendo la presenza di Ansar Dine in molti centri abitati, tra i quali Gao. Sembrerebbe aver subito un momentaneo arresto, invece, la distruzione di edifici storici, monumenti e manoscritti, sebbene sia opportuno precisare che non si hanno informazioni accurate riguardo alla situazione nelle zone più periferiche. Un nuovo allarme, tuttavia, sta sorgendo sul piano sanitario, poiché da una decina di giorni, il Mali del nord è colpito da una dura epidemia di colera, che ha già causato 56 morti, soprattutto lungo il corso del fiume Niger. L’UNICEF ha disposto l’invio di 20mila kit per la purificazione dell’acqua.

 

UNA DONNA ALLA GUIDA DELL’UANkosazana Dlamini-Zuma (foto sopra) è la nuova presidente della Commissione dell’Unione Africana. Prima donna a ricoprire tale incarico, Dlamini-Zuma dal 2009 è ministro degli Interni del Sudafrica, ma, in precedenza, aveva occupato il dicastero alla Salute (1994-1999) e quegli agli Esteri (1999-2009). La sua elezione giunge al termine di un lungo periodo di stallo, durante il quale l’altro candidato, nonché Presidente uscente della Commissione, Jean Ping, aveva tentato di assicurarsi un ulteriore mandato. Inoltre, prescindendo dall’assenza durante la votazione del nigeriano Jonathan Goodluck (rimasto ad Abuja per motivi di sicurezza interna) e dell’etiope Meles Zenawi, il successo di Dlamini-Zuma non era del tutto scontato, poiché molti avversavano l’affidamento dell’incarico a un rappresentante del Sudafrica, Paese che, secondo la prassi – a dire il vero interrotta, qualche anno fa, da Gheddafi – avrebbe dovuto astenersi dalla competizione perché, così come Algeria, Egitto, Etiopia e Nigeria, troppo influente. In passato, Dlamini-Zuma è stata moglie del presidente sudafricano, Jacob Zuma.

 

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INCONTRO TRA AL-BASHIR E KIIR – La scadenza dei termini imposti dalla roadmap dell’ONU a Juba e Khartoum si avvicina sempre più, poiché al 2 agosto mancano meno di quindici giorni. Sabato scorso, per la prima volta dall’inizio delle negoziazioni di Addis Abeba, Salva Kiir e Omar al-Bashir si sono incontrati direttamente, parlando riservatamente per oltre un’ora. Durante l’incontro, il presidente sudsudanese avrebbe offerto all’omologo del nord il proprio sostegno per la risoluzione dei conflitti negli Stati del Kordofan meridionale e del Nilo blu, chiedendo, in cambio, la sistemazione delle controversie legate al transito del petrolio verso Port Sudan. Inoltre, Salva Kiir avrebbe proposto ad al-Bashir sia un consistente aiuto finanziario per alleggerire la crisi economica di Khartoum, sia i propri buoni uffici per una mediazione in Darfur. Nonostante le prime indiscrezioni, sembrerebbe, però, che il presidente del Sudan si sia rifiutato di accettare l’accordo sul petrolio, restando inamovibile circa la tassa di $32 per ogni barile trasportato dal sud verso il nord. La proposta di Kiir, basata su un trattato tra Ciad e Camerun, prevedeva un dazio tra 70 centesimi e un dollaro al barile. Al di là del clima positivo che ha circondato l’incontro, tra i due Presidenti non si è arrivati, probabilmente, ad alcuna concreta soluzione, stanti da un lato la volontà di Khartoum a mantenere «la priorità riguardo alle questioni di sicurezza», dall’altro la decisione di Juba a voler risolvere subito le controversie sul petrolio. Tuttavia, la circostanza di un colloquio diretto tra i due Capi di Stato mostra che entrambi abbiano compreso che giungere alla scadenza dei termini imposti dall’ONU senza risultati avrebbe solo effetti negativi.

 

AVVOCATI ARRESTATI IN SUDAN – Continuano le proteste in Sudan. Dopo la repressione dei primi giorni di luglio, riguardo alla quale Unione Africana, ONU e USA hanno chiesto informazioni, lunedì scorso sono scesi in piazza gli avvocati, i quali, a Nyala, hanno organizzato una serie di manifestazioni. Il giorno dopo, una loro rappresentanza ha incontrato alcuni membri del Governo del Darfur meridionale, presentando una petizione nella quale si chiedeva ad al-Bashir di interrompere il controllo violento del dissenso. Il confronto è stato piuttosto teso e, al termine, tre avvocati sono stati arrestati con l’accusa di incitamento alla rivolta. Le proteste in Sudan durano ormai, nella fase più acuta, da più di un mese e sono state causate dalle misure di austerità imposte dal Governo per far fronte alla crisi economica.

 

VERSO LA NUOVA SOMALIA – In linea con i tempi previsti, gli anziani delle tribù somale hanno valutato la bozza costituzionale, che adesso dovrà essere approvata da un’assemblea composta da 825 membri nominati dagli stessi elders. Nonostante la discussione abbia occupato diversi giorni, secondo la stampa non ci sarebbero state modifiche sostanziali al documento, ma l’incertezza deriva dall’impossibilità di poter ancora visionare il progetto costituzionale come approvato dagli anziani. Nessuna data è stata indicata per la convocazione della Costituente.

 

MAURITIUS PIAZZA DEL CONTRABBANDO DI ARMI – Secondo la ong Conflict Awareness Project, le Isole Mauritius sarebbero un nodo logistico per il traffico illegale di armi. Il contrabbando sarebbe condotto da personaggi provenienti dalla Russia e già noti in molti Paesi. Tuttavia, secondo la direttrice dell’Organizzazione, Kathi Lynn Austin, il commercio vedrebbe implicate anche società europee e statunitensi, le quali trarrebbero vantaggio dalla vendita di armi e sistemi informatici a canali altrimenti preclusi. La merce, dalle Isole Mauritius, sarebbe poi diretta verso Iran, Repubblica democratica del Congo, Somalia, Sudan e, forse, Siria.

 

LA DIFESA DELLE FORESTE CENTRAFRICANE – Repubblica democratica del Congo, Repubblica del Congo e Repubblica centrafricana hanno stretto un accordo con la Francia per un progetto che prevede l’impiego di immagini satellitari al fine di controllare l’estensione delle foreste. Recentemente, anche il Camerun, Paese che vanta la seconda foresta africana, si è unito al gruppo, cosicché l’area coperta dall’iniziativa sarà prossima ai 330 milioni di ettari. La necessità di Yaoundé è limitare la riduzione della superficie verde, già diminuita del 18% tra il 1990 e il 2010. Il costo totale del progetto sarà di 233 milioni di dollari e parte dei servizi sarà fornita dalla Astrium Services.

 

LA SOMALIA ALLE OLIMPIADI – Il futuro della Somalia passa anche dallo sport: i due atleti che rappresenteranno Mogadiscio alle Olimpiadi, infatti, sono arrivati a Londra dopo essere stati salutati alla partenza con affetto e commozione. Entrambi gareggeranno in discipline di atletica leggera, poiché la giovane Zamzam Mohamed Farah correrà i 400 m donne, mentre Mohamed Hassan Mohamed Tayow affronterà la prova dei 1.500 m uomini.

 

Beniamino Franceschini