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Georgia… on Putin’s mind

All’indomani dalle elezioni legislative, la Georgia si sveglia con uno scenario politico totalmente mutato: a vincere è l’opposizione, con il miliardario Bidzina Ivanishvili, leader della coalizione Sogno georgiano, oligarca di metalli e banche. Il suo è un tentativo politico alla catch – all party, desideroso di mantener buoni rapporti con la Nato e l’Ue, ma volenteroso anche di stringere rapporti costruttivi con la Russia. A Tbilisi si apre così lo scenario di una difficile coabitazione in un paese che prova ancora a darsi un tocco semipresidenzialista e democratico: il presidente Saakashvili non ha ammesso la sconfitta, e ora si trova schiacciato tra la scelta dell’elettorato e la Russia di Putin che, già nel 2008, aveva promesso “di appenderlo per i testicoli”

 

IL RIVOLUZIONARIO E IL MILIARDARIO – Misha contro Bidzina: sono loro i due candidati per le prossime elezioni presidenziali, a combattersi a colpi di exit poll. Il primo ha accompagnato lo stato georgiano in uno dei periodi forse più difficili della storia del paese, quello successivo alla Rivoluzione delle Rose. Il secondo non ha un passato politico alle sue spalle, ma si distingue per essere un miliardario filantropo, che alleva pavoni, zebre e pinguini, oltre ad essere conosciuto per essere stato citato dalla rivista Forbes. La sua propaganda ricorda molto le conventions dei candidati alle elezioni presidenziali americane: Kakha Kaladze, ex difensore del Milan, è stato infatti arruolato per la campagna elettorale. Uno scontro dal risultato incerto, che vive all’ombra della riforma costituzionale programmata per il 2013, allo scadere del secondo e ultimo mandato di Saakashvili, e che vedrà parte dei poteri presidenziali passare al primo ministro nominato dal Parlamento.

 

LO SCANDALO DELLE TORTURE – L’ultima campagna elettorale è stata infiammata dall’ondata di sdegno per i video di torture in carcere trasmesse, nel mese di settembre, da alcune emittenti televisive vicine ai partiti dell’opposizione. Immagini agghiaccianti, che ritraggono stupri perpetrati con scope e manganelli da parte della polizia, e torture sui detenuti. L’opinione pubblica era già scesa in piazza chiedendo le dimissioni del ministro a capo delle istituzioni penitenziarie. Misha aveva promesso che tutti i colpevoli sarebbero stati condannati, ma ad adesso solo 10 sono le persone arrestate. Saakashvili non è nuovo a scandali del genere, ed è stato più volte attaccato per questioni legate ai diritti umani e civili. Due mezzi di informazione con sede nella Federazione Russa, inoltre, hanno pubblicato alcuni articoli che denuncerebbero la dipendenza di Saakashvili dall’uso di droga.

 

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E LA RUSSIA? – Mosca spera, con la probabile vittoria di Sogno georgiano, di avere finalmente un alleato nella tormentata regione del Caucaso: risolverebbe così diversi problemi, da quelli legati alle spinte indipendentiste, a quelli connessi al trasporto del gas proveniente del Mar Caspio, a cui la Turchia ha già puntato per raggiungere il suo obiettivo di divenire l’indiscussa potenza regionale. Il Cremlino ha commentato il risultato elettorale affermando che la popolazione georgiana “desidera un rapporto più costruttivo con la Russia”. Dal canto suo Ivanishvili non sceglie: piuttosto dice di voler conservare buoni rapporti con tutti. In piazza, invece, durante la notte elettorale, sventolavano le bandiere blu del Sogno georgiano a ritmo delle canzoni dell’arrabbiato rapper 17enne figlio di Ivanishvili.

 

Colpi di avvertimento

Dopo i fatti di ieri, con un colpo dell’artiglieria siriana che ha ucciso cinque persone nei confini turchi, il Parlamento di Ankara, su sollecitazione dell’esercito, ha approvato a maggioranza assoluta (320 contro 129) una mozione che permette alle Forze Armate di compiere per un anno azioni oltre la frontiera in difesa della sicurezza nazionale. I vertici turchi, comunque, hanno specificato agli alleati della NATO che la misura non rappresenti una dichiarazione di guerra contro Damasco. «La crisi in Siria, – si legge nel documento – mina la stabilità e la sicurezza nella regione, ma adesso la crescente ostilità riguarda direttamente la nostra sicurezza nazionale» (fonte: Anatolian News Agency)

 

LE MISURE D’EMERGENZA TURCHE – Il Parlamento di Ankara, al termine di una seduta a porte chiuse, ha approvato, con i voti favorevoli dell’AKP del premier Recep Tayyip Erdogan e dell’MHP, il secondo partito di opposizione, una mozione che permetto alle Forze Armate di compiere azioni nei confini siriani per la difesa della sicurezza nazionale. La misura è stata assunta dopo che, ieri, un colpo di mortaio proveniente dalla Siria ha ucciso cinque persone in territorio turco. Tuttora non è chiaro se il proiettile sia stato esploso dalle forze regolari di Damasco o dagli insorti, ma, secondo i vertici militari turchi, la responsabilità sarebbe da attribuirsi all’esercito siriano. Per risposta, Ankara ha ordinato il bombardamento terrestre di alcune postazioni oltre confine: secondo alcune testimonianze, l’artiglieria turca avrebbe fatto fuoco almeno dieci volte tra la mezzanotte e l’alba, colpendo le zone intorno alla cittadina di Tel Abyad, a poco più di cinque chilometri dalla frontiera (nella foto sotto: rifugiati che attraversano il confine tra Turchia e Siria) e causando, probabilmente, la morte di alcuni soldati siriani. Il presidente al-Bashir ha inviato le proprie condoglianze a Erdogan, ma il governo turco ha negato che «le parole di una dittatura che uccide i propri cittadini possano avere un significato».

 

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LE REAZIONI ALL’ESTERO – Ankara, inoltre, ha chiesto una riunione urgente della NATO affinché siano riviste le regole d’ingaggio e le autorizzazioni all’uso della forza per la difesa dei confini nazionali, già modificate dopo l’abbattimento di un proprio aereo nel giugno scorso. Secondo alcune fonti, il ministro degli Esteri, Ahmet Davutoglu, avrebbe anche consultato l’inviato in Siria di Nazioni Unite e Lega Araba, Lakhdar Brahimi, nonché il segretario generale Ban Ki-Moon in merito alla legittimità della reazione. Sarebbero pertanto da leggersi alla luce di tali colloqui le parole pronunciate, secondo la “Anatolian News Agency”, da Erdogan circa l’impiego di strumentazioni per l’individuazione di obiettivi da colpire «in base alle regole d’ingaggio». Riguardo alla vicenda, il ministro degli Esteri britannico, William Hague, e il segretario di Stato USA, Hillary Clinton, sono stati concordi nel definire «oltraggioso» quanto accaduto ieri alla Turchia, pur richiamando le parti in causa a non esasperare la tensione. Dello stesso avviso è stata Catherine Ashton, alto rappresentante dell’Unione Europea, mentre la NATO ha dichiarato il proprio sostegno all’alleato turco, chiedendo la cessazione di ogni ostilità nei suoi confronti e sollecitando la Siria a porre fine alle gravi violazioni del diritto internazionale.

 

RAID IN DIFESA DELLA SICUREZZA NAZIONALE – Secondo la mozione approvata dal Parlamento turco, l’esercito e l’aviazione potranno agire oltre confine per la difesa del Paese, poiché, come si legge nel documento, «la crisi in Siria mina la stabilità e la sicurezza nella regione, ma adesso la crescente ostilità riguarda direttamente la sicurezza nazionale della Turchia». Ankara, comunque, ha specificato che quanto deciso non sia da intendersi quale dichiarazione di guerra contro Damasco.

 

Beniamino Franceschini

[email protected]

L’Unione (Africana)… fa la forza

Le truppe dell’Unione Africana sconfiggono al-Shabaab a Chisimaio, ma, negli stessi giorni, gli islamisti colpiscono una chiesa a Nairobi. Il Consiglio di Sicurezza affronta la questione del Mali, mentre Bamako acconsente a un’eventuale presenza militare nel Paese. In Sudan torna la violenza del conflitto tra gli insorti del Darfur e il Governo di Khartoum. In Senegal, Sall abolisce il Senato per risparmiare fondi da destinare agli alluvionati. Mugabe annuncia le elezioni nel marzo 2013

LA RICONQUISTA DI CHISIMAIO – Le forze dell’Unione Africana sono riuscite a espugnare Chisimaio, roccaforte delle milizie di al-Shabaab. L’attacco decisivo è stato lanciato tra giovedì 26 e venerdì 27 settembre ed è durato quasi un giorno intero. Comunque, secondo alcune testimonianze, nella periferia resterebbero ancora sacche di resistenza, mentre la popolazione avrebbe preso d’assalto gli edifici prima occupati dagli islamisti in cerca di beni e armi. A guidare l’offensiva sono state le truppe keniote, che hanno dovuto fronteggiare le strenue difese degli uomini di al-Shabaab, ben coperti da strutture approntate allo scopo e dotati persino di contraerea. Il 1° ottobre, però, fonti ufficiali dell’esercito somalo hanno dichiarato ufficialmente che Chisimaio sia stata liberata, descrivendo alcune fasi dell’operazione. Le truppe dell’Unione Africana e della Somalia hanno attaccato la città col sostegno di artiglieria (anche navale), mezzi corazzati e aviazione da due direzioni, senza incontrare da principio alcuna resistenza. I militari kenioti, tuttavia, continuano a mantenere la prudenza, poiché, da un lato i sobborghi di Chisimaio non sono ancora sotto controllo, dall’altro la ritirata degli islamisti è stata talmente rapida da destare i sospetti di un imminente contrattacco. In proposito, il 2 ottobre, un ordigno è esploso nei pressi del comando della missione AMISOM nella città.

UN IMMINENTE INTERVENTO IN MALI? – La discussione circa l’invio di una missione internazionale a sostegno del governo maliano potrebbe aver subìto un impulso decisivo. La scorsa settimana, infatti, Bamako ha acconsentito alla presenza di truppe straniere sul proprio territorio, interrompendo dunque l’atteggiamento di chiusura ispirato, soprattutto, da Amadou Sanogo, il capo dei militari golpisti. Pochi giorni dopo, il Consiglio di Sicurezza dell’ONU ha cominciato a trattare diffusamente la possibilità di attuare un’operazione internazionale, ipotesi sostenuta in particolar modo dalla Francia e dagli Stati Uniti, sebbene con posizioni diverse. Infatti, mentre Parigi propende per l’intervento armato, Washington preferisce, come comunicato da Hillary Clinton, «la nomina di un inviato delle Nazioni Unite con l’incarico di condurre uno sforzo comune sul Mali e di creare un gruppo diplomatico di contatto». I punti di vista dei vertici africani restano ancora discordanti, considerato anche che nel Consiglio di Sicurezza siedono Marocco e Sudafrica, due Paesi piuttosto peculiari nel sistema relazionale del continente nero. Nel frattempo, un rapporto redatto dall’ong International Crisis Group, ha lanciato un preciso allarme sulla situazione in Mali, evidenziando che, stante l’immobilità internazionale e le ambiguità di Bamako, «tutti gli scenari sono ancora possibili, da un nuovo colpo di Stato militare, fino alla rivolta nella capitale, eventi che potrebbero compromettere il percorso istituzionale di transizione e creare il caos totale, a vantaggio dell’estremismo religioso e del terrorismo nel Paese e oltre i confini».

RIPRENDONO GLI SCONTRI TRA RIBELLI DEL DARFUR E SUDAN – Il Sudan Liberation Movement – Abdul Wahid (SLM-AW) ha comunicato che i propri miliziani hanno ucciso in uno scontro a fuoco ventidue soldati delle forze regolari sudanesi. Secondo quanto riportato, gli insorti avrebbero attaccato il 1° ottobre un convoglio governativo in viaggio dal Kordofan Settentrionale al Darfur del Nord, più precisamente tra Ribeige e Al-Aiyd Jaranebi. L’episodio si inserisce nella ripresa della violenza tra i ribelli e il Governo di Khartoum: già giovedì 27 settembre, il Sudan Liberation Movement – Minni Minnawi (SLM-MM) e il Justice and Equality Movement (JEM) annunciarono di aver preso d’assalto oltre 160 camion dell’esercito che trasportavano armi e carburante in Darfur. Il Governatore della regione e le Forze Armate hanno confermato l’accaduto, pur specificando che il convoglio non fosse militare, bensì civile, mentre il portavoce dell’SLM-MM ha indicato che la colonna stesse trasportando equipaggiamento per le truppe sudanesi nel Sud Darfur. Il giorno dopo, il “Sudan Tribune” ha riportato le dichiarazioni di alcuni testimoni in merito a una strage di 87 persone che i Janjawid, gruppi paramilitari collegati al Governo, avrebbero compiuto tra il 25 e il 27 settembre nel Darfur Settentrionale, bruciando e saccheggiando almeno tre villaggi. Il 30 settembre, infine, fonti ufficiali dello Stato del Darfur del Sud hanno comunicato l’uccisione di 70 membri del Sudan Revolutionary Front (SRF) in scontri che sono costati la vita anche a 12 militari regolari. Tuttavia, la controparte ha replicato rivendicando la morte di 84 soldati governativi.

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BOMBA IN UNA CHIESA A NAIROBI – Ancora sangue sui cristiani africani: domenica 30 settembre, una bomba è esplosa durante una funzione religiosa a Nairobi, causando la morte di un bambino e il ferimento di altre nove persone. Secondo le prime informazioni, l’attentato potrebbe essere stato organizzato dai miliziani di al-Shabaab, già più volte autori di attacchi terroristici nella capitale del Kenya.

SENEGAL: SALL ABOLISCE IL SENATO – Nelle ultime settimane, il Senegal ha subito una serie di terribili inondazioni, tra le peggiori della propria storia. Il bilancio finale è stato di 13 morti e decine di migliaia di sfollati, senza contare i danni alle infrastrutture e all’economia. Il Presidente senegalese ha assunto una decisione destinata a sollevare vaste polemiche: adducendo la necessità di recuperare in tempi rapidissimi i fondi necessari alla ricostruzione, Macky Sall ha abolito il Senato, per un risparmio totale di 16 milioni di dollari. La misura è stata già approvata dall’Assemblea Nazionale e adesso dovrà essere sottoposta al voto dei diretti interessati, ma, in caso di respingimento da parte della Camera alta, il provvedimento sarà discusso in seduta plenaria e Sall avrebbe nuovamente la maggioranza. Gli oppositori sostengono che il Presidente abbia agito solo per garantirsi un potere più ampio, poiché la coalizione di governo domina l’Assemblea Nazionale, ma è minoritaria in Senato. Come ha scritto recentemente Simon Allison sul “Daily Maverick” (Senegal Abolishes Senate – Selfless Gesture or Selfish Politicking?), «per il momento, concediamo a Sall il beneficio del dubbio».

IN ZIMBABWE SI VOTERÀ A MARZO – Robert Mugabe ha affermato che le elezioni potrebbero svolgersi nel marzo 2013. Il dibattito che si è scatenato attorno alla necessità di allentare il controllo politico nello Zimbabwe potrebbe aver condotto a una prima certezza. Dopo due anni di contrattazioni, alcune condizioni imposte dalla Southern African Development Community sembrano sul punto di essere realizzate, considerato che già è stato formato un governo di unità nazionale. Tuttavia, i più importanti obiettivi della roadmap per la democratizzazione del Paese sono ancora molto lontani, tant’è che, da più parti, si è sollevato l’allarme circa l’eventualità che le prossime consultazioni possano essere di nuovo condizionate dai brogli e dalle violenze del 2008. Per esempio, la mancata riforma del diritto penale consente ancora la violazione di alcuni diritti umani e la persecuzione di giornalisti e oppositori politici, spesso accusati di «insulto o indebolimento dell’autorità del Presidente».

Beniamino Franceschini [email protected]

Tra presente e futuro (I)

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La Russia di Putin affila le unghie per riaffermare la sua potenza economica e geopolitica attraverso la costituzione dell'Unione eurasiatica. Sebbene primi passi siano stati compiuti rimangono annose questioni da risolvere. In questa prima parte l'analisi dello scenario attuale: quali nazioni appoggiano l'integrazione e perché

MINSK CAPOLISTA – La Bielorussia è stata la prima, insieme al Kazakistan, ad appoggiare il progetto del Cremlino aderendo nel 2010 all'unione doganale, primo tassello per la costituzione dell'Unione eurasiatica. Minsk e Mosca sono legate storicamente da forti legami culturali ma anche politici, economici e militari che rendono improbabile uno spostamento ad ovest della Bielorussia. La sua economia, basata principalmente sull'export delle delle risorse energetiche, rimane indissolubilmente legata alla Russia, fonte d'approvvigionamento di gas e petrolio e proprietaria della Beltransgaz, gestore dei gasdotti bielorussi.

Ma i fili che si dipanano da Mosca sono molteplici. Una comune identità culturale, caratterizzata dall'appartenenza linguistica e dalla presenza nel Paese di una consistente minoranza russa. Una comune strategia di difesa e sicurezza, resa possibile dall'adesione di Minsk alla Csto – alleanza militare su modello Nato tra repubbliche ex sovietiche – dalla presenza su territorio bielorusso di installazioni militari russe e dalla collaborazione tra gli organismi di intelligence. Questi i fili che creano ancora una volta un cordone ombelicale difficile da spezzare. Inoltre, a rafforzare i legami sull'asse Mosca-Minsk, già ben saldi, ha giocato un ruolo decisivo l'isolamento politico praticato dall'Ue contro la dittatura di Lukashenko che, visiti i risultati delle elezioni parlamentari dello scorso 23 settembre, rimane fermamente ancorato al suo potere, conquistando in parlamento 109 seggi su 110. L'ostilità da parte dell'Ue non ha fatto altro che favorire l'influenza del Cremlino, rendendo praticabile per Minsk l'unica strada accessibile, quella verso Mosca.

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LA REGINA CENTROASIATICA – Come già detto, si aggiunge alla lista dei sostenitori la repubblica del Kazakistan, ricca di idrocarburi e caratterizzata da una delle più floride economie centro asiatiche, con un PIL in crescita del 7% nel 2011. Il presidente Nazarbayev, nostalgico dell'Unione sovietica, da tempo auspicava una maggior cooperazione tra gli stati dell'ex URSS ed ha quindi accolto di buon grado le idee di Mosca. Ma se per la Bielorussia il sostegno a Mosca è parso quasi obbligato, per Astana il discorso è differente. Infatti Nazarbayev ha visto in Putin un alleato, utile a contrastare gli interessi speculativi delle grandi potenze economiche in terra kazaka, ricca di gas e petrolio. Il ruolo del Kazakistan nell'organizzazione eurasiatica potrebbe assumere inoltre un importante rilevanza geopolitica, sia nella risoluzione del conflitto per la provincia del Nagorno-Karabach tra Armenia e Azerbaigian – che potrebbe confluire nell'Unione eurasiatica – sia nella creazione di un asse tra Mosca ed Ankara. La repubblica della Mezzaluna, già in buoni rapporti commerciali e politico-culturali con Astana – che siede assieme ad Ankara, Baku e Biskek nel Consiglio di cooperazione dei Paesi turcofoni – potrebbe mettere da parte i pregiudizi e tessere nuovi relazioni economiche con il Cremlino, accantonando definitivamente i progetti di respiro europeo. Spostando l'asse più ad est, il Kazakistan, grazie alla sua posizione strategica, potrebbe favorire nondimeno gli scambi di greggio e gas tra le repubbliche eurasiatiche unite e la Cina.

LE PICCOLE DEL GRUPPO – Chiudono il gruppo dei favorevoli all'integrazione le repubbliche del Kirghizistan e del Tajikistan che, per evitare onerosi dazi doganali dovuti agli scambi commerciali con la Russia e il Kazakistan, a breve entreranno a far parte dello spazio economico comune (Ces). Ma Bielorussia, Kazakistan, Kirghizistan e Tajikistan non possono bastare. Parafrasando un famoso detto, si può affermare che qualcuno risulti indispensabile per la buona riuscita dell'integrazione eurasiatica immaginata da Putin, ne sono un esempio l' Ucraina e la Georgia.

(I. Continua)

Maria Paterno [email protected]

L’eterna attesa

La questione nucleare iraniana è ormai da anni al centro dell’attenzione, tanto da aver perfino posto in secondo piano il processo di pace tra Israeliani e Palestinesi. Il recente discorso del Premier Benjamin Netanyahu all’Assemblea Generale dell’ONU non cambia i termini del problema, ma indica come Israele sia sempre meno convinto degli sforzi internazionali per fermare i progetti di Tehran. Facciamo il punto anche noi, con cinque domande

 

Tutto ruota attorno al programma nucleare iraniano. Ma è davvero così difficile capire se si tratti di un programma ad uso solo civile (come afferma Tehran) o se sia rivolto anche alla fabbricazione di bombe atomiche (come affermano Israele, USA e i loro alleati)?

 

Distinguere i due fini del programma nucleare iraniano non è per nulla semplice e, anzi, risulta sostanzialmente impossibile senza avere accesso totale ai dati scientifici e a tutte le installazioni coinvolte. I dettagli sono complessi (ne abbiamo già parlato in “La linea sottile”) e ruotano fondamentalmente attorno all’arricchimento dell’Uranio: il processo per arricchirlo fino a quanto necessario per un reattore civile per produzione di energia è lo stesso che viene usato per arricchirlo fino al livello giusto per una bomba. Dipende solo da quando ci si ferma. Ed è qui il problema, perché non si tratta di avere apparecchiature proibite o tecnologie differenti, magari facilmente distinguibili; l’unica prova sicura sarebbe trovare uranio arricchito oltre il necessario per usi civili. Ma poiché l’Iran non consente di visitare tutti i siti considerati sospetti ed è reticente a collaborare in pieno, alimenta l’incertezza e il sospetto. Alcuni rapporti di intelligence contribuiscono poi a rinforzare i dubbi.

 

Non converrebbe allora all’Iran collaborare pienamente e lasciare campo libero agli ispettori? Così, se il programma nucleare è effettivamente solo per usi pacifici, eviterebbe ogni rischio di attacco.

 

Per l’Iran è anche una questione di facciata. La leadership iraniana sa di non essere molto popolare presso vari strati della popolazione e di dover mantenere un controllo totale per non subire pericolose rivolte. Temono che acconsentire alle condizioni occidentali potrebbe essere visto come un’ammissione di debolezza, un’inaccettabile perdita di faccia davanti alla propria gente. Dimostrare risolutezza invece mantiene l’immagine di forza del regime e, al tempo stesso consente di rivolgere l’ira popolare contro un nemico esterno. Va detto tuttavia che l’Iran ha rifiutato ogni accordo che includesse clausole specificamente rivolte a controllare l’arricchimento dell’uranio oltre i limiti per uso civile.

 

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Ammettendo invece che il programma nucleare sia davvero rivolto alla costruzione di una o più bombe, a cosa servirebbero? Tehran le lancerebbe contro Israele come paventato dalla leadership ebraica?

 

Per rispondere è necessario capire la mentalità e le paure iraniane (“Gli occhi degli altri”). In generale il regime teme che l’Occidente voglia rovesciarlo, e crede che l’arma nucleare gli conferisca una deterrenza innegabile. Basti osservare la Corea del Nord: pur essendo uno dei regimi più sanguinari e isolati del mondo, il suo arsenale atomico ha impedito che esso venisse scalzato dal potere da interventi esterni: è molto probabile che sia ciò a cui aspirano anche i leader di Tehran. Risulta meno plausibile invece l’uso diretto dell’arma atomica contro Israele: l’Iran si guadagnerebbe il biasimo e la rappresaglia del mondo intero, cosa che porterebbe proprio a ciò che vuole evitare: la fine del governo degli Ayatollah, con qualsiasi mezzo. Più pericolosa invece risulterebbe fornire armi atomiche a gruppi estremisti alleati (Hezbollah, Jihad Islamica Palestinese, ecc…) grazie ai quali l’Iran potrebbe colpire i propri nemici professando però la propria estraneità. In realtà, anche in questo caso appare più probabile il semplice uso di tale minaccia (piuttosto che l’uso effettivo dell’arma) come mezzo di pressione sui vicini stati sunniti. L’obiettivo: aumentare l’influenza di Tehran rendendo l’Iran la nuova potenza regionale – se non fosse che questo è proprio ciò che spingerebbe gli altri paesi del Golfo Persico (Arabia Saudita in testa) a fare altrettanto, portando a una pericolosa escalation degli armamenti atomici nella regione.

 

Torniamo a Israele: attacca o non attacca? Può farcela da solo? Le minacce di attaccare sono sempre più frequenti, eppure per ora nulla si muove.

 

Impiegando al massimo le proprie risorse, Israele può colpire i siti nucleari iraniani e danneggiarli, in alcuni casi anche gravemente. Ma non può garantire la distruzione del programma. Innanzi tutto alcuni siti sono altamente fortificati sottoterra all’interno di montagne: nessuno riuscirà a capire se i danni causati siano sufficienti o meno (“Bersaglio Iran”). Secondariamente, la tecnologia alla base dell’arricchimento dell’uranio non è eccessivamente complessa e l’Iran potrebbe semplicemente ripartire, imparando dagli errori fatti e sempre più convinto che solo l’avere l’arma atomica eviterà ulteriori attacchi. Infine, non si è sicuri di conoscere tutti i siti nucleari: se installazioni chiave rimanessero intoccate, l’attacco non avrebbe alcuna utilità. Come ha affermato il Capo di Stato Maggiore interforze USA Generale Martin Dempsey, Israele può rallentare il programma nucleare iraniano, ma non distruggerlo. E il rischio di perdite rende l’operazione ancora più rischiosa. Servirebbe l’appoggio USA, che però sono in periodo elettorale e, ad ogni modo, non sono interessati a sobbarcarsi l’onere di un’altra guerra dove, anche questa volta, sarebbero loro a sopportarne lo sforzo maggiore.

 

Israele spera fino all’ultimo di ottenere l’appoggio degli alleati, ma nulla esclude che, prima o poi, pensi di non avere altra scelta all’agire da solo. Del resto anche l’Iran può giocare le sue carte: Hezbollah in Libano, provare a bloccare lo stretto di Hormuz… soprattutto quest’ultimo caso viene considerato particolarmente rischioso per le economie occidentali così dipendenti dal petrolio.

 

Ma l’Iran può riuscirci davvero?

 

Molto probabilmente no; l’apparato militare USA a difesa dello stretto è molto forte e distruggerebbe gli aggressori entro 24 ore, ma non è questo il vero punto chiave. Pochi si rendono conto che in realtà bloccare lo stretto colpirebbe molto di più gli interessi iraniani di quanto farebbe con quelli occidentali. Innanzi tutto bisogna ricordare che la maggior parte del petrolio che passa lo stretto (circa tre quarti) non finisce in Europa o Nord America ma in Asia Orientale. In particolare a soffrire uno stop delle importazioni sarebbero Giappone, Corea e soprattutto… Cina. Beijing uno dei pochi compratori residui di petrolio iraniano e l’Iran ha bisogno di quei proventi per sostenere la sua economia sempre più in affanno per le sanzioni internazionali. La Cina inoltre importa anche da Arabia Saudita, Emirati Arabi, Kuwait e gran parte degli altri paesi del Golfo. Cosa significa questo? Che a ogni minaccia da parte di Tehran di chiudere lo stretto, plausibilmente segue una telefonata da Beijing per assicurarsi che ciò non succeda, unita alla minaccia di ritirare il proprio appoggio al Consiglio di Sicurezza dell’ONU. Inoltre, se davvero gli USA cercano in tutti i modi di stare fuori da un potenziale conflitto, attaccare lo stretto sarebbe il modo più veloce per costringerli ad entrare in guerra. Dunque niente attacco allo stretto: a Tehran servono i soldi del petrolio, serve che la Cina rimanga amica, serve che gli USA stiano fuori dalla (eventuale) guerra.

 

Il nuovo evento del Caffè

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Milano, martedì 2 ottobre, ore 18.30. Ci sono una capra, un caffè, un libro e un giornalista, e si parla di Iran… non è una barzelletta, è un nuovo evento da non perdere. Clicca qui per i dettagli

 

L’Associazione Capramagra Onlus, in collaborazione con l’Associazione Culturale il Caffè Geopolitico, organizza l’evento “Il Turbante e la Corona: Iran, 33 anni dopo”. Nell’ambito del ciclo di incontri “Martedì da Capre”, martedì 2 ottobre all’Ostello Bello di Milano (Via Medici, 4), alle ore 18.30 verrà presentato il libro “Il Turbante e la Corona” di Alberto Negri, inviato del Sole 24 Ore. Con l’autore partiremo dalla storia – lo Shah, la rivoluzione khomeinista, la guerra con l’Iraq, il ruolo del petrolio e quello dell’Occidente – per riflettere sull’importanza geopolitica dell’Iran, sui suoi meccanismi sociopolitici, sulla situazione attuale interna e regionale. Modera l’incontro Alberto Rossi, Presidente dell’Associazione Culturale Il Caffè Geopolitico. L’incontro sarà seguito da un aperitivo. Vi aspettiamo numerosi… non mancate!

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Un voto contro i demoni del passato

La Sierra Leone si sta avvicinando alle terze elezioni presidenziali dalla fine della guerra civile (1991-2002). In vista del primo turno elettorale, previsto per il 17 novembre, il presidente Ernest Bai Koroma, in corsa per un secondo mandato, punta tutto sull’ampliamento della rete di infrastrutture, mentre il leader dell’opposizione Julius Maada Bio richiede misure più rigide contro la corruzione. Tuttavia, almeno al di fuori della capitale, il voto è già scritto, spaccato secondo linee etniche e regionali

UN TRAMPOLINO DI LANCIO – Per le strade di Freetown, i cartelloni che invitano gli elettori a ritirare le nuove schede elettorali biometriche (si veda il “Chicco in più”) hanno sostituito i manifesti di celebrazione del 50° anniversario dell’indipendenza. Striscioni inneggianti all’uno o all’altro aspirante presidente stanno gradualmente affollando muri, tralicci, alberi, autobus. Muovendosi nelle vie della capitale, è ormai difficile non imbattersi in un corteo monocolore di giovani, che ballano e proclamano a gran voce il nome del loro candidato (lo stesso che qualche ora prima, probabilmente, li ha arruolati in cambio di pochi soldi). “Abbiamo bisogno di elezioni pacifiche per poter guardare avanti”, dice Christiana Thorpe, ex suora oggi alla direzione della Commissione Elettorale Nazionale (NEC). “Usciamo da una guerra che in 11 anni ha gravemente compromesso lo sviluppo del paese. Se le elezioni saranno pacifiche, dimostreremo di essere credibili agli occhi del mondo, e questo sarà un vero e proprio trampolino di lancio per il paese”, dice. Il parere espresso dalla Thorpe riprende le dichiarazioni dell’ex Rappresentante Esecutivo del Segretario Generale dell’ONU, Michael von der Schulenburg, in carica fino allo scorso maggio: “Le prossime elezioni saranno una grande sfida per la nascente democrazia di questo paese. La Sierra Leone deve passare questo test, cruciale per la sua storia, senza che i demoni del passato riemergano”. LA STRANA SPESA DEL GOVERNONonostante le dichiarazioni d’intenti, da un anno a questa parte si sono registrati alcuni preoccupanti, benché sporadici, episodi di violenza. Le prime avvisaglie si ebbero nel settembre 2011 a Bo (seconda città del paese) in seguito alla nomina di Julius Maada Bio a candidato presidente: negli scontri, Bio subì un trauma cranico, e il fattaccio portò ad un divieto a tempo indeterminato (revocato dopo tre mesi) a tutti i raduni politici. Ancora più inquietante è stata, lo scorso gennaio, l’importazione da parte del governo di armi d’assalto per un valore di qualche milione di dollari. Scopo: equipaggiare l’ala paramilitare della polizia della Sierra Leone, conosciuta come Operational Support Division (OSD). Pur non avendo l’embargo sulle armi, il progresso del paese nel ristabilire la sicurezza e il tasso di criminalità relativamente basso non chiariscono perché la polizia abbia bisogno di tali armi. Pare inoltre che un certo numero di ex ribelli, riaddestrati in fretta e furia, abbia di recente infoltito i ranghi di tale divisione. Un’OSD numerosa, ben armata e presumibilmente anche etnicamente squilibrata mina gli sforzi compiuti dalla polizia della Sierra Leone nella creazione di una polizia moderna e indipendente. “Vi è una quasi totale mancanza di fiducia nella capacità della polizia di mantenere la pace”, dice Valnora Edwin, coordinatore nazionale della Campagna per il Buon Governo, espressione della società civile sierraleonese.

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L’ASSICURATORE E IL GENERALE – Il presidente Ernest Bai Koroma, di professione assicuratore, cerca la conferma per un secondo mandato, dopo la vittoria del 2007 con il 54,6% dei voti. Grazie ad un programma di costruzione di strade e all’arrivo in massa di investitori stranieri nel settore minerario, mantiene una certa popolarità tra la gente. Nel 2010, il suo governo ha introdotto la copertura sanitaria gratuita per la gravidanza e il parto, al fine di combattere gli elevati tassi di mortalità materna e neonatale. Se c’è chi ha perso fiducia nel governo, lo si deve agli scandali di corruzione che hanno coinvolto alcune personalità di spicco del partito di Koroma, l’APC (All People’s Congress): tra questi, l’ex sindaco di Freetown,  Herbert George-Williams, accusato di evasione fiscale e appropriazione indebita di denaro pubblico, e il vice-presidente, Samuel Sam-Sumana, implicato nella vendita illecita di licenze di esportazione del legname. Per questo Julius Maada Bio, il candidato dell’altro grande partito, l’SLPP (Sierra Leone People’s Party), ha impostato la propria campagna elettorale sulla proposta di misure più rigide contro la corruzione e sul fallimento in questo senso del governo Koroma. In ogni caso Bio, ex generale di brigata che è già stato Capo di Stato nel 1996 dopo aver rovesciato la giunta militare di Valentine Strasser (di cui, per altro, era parte), troverà il maggior sostegno elettorale, come da “tradizione” per l’SLPP, nelle province del sud e dell’est, a maggioranza mende. L’APC raccoglie tradizionalmente i suoi voti nella provincia del nord e nell’area occidentale, principalmente tra i temne e i limba. Sì, perché al di fuori di fuori della capitale, in cui nessuno dei due maggiori candidati ha un chiaro vantaggio, il voto è già scritto, fortemente radicato e diviso lungo linee etniche e regionali. E allora Freetown, con i suoi 1,2 milioni di persone appartenenti alle più diverse etnie, diverrà l’ago della bilancia delle prossime elezioni. Giorgio D’Aniello [email protected]

L’ascia o raddoppia

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Prendete due Paesi divisi da un profondo odio reciproco, Armenia e Azerbaigian, un omicidio a colpi di accetta di un tenente armeno, tale Gurgen Margaryan, ad opera di un suo pari grado azero, tale Ramil Safarov, l’incarcerazione, l’estradizione in madre patria e la scarcerazione tra acclamazioni ed avrete ottenuto la perfetta ricetta per un escalation nel Caucaso meridionale; il Caffè di oggi vi porta nel “Nero giardino montuoso”, il Nagorno-Karabakh

UNA STORIA TORMENTATA – Come spesso accade per le regioni del mondo contese, il Nagorno-Karabakh è caratterizzato dalla presenza di più etnie nel territorio, oltre che da un magnifico paesaggio montuoso con un passato quasi senza fine. “Passata di mano” molte volte nel corso degli anni, al giungere dell’era sovietica nel Caucaso meridionale il Nagorno-Karabakh divenne regione autonoma all’interno della repubblica socialista sovietica azera, nonostante la maggior parte della propria popolazione sia di etnia armena. Questa sistemazione funzionò fintanto che Mosca era forte, ma negli anni ’80 la presa su questa zona di confine si allentò e la tensione fra i gruppi etnici aumentò, fino ad esplodere nel 1988 in un conflitto durato 6 anni e costato circa 30000 morti (una cifra definitiva non si è mai avuta) e diverse centinaia di migliaia di profughi. La Repubblica del Nagorno-Karabakh, autoproclamatasi il 6 gennaio 1992 e non riconosciuta a livello internazionale, conquistò una indipendenza de facto, occupando anche territori azeri che permettono il diretto collegamento con lo Stato armeno. La tregua, giunta nel 1994 e sponsorizzata dal Gruppo di Minsk, è sinora servita soltanto a sancire una situazione di stallo, ma il processo di pace è arenato da tempo e ora in lontananza non si avvistano certo le colombe. LO STRANO CASO DI MR. SAFAROV – Nel 2004 la NATO organizzò un corso trimestrale di inglese a Budapest, al quale parteciparono anche i due tenenti Safarov, azero, e Margaryan, armeno; l’odio che intercorre tutt’ora tra le due Nazioni spinse il primo a uccidere nel sonno, a colpi d’ascia, il tenente armeno. Le autorità ungheresi provvidero a condannare Safarov all’ergastolo, detenendolo in uno dei propri carceri fino al 31 agosto scorso, data nella quale fu eseguito l’ordine di estradizione verso l’Azerbaigian a seguito delle ripetute assicurazioni da Baku che il condannato avrebbe terminato di scontare la sentenza. Purtroppo le promesse non sono state mantenute.

EROE A CASA PROPRIA – Una volta tornato sul suolo natio, Safarov è stato infatti scarcerato a seguito della grazia concessa dal Presidente Aliyev (foto sotto) e dichiarato eroe nazionale davanti ad una folla acclamante. Inevitabile l’indignazione armena ed internazionale: Yerevan ha naturalmente accolto questo gesto come una pura provocazione atta a ravvivare la tensione latente tra le due capitali, mentre molti altri Stati hanno deplorato quanto deciso da Aliyev e la NATO stessa, nella figura di Rasmussen, Segretario Generale dell’organizzazione, che ha dichiarato: “La  decisione delle autorità azere di graziare questo ufficiale dell’esercito certamente non contribuisce alla pace, alla cooperazione e alla riconciliazione nella regione”.

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LA GUERRA ALLE PORTE – Così come in Armenia, nemmeno nel Nagorno-Karabakh i fatti sono seguiti “a cuor leggero”: l’eventualità di uno scontro non è remota e la tensione cresce di giorno in giorno; dal 1994 scontri occasionali alla frontiera si sono sempre verificati, ma recentemente gli incidenti sono aumentati e con essi il numero di vittime da entrambe le parti. “In un momento di simili tensioni” sostiene Andras Lederer, un ex-consulente presso l’International Republican Institute in Georgia, “Le persone sono più inclini a prendere le armi”, “E’ per questo che questa storia dell’omicida giunge in un pessimo momento”. Ma se l’Armenia poté approfittare nel 1993 di una crisi politica e militare in Azerbaigian, conquistando così la vittoria nel conflitto, oggi Baku gode di una preponderanza militare e demografica che difficilmente potrebbe essere rovesciata. Tuttavia, data la situazione, secondo Lilit Gevorgyan, analista presso IHS Global Insight,  “L’Armenia è costretta a rafforzare la propria posizione e forse a ritirarsi dalle trattative di pace” ed aggiunge:” Sembra che i mediatori stiano esaurendo le opzioni e c’è solo una via, una soluzione militare”. Oltre a quanto indica Gevorgyan, una possibile azione di Yerevan per “raddoppiare” la posta in gioco potrebbe essere il riconoscimento della piccola repubblica ai propri confini.

AL DI LÀ DI BAKU E YEREVAN – Passando all’Ungheria, il Paese che ha dato il là a questa nuova tensione, il Governo di Viktor Orban è travolto da un’ondata di critiche. Alle prevedibili proteste armene che additano Budapest come complice delle decisioni di Aliyev, si uniscono quelle dell’opposizione ungherese e queste ultime non sono certo leggere: l’accusa al governo Orban è quella di aver accettato l’estradizione di Safarov in cambio dell’acquisto da parte azera di 3 miliardi di titoli di stato;ovviamente nulla è dimostrato, ma a sostenere i sospetti di un simile accordo interviene anche Ferenc Gyurcsany, ex-primo ministro ungherese, che afferma di aver rifiutato a suo tempo di “Vendere l’onore del Paese in cambio di trenta pezzi d’argento”. Il dubbio di un simile accordo si è insinuato nell’opinione pubblica non solo ungherese, ma nel frattempo a Budapest è stata recapitata il 3 settembre all’ambasciata di Baku una lettera minatoria, scritta in turco.

MAMMA LI TURCHI! – Il contenuto della lettera minatoria, se seguito dal concretizzarsi di quanto ipotizzato, rischia di destabilizzare ulteriormente la situazione, coinvolgendo un altro attore nella vicenda: la Turchia. Questo perché viene minacciato, oltre a possibili obiettivi di nazionalità azera, il popolo turco, ricordando nel contempo il suo ruolo nel genocidio armeno di inizio XX secolo e il sostegno che l’ASALA (Armenian Secret Army for the Liberation of Armenia) darebbe al PKK in segno di gratitudine per la lotta contro i turchi. E mentre si susseguono smentite dell’ASALA stessa e nuove lettere minatorie, l’ipotesi di un coinvolgimento turco non può certo sembrare volontariamente ricercata dalle autorità armene, già fin troppo pressate dal fronte del “Nero giardino montuoso”.

Matteo Zerini [email protected]

Tra Mosca e Ankara

La guerra in Ossezia del Sud nel 2008 ha causato una serie di cambiamenti nella geopolitica regionale del Caucaso: la crisi ha infatti influenzato direttamente le relazioni tra le due maggiori potenze locali, ossia la Russia e la Turchia. Il tutto a distanza di anni non sembra essere del tutto mutato: Ankara guarda al Caucaso come ad una delle sue naturali proiezioni geopolitiche, nell’ottica della conquista e del consolidamento del suo spazio vitale. La Georgia è il suo maggior partner commerciale nell’area, e ora che si avvicinano le elezioni politiche, lo stato di Tbilisi deve scegliere da quale parte stare: se accettare l’invasione economica turca o schierarsi verso una visione anti-ottomana e filorussa

 

IL PRE-OSSEZIA… – Quanto accaduto prima della guerra nel Sud del Caucaso del 7 agosto aveva legittimato Ankara a seguire una politica piuttosto ambigua nella regione, comportamento accentuato dallo stallo verosimile dei conflitti locali e dal comportamento russo relativamente cauto. La Turchia ha sempre mantenuto da parte sua l’interesse geopolitico nel preservare un certo pluralismo nell’area ex sovietica in generale, e nel sud del Caucaso in particolare. Politicamente, questo tipo di pluralismo significava il rafforzamento delle sovranità degli stati regionali, anche attraverso il contenimento della crescita dell’influenza russa nel Caucaso e lo sviluppo dei rapporti tra i paesi del sud del Caucaso e le organizzazioni euro – atlantiche; economicamente, grazie alla costruzione di pipelines attraverso il Caucaso in grado di versare idrocarburi del Mar Nero sul mercato mondiale, bypassando la Russia. L’obiettivo strategico turco era quello di massimizzare la dimensione economica del pluralismo per trasformare il paese in uno dei maggiori hub di transito energetico. D’altro canto, però, la Russia resta il maggior partner energetico turco. L’ambiguità sta appunto nel ruolo ambivalente di partnership multidimensionale che Ankara deve conservare con la Russia, senza però scontentare i paesi del Caucaso.

 

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ED IL POST – OSSEZIA – La guerra nel 2008 ha cambiato molte cose tra Russia e Turchia: tra i tanti fattori il fatto che Mosca includa il Caucaso tra i suoi interessi privilegiati, e che la Turchia sia un vicino privilegiato. Ankara inoltre potrebbe risentire particolarmente di un eventuale crollo dello status quo nel Caucaso. Da non dimenticare la necessità per la Turchia di non inimicarsi partner energetici come la Russia, a lei utili se vuole continuare a guadagnare in termini di ranking economico (leggasi “divenire potenza mondiale”). Il dubbio georgiano di un’invasione turca è dunque legittimo: ad aggiungersi è il fattore religioso, dato che Tbilisi si sta impegnando a negoziare la restaurazione di alcune sue chiese in territorio turco, a condizione però che a Batumi si costruisca una moschea.

Si sta come d’autunno…

Insieme al caldo dell'estate, con l'avvento di questa settimana ci lasciamo alle spalle ogni, seppur tiepida, speranza di vedere le questioni che da tempo assillano le relazioni internazionali risolte da qualche miracolo diplomatico. In Iran tira il vento del complotto internazionale contro il sacro diritto alla proliferazione nucleare, in Siria la guerra civile trasforma la popolazione in un bottino per il cui controllo è bene lottare fino all'ultimo sangue mentre al palazzo di vetro dell'ONU si riuniscono i vertici politici dei vari paesi per cercare soluzioni ai problemi vecchi e nuovi del pianeta

EUROPA

Lunedì 24 – Un tempo, quando ancora il vento sovietico soffiava imperioso sull'est Europa, ai corrispondenti d'oltre cortina di ferro piaceva descrivere i risultati delle urne comuniste col termine "percentuali bulgare", per rendere l'idea dell'assenza di reale competizione politica. Oggi nell'Europa post-stalinista, l'unica nazione per cui quell'espressione è ancora valida è la Bielorussia dell'instancabile Lukashenko, convintissimo nel chiamare la popolazione alle urne nonostante la mancata partecipazione di tutti i partiti d'opposizione. Nessuna attesa dunque per il responso preannunciato per la tarda serata di lunedì, visto che l'unica conseguenza dell'evento politico sarà un Parlamento totalmente favorevole all'ultimo despota assoluto d'Europa.

Lunedì 24 – Domenica 28 – I pesi massimi dell'Unione Europea lasciano la placida Bruxelles per raggiungere il palazzo di vetro di New York dove è in programma la Ministerial Week della 67^sessione dell'Assemblea Generale delle Nazioni Unite apertasi Martedì scorso. L'alto Rappresentante per gli affari esteri e la politica di sicurezza Catherine Ashton prenderà parte ai dibattiti sui temi più infuocati come Iran, Libia, Somalia e questione mediorientale senza contare gli incontri di alto livello con Lakhdar Brahimi e Nabil el Arabi per affrontare il fascicolo "Siria". Al presidente del Consiglio europeo Herman Van Rompuy toccherà esporre le priorità dell'UE in seno all'organo rappresentativo dell'ONU, mentre il Presidente della Commissione Europea Manuel Barroso sarà impegnato in una serie di meeting bilaterali.

Venerdì 26 – Sabato 27 – I Ministri della Difesa dei paesi membri dell'Ue si riuniscono a Nicosia per un meeting informale all'interno del framework per la Presidenza di turno cipriota dell'Unione. Sul tavolo della riunione le prossime sfide della politica di difesa e di sicurezza comune, il tentativo di avvicinamento tra coordinamento NATO e UE e uno sguardo al panorama mediorientale e asiatico in cui giaciono tutte le dispute irrisolte di questo periodo infuocato per le relazioni internazionali.

AMERICHE

VENEZUELA – Si fa sempre più accesa la campagna elettorale per le presidenziali di Caracas in programma per il 7 Ottobre. Nel weekend lo sfidante del cartello delle opposizioni Henrique Capriles Radonski si è preso abilmente gioco delle brochure fatte circolare dai supporter di Hugo Chàvez in cui il Presidente uscente viene descritto come "Il candidato della terra del Padre Eterno". L'ex governatore è riuscito a conquistare la simpatia dei ceti medio bassi degli stati lontani dalla capitale, in cui la mancanza di acqua corrente, di energia elettrica e di cibo sembrano problemi più urgenti della diffusione della "Rivoluzione" bolivarista osannata dall'uomo forte del Venezuela. Chàvez è in cerca di un rinnovo presidenziale di altri 6 anni e nonostante alcuni sondaggi lo diano in testa alla competizione, il pragmatico Capriles è riuscito a mettere in dubbio un risultato ritenuto scontato fin dall'inizio.

BRASILE – Citando l'immortale Oscar Wilde, El Paìs ha descritto il fenomeno come "La importancia de llamarse Dilma" e forse nessun titolo poteva comunicare meglio la curiosa coincidenza che sta interessando la campagna elettorale per le elezioni comunali in Brasile. Non solo per la prima volta il paese supera la quota rosa del 30% dei candidati, ma di queste, 143 si presentano alle urne col nome di battaglia della Presidenta. Sarà il fascino dell'immediatezza, sarà il fatto che la popolarità della prima donna brasiliana sfiora tutt'ora il 75% dei consensi ma sembra che in futuro la vera Dilma dovrà guardarsi da un esercito di cloni politici. In realtà il Partito dei Lavoratori dell'ex Presidente Silva detiene la maggiroanza delle intenzuioni di voto in solo una delle principali città del paese, palesando una forte debilitazione in vista delle presidenziali del 2014.

AFRICA

Lunedì 24 – Il controllo del territorio, come molti ben sapranno, è insieme all'indipendenza da altri governi il criterio che definisce la validità dell'autorità di uno stato nel diritto internazionale. Ecco perchè l'ultimatum dato dal governo libico alle milizie che imperversano tra Tripoli e Bengasi sa di evento fondamentale nella storia della Libia post-Gheddafi. L'annuncio è giunto nella tarda serata di sabato da parte del Presidente dell'Assemblea Nazionale Mohammed al-Megarief, dopo che due gruppi armati presenti nella città di Derna avevano annunciato lo scioglimento immediato in seguito alle proteste di venerdì a Bengasi. Proprio nella capitale della Cirenaica il governo ha organizzato un gruppo di contatto incaricato di disarmare le milizie ribelli grazie alla cooperazione tra i gruppi armati del Ministero della Difesa, il Ministero dell'Interno e la polizia locale.

SOMALIA – Nemmeno la nomina di un nuovo parlamento, più democratico e rappresentativo delle istanze claniche del failed state per eccellenza sembra riuscire a riportare l'ordine e la sicurezza nelle strade della capitale Mogadiscio. Sabato, all'uscita dalla preghiera in una delle moschee della città, il neo-parlamentare Mustaf Haji Mohamed è stato freddato da un commando armato appartenente con ogni probabilità al gruppo islamico Al-Shabaab. "Abbiamo ucciso Mustaf, ed uccideremo tutti i parlamentari uno ad uno, troppe volte abbiamo avvertito i somali di non affidarsi al nuovo governo, la morte di Masaf sarà una lezione indimenticabile per tutti gli altri," con queste parole Sheikh Abdiasis Abu Musab ha confermato la paternità dell'azione violenta. Masaf era il patrigno di Sharif Sheikh Ahmed, ex Presidente ed artefice di vani tentativi di pacificazione interna, tuttavia rimane solo una delle vittime del weekend di sangue in Somalia dopo l'uccisione di un radioreporter venerdì e l'attentato al tritolo in un famoso ristorante della capitale in cui tra le 15 vittime figurano anche 3 noti giornalisti.

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ASIA

Lunedì 24 – Si concluderà lunedì l'incredibile "storia di un caso già risolto in partenza" come è stato definito dalle autorità cinesi l'intrigo politico-diplomatico che unirà ai già condannati Bo Xilai e consorte, anche il fedele collaboratore dell'ex sindaco di Chongqing, Wang Lijun. All'ex capo della polizia sono state contestate le accuse di alto tradimento, abuso di potere, peculato e uso della giustizia a fini personali, senza alcuna reazione o dichiarazione dell'accusato. "Prendo atto e confesso la mia colpevolezza dichiarata dall'accusa e mostro il mio sincero pentimento", queste le parole di circostanza con cui Wang ha accolto la filippica finale del procuratore generale di Chengdu. Quasi senza dubbio la condanna lo vedrà colpevole di tutte le accuse, ma è quella di alto tradimento che rende la pena di morte un fantasma quantomai reale.

AFGHANISTAN – C'è chi lascia e chi raddoppia, così potrebbe essere riassunta la visita storica del Direttore della Sicurezza domestica della Repubblica Popolare Cinese Zhou Yongkang, nella prima visita ufficiale di alto livello dopo quella di Liu Shaoqi del 1966. Mentre circa 30mila soldati americani, giunti in Afghanistan per sostenere la "surge" del Generale Petreus lasciano il paese, la Cina che condivide una frontiera montuosa di 76 km con Kabul punta forte sulla normalizzazione dei rapporti in vista dello sviluppo dell'economia locale. Già in passato le ingerenze di Pechino negli affari afghani hanno garantito alla sete inestinguibile di materie prime e combustibili fossili dell'industria nazionale un bottino di risorse stimabili attorno ai 1000 miliardi di dollari. La visita di Zhou Yongkang và tuttavia ricollegata anche alle recenti vicissitudini della provincia musulmana dello Xinjiang, in cui l'influenza dell'estremismo islamico mette a dura prova l'unità nazionale laica. Con le parole dello stesso Zhou "è in linea con gli interessi fondamentali dei nostri popoli rafforzare i legami strategico-diplomatici tra Cina e Afghanistan, per giungere alla pace nella regione, alla stabilità e al progresso economico,".

MEDIO ORIENTE

EGITTO – Comunque vada a finire il periodo successivo alla rivoluzione di piazza Tahrir, sembra proprio che l'Egitto del dopo-Mubarak abbia trovato un degno successore al trono che fu di Nasser. Mohamed Morsi, nella prima intervista ufficiale alla tv di stato del Cairo ha ribadito il suo sostegno alla rivoluzione siriana accordando però al nuovo partner iraniano il ruolo di attore fiondamentale nella regione e vitale per la soluzione della crisi di Damasco. Rendendo poi nota al mondo una verità ormai lapalissiana, il "Fratello" Morsi ha inoltre dichiarato che l'ex alleato di ferro americano "deve cambiare il suo atteggiamento nei confronti del mondo arabo", un messaggio che dopo le vicissitudini legate alla diffusione del film "The innocence of muslims" assume un significato ancora più marcato. Inizialmente relegato ad un ruolo simbolico dai media internazionali, Morsi è riuscita a drenare gradualmente il potere dalla giunta militare nelle proprie mani, garantendo un controllo democratico allo strapotere degli uomini di Tantawi.

TURCHIA – L'esercito turco ha iniziato nella giornata di domenica le manovre per muovere cannoni howitzer e pezzi di contraerea nelle città confinanti con la provincia siriana di al-Raqqa dove nei giorni scorsi cittadini turchi sono rimasti vittime del fuoco incorciato tra governo di Damasco e ribelli. Nel frattempo l'Esercito Libero Siriano ha dichiarato pubblicamente lo spostamento del proprio quartier generale dalla Turchia alla Siria, muovendo con cautela circa 5 km all'interno del territorio siriano. Secondo l'Osservatorio Siriano per i Diritti Umani l'80% del territorio di frontiera è ormai al di fuori del controllo del governo centrale, ma i ribelli restano incagliati ormai da mesi nella battaglia per la conquista della piazzaforte Aleppo, vitale per la marcia finale su Damasco. Secondo il Comandante dell'ESL Riad-al-Assad, la vittoria finale è ormai questione di mesi, a prescindere dal contribuito delle nazioni straniere, che nell'ultimo periodo si è rivelato sporadico ed inefficiente, solo la schiacciante superiorità nei cieli sembra garantire ancora l'esistenza del regime di Bashar. Tuttavia attendere il crollo interno alla famiglia Assad potrebbe rappresentare un gioco al massacro per i ribelli che necessitano continuamente di rifornimenti e supporto logistico-operativo.

IRAN – Continua la tragicommedia che perdura ormai da 10 anni attorno alle sorti del programma nucleare iraniano, con alcune novità dell'ultim'ora. Nel weekend il parlamentare iraniano Javad Jahangirzadeh ha accusato il Direttore dell'AIEA Yukiya Amano di aver passato segretamente ad Israele alcune informazioni confidenziali riguardo agli impianti nucleari di Teheran, mettendone in dubbio la sicurezza. "Qualora il nostro paese decidesse di lasciare l'Organizzazione, la responsabilità sarebbe tutta del Direttore Amano" ha continuato Jahangirzadeh confermando la bassissima marea delle relazioni tra le due entità. Sempre nel weekend il parlamentare Alaeddin Boroujerdi ha accusato pubblicamente il gigante dell'elettronica Siemens di aver incluso in apparecchiature acquistate da Teheran per il supporto al programma nucleare alcuni ordigni a carica controllata. Come se non bastasse sempre nel weekend la rivista Times ha diffuso la notizia secondo la quale il mese scorso durante una ricognizione lungo le linee elettriche della centrale di Fordow l'esercito iraniano sia riuscito a far esplodere un congegno in grado di raccogliere dati e comunicazioni trasmesse dai sistemi di arricchimento dell'uranio. Qualunque cosa accada, in medio oriente rimane sempre una missione impossibile distinguere la polvere del deserto dalla nebbia della guerra di clausewitziana memoria.

Fabio Stella [email protected]

Alba…o tramonto?

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Da Atene – Il successo elettorale dei neonazisti di Alba Dorata in Grecia è un fenomeno che non può e non deve passare inosservato a livello europeo. Gli estremisti, che hanno ottenuto diversi seggi in Parlamento, aumentano il loro consenso presso la popolazione stremata dalla crisi economica aiutando solo i “veri” greci e commettendo violenze verso gli immigrati, capri espiatori delle difficoltà elleniche. L'UE non deve abbassare la guardia

DA PLATONE AI GIORNI NOSTRI – Nel suo trattato sullo "Stato ideale" Platone considerava che la tirannide era il risultato della degenerazione del sistema democratico. Gli avvenimenti che si verificarono nel corso della storia dimostrarono la veridicità delle conclusioni dell'illustre filosofo ateniese e la situazione attuale della Grecia è molto simile a quella che si verificò in Argentina nel biennio 1974-1976, quando il debole governo di María Estela Martínez de Perón né seppe, né volle affrontare il problema della crescente influenza della casta militare capeggiata dal generale Videla che, in seguito, si rese responsabile di orrendi massacri. Ad Atene, il governo tripartito (Nueva Democrazia-PASOK-Sinistra Democratica), incapace di tracciare una determinata rotta, si trova alla mercè di un gruppo composto dai neonazisti di Alba Dorata che da tempo fanno le veci della polizia ricevendo il consenso di alcuni settori della società. AIUTI SOLO AI “VERI” GRECI – Venerdì 14 settembre, nel distretto ateniese di Agios Pandeleímon, una zona ad alta concentrazione di immigrati, gli integranti della formazione di estrema destra distribuivano cibo e bevande a persone bisognose con la condizione di appartenere alla etnia greca e di apporre i propri dati – nome e cognome, indirizzo, numero della carta di identità o passaporto – nella rispettiva domanda, una pratica che assomiglia alla schedatura delle forze dell'ordine. Né i naturalizzati greci, né gli stranieri potevano accedere a tale "regalo", dal momento che Alba Dorata ammette che solo i greci che provano di essere tali da almeno tre generazioni ne avevano diritto. Una signora anziana che non possedeva la nazionalità ellenica è stata oggetto di pesanti insulti da parte di Ilías Panayótaros, uno dei deputati più in vista del partito neonazista che le ha rivolto queste parole: "Se lei vuole aragoste e caviale, li chieda a Alexis Tsipras (responsabile del SYRIZA, il maggior partito della opposizione) o a Aleka Papariga (segretaria del KKE, il Partito Comunista greco). Poco dopo, alcuni soggetti non ancora identificati – presumibilmente simpatizzanti di Alba Dorata – hanno saccheggiato un negozio di generi alimentari gestito da un pakistano. Lo stesso giorno hanno annunciato l'inizio di una campagna che ha come obiettivo la creazione di una riserva di sangue destinata solo a greci, cercando di far pressione, in tal senso, sugli ospedali pubblici del Paese. Alcuni centri sanitari, come quelli di Corinto o di Agrinio (Grecia Occidentale) hanno posto un netto rifiuto a tali deliranti proposte.

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DIFENDERE LA RAZZA ELLENICA – A questo punto risulta necessario analizzare nei dettagli la loro posizione riguardo alla questione femminile. Alba Dorata ritiene che la funzione della donna è quella di procreare i "virgulti" che daranno lustro alla "razza ellenica", considerata superiore non solo alle persone di colore, ma anche a tutte le altre etnie europee per il semplice fatto che "i greci furono gli unici a dar luogo a una civiltà". Di conseguenza sono contrari all'aborto e ai matrimoni misti perché produrrebbero una pericolosa contaminazione della "razza eletta". Molti greci non apprezzano essere definiti come "europei" e credono che gli stranieri debbono ringraziarli per la cultura che è stata loro trasmessa, perché altrimenti avrebbero continuato la loro esistenza come "barbari" che vivevano nelle caverne. La crisi economica, la galoppante disoccupazione e la corruzione dilagante hanno provocato un rigetto verso i partiti tradizionali e l'accettazione di ampi strati della popolazione di questa ideologia estremista.

UN FENOMENO DILAGANTE E PREOCCUPANTE – Un recente sondaggio elettorale ha evidenziato che Alba Dorata é l'unico soggetto politico capace di aumentare i consensi con un incremento del 3% rispetto alle elezioni del 17 giugno situandosi come la terza forza del Paese (9.5%). La disaffezione della opinione pubblica contra gli organi di stampa e informazione, considerati come i paladini del sistema, e la difesa a oltranza della identità nazionale greca come unica risorsa per la rinascita del Paese hanno giocato un ruolo fondamentale per quanto riguarda la sua affermazione. Inoltre, il suo bacino elettorale è costituito anche da esponenti dalle forze dell'ordine – un sondaggio realizzato per il quotidiano ateniese "TO VIMA rivela che un poliziotto su due vota Alba Dorata e da persone anziane che sentono come problema principale la sicurezza e, in caso di controversie con gli immigrati, sono disposte a rivolgersi direttamente al partito neonazista per la soluzione dei loro problemi. In questo modo la Grecia si dirige verso il baratro. Da Atene – Antonio Giovetti [email protected]

Sei giovane? Vota!

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Da Salta – Diritto di voto a 16 anni? È la proposta fatta da un senatore argentino filogovernativo. La riforma elettorale consentirebbe ai ragazzi (oltre che agli immigrati residenti nel Paese da almeno due anni) di partecipare alle elezioni. Tra il progressismo sociale portato avanti dal Governo di Cristina Kirchner e i più pragmatici calcoli elettorali di una Presidenta che ha bisogno di voti in vista delle elezioni Parlamentari del prossimo anno, ecco la nostra analisi

 

LA PROPOSTA – Sono giorni ormai che le trasmissioni televisive, i giornali e le conversazioni quotidiane si animano intorno al dibattito aperto dalle due proposte di legge avanzate in Parlamento dal Senatore Aníbal Fernandez (foto sotto) del Frente para la Victoria. Si tratta di una riforma elettorale che andrebbe a modificare l’articolo 7 del Codice Elettorale argentino dando la possibilità agli stranieri residenti regolarmente da almeno due anni e ai giovani di 16 anni, di partecipare alla vita politica del paese in qualità di elettorato attivo attraverso il voto facoltativo. L’abitudine storica di un paese che per oltre un secolo è stato il crocevia di immigranti provenienti da tutto il mondo, sembra aver attutito completamente qualsiasi tipo di polemica legata alla prima proposta. Comunque una novità sudamericana rilevante, considerando i 15 anni  dell’Uruguay e i 5 del Cile necessari ad uno straniero per poter votare. Un successo giuridico importante che dimostrerebbe la possibile riuscita di un modello sociale d’integrazione, rimettendo in discussione le parole del premier britannico Cameron che nel 2011 aveva ribadito il fallimento  della società multiculturale annunciato da Tony Blair qualche anno prima. Ma non è questo ciò che sta caratterizzando maggiormente  il dibattito. Ciò che infatti preoccupa maggiormente è la questione giovanile.

 

UN PO’DI STORIA – La misura evidentemente progressista avrebbe una portata epocale nel sistema giuridico argentino. A partire dal 1912, anno in cui l’Argentina divenne il primo paese sudamericano a concedere il suffragio universale maschile con la Ley Saenz Peña, solo Eva Duarte riuscì nel 1947 a smuovere le fondamenta della partecipazione politica ottenendo l’estensione del diritto di voto alle donne durante i primi anni della presidenza di Domingo Perón. Un breve excursus storico che non implica alcun parallelismo tra Evita e l’attuale Presidenta Cristina Fernández de Kirchner, utile però a capire il perché di tanto fermento. Una delle principali ragioni della polemica fomentata dall’opposizione sembra essere un supposto “opportunismo” politico del kirchnerismo in vista della proposta di legge per la rielezione presidenziale. L’aspetto  più complesso da decifrare della politica argentina sembra essere l’ambigua confluenza degli “ismi” storici, che con le dovute differenze rimandano in un modo o nell’altro al grande contenitore ideologico del peronismo. Dopo l’interim 2002 del Presidente Duhalde a seguito della crisi finanziaria che colpì il paese nel 2001, a partire dal 2003 il Presidente patagonico Néstor Kirchner generò nella vita politica del paese un nuovo “ismo”, la cui principale virtù programmatica è da sempre stata l’apertura al dialogo con i giovani. Un aspetto portato avanti dalla Kirchner sin dall’inizio della sua Presidenza nel 2007, accentuato con fervore dopo la scomparsa del marito nell’ottobre 2010, e che adesso, con la nuova proposta di legge viene accusato di degenerazione clientelista per allargare la base del proprio consenso e ottenere così una nuova maggioranza per una riforma costituzionale che le permetterebbe di ricandidarsi alle prossime elezioni.

 

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UN’IDEA INTERESSANTE… – Ciò che i senatori della Comisión de Asuntos Constitucionales discuteranno, sarà la possibilità di coinvolgere circa 1,4 milioni di giovani argentini compresi tra i 16 e i 18 anni e circa mezzo milione di stranieri nei processi elettorali del paese. Quasi 2 milioni di voti facoltativi e volontari che comporrebbero una percentuale non determinante, stando agli studi condotti da Alicia Dickenstein, docente di matematica presso la Facoltà di Scienze Esatte e Naturali dell’Università di Buenos Aires. Aldilà delle opinioni partitiche che oscillano tra il “ragionevole” e l’”opportunista”, la valutazione più interessante è sembrata quella dell’attivista Estela de Carlotto, presidente delle Abuelas de Plaza de Mayo, la quale intervenuta sull’argomento ha considerato la riforma una proposta “interessante” purché non generi un “equivoco elettorale”. L’interessante risiede nel fatto che se la proposta venisse approvata, l’Argentina diventerebbe un’avanguardia sociale sul tema dei diritti civili e dell’inclusione giovanile, soprattutto in relazione ai pochi paesi nel mondo che vantano un sistema elettorale simile. In America solo il Brasile e l’Ecuador prevedono infatti il voto a 16 anni, con Cuba che lo riserva solo nel caso di votazioni a candidati ufficiali, mentre in Uruguay, Bolivia e Cile si pensa ad una proposta simile. Ci sarebbero poi da ricordare i casi di Indonesia e Angola, anche se il voto nel paese asiatico è posticipato ai 17 anni. Per quel che riguarda l’Europa, sebbene il dibattito sia stato accennato timidamente in Gran Bretagna e Spagna, a partire dal 2007 solo Austria, Svizzera e Germania hanno effettivamente concretizzato la riforma. Ci sarebbero ancora i casi di Slovenia, Cipro e Ungheria che però presentano alcune limitazioni. In ogni caso è indubbia l’innovazione presentata al Congresso.

 

… MA EQUIVOCA – Parlando invece di “equivoco elettorale”, a un’avanguardia sociale non necessariamente corrisponde un’avanguardia democratica, soprattutto se non corrisponde un piano economico adeguato volto a potenziare il settore dell’educazione. Tuttavia il contesto sociopolitico argentino al contrario sembra ormai maturo per un ampliamento del consenso elettorale, proprio perché è in atto ormai da anni un dialogo innovatore in cui ai giovani si cerca di lasciare l’oggi, e non il domani. Da La Campora alla Juventud Pro, dalla Juventud Radical al Partido Obrero, i maggiori movimenti giovanili si sono espressi con grande entusiasmo circa la possibilità di partecipare che verrebbe data a molti dei rispettivi membri. Una traiettoria legislativa che unisce giovani radicali, oficialisti, oppositori e socialisti, che vedono nel riconoscimento civile un’ulteriore legittimità del potere democratico ma soprattutto la possibilità di un riscatto storico, dal momento che spesso proprio i giovani sono state le vittime sacrificali di alcune delle pagina più tragiche della storia del paese, vedi la noche de los lapices. Una riforma che dal punto di vista sociale sarebbe compatibile anche con la Dichiarazione dei Diritti del Bambino, la quale prevede appunto una progressiva inclusione nella società civile dell’adolescente a partire dai 16 anni. E il voto infatti sarebbe facoltativo, non obbligatorio. Inoltre, senza perdere di vista le disparità sociali che affliggono tanto l’Argentina, quanto il pioniere Brasile, la possibilità di partecipazione e la forte presenza di movimenti già organizzati potrebbero rappresentare una forza trainante in grado di attivare nuove energie latenti e generare un’inevitabile cambio positivo nei giochi di potere al fine di garantire un voto più democratico.

 

CONCLUSIONI – Volendo invece chiudere con un’osservazione sulle accuse rivolte al kirchnerismo, l’unica cosa che forse si può criticare alla veemente audacia della Presidenta Cristina è proprio la tempestività, data la vicinanza della riforma con il prossimo voto elettorale, unita a quella stessa mancanza di tatto diplomatico che ha portato alla repentina privatizzazione della YPF, continuando a fornire argomenti all’opposizione per vivacizzare la propria protesta. Volendo però mettere da parte per un momento le speculazioni politiche, risulta indubbia l’originalità del progetto legislativo, soprattutto se contestualizzato alla situazione internazionale attuale. Se infatti gli indignados spagnoli, les indesirables francesi, gli studenti cileni e quelli canadesi, fino ad arrivare ai più rivoluzionari arabi hanno dimostrato al mondo intero l’esistenza di un disagio generalizzato delle nuove generazioni sempre più estromessi da una società che fatica a riconoscere i cambiamenti, in Argentina si prova a generare un processo d’inclusione importante, nel quale proprio i giovani diventerebbero i primi protagonisti. Più che chiedersi quindi se questa misura rappresenti o meno la nuova trovata del kirchnerismo, sarebbe più interessante chiedersi se sono le leggi a cambiare la società, o se al contrario le leggi cambiano seguendo le evoluzioni sociali, provando a trovare una risposta all’iniziativa argentina.

 

da Salta (Argentina)