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Il titano e il nano

Sono 1.281 i chilometri che solcano il confine sino-vietnamita, una impalpabile linea di terra lungo la quale si sono prima consolidate poi indebolite e corrose, infine rinforzate, con ritmo altalenante e discontinuo, le relazioni tra il “titano”, il Paese di Mezzo, e un “nano” con ambizioni da gigante, il Vietnam. Una interdipendenza in tema di commercio e di investimenti, a cui fa però da contraltare un contrasto mai sanato a proposito della sovranità degli arcipelaghi nel Mar Cinese Meridionale

 

LEGAMI STORICI – Fino a poco più di un secolo fa il piccolo Paese del sud-est asiatico sembrava totalmente soggiogato dalla potenza seduttiva esercitata in 1000 anni di egemonia dal suo grande vicino, tanto da adottare i caratteri degli “han” per trascrivere i suoni della lingua parlata e da ispirarsi al suo modello confuciano di organizzazione della società. Nel 1885 la relazione di dipendenza del Vietnam dalla Cina ha subito il suo primo contraccolpo: con il Trattato di Tianjin, concluso con francesi, inglesi, russi e statunitensi, i cinesi dovettero rinunciare alla sovranità sui loro “cugini” vietnamiti. Tuttavia, è negli anni Settanta, con l’annessione del Vietnam al COMECON, il Consiglio per la Mutua Assistenza Economica del blocco comunista diretto dall’Unione Sovietica, e con la stipula del Trattato di Amicizia e Cooperazione sovietico-vietnamita (1978), che inizia lentamente ad approfondirsi una crepa nei rapporti con la Cina, fino allo scontro bellico frontale nel 1979 e la guerra-lampo di 29 giorni lungo la frontiera. All’indomani della crisi finanziaria che nel 1997 ha scosso le economie delle Tigri asiatiche, la competizione per accaparrarsi gli aiuti e gli investimenti cinesi nel sud-est asiatico ha gradualmente offuscato la percezione nel Vietnam della minaccia della Cina, almeno sul piano militare. Così nel 1999, con la firma dell’accordo di “buon vicinato”, i due Paesi hanno ristabilito pacifiche relazioni bilaterali, improntate alla cooperazione economica.

 

OPEN DOOR POLICY – Come i cinesi, i vietnamiti hanno intrapreso, a partire dal 1986, un programma di riforme radicali, il Doi Moi, che ha trasformato la loro debole economia in crisi sistemica, con forti squilibri macroeconomici, crescita del debito estero e inflazione incalzante, in quello che loro chiamano “socialismo di mercato”, caratterizzato dall’open door policy, quindi dall’apertura agli IDE e dal potenziamento dell’export. La liberalizzazione del mercato ha favorito non solo la crescita dell’economia interna ma anche il peso commerciale del Paese nella regione del sud-est asiatico, che aumentando i livelli di interscambio rinforza i legami di vicinato, quelli economici e quelli politici. Il volume del commercio sino-vietnamita è accresciuto sensibilmente negli ultimi dieci anni arrivando a raggiungere i 27 miliardi di dollari nel 2010 (nel 1991 era di 32 milioni di dollari), tanto che nel 2007 Pechino e Hanoi si sono impegnate nella costruzione di una base di scambio comune, una zona economica transfrontaliera per l’import-export, 8,5 chilometri quadrati di terra compresi tra la città vietnamita di Dong Dang e  quella di Pingxiang, nella provincia cinese del Guanxi. Investire e delocalizzare alcuni dipartimenti di produzione in Vietnam è altamente vantaggioso per i cinesi, i costi sono decisamente più bassi e il mercato è abbastanza stabile. Anche se per Pechino gli scambi con Hanoi non sono poi così rilevanti sul piano prettamente commerciale almeno quanto lo sono su quello politico, e coprono solo l’1% dell’intera torta del commercio cinese.

 

COOPERAZIONE ECONOMICA, ATTORI COMPLEMENTARI – La Cina è invece diventata gradualmente un partner commerciale speciale per il Vietnam: è il primo mercato per l’import e il secondo più importante per l’export. I cinesi esportano nel Paese prodotti farmaceutici e tecnologia per il settore automobilistico, mentre il Vietnam esporta nel Paese di Mezzo petrolio, caffè e carbone. Il piano di cooperazione economica concentra gli investimenti bilaterali soprattutto nel settore infrastrutturale e nella realizzazione di nuovi corridoi economici marittimi e terrestri, come quelli che consentono ai cinesi di accedere alle basi portuali vietnamite o come l’autostrada che collega Kunning in Cina ad Haiphong in Vietnam. La struttura delle esportazioni vietnamite nel mercato europeo e statunitense è così marcatamente differenziata da quella cinese che i due Paesi più che esser competitors sembrano essere attori complementari nell’arena del commercio internazionale: infatti i cinesi esportano per lo più prodotti hi-tech ed informatici, mentre i vietnamiti esportano beni tessili e scarpe (50% del totale delle EXP).

 

LA DISPUTA PER LE SPRATLY – Ad Hanoi si rincorrono le voci dei fautori delle teorie cospirative che allarmano il mondo intero sull’esistenza di una sorta di “guerra economica multiforme di sabotaggio” promossa dalla Cina, che avrebbe già danneggiato alcuni centri di produzione agricola vietnamiti, per frenarne la crescita.  Ma, a Pechino le autorità governative non si curano affatto del potenziale dello sviluppo economico del vicino Vietnam, quanto piuttosto del suo recente riavvicinamento allo storico alleato russo, con il quale ha concluso un contratto per l’acquisto di 6 sottomarini (Kilo Class) e di aerei-cacciabombardieri. La crescente militarizzazione e l’aumento della spesa bellica in Vietnam, come la ricerca del supporto della Russia, seguono ai sempre più frequenti incidenti tra imbarcazioni cinesi e vietnamite nelle acque del Mar Cinese Meridionale, intorno alle isole Spratly e Paracels, centro nodale e  “core interests” delle due aspiranti potenze marittime. I cinesi hanno occupato l’arcipelago de facto dal 1974, ma i vietnamiti ne rivendicano il possesso de jure dal 1932, da quando le quan dao truong sa (come loro chiamano le isole Spratly) sono state annesse al Vietnam per concessione dei francesi. Sulle stesse acque su cui i cinesi portano avanti attività di esplorazione dei fondali, ricchi di risorse energetiche, i vietnamiti reclamano il riconoscimento dei diritti in merito allo sfruttamento economico degli idrocarburi e delle risorse minerali giacenti nel sottosuolo, in quella che hanno dichiarato essere la loro zona economica esclusiva. La competizione nel Mar Cinese Meridionale per il controllo delle acque può creare relazioni asimmetriche, insolite alleanze e partnerships strategiche, scombinando l’intero assetto dello scacchiere marittimo orientale, ma si esclude l’opportunità di un vero e proprio confronto militare con la Cina. Se però per controbilanciare la Cina, Hanoi rinforza e sfrutta i rapporti bilaterali con i russi e gli statunitensi, coinvolgendoli direttamente, il rischio per Pechino è che la contesa regionale si trasformi in un caso internazionale, sul quale ognuno penserà di poter avere una voce in capitolo. Il Segretario di Stato degli Stati Uniti, Hillary Clinton, la sua voce l’ha già espressa, chiamata in causa da filippini e giapponesi: “c’è un interesse nazionale degli USA al rispetto del diritto internazionale nel Mar Cinese Meridionale”. Finchè il Vietnam continuerà a gestire le dispute marittime con la Cina nel quadro delle relazioni bilaterali, attraverso il Joint Steering Committee, o in seno all’ASEAN, cercando di integrare Pechino nel meccanismo multilaterale per vincolarlo al rispetto delle regole comuni, i cinesi possono stare tranquilli. Dopotutto il titano dell’economia globale, con un avanzo commerciale di 12 miliardi di dollari all’anno, non può temere un piccolo rivale come il Vietnam, con PIL in crescita ma partite correnti in disavanzo, perchè il legame di inter-dipendenza economica è così ampio e profondo, che il destino dei vietnamiti è inesorabilmente ancorato e condizionato dalle scelte di Pechino. Come ha riferito in un’intervista (effettuata dall’autore di questo articolo, ndr) il Prof. Carl Thayer, occorre non sottovalutare la forza del soft power esercitato dalla Cina né tantomeno le dinamiche di subordinazione che suggestionano i vietnamiti: la relazione tra i due Paesi “è asimmetrica, il Vietnam tenta di mantenere la propria autonomia pur riverendo il ruolo preminente della Cina”.

 

M.Dolores Cabras

Bentornata diplomazia

Mentre la Siria di Assad si allontana sempre più dalla comunità internazionale con la sospensione dalla Lega Araba, l’Unione Europea vede il cambio al vertice dei Governi di Italia e Grecia, che passano sotto la guida di due ex-tecnici di Bruxelles. Il Presidente Obama continua il suo “Pacific Tour” e rispolvera i piani di Nixon per smuovere Cina e Russia dal veto sulle sanzioni a Teheran dopo il rapporto dell’AIEA, mentre in Sud-America la lotta al narcotraffico prosegue tra alti e bassi. È tempo di trattative tra i big col nostro caffè settimanale dal mondo

EURASIA Lunedì 14 – Si riunisce a Bruxelles il Consiglio per gli Affari Esteri, presieduto dall’Alto Commissario Catherine Ashton. In primo piano le conseguenze della sospensione della Siria dalla Lega Araba e nuove sanzioni europee per il regime di Assad, ma si parlerà anche di Libia, Yemen, la situazione sempre più tesa nel Corno d’Africa tra Somalia e Kenya. L’Alto Commissario dovrà anche affrontare le questioni sollevate dai continui scontri etnici di frontiera tra Kosovo e Serbia, dove l’UE ha investito parecchio per la stabilizzazione e l’autonomia della regione a maggioranza albanese con la missione EULEX. Domenica 20 – La Spagna è chiamata alle urne dopo le dimissioni anticipate del secondo governo Zapatero, la sfida è tra Mariano Rajoy, erede di Aznár, alla guida del Partito Popolare e il socialista riformista Alfredo Rubalcalba ex-Ministro dell’Interno, vice-premier e portavoce di Zapatero di cui ha raccolto l’eredità nel maggio scorso. Intenzioni di voto e sondaggi dopo il dibattito televisivo tra i due candidati danno il Popolare Rajoy in vantaggio di circa 10 punti percentuali. Sulle elezioni spagnole pesano l’ombra del baratro finanziario e la piazza degli “Indignados” in rivolta permanente. FEDERAZIONE RUSSA – E’ di venerdì scorso la notizia dello storico ingresso della Russia di Vladimir Putin nell’Organizzazione Mondiale per il Commercio. Dopo anni di promesse e ricadute i negoziatori della Federazione hanno concluso i termini e le clausole del trattato di adesione alla WTO che sarà ratificato in Dicembre. Sembra che le elezioni parlamentari e presidenziali in vista abbiano spinto verso un’internazionalizzazione dell’economia Russa che garantirà al paese, secondo le stime, un aumento del tasso di crescita del 3% nel breve e 11% nel lungo periodo. ASIA AFGHANISTAN –  A Kabul si raduna la Loya Jirga, l’Assemblea tradizionale afghana, per discutere delle future elezioni nel paese, del ritiro delle truppe americane e delle condizioni di permanenza e collaborazione delle forze armate straniere. Secondo Gholam Jilami Zowak, capo dell’Afghanistan Research and Strategic Centre, i timori statunitensi di non poter influenzare le decisioni dell’assemblea potrebbero determinare un rinvio delle elezioni e nuove negoziazioni sul destino delle basi dell’esercito americano e sugli elementi essenziali della revisione del “Security Agreement” firmato dai due governi nel 2005. MYANMAR – Nuove speranze per il futuro democratico del paese vengono dalla notizia di una probabile partecipazione di Aung San Suu Kyi alle elezioni parlamentari di dicembre. Una modifica alla legge elettorale proposta dal Primo Ministro il Gen. Thein Sein, permetterebbe infatti la “Lega Nazionale per la Democrazia” a un ritorno ufficiale nella vita politica del paese. Mentre i militari mantengono un controllo opprimente sulla popolazione, le questioni della repressione etnica nel Nord e delle sorti dei prigionieri politici minano il processo di riconciliazione tra le minoranze. CINA – Dopo il vertice dei leader dei paesi membri dell’APEC si intensificano i contatti diplomatici tra Pechino e Washington, con gli Stati Uniti intenzionati a convincere la Cina a mediare con la Russia una possibile astensione al voto del Consiglio di Sicurezza sulle sanzioni ai progetti nucleari dell’Iran di Ahmadinejad e alle repressioni armate della Siria di Assad. I contatti tra i due “partners” potrebbero spingere Mosca su posizioni più concilianti così come avvenne nei primi anni ’70 grazie al “grand design” di R. Nixon e Kissinger. AFRICA LIBIA – In una Libia priva di una forza internazionale che vigili sul cessate il fuoco, scoppiano i conflitti tribali persino tra città confinanti, dove i blocchi stradali rappresentano il controllo del territorio da parte delle diverse fazioni. Il vero problema oltre alle fratture nelle componenti della popolazione, resta l’eccessiva reperibilità di armi pesanti che unite ai risentimenti dovuti alle varie violazioni commesse nel conflitto generano un mix esplosivo per la road-map verso una pace effettiva nel paese. EGITTO – Con l’ombra della prima tornata elettorale che incombe sulle mire di potere dell’elite militare, non si placa in Egitto lo sconforto dei movimenti che animarono Piazza Tahrir nella scorsa Primavera. La notizia della proroga di 15 giorni dell’arresto del blogger Alaa Abdel Fattah, nonostante sia caduta l’accusa di porto d’armi abusivo, non fa che aumentare il dubbio che le elezioni del dopo-Mubarak non si svolgeranno in maniera così pacifica come è avvenuto in Tunisia. La giunta militare oltre ad aver ideato quello che è stato definito il sistema elettorale più complesso del mondo, sembra disposta a tutto pur di non perdere l’influenza sulla politica che ha conquistato in questi mesi. SOMALIA – Le indiscrezioni su un possibile apporto americano nell’invasione mirata delle truppe keniote contro Al Shaabab si fanno sempre più convincenti, con l’ambasciatore di Nairobi all’ONU pronto a richiedere lo stanziamento di una forza di pace internazionale per vigilare su un possibile ritorno di fiamma del movimento qaedista, sorvegliato speciale insieme al Lord Liberation Army e  ai Boko Haram nigeriani, nella strategia per l’Africa della C.I.A e del Pentagono.

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AMERICHE Martedì 15- Dopo il vertice dei paesi dell’Apec tenutosi alle Hawaii continua il tour Asiatico di Barack Obama con la visita in Australia, paese amico e alleato strategico nella regione e l’ultima tappa a Bali in Indonesia. La missione del Presidente è principalmente quella di rassicurare gli alleati sulla continuità dell’impegno americano nella zona del Pacifico posta al primo posto dell’agenda in seguito alle decisioni di ritiro dall’Iraq e dall’Afghanistan. BRASILE – In vista dei mondiali di calcio e le olimpiadi che innalzano Rio de Janeiro agli occhi della stampa globale, si moltiplicano le iniziative di ordine pubblico nelle favelas in mano ai signori del narcotraffico. Dopo l’arresto di Antonio Bonfim Lopes, vero padrone della favela Rocinha, nel week-end una task-force di 3000 uomini, 18 mezzi blindati della marina e 7 elicotteri da combattimento ha ridato respiro, in sole 3 ore di operazioni, agli abitanti della zona, oppressi dall’illegalità e dai soprusi delle bande criminali. MESSICO – E’ un colpo al cuore della lotta contro i narcos e la corruzione la morte del Ministro dell’Interno Francisco Blake Mora, precipitato con il suo staff in seguito all’avaria dell’elicottero che lo trasportava. Nel novembre di tre anni fa un incidente simile colpì un altro Ministro dell’Interno, Juan Camilo Moreno che precipito con  l’allora più importante investigatore antidroga José Luis Vasconcelos. Il varo della legge a tutela della libertà di stampa che protegge blogger e giornalisti concedendo più poteri allo Stato federale nelle indagini e la mappatura dei cartelli della droga che ha sancito Veracruz come capitale del narcotraffico, sono provvedimenti che vanno nella giusta direzione in un paese in bilico tra legge e criminalità. MEDIO-ORIENTE SIRIA – Mentre continuano incessantemente le repressioni armate delle manifestazioni contro il regime di Assad, e il veto di Cina e Russia blocca il Consiglio di Sicurezza dell’ONU è la Lega Araba a fare il primo passo di contrasto diplomatico contro le violenze che hanno generato migliaia di vittime. Sabato la Siria è stata sospesa dall’organizzazione con il voto contrario di Iran, Libano e l’astensione dell’Iraq. L’iniziativa del Qatar, sostenuta ufficialmente dal Segretario Generale ONU Ban Ki Moon, segue l’accettazione e la violazione sistematica del piano di pace proposto alla Siria dal Mondo Arabo. ARABIA SAUDITA – L’agenzia di stampa nazionale SPA ha confermato l’irruzione nell’Ambasciata saudita a Teheran e le violenze sul personale diplomatico compiute dai manifestanti fedeli a Bashar al-Assad, scatenatisi dopo la sospensione della Siria dalla Lega Araba.  Gli sgradevoli avvenimenti accomunano l’alleato più fedele degli Stati uniti in Medio-Oriente con la Turchia, membro della NATO, che ha evacuato le famiglie dei suoi diplomatici stanziati a Teheran dopo le aggressioni dei lealisti. Fabio Stella [email protected]

Eravamo le culle della civiltà…

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…ed ora sembriamo sull’orlo del baratro. Italia e Grecia sono accomunate in queste settimane agitate per essere considerate le “spine nel fianco” dell’Unione Europea. Le crisi politico-economico-finanziarie in cui i due Paesi sono finiti potrebbero, secondo alcune analisi, accendere una miccia che porterebbe all’esplosione della moneta unica. Cerchiamo di effettuare qualche ragionamento a mente fredda sulla situazione

 

DALLA CULLA DELL’OCCIDENTE… ALLA TOMBA? – Le civiltà greca e romana hanno dato tantissimo alla civiltà occidentale: due lingue che stanno alla base di molti degli idiomi parlati oggi, una cultura vasta in ogni campo del sapere, un modo di pensare, capolavori in architettura e arti figurative. Oggi, per un contrappasso tanto paradossale quanto crudele, potrebbero decretare esse stesse la fine di quello che sembra essere l’apice dell’integrazione politica e istituzionale nel Vecchio Continente, ovvero l’Unione Europea. Italia e Grecia sono nell’occhio del ciclone per le crisi finanziarie che stanno provocando gravi conseguenze non solo a livello interno, ma anche regionale e globale. C’è che dice che i due Paesi potrebbero essere i responsabili di un meccanismo nefasto che porterebbe addirittura alla disgregazione delle istituzioni comunitarie. Uno scenario simile, lo chiariamo subito, non ci sembra possibile. Sempre che si riesca ad imboccare la strada giusta, cosa non facile in questo periodo agitato e convulso.

 

QUI ATENE – La situazione della Grecia è veramente drammatica, come testimoniano tutti i principali parametri macroeconomici. Per capire come stanno le cose, è sufficiente fare un rapido paragone con l’Argentina del 2001, che esattamente dieci anni fa dichiarò il default sul proprio debito estero, giungendo poi a rinegoziarne solo il 35%. Bene, i fondamentali macroeconomici di Buenos Aires non erano così devastanti come si potrebbe pensare. L’economia era in stagnazione, ma non attraversava una recessione pesante come quella ellenica. Il bilancio dello Stato aveva un deficit contenuto, nell’ordine dell’1-2%, mentre quello greco – sul quale le autorità politiche mentirono – si aggira attorno al 10% del Prodotto Interno Lordo. Continuiamo con la bilancia dei pagamenti: anche in questo caso, quella greca è pesantemente in disavanzo, mentre quella argentina si trovava leggermente in attivo. E concludiamo con il debito: il Paese sudamericano si trovava a fronteggiare un ammontare che aveva raggiunto il 60% del PIL, una percentuale irrisoria in confronto al 160% al quale è arrivato quello greco. Vero è che il debito argentino era cresciuto in termini relativi molto rapidamente in pochi anni, e questa fu una delle cause scatenanti del default, ma vogliamo scommettere che se Buenos Aires si fosse trovata nell’Unione Europea probabilmente non sarebbe fallita? La Grecia si trova oggettivamente in condizioni più gravi, eppure, grazie agli sforzi finanziari della Banca Centrale Europea e a quelli politici attuati dalla coppia “Merkozy”, non è ancora precipitata.

 

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QUI ROMA – Fino alla fine il Presidente del Consiglio ha cercato di resistere stando al Governo, riducendo in qualche modo la gravità della crisi italiana anche con battute infelici pronunciate davanti ai riflettori di tutto il mondo (come al G-20 di Cannes). Intanto, lo “spread” è schizzato nella giornata di mercoledì 9 novembre fino al livello record di 576 punti base. In pratica, i buoni del Tesoro italiani ieri rendevano il 5,76% (il 7,25% complessivo) in più degli stessi titoli tedeschi, considerati i più affidabili in Europa e quindi utilizzati come parametro di riferimento. Ad un passo dal baratro, considerando che i tassi di interesse oltre la soglia del 6-7% sono considerati praticamente insolvibili, quindi da default. Una situazione resa ancor più paradossale del fatto che i titoli di Stato con scadenza a due anni rendevano più di quelli a scadenza decennale, offrendo alla curva dei rendimenti una forma del tutto innaturale. Il messaggio, però, era chiaro: i mercati, seppur dipendenti da numerose operazioni speculative, non si fidano dell’Italia nel breve termine, ponendo più fiducia verso un futuro lontano di cui nulla al momento si conosce. Il debito pubblico italiano, giunto al livello del 120% del PIL, ammonta a quasi 2000 miliardi di Euro, una cifra molto più elevata in termini assoluti di quella greca e molto più esposta a livello internazionale.

 

E ALLORA? – Siamo prossimi alla fine? Il think-tank statunitense “Stratfor” sostiene che allo stato attuale delle cose è l‘Italia, e non la Grecia, a costituire la minaccia principale per la stabilità dell’Unione Europea. Tale analisi è condivisibile, in quanto un’uscita “pilotata” di Atene dall’euro potrebbe essere uno scenario sostenibile a causa del peso ridotto dell’economia e del debito ellenico in termini assoluti. La situazione italiana è davvero drammatica, se persino “Il Sole 24 Ore”, che ha sempre rifuggito titoli “urlati” e sensazionalistici, oggi (giovedì 10 novembre) ha aperto con un “FATE PRESTO” scritto a caratteri cubitali, rivolto ai continui balletti tra maggioranza e opposizione parlamentare. Tuttavia, va ricordato che nel 2013 il nostro Paese raggiungerà – o meglio, dovrebbe raggiungere – il pareggio di bilancio, e che l’avanzo primario dovrebbe aumentare al 5,7% del PIL entro quattro anni. Addirittura, in un articolo comparso il 6 ottobre su “Milano Finanza”, il capo-economista di UniCredit Erik Nielsen sosteneva come la “tripla A” garantita al rating del Regno Unito valesse in realtà meno del giudizio rivisto al ribasso per l’Italia. Insomma: è vero, i conti pubblici sono in regola e l’economia reale è ancora robusta. In più, la sopravvivenza dell’Unione Europea è un’esigenza troppo forte e condivisa da tutti i Paesi dell’area perchè Roma possa essere abbandonata a se stessa. Il problema principale è essenzialmente di credibilità delle istituzioni, e dunque di natura politica: se non si provvederà presto a recuperare stabilità e ad imboccare una rotta seria e precisa, allora sì che le cose potrebbero mettersi davvero male.

Una nuova repubblica asiatica

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Lo scorso 30 ottobre, ad un anno e mezzo circa dal colpo di stato che ha portato alla destituzione dell’ex Presidente Kourmanbek Bakiyev, alla costituzione di un governo provvisorio guidato dal Presidente ad interim Roza Otunbayeva e dai violenti scontri etnici avvenuti tra la maggioranza kirghiza e la minoranza uzbeka, il Kirghizistan è tornato alle urne. Il nuovo Capo di Stato eletto già al primo turno, con il 62,8% delle preferenze, è l’ex Primo Ministro uscente Almazbek Atambaiev, leader filorusso del Partito socialdemocratico

UNA REPUBBLICA PARLAMENTARE IN ASIA CENTRALE – Il Kirghizistan, piccola repubblica centrasiatica nata dal crollo dell’Unione Sovietica, è considerata dai più importanti osservatori internazionali quasi uno “stato fallito” ed è relegata agli ultimi posti di tutte le classifiche di Freedom House e Human Rights Watch che misurano gli standard politici, civili e sociali e in quelle che prendono in considerazione gli standard economici e finanziari.

Ciò nonostante da un anno è riuscita, a dispetto dei suoi vicini – ben più importanti per dimensione, popolazione e risorse energetiche possedute – a trasformare attraverso un referendum popolare la sua forma di governo da democrazia presidenziale a democrazia parlamentare. Un passo notevole per un Paese dove la figura dell’uomo forte al governo è una costante del panorama politico.

L’instaurazione del sistema democratico in uno stato asiatico, governato a lungo dal regime sovietico e divenuto indipendente solo da un ventennio, non può non essere influenzato e rispecchiare i caratteri peculiari della storia e della cultura che gli sono propri, ma per usare le parole del coordinatore speciale della missione degli osservatori dell’OSCE (Organization for Security and Co-operation in Europe) Walburga Habsburg Douglas, si può dire di essere “prudentemente ottimisti per il futuro della democrazia in Kirghizistan”. Nonostante siano state rilevate delle “irregolarità significative” le elezioni per la nomina del nuovo Presidente si sono svolte infatti senza scontri in un clima di assoluta tranquillità. Le elezioni dell’ottobre del 2010 nelle quali i kirghizi si sono recati alle urne per eleggere il nuovo Parlamento e quelle di quest’anno per l’elezione del nuovo Presidente sono state, quindi, un banco di prova importante per la democrazia.

IL PANORAMA POLITICO-ELETTORALE – Questo aspetto assolutamente positivo però non deve ingannare. Il frazionamento politico in Kirghizistan è fortissimo ed è espressione delle diverse regioni del Paese, dei clan dominanti e delle etnie presenti al suo interno, tanto che inizialmente si erano iscritti alle liste elettorali ben 86 candidati, in un paese che raggiunge appena i 5 milioni di abitanti. Il numero dei candidati è stato poi ridotto a 19 dalla Central election commission (Cec) a causa delle mancanza dei requisiti necessari per la partecipazione alle elezioni della maggioranza di essi.

Il principale protagonista della campagna elettorale è stato senz’altro l’ormai ex Primo Ministro Atambaiyev (nella foto sopra) – già favorito – insieme ai suoi due principali avversari Adakhan Madoumarov proveniente dalla provincia di Osh, espressione delle istanze del sud, che ha guadagnato poi il 14,9% dei voti, e Kamtchybek Tachiev, dello Ata Jurt, anche lui radicato nel sud del paese sostenitore del nazionalismo estremo e dell’ex presidente Bakiyev. Questi ultimi, quindi, esponenti del nazionalismo e di quella parte sud del paese dove lo scorso anno ci sono stati i violenti scontri etnici. Mentre l’attuale Presidente ad interim, in carica fino alla fine dell’anno e che ha guidato il paese dopo l’allontanamento di Bakiyev, non si è presentata alle elezioni.

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IL RISULTATO ELETTORALE E LE ACCUSE DI BROGLI – Vista la conformazione dei collegi elettorali molti analisti internazionali inizialmente sostenevano che nessun candidato avesse la forza per vincere le elezioni al primo turno e che pertanto si sarebbe necessariamente passati alla fase del ballottaggio, ma a dispetto di ogni previsione, le cose sono andate diversamente. Atambaiyev ha ottenuto già al primo turno il 63,24% delle preferenze.

Gli osservatori dell’OSCE, benché abbiano dichiarato che le elezioni si siano svolte in un clima calmo e pacifico nel rispetto delle libertà fondamentali, hanno anche registrato il verificarsi di irregolarità significative e gravi problemi organizzativi il giorno dello spoglio. Tali dichiarazioni hanno scatenato le ire degli oppositori che hanno richiesto l’immediato annullamento del voto rifiutandosi di riconoscere la vittoria del neo-premier, con la promessa – in caso contrario – di “inevitabili disordini”. Nei giorni scorsi ci sono state le prime manifestazioni di protesta anche se fortunatamente i due candidati sconfitti non hanno lanciato uno specifico appello alla popolazione perché scendesse in massa per le strade e la situazione sembra almeno per il momento sotto controllo.

NUOVE E IMPORTANTI SFIDE ATTENDONO IN KIRGHIZISTAN – Non solo il risultato elettorale, ma anche le modalità con cui i kirghizi sono andati al voto mostrano ancora una volta le enormi spaccature presenti tra il nord e il sud del paese. L’affluenza alle urne che ha raggiunto a livello nazionale il 57%, è stata molto forte al nord, dove sono radicati i sostenitori di Atambaiyev mentre al sud, roccaforte dei sostenitori dell’ex presidente Bakiyev e dove risiedono le radici dell’odio tra kirghizi ed uzbeki, è stata molto bassa. Non deve quindi essere sottovalutato il fatto che si tratta di un paese che in sei anni ha conosciuto due rivoluzioni – la prima, la Rivoluzione dei Tulipani nel 2005 per destituire di dittatore Akayev e la seconda nell’aprile dello scorso anno per destituire Bakiyev – violenze etniche inaudite, la pressione delle potenze internazionali, che la considerano una zona strategica dello spazio post-sovietico, e vittima di governi incapaci di promuovere lo sviluppo ed il progresso del paese.

Subito dopo la sua elezione Atambayev ha dichiarato: "La gente è stanca di proteste, non vuole altro sangue. Abbiamo già avuto abbastanza rivoluzioni. E' tempo di lavorare". Il neo-Presidente ed il suo esecutivo dovranno dimostrare, quindi, di essere in grado di trovare un accordo trasversale con le diverse anime del paese in modo da assicurare un miglioramento sostanziale alla condizione socio economica del paese e soprattutto di guidare il paese attraverso la democrazia parlamentare senza cedere alla tentazione di dare vita ad un nuovo “sultanato” simile a quelli dei suoi predecessori, per scongiurare l’esplosione di nuove violenze. Il paese guarda avanti, i kirghizi sembrano essere divenuti più consapevoli dei risultati finora raggiunti e delle sfide future che li attendono e guardano al neo-presidente con una nuova speranza. Saprà quest’ultimo soddisfare le esigenze del paese?

Marianna Piano [email protected]

Una colonia cinese?

Siamo davvero di fronte a una “Cinafrica”? Ovvero, il continente nero è l'oggetto di una nuova “colonizzazione” in arrivo da Pechino sotto forma di investimenti diretti esteri? Sì, ma soltanto in parte. I dati elaborati dal CeSIF (Centro Studi per l'Impresa della Fondazione Italia Cina), che vi proponiamo in esclusiva, mostrano che è l'Asia il continente dove il Dragone investe di più, seguita dall'America Latina, dove si investe 5 volte più che in Africa. Quali le ragioni di questa dinamica? Ecco alcune chiavi di lettura

UN'AFRICA CON GLI OCCHI A MANDORLA? – C'è chi ha parlato di “Africa cinese” o di “Cinafrica”, in relazione al nuovo processo di “colonizzazione” che Pechino starebbe attuando da alcuni anni a questa parte nel continente nero. È indubbio che gli investimenti messi in atto dal Dragone in Africa, soprattutto in termini di infrastrutture, rappresentino un fenomeno molto interessante proprio perchè la presenza di capitali cinesi nella regione è aumentata in maniera rapida e si è diffusa in maniera decisamente capillare, andando a toccare non solo i Paesi più sviluppati come il Sudafrica ma anche quelli più arretrati come la Repubblica democratica del Congo. C'è da sottolineare anche come l'approccio cinese abbia saputo fare breccia nelle élites politico-economiche di questi Stati: dopo lo sfruttamento da parte delle potenze coloniali e dopo le condizioni imposte dai Paesi occidentali, sostenute con forza dalle Nazioni Unite, per il rispetto dei diritti umani e l'implementazione di riforme in senso democratico, l'arrivo di investitori dotati di “cash” e inclini a porre poche condizioni per i loro investimenti è servito ad aprire la strada alla penetrazione cinese in Africa. LE COSE STANNO PROPRIO COSI'? – Se ci fermassimo a queste considerazioni, potrebbe sembrare che la Cina abbia scelto l'Africa come territorio privilegiato per i propri investimenti. Un continente ricchissimo di risorse naturali e ancora largamente sottosviluppato, una vera e propria terra delle opportunità. In realtà, le cose non stanno esattamente in questi termini. Poche settimane fa il CeSIF (Centro Studi per l'Impresa della Fondazione Italia Cina), che annovera tra i propri soci circa quattrocento imprese italiane presenti sul mercato cinese e le più grandi realtà cinesi che hanno investito nel nostro territorio, ha elaborato una serie di dati relativi agli Investimenti Diretti Esteri (IDE) che Pechino realizza in tutto il mondo. Bene, qual è l'area più interessata dall'afflusso di yuan? L'Asia, con quasi 45 miliardi di dollari ricevuti nel corso del solo 2010. Questo dato in realtà non deve stupire troppo, dato che i Paesi limitrofi alla Cina, dall'Indocina all'Asia Centrale, possiedono un valore geopolitico e geoconomico imprescindibile per Pechino, come vi stiamo spiegando attraverso il nostro speciale “La Cina e i suoi vicini”. Tolta dunque l'Asia, ci si aspetterebbe che la seconda regione più interessata dall'afflusso di capitali cinesi sia proprio l'Africa. E invece il continente nero si trova solo al penultimo posto con “appena” 2,1 miliardi di dollari ricevuti nel 2010, poco più che quanto affluito in Oceania (dove in pratica i Paesi sono tre: Australia, Nuova Zelanda e Nuova Guinea), con 1,8 miliardi di dollari. Al secondo posto, invece, si trova l'America Latina, vera “miniera d'oro” per gli investimenti cinesi: 10,5 miliardi di dollari, il quintuplo rispetto all'Africa, con una crescita letteralmente esponenziale dal 2003 ad oggi che vede registrare un aumento di oltre il 1000%. Al terzo posto, infine, l'Europa, con 6,7 miliardi, seguita dal Nord America con 2,6.

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HIT PARADE AFRICANA – Andiamo ora ad esaminare più in profondità i dati relativi al continente africano. Nel 2010, il Paese che ha ricevuto più investimenti dalla Cina è stato il Sudafrica con 411,17 milioni di dollari: esattamente dieci volte di più che nel 2009. Come è possibile un aumento di questo genere? In realtà si tratta di dati “alterati” dalla realizzazione di un unico, o di pochi investimenti, molto ingenti che da un anno all'altro provocano cambiamenti improvvisi (questo accade in diversi Stati). Per il Sudafrica la spiegazione è data dagli investimenti confluiti per l'organizzazione dei Mondiali di Calcio, che si sono svolti proprio l'anno scorso. Abbastanza stabile al secondo posto è invece la Repubblica democratica del Congo, che con 236 milioni di dollari vede sostanzialmente confermarsi il dato del 2009. Tra i Paesi principali destinatari dei capitali cinesi vi sono tutti quelli maggiormente in crescita, come Algeria, Ghana, Angola e Nigeria, ma quello che è più interessante è la presenza di Paesi ancora largamente sottosviluppati e meno dotati di risorse naturali ed energetiche. Consideriamo per esempio Niger e Ciad, stati sahariani che non sono stati “baciati” da Madre Natura e che si trovano in posizioni geografiche isolate ed estremamente difficili. Ebbene, il Niger è al terzo posto nel 2010 con 196, 2 milioni di dollari, mentre Ciad e Madagascar erano rispettivamente settimo ed ottavo nel 2009 (51,2 ml e 49,3 ml). INTERPRETAZIONI – Riteniamo che i dati presentati in questo articolo siano di grande interesse. Per interpretarli, vanno innanzitutto scomposti in due livelli. Il primo è quello internazionale: come abbiamo visto, l'Africa si trova solamente al quinto posto tra le regioni del mondo come destinatario degli investimenti cinesi. Che significa tutto ciò? Di certo non vuol dire che tutti gli articoli e i libri sulla “colonizzazione gialla” siano carta straccia. L'Africa è indubbiamente strategica per Pechino, ma ancor di più lo è l'Asia e, probabilmente, l'America Latina. Bisogna inoltre riflettere sul fatto che il continente africano è ancora il meno sviluppato al mondo e dunque i costi da sostenere per un investimento, dalla costruzione di una fabbrica alla realizzazione di infrastrutture, sono molto più bassi che in altre regioni. Pensiamo soltanto al bassissimo costo della manodopera, mentre la forza lavoro più qualificata viene “esportata” dai cinesi e impiegata sul posto. Il secondo livello di analisi è quello interno al continente africano. La forte presenza in Paesi più sviluppati e in forte crescita, anche in questo caso, non deve sorprendere. Più interessante è la dinamica degli investimenti in aree più arretrate e meno “battute” dalle altre potenze economiche mondiali: Paesi come il Niger e il Madagascar RDC sono considerati meno appetibili da altri Paesi investitori. È lì dunque che la presenza di Pechino può rivelarsi più influente anche da un punto di vista strettamente politico, oltre che puramente economico. Davide Tentori [email protected]

Potenza di pace (2)

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Proseguiamo la nostra analisi delle missioni di pace a cui ha partecipato l’Italia negli ultimi anni, dedicandoci in particolare agli interventi che vedono le nostre Forze Armate protagoniste in Afghanistan e in Libano, attraverso la missione UNIFIL-2. Tale strumento militare, la cui efficacia non può essere negata nonostante esistano diverse problematiche, costituisce una caratteristica fondante della politica estera nazionale. Non è un caso se i nostri soldati sono apprezzati dalle popolazioni coinvolte e contribuiscono a fornire un’immagine positiva del nostro Paese all’estero

 

(Seconda parte) UN BILANCIO DI QUESTI DIECI ANNI – Nonostante il costante riconoscimento estero del nostro impegno militare in Afghanistan, come in Libano (sembrerebbe quasi che i nostri soldati siano i soli in grado di procacciarci un po’ di complimenti fuori dai confini domestici), è tuttavia chiaro che il bilancio decennale del nostro coinvolgimento in questa missione sconti il fallimento – oggettivo, palese e drammatico – delle più generali strategie NATO susseguitesi in questi 10 anni. La sostanziale incapacità nel favorire la transizione nel controllo della sicurezza da ISAF alle forze armate afghane, l’inadeguatezza del cosiddetto comprehensive approach (che, nella pretesa di coniugare aspetti politici, economici e militari trova in realtà molti ostacoli nel conciliare le tre sfere) la mancata realizzazione di un sistema politico-istituzionale locale e, negli ultimi mesi, il moltiplicarsi di attentati contro i contingenti stranieri non solo ci offrono un quadro negativo dell’operato di ISAF ma sanciscono il fallimento più profondo della dottrina che ha ispirato la missione “Enduring Freedom” e delle modalità con cui essa è stata condotta: da una parte, infatti, ci troviamo ricondotti nel solco del navigato dibattito sulla democrazia come bene “esportabile” e dall’altra, ancor più gravemente, siamo inevitabilmente posti di fronti alla crisi della “missione di pace”. Se osserviamo, infatti, la casistica delle missioni militari negli ultimi vent’anni, ogni dispiegamento di truppe all’estero ha dato forma normativa a quella che all’inizio si proponeva solo come un’anomala e inedita dimensione dell’intervento militare (in cui, cioè, la presenza sul territorio di contingenti stranieri non era ufficialmente legata alla tradizionale vocazione militare – quella dell’uso della forza a scopo offensivo o difensivo – ma all’obiettivo di ripristinare o preservare la stabilità di una determinata zona geografica). La “routinizzazione” di questo tipo di missioni, tuttavia, mentre ha riformulato concettualmente la “sicurezza” come “bene comune” la cui assicurazione dipende unicamente dal suo fornitore occidentale, l’ha contemporaneamente eletta a prodotto esclusivo dei sistemi politici democratici. L’unico modo per rendere sicuro un luogo sarebbe, dunque, farlo diventare – anche con la forza – democratico. Proprio l’esperienza afghana ha fatto perdere troppo palesemente appeal a tale dottrina per doverci spendere ancora parole mentre la riflessione che si imporrà dopo l’agognato quanto controverso ritiro dall’Afghanistan (per ora prevista per il 2014), dovrà doverosamente vertere sui limiti dell’ibridazione tra la figura del soldato e quella dell’operatore di pace o del “democratizzatore”.

 

L’ (IN)SUCCESSO DI UNIFIL-2 – Un caso certamente molto più positivo dell’esperienza afghana, seppur ricco di controversie, è la cosiddetta Unifil-2 (United Nations Interim Force in Lebanon), missione in cui l’Italia ha svolto e continua a svolgere un ruolo di primo piano, ricevendo anche l’incarico del comando dell’intera missione dal 2007 al 2010. Inaugurata nel 2006 nel sud del Libano, subito dopo il ritiro delle forze israeliane dal territorio libanese che sanciva la fine della guerra tra lo stato ebraico e l’Hezbollah, gruppo militante sciita e partito politico libanese, Unifil-2 è una missione condotta sotto l’egida dell’ONU, in continuità con la missione “madre” Unifil-1, attivata già nel 1978, a tre anni dall’inizio della guerra civile libanese (1975-1990). I caschi blu della prima missione, dispiegati nello stesso triangolo del Libano meridionale in cui anche Unifil-2 opera, avevano il compito di proteggere le popolazione di questa parte del paese, che per la strategica posizione di confine con Israele, è sempre stata e continua ad essere particolarmente sensibile alle crisi interne e inter-statali. Nel 2006 il quadro desolante dato dalla distruzione delle infrastrutture, dall’emergenza alimentare, sanitaria e umanitaria che le incursioni israeliane avevano causato nei villaggi al di sotto del fiume Litani, spinse il Consiglio di Sicurezza dell’ONU a decretare il rinnovo della missione Unifil, il cui mandato fu ovviamente rimodellato rispetto alla missione precedente. Unifil-2 fu così “benedetta” dalla risoluzione 1701, con l’obiettivo di stabilizzare il confine con Israele (tuttora definito solo parzialmente dalla cosiddetta “Linea Blu”, una fascia di frontiera sulla cui delimitazione i due stati hanno trovato solo parzialmente un accordo), di depurare la zona da armi illegali e restituire piena sovranità allo stato libanese, attraverso un passaggio graduale del controllo dell’area dai caschi blu alle LAF (Lebanese Armed Forces). Quest’ultimo punto, nel momento iniziale della missione, rappresentava ovviamente la fase finale della missione, che mirava prima di tutto a garantire l’effettivo e totale “cessate il fuoco” oltre al completamento del ritiro totale delle truppe israeliane dal territorio libanese. Più volte oggetto di severe critiche per la presunta inefficienza delle forze internazionali nel controllare le armi che Hezbollah sembrerebbe detenere proprio in questa zona del paese (critiche spesso influenzate da insinuazioni della stampa israeliana su una presunta connivenza dei contingenti Unifil) e nel portare a compimento il trasferimento delle competenze alle LAF, la Missione Unifil-2 non è mai stata considerata una missione di successo. Il duro e forse ingeneroso giudizio che pende su questa missione, condiviso da gran parte degli opinionisti italiani, non tiene, tuttavia, conto di come l’impegno civile dei caschi blu nella gestione della ricostruzione e nella pacificazione dell’area abbia cambiato il volto di centinaia di villaggi, che dopo il ritiro di Israele si trovavano in uno stato di precarietà assoluto. Diversamente dal caso afghano la maggior parte della popolazione del Libano meridionale ritiene che i militari debbano restare lì, in questo momento di crisi regionale più che mai; alcuni dei cittadini più anziani ricordano ancora positivamente il comandante italiano Graziano che, sotto Unifil 1, è stato l’undicesimo militare a  guidare la missione. E’ un dato forse secondario rispetto al computo effettivo dei risultati ma la domanda che ci si può e, forse, ci si deve porre è piuttosto se il dispiegamento di truppe nel sud del Libano, seppur non in grado di dare impulso ad una rapida ed efficace transizione politica, non sia stato comunque fondamentale nell’arginare un tracollo di gran lunga peggiore rispetto all’attuale status quo, perennemente precario ma pur tuttavia pacifico.

 

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CONSIDERAZIONI FINALI – Dall’altro lato, certamente, il caso Unifil, parallelamente al caso afghano, ci dice che lo strumento militare non è sufficientemente capace di portare stabilità mentre i processi di democratizzazione e di rafforzamento della sicurezza devono gioco forza dipendere prioritariamente dal mutamento istituzionale. Questo rappresenta ovviamente un problema endogeno alle due missioni, per cui, ovviamente, un paese come l’Italia riceve i dividendi di una performance scollata dagli obiettivi per il fatto stesso di essere uno degli attori chiave della missione stessa. C’è un fattore, tuttavia, che rischia, nel caso afghano, di incrementare il disastro che la presenza dei contingenti su quel territorio ha prodotto alle popolazioni locali e, nel caso libanese, di favorire l’aggravarsi della situazione politica in un momento in cui le tensioni tra gli attori interni e i vicini regionali si sta surriscaldando: i drammatici deficit di bilancio delle economie occidentali, a partire da quella americana, potrebbero, infatti, indurre gli stati alla rinuncia dell’ambizione di rendere sicure aree a rischio, con la conseguenza che per dar respiro alle finanze pubbliche, si metta in atto un ritiro repentino. Con tutti i rischi che comporta lasciare un lavoro a metà.  Nel caso italiano questo è particolarmente indicativo ma anche particolarmente ricco di conseguenze: una delle prime proposte lanciate inizialmente dalla Lega Nord e poi rilanciate dal governo, nel luglio 2011, è stata il ritiro delle truppe dalle missioni internazionali proprio mentre l’ONU chiedeva all’Italia di assumere nuovamente il controllo della missione. Il tornaconto di una proposta che facilmente attira consenso nell’opinione pubblica non deve, tuttavia, farci dimenticare che, mentre la curva degli spread sembra marcare il tracollo della nostra economia e della nostra fiducia internazionale, il rimedio dell’isolazionismo, per una media potenza come l’Italia, potrebbe comportare un declassamento nel panorama degli attori globali significativamente più incisivo di quello di stati vicini e lontani molto più forti, divaricando così lo scarto di “potenza”, che in un sistema internazionale ogni giorno più competitivo, sarebbe sempre più difficile da recuperare.

 

Marina Calculli

Venti di guerra preventiva

Il nostro caffè settimanale ribolle sotto la pressione delle minacce di guerra: Israele torna alla ribalta della scena mondiale dichiarando di essere preparata ad un inevitabile scontro con l’Iran di Ahmadinejad, accusato di voler costituire un arsenale nucleare strategico dai media occidentali e forse persino dal prossimo rapporto dell’AIEA. Intato l'Europa è “distratta” dagli allarmanti temi economico-finanziari, e gli Stati Uniti sono proiettati verso la campagna elettorale delle Presidenziali 2012 e il ritiro annunciato da Iraq e Afghanistan

EURASIA

7-8 Novembre – L’economia tiene ancora in pugno le istituzioni europee, lunedì con il meeting dell’Eurogruppo e martedì con il Consiglio per gli Affari economici e finanziari. Al centro del dibattito le misure discusse il 23 e il 26 Ottobre in merito ad una tassa sulle transazioni finanziarie e le conclusioni adottate dal G20 di Cannes, che ha sancito il controllo dell’FMI sull’economia italiana.

(FRANCIA) – Voltafaccia inaspettato di Parigi sulle contromisure da adottare in caso di proliferazione nucleare da parte dell’Iran. Dopo le indiscrezioni su una possibile intesa stretta dal governo di Netanyahu con il Ministero della Difesa britannico, in merito ad un disarming first strike contro le installazioni nucleari sotterranee sviluppate nell’area di Qom, il Ministro degli Esteri francese Alain Juppé ha chiesto nuove sanzioni per evitare “una situazione totalmente destabilizzante nella regione”.

(RUSSIA) – Si fanno sempre più insistenti le voci di una prossima visita ufficiale del Presidente del Consiglio S. Berlusconi in Russia (14-15 Dicembre) per discutere di cooperazione in materia economico-energetica, per collaborazioni ENI-GAZPROM e per un forte aiuto all’economia pubblica italiana. Sarebbero in ballo ben 3-5 miliardi di euro da investire sul debito pubblico italiano ormai al limite del baratro. I rapporti tra Putin e Berlusconi sono sempre stati ottimi e i rapporti personali del Premier potrebbero essere sfruttati ora come scialuppa di salvataggio.

AMERICHE

(STATI UNITI) – È scattato sabato il conto alla rovescia per le presidenziali del 2012 dove B. Obama cercherà una riconferma per niente scontata. Intanto mentre l’opinione pubblica preme per riforme economico-finanziarie, appare lo spettro di una guerra senza limiti tra Israele ed Iran. Un conflitto potrebbe trascinare l’esercito americano, esangue per gli impegni ancora aperti in Iraq e Afghanistan, nell’ennesimo conflitto a cavallo tra il Medio-Oriente e il Golfo Persico, da sempre nella top-list geostrategica americana.

(NICARAGUA)- Sembra scontata la vittoria elettorale del Presidente uscente Daniel Ortega del Fronte Sandinista dato al 48% dagli exit-polls. Da sempre grande amico di Hugo Chavez e Muhammar Gheddafi, il cui cugino è candidato nella sua lista, il Presidente punta tutto sulla crescita economica del Paese e sull’aumento delle esportazioni e degli investimenti in energie rinnovabili. L’asse con Caracas garantisce non solo protezione diplomatico-militare nella regione ma soprattutto 500 milioni di dollari all’anno in aiuti economici.

(CUBA)- Continua il percorso verso una liberalizzazione politico-economica intrapresa da Raul Castro, la notizia dell’apertura alla compravendita immobiliare ha sconvolto anche i detrattori del fratello del lìder maximo che mai come ora sembra voler garantire un futuro meno opprimente agli abitanti dell’isola e un forte impulso all’economia in difficoltà.

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AFRICA

(LIBIA) – Con il cambio della guardia in seno al CNT e la nomina di Abdelrahim al Kib al suo vertice, la Libia del dopo-Gheddafi affronta tutti i problemi tipici di un paese dissanguato e diviso da una guerra civile appena conclusasi. Il vero problema resta la conciliazione politico-tribale, senza una pacificazione o un accordo tra le varie anime del paese, con innumerevoli depositi ed arsenali di armi abbandonati, il paese non avrà di certo un futuro di stabilità, senza contare le sfide di una road-map democratica da affrontare dopo l’assassinio di un tiranno.

(NIGERIA) – Da sempre nel mirino dei droni della CIA e dello US Army, il movimento jihadista nigeriano dei Boko Haram si è conquistato un macabro status di notorietà nella comunità internazionale. Con una serie di attentati suicidi, autobombe e assalti armati con kalashnikov e granate, i fondamentalisti islamici che si battono contro ogni influenza occidentale e a favore dell’imposizione della shaaria hanno causato una settantina di morti tra forze di sicurezza, fedeli in uscita dalle chiese e dalle moschee e passanti ignari.

(EGITTO) – Mentre le celebrazioni per l'Eid al-Adha, la festa del sacrificio di Isacco, si aprono in tutto il mondo arabo, la campagna elettorale per le elezioni parlamentari del 28 novembre si fa sempre più accesa e dominata in gran parte dai “Fratelli Musulmani”. Grazie alla diffusione capillare delle cellule di militanti in tutto il paese e alla popolarità dei candidati della lista “Giustizia e Libertà”, i portavoce dell’islamismo moderato sembrano già i favoriti. Tuttavia, l’elite militare così saldamente attaccata al potere politico e la gioventù delle piazze della scorsa primavera potrebbero ostacolare l’esploit elettorale tramite candidati più aperti all’occidente e al mondo laico.

MEDIO-ORIENTE

(SIRIA)- Le sorti della Siria di Bashar al-Assad, da sempre legata a doppio filo col regime di Teheran, sembrano farsi sempre più buie dopo che un rapproto della Lega Araba ha sancito il mancato rispetto del cessate il fuoco e del divieto di repressione armata delle proteste pacifiche contenuti nel piano per la pace. Mentre il Qatar chiede nuove sanzioni e misure restrittive sulla sovranità siriana, l’opposizione internazionale ai progetti nucleari di Ahmadinejad potrebbe sancire la svolta decisiva sul governo di Damasco, abbandonato a se stesso anche dai più stretti alleati.

(ISRAELE) – Se i vertici politici e militari dell’unica democrazia del Medio-Oriente sembrano concordare nell’evitare in ogni modo una proliferazione nucleare iraniana, analisti politici ed esperti si dicono contrari ad un intervento che isolerebbe ancora di più l’unico paese non-islamico della regione e sancirebbe uno strappo irrimediabile con gli Stati Uniti, inevitabilmente costretti ad un’assistenza militare più o meno attiva in piena campagna elettorale. Israele si sente quanto mai accerchiata nella Comunità Internazionale, situazione ben rappresentata dal voto sull’ammissione all’UNESCO dell’ANP, ed è proprio in condizioni critiche che gli attori internazionali compiono scelte dettate dall’istinto di sopravvivenza e non dalla logica politico-stategica.

ASIA

7-8 Novembre- Si riunisce a Jakarta il Consiglio economico-finanziario dell’ASEAN, l’Associazione dei paesi dell’Asia orientale. Non sarà la crisi economica mondiale la protagonista del dibattito, bensì l’esempio offerto dalle tigri asiatiche nella resistenza dell’economia pubblica e nella forte crescita economica.

(THAILANDIA) – Si fanno di giorno in giorno più preoccupanti le condizioni di Bangkok, sommersa da due settimane dalle acque provenienti dalle campagne circostanti colpite dalla peggiore alluvione degli ultimi 50 anni. Il governo di Yingluck Shinawatra sembra aver mantenuto la fiducia dell’opinione pubblica nonostante la catastrofe diffusa che ha colpito da luglio più di 3 milioni di abitanti. Con oltre 500 morti, l’alluvione circonda ora il quartiere finanziario della capitale, vero cuore pulsante di quella che si proponeva alla scena mondiale come una delle nuove tigri asiatiche.

Fabio Stella [email protected]

Lezioni di Libia

Con la morte di Gheddafi e la fine del suo regime ha termine anche l’operazione Unified Protector. Per gli alti comandi alleati è giunto il momento di trarre le conclusioni su cosa abbia funzionato e cosa no, poiché l’operazione ha fornito l’opportunità di verificare le capacità di una forza NATO operante senza un predominante supporto USA. Senza Washington, il gigante NATO mostra in realtà di avere piedi d’argilla o, meglio, di non essere più capace di operare lontano dai propri confini

 

PROIEZIONE – Non serve a nulla avere un potente esercito se non posso farlo agire là dove serve. La proiezione (force projection) è la capacità di una nazione o di una coalizione di portare fisicamente le proprie forze là dove esse devono operare. Nel caso di Unified Protector tutto si riassumeva nella necessità di avere un sufficiente numero di aerei (caccia e cacciabombardieri) e altri velivoli (elicotteri) a distanza utile per colpire l’apparato militare di Gheddafi. Per fare questo sono necessarie navi portaerei, capaci di trasportare via mare i velivoli che non possono operare da lunga distanza. Senza portaerei tale capacità risulta compromessa e indipendentemente dai numeri “su carta” la forza effettivamente disponibile può ridursi sensibilmente.

 

SENZA NAVI? – Una volta ridotto l’impegno USA, le forze NATO, in particolare quelle europee, si sono trovate a corto proprio di portaerei. La Gran Bretagna ha decommissionato (mandato in pensione, preludio alla rottamazione) la sua ultima portaerei, la HMS Ark Royal, in Marzo. La Francia possiede un solo vascello di questo tipo, la Charles de Gaulle, mentre l’Italia è risultata essere la nazione meglio fornita, operando alternativamente la Cavour e la piccola Garibaldi. Tuttavia tre navi da sole non possono alloggiare un numero sufficiente di velivoli, oltre a non essere spesso in grado di ospitare cacciabombardieri delle nazioni alleate per questioni tecniche (lunghezza rampa di lancio, spazio fisico sulla nave…). Ciò che ha aiutato lo sforzo NATO è stata la relativa vicinanza della Libia all’Europa; è stato perciò possibile impiegare numerose basi sulla terraferma europea. Proprio l’Italia è risultata fondamentale sfruttando la sua posizione geostrategica di “portaerei naturale” al centro del Mediterraneo. Va detto però che tale soluzione era tutt’altro che ideale: le maggiori distanze coinvolte hanno comportato minore rapidità di risposta alle richieste di intervento nel caso i velivoli non fossero già in zona, oltre a un maggiore dispendio di carburante e minore tempo operativo per ogni apparecchio (causa necessità di perdere tempo per andata e ritorno).

 

IL FUTURO – La situazione non appare destinata a migliorare, soprattutto a causa dei vasti tagli alla difesa operati dalle nazioni. La Gran Bretagna ha sì in progetto di introdurre due nuove portaerei (classe Queen Elizabeth), ma la prima verrà costruita solo nel 2013-14 e non è previsto venga armata per diventare operativa, mentre per la seconda si potrebbe attendere fino al 2020. La Charles de Gaulle è invece unica nel suo genere e il suo particolare design – poco efficiente – la obbliga a sottostare a lunghi periodi di manutenzione che la rendono inutilizzabile per circa il 35% del tempo; inoltre verrà sottoposta a un lunga revisione nel 2014. Durante tali periodi dunque la marina francese ne rimane – e rimarrà – priva. I piani per una nuova portaerei sono stati fermati dal Presidente Nicholas Sarkozy causa costi eccessivi e sono attualmente in fase di revisione – cosa che probabilmente posticiperà ulteriormente ogni nuova costruzione. L’Italia come detto è invece in migliori condizioni, avendo già due navi che dunque possono alternarsi permettendo una presenza aeronavale costante. Tuttavia anche qui esistono nubi all’orizzonte: i cacciabombardieri Harrier a decollo verticale imbarcati sulla Garibaldi potrebbero andare fuori servizio fra qualche anno, e la nave non è adatta a ospitare altri tipi di velivoli alternativi ora nell’arsenale italiano.

 

SENZA MORDENTE – Che significa? In breve, la NATO e l’Europa senza gli USA rischiano di non poter più proiettare il proprio air power lontano da casa. Meno capacità di proiezione porta a minori possibilità di intervento, che a sua volta comporta un’inferiore rilevanza strategica e, in ultimo, una sempre minore influenza al di fuori dei propri confini e immediate vicinanze. Che succederebbe infatti in caso di crisi in luoghi molto più lontani di quanto fosse la Libia? Ottenere basi terrestri all’estero è sempre complicato e soggetto a difficili negoziati che potrebbero anche non avere successo. Anche qui o si impiegano le strutture USA oppure le prospettive appaiono buie.

 

Non solo: l’aiuto USA è stato comunque necessario per quanto riguarda altri aspetti. Per mantenere più a lungo i caccia in zona di operazioni si è provveduto a rifornirli in volo; peccato però che numerosi paesi siano privi di aerei cisterna o non ne abbiano a sufficienza, costringendoli così ad appoggiarsi a quelli dell’USAF. Analogamente la ridotta capacità degli aerei NATO di operare anche in condizioni meteorologiche sfavorevoli (soprattutto in caso di fitte nubi) e la ridottissima disponibilità di droni ed elicotteri d’attacco ha anche in questo caso costretto gli USA a mantenersi operativi fino all’uccisione del Colonnello, pena la profonda riduzione dell’intensità dell’operazione alleata. Tali problematiche sono state riconosciute dallo stesso Segretario Generale della NATO Anders Fogh Rasmussen e dal comandante di Unified Protector Generale Charles Bouchard.

 

FUTURO INCERTO – La NATO – e in generale l’insieme delle forze armate europee – ha dimostrato di essere un gigante con i piedi d’argilla. I tagli ai budget degli ultimi anni hanno ridotto considerevolmente le capacità operative e l’operazione Unified Protector ha mostrato come stia diventando sempre più difficile agire senza diretto intervento USA (che, per inciso, il loro coinvolgimento vorrebbero ridurlo per gli stessi motivi economici!). La situazione non è destinata a migliorare, rispecchiando in termini militari quella crisi di importanza globale che l’Europa sta ora affrontando anche in ambito economico e politico. Il problema appare ancora più rilevante se si pensa invece alle mosse di altri paesi extraeuropei (come la Cina) che stanno invece rafforzando le propria capacità di operare lontani da casa.

 

Lorenzo Nannetti

[email protected]

Potenza di pace (1)

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Torniamo ad analizzare il ruolo del nostro Paese nelle missioni di pace internazionali. Per comprendere le motivazioni strategiche della costante e cospicua partecipazione dell’Italia della seconda repubblica nelle cosiddette “missioni di pace” e di quelle di lotta al terrorismo – storicamente le meno comprese e più vituperate dall’opinione pubblica – si deve forse fare lo sforzo intellettuale di figurarsi l’Italia nell’ambito dei players mondiali e il ruolo che il nostro paese ha giocato – o ha quantomeno ambito a giocare – nel sistema internazionale degli ultimi vent’anni

 

(Prima parte) UNA “NUOVA” POLITICA ESTERA – Con la fine della Guerra Fredda, la vittoria del liberalismo e la spiccata auto-referenzialità dell’Occidente nel farsi garante di un ordine globale votato alla diffusione della stabilità e della democrazia hanno imposto a quegli stati che avevano scelto, dopo il crollo dell’Unione Sovietica, di cavalcare questa specifica “idea di mondo” una radicale riformulazione delle loro prerogative: definire la propria collocazione internazionale, proiettare potenza oltre i confini nazionali e acquisire credibilità tra gli attori globali è andato progressivamente a coincidere, nell’ultimo ventennio, con la capacità di orientare la propria politica estera verso le aree geopolitiche instabili al fine di “fornire sicurezza” e garantirne il mantenimento.

 

L’ITALIA SI ADEGUA – Se ripensiamo agli anni ’90, è in questa chiave che dobbiamo leggere l’attivismo internazionale italiano in Somalia, Bosnia, Albania e Kosovo: esso ha risposto, in altri termini, alla primaria necessità per l’Italia di integrarsi nel nuovo sistema globale e di farlo, non sotto le vesti di chi asseconda per inerzia il mutamento sistemico, ma con la specifica ambizione di esserne, in certa misura, promotrice. La primazia di questo obiettivo strategico negli ultimi due decenni è stata, d’altra parte, tanto forte da appiattire nella sostanza le divergenze in politica estera tra i governi di destra e di sinistra: entrambi, infatti, hanno puntualmente approvato la partecipazione dell’Italia nelle missioni militari internazionali. L’inizio del nuovo millennio non ha fatto che marcare la continuità con questa linea politica: la partecipazione alle missioni in Afghanistan, in Iraq e in Libano meridionale, che hanno disegnato lo scenario internazionale di questi ultimi 10 anni, ha avuto per l’Italia il senso di reiterare e rinvigorire la sua aspirazione a svolgere un ruolo chiave nel contesto globale, in primo luogo come paese dell’Alleanza Atlantica e, secondariamente, come attore europeo: in linea, cioè, con l’ambizione di Bruxelles nel voler proporre l’Europa come “security provider d’eccellenza e fornitore di assistenza umanitaria nelle aree di crisi e conflitto.

 

COSA NON HA FUNZIONATO – Se, tuttavia, l’apertura dell’ultimo decennio sembrava accentuare la marca americana del nuovo ordine mondiale – entro cui, dunque, essere membro della NATO comportava un ritorno strategico non indifferente – è stata invece proprio l’inefficacia dell’interventismo militare promosso dagli Stati Uniti in Afghanistan e in Iraq, la crisi economica globale, l’emergere di potenziali sfidanti internazionali e di medie potenze regionali, a farci comprendere che “la fine della Storia” (come titolava un famoso libro di Fukuyama sulla presunta inevitabile e imperitura espansione del modello di democrazia americana) non è affatto così imminente, mentre l’egemonia statunitense è molto più “mortale” di quanto pensassimo.   Sul fronte europeo, la crisi economica e politica in cui versa l’Unione dei 27, l’incertezza della coesione e la tentazione per i paesi europei più forti di elaborare la propria politica estera in modo indipendente e sempre più svincolato da Bruxelles, hanno reso il già fluido disegno della PESC (Politica Europea di Sicurezza e Difesa) ancora più frammentato. In questo contesto globale, orientato verso una ridefinizione multipolare e in cui, per di più, la crisi economica sta incoraggiando gli stati a sdoganarsi dall’ideale dell’ “interdipendenza”, rifugiandosi in politiche isolazionistiche (forse anacronistiche ma certamente più rassicuranti) come si ri-posiziona una media potenza come l’Italia?

 

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QUALE RUOLO PER L’ITALIA? – L’analisi delle due missioni internazionali in cui l’Italia è ancora, tuttora, impegnata – quella in Afghanistan, cominciata nel 2001 nel quadro istituzionale della NATO e quella nel Libano meridionale, cominciata nel 2006, sotto l’egida delle Nazioni Unite – ci dice molto sulle ricadute negative e positive di cui l’Italia ha beneficiato o patito negli ultimi dieci anni ma anche su quanto il rapido mutamento dell’ordine globale metta a rischio la sua collocazione  internazionale. La missione afghana “Enduring Freedom” e la partecipazione all’ISAF (International Security Assistance Force), approvata nel 2001 dal secondo governo Berlusconi con il sostegno di buona parte del centro sinistra (che negli anni immediatamente precedenti aveva accelerato un processo di metamorfosi in direzione filo-atlantista), nonostante fosse chiaramente una risposta agli eventi dell’11 settembre 2001, il simbolo di un’America ferita, nasceva sotto gli auspici di quello che si prefigurava come un “millennio americano”. Lo scacco inflitto all’Occidente con l’attacco al World Trade Centre di New York, inoltre, non avrebbe potuto che raccogliere allora un incontestato supporto da parte dei governi europei. La partecipazione dell’Italia alla missione in Afghanistan serviva, dunque, a  confermare la lealtà di Roma verso il Patto Atlantico, espressa in realtà ancor meglio due anni dopo, con la partecipazione militare all’operazione contro Saddam Hussein, a fronte di consenso europeo che stavolta svelava, invece, tutta la sua reale frammentazione. La volontà italiana di rendere l’Afghanistan uno dei suoi “relevant abroad” fu effettivamente premiata in ambito NATO: i contingenti italiani sono, dall’inizio della missione, responsabili del comando regionale occidentale; tra il 2005 e il 2006 l’Italia ha avuto per 9 mesi la responsabilità dell’intera missione atlantica e tra il 2007 e il 2008 quella di Kabul.

 

DIFFICOLTA’ POLITICHE INTERNE – Dopo l’invasione dell’Iraq, tuttavia, la missione in Afghanistan cominciò ad avvertire i contraccolpi di un’opinione pubblica ostile alla guerra contro Saddam (in particolare dopo la strage di Nassiriya). Ciò nonostante, se osserviamo l’andamento della politica estera italiana – anche e soprattutto in questi ultimi travagliati anni di frammentazione del sistema politico italiano – l’impressione è che soltanto sulle missioni militari all’estero si sia sempre ed effettivamente materializzato un consenso bipartisan. Per i governi di centro-sinistra – anzi – la visione del ruolo italiano nel mondo ha avuto l’effetto di accrescere lo scollamento tra la sinistra moderata e quella radicale: il secondo governo Prodi approvò il rifinanziamento delle missioni all’estero il 28 luglio 2006 con una maggioranza risicata, proprio per l’ostruzionismo del PRC e dei Comunisti Italiani; il 21 febbraio 2007, invece, in occasione del voto sul rifinanziamento della missione in Afghanistan, proposta dalla senatrice Finocchiaro, il quorum non fu raggiunto per il mancato consenso della sinistra radicale. Durante l’ultimo governo Berlusconi l’impegno italiano nella missione in Afghanistan ha continuato a seguire il trend che era stato dominante fin dall’inizio della missione del 2001: non ci sono state significative riduzioni nel finanziamento mentre i nostri contingenti sono stati rafforzati nel 2009 di oltre 1000 unità.

 

Marina Calculli

(continua)

Fuga…di gas

Qual è la verità sul mercato del gas naturale? L'Europa è davvero condannata per il futuro a dipendere in maniera esclusiva dalla Russia per soddisfare il proprio fabbisogno energetico? In realtà, buona parte di questa partita sarà giocata tra la Cina e la Turchia. Lo spiega Stefano Casertano in “Oro Blu – La contesa del gas tra Cina, Russia ed Europa”, pubblicato da Fuoco Edizioni. Un interessante viaggio nella geopolitica degli idrocarburi

IL GAS CONTESO – Cosa succederebbe se la Russia decidesse di “chiudere i rubinetti” e di bloccare il flusso di gas naturale in transito dall'Ucraina e diretto ai Paesi dell'Europa occidentale? Rischieremmo davvero di rimanere al freddo, come evocato dai principali mezzi di comunicazione quando, in passato, i dissidi diplomatici tra Mosca e Kiev avevano indotto la prima ad interrompere temporaneamente la fornitura di gas verso ovest? Le cose non stanno proprio così, e la realtà è più complessa di quanto viene solitamente descritto. Se vi interessa sapere qual è la reale situazione per quanto riguarda la geopolitica del gas, vi consigliamo la lettura di “Oro Blu – La contesa del gas tra Cina, Russia ed Europa”, (Fuoco Edizioni, 13 €), scritto da Stefano Casertano, docente di Economia delle risorse energetiche presso l'Università di Potsdam, in Germania. In questo breve, ma illuminante volume, troverete una descrizione lucida, approfondita e completa del mercato del gas che interessa l'area euroasiatica. OCCHIO ALLA TURCHIA… – Il filo conduttore del libro è la presunta dipendenza, che in futuro diventerebbe pressochè esclusiva, dal gas naturale russo, che sarebbe vitale per garantire l'approvvigionamento energetico dell'Europa dal momento che le riserve continentali, situate soprattutto nel mare del Nord, al largo della Norvegia, sono in via di progressivo esaurimento. Mosca è effettivamente il principale produttore mondiale di gas naturale e la disponibilità attuale non pare in via di diminuzione, almeno nel medio periodo. Negli scorsi anni sono stati studiati, e sono in via di realizzazione, progetti alternativi ai gasdotti in arrivo dalla Russia attraverso l'Ucraina e che consentirebbero così di “bypassare” quest'ultima per rafforzare la sicurezza energetica europea. Si tratta di South Stream e Nabucco, pipelines provenienti da Russia e Asia Centrale che garantirebbero una diversificazione delle fonti di fornitura energetica. In quest'ottica, la Turchia si troverebbe ad essere un nodo geopolitico cruciale, dal momento che il tragitto di South Stream, gasdotto in grado di trasportare 60 miliardi di metri cubi di gas all'anno, e anche quello di Nabucco (progetto però ancora in fase di definizione), passerebbero proprio dal Bosforo. Ankara, che sta crescendo molto anche dal punto di vista economico, si troverebbe dunque a contare sempre di più nei confronti dell'Europa, godendo perciò anche di un potere negoziale più forte.

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E ALLA CINA – Un altro attore da tenere sott'occhio sarà invece la Cina, non come hub alternativo per la fornitura di energia bensì come colei che potrebbe sottrarre una importante quantità di gas. La sete energetica di Pechino è infatti in continuo aumento e, sebbene al momento il gigante asiatico soddisfi ancora buona parte della propria domanda energetica tramite il carbone, la richiesta di gas è in forte crescita e si presume che aumenti in maniera esponenziale soprattutto tra il 2015 e il 2025. Due fattori andranno tenuti sotto controllo: il rallentamento dell'economia europea e l'intraprendenza economica della Cina in Europa orientale. La stagnazione in area UE non farà infatti crescere la domanda di gas, facendo in modo che la Russia guardi con favore al più “assetato” cliente a Est. Inoltre, Pechino sta intessendo una fitta rete di rapporti diplomatici in Europa orientale tramite investimenti e prestiti ai Governi: tali Stati, come Moldavia e Ucraina, sono situati lungo il percorso dei gasdotti in arrivo dalla Russia e potrebbero in futuro ostacolare l'arrivo di “oro blu” in Europa, come ipotizzato dall'autore. Insomma, l'Occidente non appare al momento minacciato da possibili crisi energetiche. Per il medio-lungo periodo, però, ci potrebbe essere da rabbrividire. Di freddo. Davide Tentori [email protected]

 

Qui si fa l’Europa o si muore

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L’Europa è giunta al momento di decidere cosa vuol fare da grande. Innanzitutto, deve decidere se vuole diventare grande, o accontentarsi di rimanere una grande area di libero scambio e poco più, un insieme di Stati che per mantenere le proprie prerogative non creano altro che una piccola unione sempre più alla periferia del mondo. Ecco i punti cruciali del cammino dell’Europa, chiamata rapidamente a una grande svolta se non vuole rischiare di auto-condannarsi a scenari tutt’altro che positivi

E l’Africa sorrIDE (2)

Seconda parte del nostro articolo introduttivo sul panorama degli Investimenti Diretti Esteri nel continente nero. Grandi risorse naturali e manodopera a basso costo sono due fattori che costituiscono importanti ragioni per l'afflusso di capitali nella regione. Tuttavia, i settori estrattivo e agricolo non sono i soli destinatari: esistono infatti anche alcune “nicchie” per quanto riguarda l'Information and Communication Technology

Seconda parte GLI IDE: UNA NUOVA PROSPETTIVA PER L’AFRICA – Ciò che oggi emerge, quindi, nel panorama economico africano di questi ultimi anni è che molti governi stiano progressivamente abbandonando una politica incentrata solo sulla richiesta di aiuti internazionali per lasciare spazio ad una politica economica attiva anche attraverso l’apertura agli IDE. Si tratta di un cambiamento di rotta radicale, tanto che molti investitori internazionali attualmente considerano l’Africa la nuova frontiera dell’investimento privato, inserendola tra le così dette economie emergenti. Gli studi del Vale Columbia Center on Sustainable International Investment della Columbia University, inoltre, pongono l’accento su un dato di notevole importanza: nel prossimo decennio Brasile, Russia, India e Cina forniranno da soli il 30% dei nuovi investimenti stranieri in Africa (la quota maggiore di IDE proviene ancora dai paesi dell’OCSE). Ciò trova la sua giustificazione nella la rapida crescita dei BRIC, nonché degli altri mercati emergenti come quelli del Medio Oriente che avendo sempre maggiore necessità di materie prime sono disposti a finanziare sempre di più il settore estrattivo in tutte quelle parti del globo ricche di risorse minerarie ed energetiche. Anche i mercati emergenti cambiano volto, non si pongono più solo come consumatori ma anche come investitori nel settore dell’industria estrattiva e non solo, diventando essenziali per il sostegno delle economie locali. Dal canto loro i governi africani, grazie a quest’accresciuto interesse da parte degli investitori, stanno favorendo e sostenendo il miglioramento delle politiche fiscali e la creazione di un mercato maggiormente competitivo in modo da rendere gli stati capaci di attirare maggiormente gli IDE e di diversificare i settori dell’economia. GLI IDE FAVORISCONO LO SVILUPPO DEI DIVERSI SETTORI ECONOMICI – Gli investimenti esteri favoriscono, attraverso accordi di partnership tra governi e investitori, lo sviluppo e la crescita. Si tratta di dare nuovo ossigeno all’economia reale, liberando il potenziale di sviluppo regionale con la costruzione delle infrastrutture necessarie come le strade, le rotaie, i porti, lo sviluppo della tecnologia dell’informazione e delle comunicazioni. Il Ruanda, ad esempio, sta investendo nel settore delle tecnologie di comunicazione con l’ICT Park di Kigali e la telefonia mobile sta vivendo un momento di boom in tutto il continente. Nei prossimi tre anni, invece, il Sud Africa, secondo le stime del Ministero del Commercio e dell’Industria, attirerà investimenti esteri per circa 11,8 miliardi di euro a fronte del 2,9 del 2010 che hanno contribuito alla creazione di circa 13.000 posti di lavoro. Mentre, l’India in cinque anni investirà 4 miliardi di dollari nello Zimbabwe nella costruzione di un impianto per la lavorazione di minerali ferrosi, che permetterà la creazione di nuovi 500 posti di lavoro. La ricchezza di materie prime consente sì lo sviluppo del settore estrattivo, ma tutto ciò sarà utile anche al miglioramento della produttività agricola e allo sviluppo del capitale umano – attraverso la costruzione di scuole e la maggiore diffusione dell’istruzione, indiscutibile base per il progresso di uno sviluppo economico sostenibile –  e il collegamento dei vari settori e comparti attraverso le catene di fornitura dei prodotti, la formazione professionale, l’occupazione e conseguentemente di sviluppo industriale condurranno alla diversificazione dei settori economici. UN SETTORE IN ESPANSIONE – Un settore fondamentale per lo sviluppo sostenibile che sta riscuotendo grande successo in diversi paesi africani come il Kenya, e il Sud Africa è quello delle energie rinnovabili. Alcuni programmi di investimento provengono anche dalla Banca Mondiale e dall’Unione Europea e dovrebbero dare vita a moderne reti elettriche nazionali in Malawi e in Tanzania. L’Etiopia punta invece allo sviluppo dell’energia idroelettrica, un settore che potrebbe portare alla piena soddisfazione del mercato nazionale e all’esportazione del surplus. Si tratta di un progetto di sviluppo sostenibile molto ambizioso perché ha l’intento di sostenere la compartecipazione degli investitori locali sia nella costruzione di impianti idroelettrici che nell'indotto e la formazione in loco di professionisti. NON TUTTI I PAESI SI MUOVONO NELLA STESSA DIREZIONE – Paesi come il Sudan e l’Angola rappresentano, invece, esempi meno edificanti di crescita economica attraverso gli IDE. In Sudan l’Iran sostiene lo sviluppo del nucleare. Ahmadinejad, durante la visita di Stato, ha offerto al governo di Bashir investimenti in denaro, in know-how, supporto tecnico e ingegneristico per lo sviluppo di questo settore. Al di la delle ripercussioni che ciò potrebbe avere sul piano internazionale è evidente che investimenti di questo tipo, in un paese devastato dalla guerra civile, con un tasso di povertà e problemi alimentari enormi e un tasso d’istruzione molto basso, non possa essere conciliabile con la definizione di crescita e sviluppo sostenibile. In Angola, invece, nella regione della Cabinda – che da sola detiene il 60%delle riserve petrolifere del paese – la compagnia petrolifera Sonangol impiega solo manodopera cinese e il ricavato va tutto nelle casse dello stato tagliando completamente fuori gli abitanti locali costretti a condizioni estreme di povertà e impossibilitati a sviluppare il loro territorio. L’estrazione petrolifera in questa zona – dove sono presenti anche la Chevron-Texaco, l’Agip e la TotalFinaElf – è super protetta tanto che il FLEC (Fronte per la Liberazione dell’Enclave della Cabinda) non avendo i mezzi per ingaggiare una forte opposizione contro le compagnie e contro lo stato nulla può fare perché si avvii un processo di sviluppo sostenibile a favore della popolazione locale e dell’ambiente.

LO SVILUPPO PASSA ATTRAVERSO LA COOPERAZIONE E IL COORDINAMENTO DELLE FORZE IN CAMPO – E’ facile comprendere a questo punto quanto incida la volontà dei decisori nazionali e degli investitori stranieri – che siano essi stati o multinazionali – perché l’Africa possa crescere in modo consapevole ed entrare a pieno titolo a far parte dell’economia mondiale. E’ indispensabile il coordinamento e l’impegno di tutte le forse e i progetti in gioco. E’ necessario dare vita ad economie di scala, ridurre i costi e favorire l’accesso per la fruizione dei nuovi servizi. La conversione o il contemporaneo utilizzo delle infrastrutture costruite per l’esportazione di materie prime anche per il trasporto dei prodotti agricoli può rappresentare un primo esempio, così come la produzione di energia in una determinata zona può essere utilizzata anche per il miglioramento e l’espansione delle reti locali dell’elettricità. Tutto ciò, tra l’altro può essere favorito dal fatto che molti attori internazionali sono sempre più disposti a finanziare lo sviluppo di queste infrastrutture sia in cambio dell’accesso alle risorse (la così detta offerta “risorsa-per-infrastruttura”), sia in cambio della costruzione di nuovi legami diplomatici più forti con i governi africani. Molti stati africani, inoltre, si sono visti cancellare il debito estero che pesava sulle proprie finanze come un macigno, un’ulteriore incentivo, assieme agli IDE per il superamento della crisi. LA LUNGA STRADA PER IL SUPERAMENTO DELLA CRISI –  Queste rosee prospettive potrebbero essere minate se gli attori coinvolti mancassero della dovuta serietà e continuassero ad operare solo con l’intento di ricavarne un proprio utile. Si tratta di un compito affidato in primo luogo a tutti i leader africani; dovranno dimostrare di essere in grado di sfruttare positivamente i nuovi impulsi provenienti dalla crisi economica internazionale e di promuovere le giuste politiche economiche e sociali. Non solo, per la prima volta anche l’opinione pubblica africana sta ricoprendo un ruolo fondamentale a favore del cambiamento positivo. Si tratta di un’opinione pubblica che cambia, che diventa più consapevole, più partecipe e che da più parti del continente comincia a denunciare a gran voce gli abusi tollerati finora. Anche da questo punto di vista il cambiamento sembra essere stato avviato in molte parti dl continente, ma la strada è ancora lunga. Per raggiungere questo importante obiettivo i governi dovranno impegnarsi soprattutto per fare si che il boom degli IDE per le risorse venga convertito in un boom di sviluppo sostenibile, inclusivo per le popolazioni africane permettendo così all’Africa di guadagnare finalmente un ruolo di soggetto internazionale paritario all’interno del panorama mondiale e di abbandonare definitivamente quello meno lusinghiero di “oggetto” che ha rivestito per troppo tempo. Solo gli sviluppi futuri potranno dirci se la strada imboccata per l’agognato processo di crescita va nella giusta direzione. Marianna Piano [email protected]