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"L'imparzialità è un sogno, la probità è un dovere"

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E l’Africa sorrIDE (2)

Seconda parte del nostro articolo introduttivo sul panorama degli Investimenti Diretti Esteri nel continente nero. Grandi risorse naturali e manodopera a basso costo sono due fattori che costituiscono importanti ragioni per l'afflusso di capitali nella regione. Tuttavia, i settori estrattivo e agricolo non sono i soli destinatari: esistono infatti anche alcune “nicchie” per quanto riguarda l'Information and Communication Technology

Seconda parte GLI IDE: UNA NUOVA PROSPETTIVA PER L’AFRICA – Ciò che oggi emerge, quindi, nel panorama economico africano di questi ultimi anni è che molti governi stiano progressivamente abbandonando una politica incentrata solo sulla richiesta di aiuti internazionali per lasciare spazio ad una politica economica attiva anche attraverso l’apertura agli IDE. Si tratta di un cambiamento di rotta radicale, tanto che molti investitori internazionali attualmente considerano l’Africa la nuova frontiera dell’investimento privato, inserendola tra le così dette economie emergenti. Gli studi del Vale Columbia Center on Sustainable International Investment della Columbia University, inoltre, pongono l’accento su un dato di notevole importanza: nel prossimo decennio Brasile, Russia, India e Cina forniranno da soli il 30% dei nuovi investimenti stranieri in Africa (la quota maggiore di IDE proviene ancora dai paesi dell’OCSE). Ciò trova la sua giustificazione nella la rapida crescita dei BRIC, nonché degli altri mercati emergenti come quelli del Medio Oriente che avendo sempre maggiore necessità di materie prime sono disposti a finanziare sempre di più il settore estrattivo in tutte quelle parti del globo ricche di risorse minerarie ed energetiche. Anche i mercati emergenti cambiano volto, non si pongono più solo come consumatori ma anche come investitori nel settore dell’industria estrattiva e non solo, diventando essenziali per il sostegno delle economie locali. Dal canto loro i governi africani, grazie a quest’accresciuto interesse da parte degli investitori, stanno favorendo e sostenendo il miglioramento delle politiche fiscali e la creazione di un mercato maggiormente competitivo in modo da rendere gli stati capaci di attirare maggiormente gli IDE e di diversificare i settori dell’economia. GLI IDE FAVORISCONO LO SVILUPPO DEI DIVERSI SETTORI ECONOMICI – Gli investimenti esteri favoriscono, attraverso accordi di partnership tra governi e investitori, lo sviluppo e la crescita. Si tratta di dare nuovo ossigeno all’economia reale, liberando il potenziale di sviluppo regionale con la costruzione delle infrastrutture necessarie come le strade, le rotaie, i porti, lo sviluppo della tecnologia dell’informazione e delle comunicazioni. Il Ruanda, ad esempio, sta investendo nel settore delle tecnologie di comunicazione con l’ICT Park di Kigali e la telefonia mobile sta vivendo un momento di boom in tutto il continente. Nei prossimi tre anni, invece, il Sud Africa, secondo le stime del Ministero del Commercio e dell’Industria, attirerà investimenti esteri per circa 11,8 miliardi di euro a fronte del 2,9 del 2010 che hanno contribuito alla creazione di circa 13.000 posti di lavoro. Mentre, l’India in cinque anni investirà 4 miliardi di dollari nello Zimbabwe nella costruzione di un impianto per la lavorazione di minerali ferrosi, che permetterà la creazione di nuovi 500 posti di lavoro. La ricchezza di materie prime consente sì lo sviluppo del settore estrattivo, ma tutto ciò sarà utile anche al miglioramento della produttività agricola e allo sviluppo del capitale umano – attraverso la costruzione di scuole e la maggiore diffusione dell’istruzione, indiscutibile base per il progresso di uno sviluppo economico sostenibile –  e il collegamento dei vari settori e comparti attraverso le catene di fornitura dei prodotti, la formazione professionale, l’occupazione e conseguentemente di sviluppo industriale condurranno alla diversificazione dei settori economici. UN SETTORE IN ESPANSIONE – Un settore fondamentale per lo sviluppo sostenibile che sta riscuotendo grande successo in diversi paesi africani come il Kenya, e il Sud Africa è quello delle energie rinnovabili. Alcuni programmi di investimento provengono anche dalla Banca Mondiale e dall’Unione Europea e dovrebbero dare vita a moderne reti elettriche nazionali in Malawi e in Tanzania. L’Etiopia punta invece allo sviluppo dell’energia idroelettrica, un settore che potrebbe portare alla piena soddisfazione del mercato nazionale e all’esportazione del surplus. Si tratta di un progetto di sviluppo sostenibile molto ambizioso perché ha l’intento di sostenere la compartecipazione degli investitori locali sia nella costruzione di impianti idroelettrici che nell'indotto e la formazione in loco di professionisti. NON TUTTI I PAESI SI MUOVONO NELLA STESSA DIREZIONE – Paesi come il Sudan e l’Angola rappresentano, invece, esempi meno edificanti di crescita economica attraverso gli IDE. In Sudan l’Iran sostiene lo sviluppo del nucleare. Ahmadinejad, durante la visita di Stato, ha offerto al governo di Bashir investimenti in denaro, in know-how, supporto tecnico e ingegneristico per lo sviluppo di questo settore. Al di la delle ripercussioni che ciò potrebbe avere sul piano internazionale è evidente che investimenti di questo tipo, in un paese devastato dalla guerra civile, con un tasso di povertà e problemi alimentari enormi e un tasso d’istruzione molto basso, non possa essere conciliabile con la definizione di crescita e sviluppo sostenibile. In Angola, invece, nella regione della Cabinda – che da sola detiene il 60%delle riserve petrolifere del paese – la compagnia petrolifera Sonangol impiega solo manodopera cinese e il ricavato va tutto nelle casse dello stato tagliando completamente fuori gli abitanti locali costretti a condizioni estreme di povertà e impossibilitati a sviluppare il loro territorio. L’estrazione petrolifera in questa zona – dove sono presenti anche la Chevron-Texaco, l’Agip e la TotalFinaElf – è super protetta tanto che il FLEC (Fronte per la Liberazione dell’Enclave della Cabinda) non avendo i mezzi per ingaggiare una forte opposizione contro le compagnie e contro lo stato nulla può fare perché si avvii un processo di sviluppo sostenibile a favore della popolazione locale e dell’ambiente.

LO SVILUPPO PASSA ATTRAVERSO LA COOPERAZIONE E IL COORDINAMENTO DELLE FORZE IN CAMPO – E’ facile comprendere a questo punto quanto incida la volontà dei decisori nazionali e degli investitori stranieri – che siano essi stati o multinazionali – perché l’Africa possa crescere in modo consapevole ed entrare a pieno titolo a far parte dell’economia mondiale. E’ indispensabile il coordinamento e l’impegno di tutte le forse e i progetti in gioco. E’ necessario dare vita ad economie di scala, ridurre i costi e favorire l’accesso per la fruizione dei nuovi servizi. La conversione o il contemporaneo utilizzo delle infrastrutture costruite per l’esportazione di materie prime anche per il trasporto dei prodotti agricoli può rappresentare un primo esempio, così come la produzione di energia in una determinata zona può essere utilizzata anche per il miglioramento e l’espansione delle reti locali dell’elettricità. Tutto ciò, tra l’altro può essere favorito dal fatto che molti attori internazionali sono sempre più disposti a finanziare lo sviluppo di queste infrastrutture sia in cambio dell’accesso alle risorse (la così detta offerta “risorsa-per-infrastruttura”), sia in cambio della costruzione di nuovi legami diplomatici più forti con i governi africani. Molti stati africani, inoltre, si sono visti cancellare il debito estero che pesava sulle proprie finanze come un macigno, un’ulteriore incentivo, assieme agli IDE per il superamento della crisi. LA LUNGA STRADA PER IL SUPERAMENTO DELLA CRISI –  Queste rosee prospettive potrebbero essere minate se gli attori coinvolti mancassero della dovuta serietà e continuassero ad operare solo con l’intento di ricavarne un proprio utile. Si tratta di un compito affidato in primo luogo a tutti i leader africani; dovranno dimostrare di essere in grado di sfruttare positivamente i nuovi impulsi provenienti dalla crisi economica internazionale e di promuovere le giuste politiche economiche e sociali. Non solo, per la prima volta anche l’opinione pubblica africana sta ricoprendo un ruolo fondamentale a favore del cambiamento positivo. Si tratta di un’opinione pubblica che cambia, che diventa più consapevole, più partecipe e che da più parti del continente comincia a denunciare a gran voce gli abusi tollerati finora. Anche da questo punto di vista il cambiamento sembra essere stato avviato in molte parti dl continente, ma la strada è ancora lunga. Per raggiungere questo importante obiettivo i governi dovranno impegnarsi soprattutto per fare si che il boom degli IDE per le risorse venga convertito in un boom di sviluppo sostenibile, inclusivo per le popolazioni africane permettendo così all’Africa di guadagnare finalmente un ruolo di soggetto internazionale paritario all’interno del panorama mondiale e di abbandonare definitivamente quello meno lusinghiero di “oggetto” che ha rivestito per troppo tempo. Solo gli sviluppi futuri potranno dirci se la strada imboccata per l’agognato processo di crescita va nella giusta direzione. Marianna Piano [email protected]

A tutto gas

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Continuiamo il nostro viaggio nella politica estera nazionale affrontando il tema dell’energia. La sicurezza energetica, ovvero la disponibilità di energia a prezzi ragionevoli, è di nuovo in cima all’agenda dell’UE e dei governi nazionali. L’Italia non fa eccezione, anzi, è in prima linea nella creazione di strategic partnerships con i paesi produttori ed esportatori. Vediamo dunque cosa vuol dire “sicurezza” per il nostro paese al tempo della crisi finanziaria globale e dell’entrata in scena del colosso Cina

 

PARTNERSHIPS ALL’ITALIANA – Due caratteristiche definiscono la sicurezza energetica: l’availability (disponibilità di risorse e assenza di un reale rischio di major disruption) e l’affordability (accesso all’energia a prezzi ragionevoli, per le imprese così come per i cittadini). Il tramonto dell’era bipolare, la crescente volatilità dei prezzi delle materie prime, la concorrenza internazionale per l’approvvigionamento di energia e un notevole aumento della domanda hanno fatto sì che, negli ultimi anni, i contorni di availability e affordability diventassero sempre più incerti, anche per il Belpaese. L’Italia, che importa circa l’84% del proprio fabbisogno energetico, è tutt’altro che autosufficiente, ed è costantemente a caccia di soluzioni di import favorevoli. In particolare, è il gas naturale a farla da padrone nel nostro mix energetico, ed è dunque opportuno domandarsi quale sia la “via italiana” all’oro blu, in un mercato dominato da ostacoli tecnici (obbligatorietà del trasporto via gasdotto) e intrecci squisitamente politici (disponibilità dei paesi produttori quale condizione necessaria per investimenti e infrastrutture). In questo quadro, la relazione Roma-Mosca si pone come un chiaro esempio di partnership all’italiana: la dimostrazione pratica di come la corsa al gas sia una partita che si gioca nel campo della politica, ancor prima che in quello dell’economia. Le “affinità” tra Italia e Russia non sono certo un mistero, e in questa sede è bene ricordare come esista un binario energetico che corre parallelo a quello politico: la partnership tra ENI e Gazprom. Uno scenario simile si osserva nel Mediterraneo, con il gasdotto Greenstream, che ha visto la luce ed ha acquisito importanza proprio nel corso dell’era d’amicizia Italia-Libia (un’amicizia che ora, nel dopo-Gheddafi, va senz’altro ridefinita).  Da quando Greenstream ha iniziato a funzionare a pieno regime (2004) ad oggi, la sua importanza nella politica energetica del nostro paese è cresciuta a ritmi rapidissimi, facendo della Libia il terzo partner extraeuropeo nel settore del gas, alle spalle di Russia e Algeria.

 

ENI-GAZPROM, VECCHI PILASTRI E NUOVI ORIZZONTI Definita dagli esperti di politica energetica come una delle più importanti alleanze in Europa, la relazione ENI-Gazprom trova il suo fulcro attuale nel progetto di gasdotto South Stream, che punta a collegare la Russia con l’Europa centro-meridionale. Si tratta della tappa più recente di un percorso ormai consolidato, che negli ultimi anni ha regalato ad ENI una serie di successi. Tra questi, l’accordo di cooperazione tecnica con l’inserimento di ENI in progetti di gestione dell’intera filiera di produzione (2006), e l’acquisizione di tre società russe con tanto di diritti di sfruttamento di importanti giacimenti di gas siberiano (affaire Yukos, 2007).   Ma ENI non si ferma in Russia, anzi, fa della “diversificazione” la parola chiave della sua strategia in Asia centrale, mostrandosi interessata ai giacimenti turkmeni e kazaki (in Kazakhstan ENI ha recentemente concluso un accordo per lo sfruttamento delle risorse di Karachaganak). Inoltre, è di pochi giorni fa la notizia che ENI ha individuato una riserva di gas sotto al giacimento offshore scoperto a metà ottobre in Mozambico, nel corso del progetto esplorativo Mamba Sud 1. Un comunicato del Cane a Sei Zampe rende nota la presenza di un nuovo livello mineralizzato che contiene un potenziale fino a 212,5 miliardi di metri cubi di gas.

 

NON SOLO ENI – Altra protagonista della cooperazione internazionale in materia energetica è Edison, che ha giocato un ruolo centrale nella gestazione del progetto di Inter-connettore Turchia-Italia-Grecia (progetto di enorme rilevanza per l’UE tutta, tanto che Bruxelles ha promesso finanziamenti per 100 milioni di euro, nel quadro dell’ European Energy Programme for Recovery). Nell’agenda di Edison figura anche il follow-up di quello che fu, esattamente dieci anni fa, un primo accordo con il Qatar per l’importazione di gas naturale liquefatto (attualmente più problematica rispetto al tradizionale pattern dei gasdotti, ma tuttavia da non sottovalutare per il futuro, come mostrano anche le recenti collaborazioni ENI-Nigeria in questo settore).

 

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UN PERCORSO A OSTACOLI? Insomma, l’Italia sembra aver trovato nel dialogo politico con i paesi produttori la via verso availability e affordability. Tuttavia, qualcosa rischia di colpire anche il modello italiano: al tempo della crisi finanziaria globale, gli ingenti investimenti necessari per la costruzione di una rete di gasdotti non sono nè garantiti nè automatici. Inoltre, sul piano dello sfruttamento del gas naturale liquefatto, alcune domande fondamentali sul possibile impiego di questa risorsa restano senza risposta. Gli esperti parlano di sindrome “Nimby” (Not In My BackYard, non nel mio “cortile”) rispetto alla presenza di rigassificatori sul territorio nazionale, e l’ “alta politica” indugia a dare risposte concrete e ad impegnarsi nel dialogo sui grandi temi di politica energetica, troppo spesso accantonati come se si trattasse di un dibattito per “addetti ai lavori” e non di grandi scelte politiche che toccano la vita di tutti i cittadini.

 

FUTURI RIVALI DELL’UE (E DELL’ITALIA) – Infine, esiste un altro fattore che rischia di rendere la corsa ai giacimenti di gas un business sempre più competitivo. Se fino a pochi anni fa l’Occidente era il solo reale importatore e consumatore di energia, oggi non è più così. La crescita vertiginosa e la progressiva industrializzazione di Cina e India hanno fatto balzare verso l’alto la domanda di energia di questi due colossi. Pur senza lanciare previsioni allarmistiche, è importante tratteggiare il quadro di quello che sarà, in un futuro non troppo lontano, il mercato dell’energia. Ad oggi l’India non è (ancora) un competitor da temere, e la Cina impiega un mix energetico sostanzialmente diverso da quello occidentale (65% carbone, 18% petrolio, 10% biomasse e solo il 3,6% di gas). Eppure, i piani cinesi sull’energia per il prossimo decennio rivelano come  Pechino abbia deciso di puntare proprio sull’oro blu, raddoppiandone di fatto il peso relativo nel proprio paniere energetico. Come giungere a questo raddoppio? Pur essendo attiva su tutti i mercati energetici mondiali, dall’America Latina all’Africa, la Cina è sempre più attratta dai giacimenti dell’Asia Centrale. Da quasi vent’anni Russia e Occidente si contendono l’area caspica, e la Cina subentrerebbe in questo mercato presentandosi come terzo polo, come vera alternativa ai giganti storici. Potrebbe dunque sottrarre all’UE (e conseguentemente anche al nostro paese) una fetta consistente dell’energia eurasiatica.

 

Anna Bulzomi

E l’Africa sorrIDE (1)

Iniziamo oggi un viaggio nel continente africano, per analizzare come la dinamica degli investimenti diretti esteri (IDE) in atto in questi ultimi anni può aiutare i Paesi della regione ad uscire finalmente dal circolo vizioso del sottosviluppo. In questo primo articolo vi introduciamo all'argomento ripercorrendo le tappe principali della storia economica africana degli ultimi decenni. Una storia fatta di pagine negative ma anche di grandi potenzialità che solo ora incominciano ad esprimersi

Prima parte

UN PASSO INDIETRO NELLA STORIA – La fine del processo di decolonizzazione in Africa, negli anni ’60, convinse i nuovi Stati Indipendenti che in poco tempo avrebbero intrapreso il giusto cammino verso la crescita, lo sviluppo e all’effettivo ingresso sulla scena internazionale. Le cose andarono diversamente, il percorso palesò immediatamente tutte le sue asprezze rivelandosi molto più tortuoso difficile e doloroso di quanto le popolazioni e i loro nuovi governi avessero potuto immaginare inizialmente, quando l’ebbrezza per la liberazione dal dominio occidentale lo faceva apparire quasi in discesa. Negli ultimi cinquant’anni, la maggior parte degli stati africani sono stati più volte scossi da lunghi e violenti conflitti, colpi di stato e dalla costante instabilità politica, che ne hanno ostacolato lo sviluppo economico, rendendoli incapaci di migliorare le loro performance in termini di crescita del reddito e trascinandoli agli ultimi posti delle classifiche mondiali sulla povertà. L’avvento della terza ondata della globalizzazione, che ha investito tutto il mondo a partire dagli anni ’80, ha ulteriormente aggravato la situazione africana favorendo ancora una volta lo sfruttamento delle risorse naturali presenti nel continente da parte delle potenze mondiali e delle multinazionali, senza alcuna preoccupazione per degli enormi danni creati alle popolazioni locali usurpate delle ricchezze del proprio territorio o all’ambiente a causa dell’inquinamento e della deforestazione. Il dramma del Delta del Niger è ormai un caso emblematico. Secondo gli studi effettuati dalle Nazioni Unite, infatti, si tratta dell’area più inquinata del mondo, dove l’estrazione incontrollata degli idrocarburi, da parte delle più importanti e potenti compagnie petrolifere statunitensi e non solo, ha scatenato veri e propri disastri ecologici avvelenando piantagioni di frutta, coltivazioni di cassava e aree di pesca nella foresta equatoriale, con gravissime ricadute sulla vita della popolazione locale. Ad oggi le Nazioni Unite stimano che per bonificare tutta la zona occorreranno almeno trent’anni. L’EPOCA DELLA GLOBALIZZAZIONE SEMBRA IGNORARE L’AFRICA – Già da questi pochi dati è facile comprendere come la posizione periferica del continente africano all’interno della comunità internazionale derivi e sia influenzata dalla sua storia, dalla sua economia e dalla sua costante debolezza politica. A partire dagli anni ’80, inoltre, molti paesi dell’Africa sono stati obbligati a chiedere alla Banca Mondiale e al Fondo Monetario Internazionale aiuti allo sviluppo, che essendo elargiti sotto forma di prestiti anziché di sovvenzioni, sono andati ad incrementare un debito che i paesi non hanno potuto sanare, e che per di più hanno costretto i beneficiari a sottostare alle rigide condizioni studiate per favorire l’adeguamento strutturale delle loro economie, già deboli e arretrate, alle regole del Washington Consensus. I paesi africani si sono ritrovati così costretti ad aprire i loro mercati alle merci provenienti dal resto del mondo in una posizione di assoluta disparità, avendo in quel momento ben pochi prodotti da esportare. L’apertura dei mercati di capitali, inoltre, almeno inizialmente, non favorì l’afflusso  sperato né dei capitali stessi né degli investitori, interessati solo a continuare a depredare l’Africa delle sue preziose risorse naturali. L’austerità fiscale e la situazione economica internazionale per diverso tempo hanno, quindi, impedito al continente di attirare gli IDE (Investimenti Diretti Esteri). In quel momento a richiamare gli investitori stranieri furono, invece, i paesi asiatici favoriti dalla presenza di una forza lavoro istruita e qualificata, da infrastrutture migliori e da economie in rapida crescita, per questo maggiormente appetibili da parte delle multinazionali. In Africa continuava a crescere invece solo la popolazione, aggravando in questo modo le già palesi difficoltà agricole ed industriali e portando ad un ulteriore incrementato il tasso di povertà. Sembrava che ancora una volta il mondo avesse ignorato l’Africa.

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LA CRISI ECONOMICA GLOBALE COME STRUMENTO PER IL SUPERAMENTO DELLA CRISI – In realtà a partire dal 2001, ed in particolare dopo lo scoppio della crisi economica mondiale del 2008-2009, l’economia africana ha sperimentato un’inversione del trend negativo a favore di un notevole sviluppo. Il ritardo economico si è tramutato in un inaspettato vantaggio perché ha permesso al continente di risentire meno della crisi globale; un incentivo notevole per gli investitori internazionali. L’arrivo di nuovi IDE a sua volta ha dato nuovo impulso alla crescita che ormai si attesta intorno al 5% annuo e che si prevede continui a crescere raggiungendo nel 2012 il 6%, con la zona a sud del Sahara in testa rispetto al Magreb. Una recente notizia, pubblicata da “Il Sole 24 Ore”, riferisce tra l’altro che il Ghana nel primo trimestre di quest’anno è stato il paese che ha registrato il più alto tasso di crescita al mondo, pari al 20,1%. La crescita è dovuta all’aumento dei prezzi delle materie prime, ma anche all’incremento della produzione del cacao, del manganese e dell’oro. Sono stati avviati, inoltre, una serie di progetti infrastrutturali, la produzione petrolifera e il tasso di inflazione è sceso all’8,9% rispetto al 18% di due anni fa. UNA SFIDA IMPORTANTE – Ad oggi gli unici freni ancora esistenti ai grandi investimenti esteri in Africa sono i persistenti problemi di governance, ma l’economia comincia a dimostrare comunque una forte capacità reattiva, assente solo pochi decenni fa, che le permette di attirare gli IDE di cui ha incredibilmente bisogno. Si tratta di una nuova sfida fondamentale per l’Africa, che dovrà riuscire a gestire la crescita in modo da favorire lo sviluppo sostenibile e l’avvio del processo di integrazione con l’economia mondiale. Questo progetto potrà però dirsi vincente solo se si svilupperà in modo coerente con le necessità di sviluppo delle popolazioni nazionali.

(continua) Marianna Piano [email protected]

Una sporca storia di soldi (e di potere)

Mentre la rivolta araba continua in Medio Oriente e Nord Africa, l’Iran sta uscendo apparentemente indenne dalla tempesta, avendo ridotto le opposizioni al silenzio o quasi da mesi. In realtà anche la repubblica islamica è preda di forti lotte intestine, ma a livello istituzionale. La loro intensità è tale da poter cambiare la stessa faccia istituzionale del paese. Il “vecchio”, rappresentato dalla Guida Suprema Khamenei, contro il “nuovo” di Ahmadinejad: gerarchie religiose contro politico-economiche in lotta all’interno dei conservatori

 

PRESIDENTE CONTRO GUIDA SUPREMA – Solo un paio di anni fa Teheran vedeva una sintonia pressoché perfetta tra la Guida Suprema, l’Ayatollah Ali Khamenei, e il Presidente Mahmoud Ahmadinejad, una situazione che ha portato a eliminare gran parte dell’influenza dei riformisti all’interno del parlamento iraniano e a bloccare le proteste in seguito alle contestate elezioni presidenziali del 2009. Ora invece la situazione si è capovolta e lo scontro tra le due guide del paese è acceso e su molti piani. L’ultimo aspetto di questa sfida interna riguarda la sfera economica e finanziaria.

 

TUTTO IL MONDO E’ PAESE – Se qualcuno pensava che solo in Europa le banche fossero al centro di scandali ora può ricredersi. L’accusa rivolta ad alti dirigenti di banche iraniane (tra cui le importantissime Saderat e Melli) è di aver facilitato la sottrazione illegale dell’equivalente di ben 2.6 miliardi di euro, tramite un sistema che prevedeva la cessione di grossi prestiti utilizzati per acquistare imprese recentemente privatizzate utilizzate in seguito come garanzia per ulteriori prestiti ancora più ingenti. Secondo gli inquirenti questi ultimi fondi venivano poi trasferiti all’estero e impiegati in altre operazioni, e sono ora introvabili. Lo scandalo, ampiamente pubblicizzato dai media locali, interessa gran parte del sistema bancario iraniano e coinvolge accuse di frode e scarso controllo a numerosi amministratori delegati di banche e loro collaboratori; il Parlamento ha anche chiesto le dimissioni (e in futuro forse anche la condanna) del Ministro delle Finanze. Ma che collegamento esiste tra questa storia di appropriazioni illecite e lo scontro politico tra Presidente e Guida Suprema? Andiamo ad analizzare due elementi.

 

LOTTA DI POTERE – Il primo fattore consiste nel fatto che la vicenda sia stata pubblicizzata. In Iran notizie di questo tipo vengono tradizionalmente insabbiate per evitare di fornire alla popolazione motivi di sfiducia verso il governo e in generale la leadership del paese; l’idea che una tale frode venga portata all’attenzione del pubblico con tanto clamore indica l’interesse a colpire le persone coinvolte. Non è un caso infatti come sia il Ministro delle Finanze sia alcuni dei dirigenti accusati facciano parte dell’entourage del Presidente, segno di come la teocrazia intenda colpire gli esponenti laici a lei ostili con ogni mezzo. Non volendo colpire direttamente Ahmadinejad, si colpiscono i suoi collaboratori; tuttavia lo stesso Presidente potrebbe diventare il prossimo bersaglio diretto, poiché la parte del Parlamento di Teheran legata agli Ayatollah continua a chiedere che egli venga a giustificare la situazione. Forse è un modo per cercare di coinvolgerlo.

 

COLPO DI STATO IN VISTA? – Non solo. In un suo recente discorso Khamenei ha indicato chiaramente come la Repubblica Islamica non abbia bisogno di un Presidente eletto direttamente dal popolo, ma sarebbe meglio rappresentata da un premier eletto dal Parlamento. Questa differenza non è marginale: gli Ayatollah controllano gran parte del Parlamento e dunque un premier eletto dall’assemblea sarebbe costantemente un loro fedelissimo; questo inoltre eviterebbe i rischi di elezioni dirette che, anche se possono essere pilotate grazie ai veti del Consiglio Supremo, ogni volta portano a violente proteste da parte della popolazione. “Basta presidenti a noi ostili” potrebbe essere il loro slogan, cosa che l’attuale elezione diretta ha mostrato di non garantire. Le parole di Khamenei possono essere perciò viste come una (non tanto velata) minaccia di “colpo di stato” interno per dare ancora più potere alla teocrazia a scapito delle istituzioni puramente repubblicane – e nonostante queste ultime abbiano già dimostrato in passato una ridotta democraticità. Sarà Ahmadinejad l’ultimo Presidente scelto dal popolo? Certo non va dimenticato come la sua stessa elezione sia stata contestata come figlia di brogli, né le sue posizioni sempre altamente estremiste; tuttavia esiste la possibilità che in tale sfida possano presentarsi come suoi alleati quei riformisti che rivendicano la necessità di una maggiore influenza delle istituzioni repubblicane, come l’Ayatollah Hashemi Rafsanjani. Se avverrà, sarà una vicinanza solo di interessi a breve termine, che però potrebbe contribuire a controbilanciare il potere ancora forte del regime teocratico.

 

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UN’AZIONE PIU’ VASTA – Infine, un’ultima osservazione: lo scandalo bancario non è l’unica offensiva condotta dagli Ayatollah contro il Presidente e i suoi uomini. Alcuni analisti ritengono che lo stesso complotto scoperto negli USA per assassinare l’ambasciatore saudita sia stato fatto scoprire volutamente proprio da una delle fazioni per screditare l’altra, così da metterne in imbarazzo politico i mandanti. Analogamente, non sono un mistero i continui riferimenti del Generale Mohammad Ali Jafari, comandante dei Guardiani della Rivoluzione, a una possibile azione per, secondo le sue parole, “proteggere la Rivoluzione”; è un messaggio per implicare il possibile ricorso alla forza per contrastare i nemici della Guida Suprema. In tale ottica, la posizione di Ahmadinejad appare la più sfavorita, continuamente a rischio di essere estromesso dal potere con ogni mezzo nel caso faccia un passo troppo lungo.

 

Lorenzo Nannetti

[email protected]

Le virtù della moderazione

Tra attese, incertezze, paure e speranze si sono svolte le elezioni politiche in Tunisia, le prime dopo la caduta del dittatore Ben Ali; a vincere il partito islamico moderato Al-Nahda, diventata la prima forza politica del paese. Le parole rassicuranti dei suoi esponenti non convincono ancora del tutto né gli oppositori né le diplomazie internazionali, tuttavia al momento non esiste nessun chiaro segno verso una decisa svolta del paese verso l’islam radicale

 

ISLAM (MODERATO) AL POTERE – I dati definitivi non sono ancora disponibili e forse qualche aggiustamento sarà necessario, ma con il 35-38% delle preferenze il partito islamico moderato Al-Nahda ha raggiunto la maggioranza relativa in Tunisia. Non ha quella assoluta, ma la sua enorme popolarità e il rischio di scontri difficilmente porteranno gli altri partiti di ispirazione laica (circa 5-6 entreranno in parlamento, nessuno sopra il 15-16%) a creare un unico blocco parlamentare che lo estrometta dal governo. Rachid Ghannouchi, leader di Al-Nahda, dunque potrebbe diventare il nuovo premier tunisino, ma questo non è l’unico elemento che si può trarre dall’analisi dei risultati e della campagna elettorale.

 

I PERCHE’ DELLA VITTORIA – Al-Nahda ha vinto grazie a una cosa che ha in comune con tanti altri movimenti e partiti di ispirazione islamica che si avvicinano alle elezioni nel dopo-rivolta (come in Egitto): è strutturato, capillare e compie una profonda opera di propaganda elettorale tanto nelle città quanto, soprattutto, nelle campagne. Ovunque arriva, porta avanti un messaggio messaggi semplice ed efficace improntato alla concretezza. Le opposizioni al contrario si sono presentate in maniera spesso meno incisiva e la loro mancanza di struttura – dovuta alla recente formazione – impedisce di coordinare correttamente gli sforzi. E’ un partito di ispirazione islamica ma ha mantenuto un linguaggio e un programma moderato. La sua intenzione dichiarata è diventare come il partito AKP del premier Recep Tayyip Erdogan in Turchia, e per quanto questa somiglianza possa risultare in realtà un po’ eccessiva date le differenze sociali e culturali dei due paesi, il concetto è risultato di facile comprensione per gli elettori. E’ più semplice e allettante votare per qualcosa che si vede già all’opera con buoni risultati. I suoi portavoce hanno affermato che un futuro governo vedrà una maggiore ispirazione ai principi islamici ma manterrà al centro i diritti umani e non si trasformerà in una dittatura religiosa. Allo stesso tempo sono aperti alla collaborazione e alla disponibilità di contatti con le imprese estere. Questa dichiarazione sarà ovviamente da verificare col tempo e molti sono i dubbi sia in Tunisia sia all’estero, ma contribuisce ad allargare la base di sostegno e cerca di rassicurare gli investitori esteri, che saranno comunque fondamentali per sviluppare l’economia del paese.

 

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DA SOLI NON SI PUO’ – Infine, Al-Nahda non può governare da solo, semplicemente perché non gode della maggioranza assoluta. Saranno necessari accordi con almeno uno degli altri partiti per formare un esecutivo che possa lavorare davvero, cosa che può evitare una deriva estremista del paese. Al tempo stesso le forze islamiche dovrebbero sentirsi comunque rappresentate evitando dunque di formare consistenti gruppi di resistenza che possano volgersi al conflitto armato. In definitiva, la vittoria di Al-Nahda non va vista come un inevitabile discesa verso l’estremismo islamico, poiché non vi sono (ancora) segni al riguardo. Due sono gli elementi da tenere sott’occhio: innanzi tutto verificare se Al-Nahda manterrà davvero un profilo moderato: una cosa infatti è la propaganda elettorale, dove si può essere pronti a offrire di tutto, e un’altra la realtà successiva alla vittoria. Secondariamente va osservato il suo stile di governo. Nel caso infatti l’opera dell’esecutivo risulti fallimentare, questo potrebbe far perdere in popolarità, a tutto vantaggio dei partiti ora di opposizione che potrebbero raccoglierne i frutti in futuro grazie anche al maggior tempo di preparazione. In ogni caso nessuna delle parti può permettersi di stravolgere i risultati tramite azione di forza: gli echi delle rivolte sono ancora troppo vicini e gli unici risultati sarebbero nuovi scontri armati.

 

Lorenzo Nannetti

Esami di riparazione

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Momento decisamente difficile per Sebastián Piñera: il Presidente cileno è alle prese dallo scorso maggio con l’enorme protesta studentesca le cui immagini hanno fatto il giro del mondo. Ma i problemi per il leader di centrodestra non finiscono qui: tra altre contestazioni, sondaggi sconfortanti e le difficoltà nell’approvazione della nuova manovra finanziaria, vediamo quali sono le prospettive per il Capo del Governo

 LA PIAZZA DI SANTIAGO – Le folle oceaniche di giovani arrabbiati e disposti a lottare ad oltranza pur di rivendicare i loro diritti sono senz’altro la fotografia emblematica del Cile di questi ultimi mesi, e l’inevitabile punto di partenza di ogni analisi su uno dei più floridi e politicamente stabili paesi latinoamericani. Da molte parti ci si è infatti chiesto cosa ha spinto centinaia di migliaia di ragazzi a rovesciarsi per le strade della capitale (e non solo), e ad organizzare una protesta di tali proporzioni; la risposta, come spesso capita, è stata trovata analizzando la situazione del paese nella sua completezza, collegando la rivolta giovanile con la particolare congiuntura socio-economica degli ultimi tempi. Il dato importante da cogliere è che la questione dell’educazione è solo uno dei tanti aspetti su cui si riflette la grande disuguaglianza nella distribuzione della ricchezza e dei proventi del positivo trend economico degli ultimi anni, confermato dalle diverse previsioni secondo cui anche quest’anno il PIL crescerà di circa il 6%. Se è vero ciò, così come il fatto che – dati OCSE alla mano – il Cile possiede il sistema educativo qualitativamente migliore della regione, bisogna anche evidenziare come tale servizio non sia certo a beneficio di tutti, anzi. È sempre un autorevole studio condotto dall’OCSE, il Programma per la Valutazione Internazionale dell’Allievo (più conosciuto con l’acronimo derivato dal suo nome inglese, PISA), a dare manforte alle proteste studentesche affermando come, su 65 paesi presi in esame, il Cile si classifichi come secondo peggiore per quanto riguarda la segregazione tra le diverse classi sociali: ciò a indicare l’esistenza di un’enorme disuguaglianza tra i pochi che possono permettersi un’istruzione di qualità, e i moltissimi costretti ad accontentarsi di un sistema scadente e povero di risorse. ISTRUZIONE PUBBLICA SCADENTE – Le ragioni di un così deludente risultato sono presto dette: il Cile spende poco per l’istruzione, appena il 4,4% del PIL a fronte di un 7% raccomandato dalle Nazioni Unite per i paesi sviluppati. Inoltre, nel sistema cileno trovano ampio spazio istituti universitari e scolastici privati, che godono di generose sovvenzioni fornite dal governo e che, per legge, sono autorizzati a trarre profitti dalle loro attività. E sono proprio questo genere di istituti gli unici a garantire agli studenti un’istruzione davvero di qualità, a fronte di quelli pubblici e gratuiti, molto criticati per il servizio scadente che forniscono e per lo stato fatiscente in cui parecchi di essi versano. Su questi due tasti preme dunque in particolare la protesta dei giovani cileni, che chiedono da un lato maggiori investimenti sul sistema scolastico in modo da renderlo davvero di qualità e accessibile a chiunque, e dall’altro uno stop ai finanziamenti in favore di tutti gli istituti che non siano no-profit. In risposta il Governo ha presentato delle proposte per venire incontro alle richieste avanzate, promettendo, fra le altre cose, un aumento del numero di borse di studio, prestiti in favore degli studenti a tassi particolarmente favorevoli e una loro maggiore partecipazione nella governance delle università; la risposta della piazza è però stata assolutamente negativa, e i rappresentanti degli studenti hanno annunciato che il movimento è compatto e deciso a proseguire nella mobilitazione sino a quando tutte le richieste non saranno accolte fino in fondo. POPOLARITÁ IN CALO – La notizia peggiore per Piñera è che non soltanto il movimento degli studenti appare coeso e deciso a non scendere a compromessi, ma che esso gode anche del favore assoluto della maggioranza della popolazione e sta causando un calo di popolarità enorme del Presidente nei sondaggi. Secondo questi, il 79% dei cileni approva ed appoggia le ragioni della mobilitazione giovanile (anche se solo la metà apprezza i metodi usati nella protesta, influenzata sicuramente dagli scontri di piazza), mentre solo il 22% si dice in accordo con quanto il governo sta facendo per fronteggiare e venire incontro alla protesta. Questi avvenimenti influenzano inevitabilmente anche il giudizio complessivo sulla condotta del Capo del Governo, che gode a malapena del favore del 30% della popolazione. Ma non è solo la questione studentesca a trascinare in basso i consensi verso Piñera. Fortemente osteggiato da una parte dell’elettorato è anche il piano di costruzione di cinque gigantesche dighe in Patagonia, approvato lo scorso maggio dal Governo e che nelle intenzioni dovrebbero assicurare circa un terzo del totale fabbisogno di energia elettrica del paese. Il prezzo da pagare sarebbe tuttavia altissimo: quasi 6.000 ettari di natura incontaminata verrebbero completamente allagati, causando un danno ambientale dalle proporzioni enormi e, secondo molti, intollerabile. Quello energetico è tuttavia un nodo da sciogliere al più presto per il Cile, probabilmente il paese meno dotato di risorse energetiche di tutto il Sudamerica: parliamo di una realtà che ad oggi è costretta ad importare circa il 75% dell’energia consumata, oltre ad essere fortemente ostacolata nella costruzione di infrastrutture dal fatto di essere uno dei paesi più esposti al rischio di terremoti al mondo.

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MANOVRA FINANZIARIA – Nel frattempo, il Governo cileno è alle prese con la stesura della manovra finanziaria, che deciderà lo stanziamento di risorse per il prossimo anno. L’opposizione naturalmente promette battaglia e ha già fatto sapere di voler votare assolutamente contro, battendo in particolare sul tasto dell’istruzione. Cavalcando le proteste degli ultimi mesi, si criticano gli scarsi investimenti del governo, e si chiede di proibire agli istituti di fare profitti dalle loro attività e di garantire ad almeno l’80% degli studenti di poter usufruire di un’educazione completamente gratuita. Altra richiesta è quella di riformare il fisco, aumentando le tasse per le fasce più abbienti della popolazione alleggerendo il carico per quelle più deboli. In tutta risposta il Governo, pur concordando sul bisogno di riformare il sistema fiscale, sostiene come ciò non sia possibile in un momento tanto complesso e difficile per l’economia mondiale, rimandando i provvedimenti a periodi di minor incertezza. Per quanto riguarda le polemiche sull’istruzione, Piñera ha messo in luce come gli investimenti per il 2012 aumenteranno del 7,2% rispetto a quelli del 2011 e rappresenteranno un sesto dell’intero budget. Ulteriori annunci sono stati fatti sul sistema sanitario e sulla sicurezza, che il Presidente ha annunciato di voler potenziare come mai fatto prima. Difficile dire se le promesse basteranno a convincere la controparte in Parlamento e soprattutto l’arrabbiatissima piazza cilena. Certo è che dalla manovra che uscirà dal dibattito nelle aule e dalle prossime scelte del Governo si potrà capire molto di quello che sarà il destino del paese, in un momento assolutamente cruciale per il suo futuro. Antonio Gerardi [email protected]

 

I primi germogli della primavera araba

All'indomani delle prime elezioni libere in Tunisia, il “Caffè” vi offre una testimonianza direttamente dalla capitale maghrebina. In attesa dei primi risultati ufficiali, che dovrebbero premiare il partito degli Islamici moderati, alcune riflessioni su un evento storico che potrebbe far nascere i primi frutti concreti del risveglio sociale delle popolazioni arabe. Gli eletti saranno chiamati a far parte dell'Assemblea Costituente e a redigere la carta legislativa fondamentale della nuova Tunisia

FINALMENTE CI SIAMO – Il giorno tanto atteso è giunto, ed è accolto con entusiasmo da larghi strati della popolazione. Mentre una moltitudine di giornalisti internazionali assistono scettici al primo voto democratico della Repubblica tunisina, la cittadinanza si accalca e attende a lungo fuori dai seggi elettorali della capitale. Lo scetticismo degli osservatori stranieri non è però ingiustificato. La cittadinanza appare spaccata: una parte partecipa con gioia alle elezioni dell'Assemblea Costituente, sentendosi responsabilmente protagonista di un momento storico di fondamentale importanza per la Tunisia e, di riflesso, per tutto il mondo arabo ancora impegnato in una difficile transizione. Un'altra parte della popolazione, invece, stenta a notare le differenze con il passato regime, si disinteressa cinicamente criticando i governi provvisori succedutisi finora che non hanno dimostrato di essere all'altezza delle aspettative. La Costituente ha davanti a sè un percorso difficile: dovrà darsi un regolamento interno e nominare un nuovo governo provvisorio, questa volta legittimato dal voto popolare, prima di iniziare i lavori di stesura della nuova legge fondamentale tunisina.

TEMPI LUNGHI PER LA COSTITUENTE – Risulta quindi facile aspettarsi dei tempi abbastanza lunghi prima che entrambe le istituzioni siano del tutto operative. Non sarà affatto facile, infatti, per la Costituente trovare un accordo sulle nomine, in quanto avrà una composizione estremamente variegata, risultato di un sistema su base circoscrizionale e delle migliaia di liste iscritte alle elezioni. Nelle 27 circoscrizioni sono infatti iscritte in tutto 1517 liste, di cui 655 liste indipendenti, 828 partitiche e 34 di coalizione. Anche all'estero sono presenti 145 liste di cui 72 indipendenti, 66 di partito e 7 di coalizione. In tutto 1618 candidati in Tunisia e 474 all'estero. Inoltre, nonostante tutti i partiti sostengano formalmente la necessità di estendere le libertà individuali, nessuno di loro si è soffermato ad una loro definizione, ed è quindi probabile che molti dei partiti e liste abbiano una concezione di diritti e libertà estremamente diverse tra loro. Di certo è cosi se si pensa al partito islamista Al-Nahda e alla moltitudine di partiti della gauche, comunisti o di derivazione sindacale.

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LE SFIDE – Le nuove istituzioni della seconda Repubblica tunisina dovranno affrontare una sfida ancora più importante: soddisfare le aspettative della cittadinanza in ambito socio-economico attraverso una gestione trasparente delle cosa pubblica e una migliore redistribuzione del reddito instaurando un nuovo stato sociale e nuovi servizi. Una sfida ancor più difficile se si pensa al momento di crisi economica globale. La Tunisia avrà quindi l’occasione di sperimentare un nuovo modello di partecipazione e redistribuzione, per forza di cose diverso da quello delle democrazie occidentali che oggi sono costrette a fare importanti passi indietro proprio sul sistema di welfare. La Tunisia, per la prima volta nella sua storia, ha l’occasione di pensarsi come un modello per i Paesi della regione che a breve affronteranno le stesse sfide. Nonostante tale duplicità, la stragrande maggioranza dei tunisini (intorno al 90%) ha deciso di credere e partecipare al processo elettorale, considerato un approdo fondamentale nel difficile viaggio verso la costruzione di uno stato democratico. Compito dei paesi occidentali sarà quello di sostenere tale aspirazione, qualsiasi sia il risultato delle elezioni, dimostrando – almeno questa volta – che è possibile un approccio democratico anche nelle relazioni internazionali.

Vincenzo Andricciola (da Tunisi) [email protected]

Le lacrime dei vinti, il sangue del dittatore

Con le immagini della cattura e dell’esecuzione pubblica di Muhammar Gheddafi si conclude la pars destruens della Rivoluzione libica targata CNT-NATO, le lacrime di Hosni Mubarak davanti alle immagini della caduta speculare del suo alleato e le elezioni ad alta partecipazione in Tunisia segnano la nuova rotta del Maghreb, che risente fortemente del passato duro da dimenticare. Gli Stati Uniti sembrano costretti ad una revisione strategica della loro influenza nel “Grande Medio-Oriente” lasciando prematuramente l’Iraq. C’è aria nuova nel nostro Caffè settimanale

EUROPA – Martedì 25- Nuove tensioni in vista tra l’Autorità Palestinese e gli Stati Uniti all’Assemblea UNESCO che si terrà a Parigi. Infatti una legge di più di quindici anni fa che impone il taglio dei fondi governativi a per qualsiasi Organizzazione Internazionale che accetti la Palestina come membro a pieno titolo, rischia di dover essere applicata proprio nei confronti dell’UNESCO i cui membri voteranno una mozione per il riconoscimento del 194esimo membro ufficiale.

Mercoledì 26- Nuovo incontro dei Capi di Stato e di Governo dei paesi dell’area euro, i leader sono chiamati a decidere sull’importo da destinare al “fondo salva-Stati”, l’ultima spiaggia per le economie al tracollo, a verificare le misure di riforma pensionistica e per lo sviluppo economico, quasi dettate al Presidente Berlusconi dal duo Merkel e Sarkozy. Entrerà in gioco la nuova figura di “Mr. Euro”, la carica destinata a guidare i meetings dell’Eurogruppo e che verrà scelta una volta decaduta la Presidenza del Consiglio di H. Van Rompuy.

Varsavia – Si apre martedì la Conferenza sul traffico di stupefacenti tra paesi europei e Europa dell’est. Federazione Russa, Bielorussia, Ucraina e Moldavia discuteranno con funzionari di Interpol e dell’Organizzazione delle Nazioni Unite sulla Droga e il Crimine sulle rotte delle sostanze stupefacenti verso il mercato europeo e sulle misure multilaterali utili a combatterle.

AMERICHE – Stati Uniti – Le sfide internazionali aperte rubano letteralmente spazio e tempo alla debacle per le presidenziali del 2012. B. Obama ha accolto con gioia l’annuncio della fine delle operazioni della Nato in Libia per il 31 Ottobre e ha tentato di segnare un punto a suo favore nell’approccio con l’opinione pubblica dichiarando il ritiro di tutte le truppe USA dall’Iraq entro il prossimo Dicembre. Il vero problema sono i conti pubblici e la ripresa economica, su cui si giocheranno le primarie e la campagna elettorale, che impongono una revisione generale dei piani dell’Amministrazione Obama per Iraq ed Afghanistan.

Venezuela – Potrebbe non essere il cancro, forse sconfitto, l’unico scoglio in vista per il carismatico lìder venezuelano Hugo Chavez. Leopoldo Lopèz, un economista laureato ad Harvard, discendente diretto del revolucionario Simon Bolìvar, sembra guadagnare sempre più la simpatia della popolazione e il sostegno della Comunità Internazionale mentre si avvicinano le presidenziali del 2012. Non è servito a nulla il tentativo di precludere la candidatura all’attivista dato che la Corte Inter-Americana per i Diritti Umani ha sancito l’illiceità della misura.

Argentina – Come anticipato nello scorso Caffè, mai vittoria fu più scontate nelle elezioni argentine che hanno incoronato Cristina Kirchner Capo di Stato per la seconda volta. Dopo la dovuta dedica al marito, la conferma dei piani economici, volti al “Kirchnerismo”, da parte degli elettori, rimane da svelare la composizione delle Camere per scoprire se l’ampia maggioranza potrà garantire nuova vita al motto “più industria, più inclusione sociale, più patria”.

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AFRICA – Lunedì 24- Attesa e trepidazione per i risultati delle prime elezioni libere in Tunisia, dove nonostante le previsioni, una folla festante ha letteralmente assalito i seggi sin dalle prime ore del mattino. Con 100 partiti in lizza, la paura occidentale per l’estremismo islamista e un favorito su tutti, il partito islamista-riformista Ennhahda, le elezioni tunisine si affermano come il vero test per l’evoluzione della Primavera Araba nel Maghreb.

Libia – Mentre la Comunità Internazionale si interroga sui metodi utilizzati nell’esecuzione a sangue freddo del Col. Gheddafi e sulle transizioni democratiche, in una Bengasi in festa il CNT e il suo Presidente Mustafa Abdel Jalil ha dichiarato la liberazione del paese intero “dal deserto ai cieli tutti”. Intanto non mancano le preoccupazioni per l’evoluzione di una ribellione iniziata sull’onda di manifestazioni contro le vignette satiriche su Maometto e culminata con l’eliminazione del tiranno e il martirio del suo cadavere, una scena già vista troppe volte e che conferma la natura primordiale della lotta per la libertà. A detta del Ministro della Giustizia Jibril, sarà la shaarìa a guidare la Libia verso un futuro ancora poco chiaro agli occhi di tutti.

Algeria – L’ennesimo rapimento, stavolta di una cooperante italiana e due spagnoli, in territorio algerino, alza l’attenzione dei media sulla situazione del paese del Maghreb più interessato dalle infiltrazioni di movimenti jihadisti islamici. L’Al Qaeda del Mali, ha rivendicato il sequestro compiuto nella zona algerina dell’autoproclamatasi Repubblica del Sahraoui e avvenuto con un blitz armato in un campo profughi della provincia.

MEDIO-ORIENTE – Turchia – Il sisma di 7.2 gradi Richter che ha colpito la Turchia nella zona orientale al confine con l’Iran Domenica potrebbe paradossalmente raffreddare le tensioni tra Ankara e Israele, alle stelle da alcuni mesi. Il Governo di Tel Aviv ha infatti optato per un invio di aiuti senza condizioni confermando la svolta verso la pacificazione dei conflitti aperti. Secondo le prime stime, quanto mai approssimate e indicative, le vittime del sisma potrebbero essere più di mille a causa della scarsa applicazione di misure preventive in una delle zone più soggette ai terremoti.

Iran – Seguendo l’antico motto che vuole il nemico del tuo nemico un tuo alleato, il Governo iraniano sembra aver appoggiato il piano di invasione limitata attuata dalle forze armate turche nell’Iraq del nord. La minoranza curda, che sembrava aver ottenuto un regime d’autonomia più ampio grazie all’influenza americana, è stretta tra i due paesi che lottano per l’egemonia di potere e prestigio nella regione mediorientale. Turchia e Iran, così lontani politicamente hanno dimostrato che una loro alleanza a difesa dell’identità nazionale non è poi così irrealizzabile.

Pakistan – Un incidente di frontiera conclusosi in poche ore sembra confermare il percorso comune verso la pace e il progresso di India e Pakistan. Domenica verso le 13:00 un elicottero “Lama” dell’Esercito Indiano, modificato per il volo ad alta quota, è penetrato 25 km all’interno dello spazio aereo pakistano violando la zona di separazione istituita in Kashmir. Costretto ad atterrare nell’aeroporto di Skardu, il velivolo è stato restituito 4 ore dopo grazie a colloqui di alto livello tra i due eserciti. Un incidente di frontiera, dovuto peraltro al maltempo, potrebbe aver condotto all’ennesimo scontro nella zona, ma i nuovi rapporti economici e la lotta al terrorismo comune hanno evitato che la situazione degenerasse.

ASIA – Thailandia – In una Bangkok sommersa dalle acque provenienti dalle regioni circostanti, il Governo stila un bilancio provvisorio della più grave alluvione degli ultimi sessant’anni. 500 morti, 10 milioni di sfollati e milioni di metri cubi d’acqua che giungono quotidianamente verso la capitale hanno messo in ginocchio i parchi industriali delle produzioni high-tech, fiori all’occhiello dell’economia thailandese. Una sfida decisamente dura aspetta la neo-eletta premier Yingluck Shinawatra nei prossimi giorni quando le stime saranno definitive e il paese martoriato, in attesa di una ricostruzione inevitabile.

Cina – Mentre le tensioni in Tibet raggiungono l’apice della violenza dopo mesi di relativa calma, l’attenzione del Governo Centrale sembra rivolta all’Europa, dove la crisi economica sembra riservare per gli accorti investitori istituzionali occasioni ghiotte per espandere l’influenza cinese nel mercato europeo. È la Grecia l’obiettivo principe, con impegni e scadenze da rispettare il Governo di Atene potrebbe essere costretto a cedere fette di sovranità in cambio di liquidi.

Fabio Stella [email protected]

Alla conquista del Laos

L’esercizio dell’influenza e del soft power è multiforme, investe la dimensione culturale come quella linguistica, quella tecnologica come quella artistica. Perfino i modelli architettonici, l’intero processo di urbanizzazione, l’organizzazione materiale dello spazio, delle reti e delle strutture, sono assoggettati alla manipolazione territoriale indotta da questa particolare forma del potere, poco manifesta eppure decisiva. Ecco come Pechino sta cercando di imporre il suo dominio nel piccolo, ma importante Laos

 

VIENTIANE, NUOVA CHINATOWN – Vientiane, l’antica capitale del Laos, è un efficace esempio chiarificatore dell’influenza che il potere esercita sull’architettura, quindi della relazione interagente tra politica ed estetica. Se fino a qualche decennio fa a Chantabuli, nel centro della città, si poteva riconoscere senza alcuno sforzo di immaginazione l’impronta architettonica coloniale francese, ora nella periferia nord-orientale di Vientiane è schierato un manipolo di escavatori, pronto a dar battaglia per piallare le basi alle fondamenta della nuova grande Chinatown del Sud Est Asiatico. Piani di sviluppo, joint–ventures, una miriade di progetti assegnati in concessione per 50 anni alla Suzhou Industrial Park Overseas Investment Co e ad un partner laotiano (quota del 5%), sono stati siglati dal governo di Vientiane e da quello di Pechino per lo sviluppo della città e l’urbanizzazione di 1640 ettari di territorio attraverso la costruzione di unità industriali, residenze e abitazioni, negozi e impianti sportivi. La costruzione della “nuova Vientiane”, ricalcata sulle grandi metropoli cinesi, ha sollevato molti interrogativi e destato malumori tra la popolazione laotiana, che non nasconde le diffidenze rispetto all’attuale processo di sinizzazione nel Paese e al nuovo sodalizio strategico sino-laotiano.

 

SINIZZAZIONE DEL LAOS – Le autorità di Vientiane rigettano le accuse di chi sostiene che l’esistenza di una Chinatown laotiana è funzionale agli interessi di Pechino di popolamento della città, mirati a favorire la migrazione cinese e rinforzare la propria influenza politica nel Paese. Non si possono però negare i dati ufficiali resi pubblici dal governo che confermano l’immigrazione di almeno 30000 cinesi nel Laos (o dieci volte tanto, come sembrano indicare i dati effettivi), impiegati nelle numerose opere pubbliche che stanno ricostruendo un volto nuovo alla nazione, ad immagine e somiglianza della Cina. A Boten, una cittadina al confine sino-laotiano, i cinesi non solo hanno edificato il terzo centro commerciale più grande nel Laos, il Lao-Friendship Center, ma hanno anche inaugurato campi da golf, casinò, residenze di lusso, hanno aperto catene di negozi e li hanno forniti interamente di prodotti “made in China”. La città è stata trasformata in una sorta di zona economica speciale, essendo stata concessa nel 2002 dal governo con regolare contratto di locazione ad una società cinese per 30 anni, rinnovabile per altri 60, così i suoi abitanti autoctoni sono stati costretti a migrare verso una baraccopoli eretta lungo il confine.

 

CHINESE CARD – “L’apertura e l’integrazione regionale  sono molto meglio che la guerra fredda che in passato ci è stata imposta da qualche potere”, così ha esordito Yong Chanthalangsy, il portavoce del governo laotiano. Giocare la Chinese card” è l’obiettivo strategico del Laos per conquistare un posto al sole nello scacchiere asiatico, stimolare la crescita interna e rinsaldare le relazioni con la potenza economica in ascesa, che si erano indebolite negli anni 1975-1988 favorendo l’influenza vietnamita nel Paese.

 

GEOPOLITICA DEL LIMES SINO-LAOTIANO – La geopolitica dei confini del Laos, stretto tra Cina, Vietnam, Thailandia, Myanmar e Cambogia, è il nodo sostanziale del suo valore geostrategico. Il profilo morfologico del suo territorio, montuoso e aspro, e la presenza di ingenti risorse naturali e di fiumi navigabili, come il Mekong che lo attraversa per 1898 Km, hanno per secoli motivato la competizione tra vietnamiti, cambogiani e thailandesi per l’egemonia su quelle terre. Dal 1986, quando il governo di Vientiane iniziò a riavvicinarsi a Pechino, tessendo una nuova tela di relazioni diplomatiche, il Laos ha iniziato ad allontanarsi dal modello politico e culturale vietnamita, al quale il Pathet Lao e la Repubblica Democratica del Laos si erano conformati, per adottare quello economico cinese.

 

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LAOS, STRATEGIC LAND-BRIDGE – Per rilanciare l’economia laotiana, incrementare lo sviluppo industriale, i livelli di occupazione e la qualità della vita, il governo di Vientiane mira a trasformare il paese in un strategic land-bridge, un corridoio di comunicazione terrestre, tra la Cina e il Sud-Est Asiatico, superando il limite della mancanza di uno sbocco sul mare potenziando il suo ruolo di “land-linked”, ovvero l’essere collegata via terra.

 

COOPERAZIONE ECONOMICA – Il pragmatismo politico di Pechino ha notevolmente giovato al rafforzamento delle relazioni bilaterali sino-laotiane: nel 1997, quando le tigri asiatiche arrancavano per contenere gli effetti della gravosa crisi finanziaria, la Cina ha astutamente ristabilito gli accordi commerciali con il Laos ed altri partners in difficoltà, e concesso aiuti ed ingenti investimenti per lo sviluppo infrastrutturale ed economico. Dalla prima visita ufficiale di Jiang Zemin nel 2000 la cooperazione tra i due Paesi ha fatto passi da gigante e nei prossimi anni il commercio bilaterale si prepara a raggiungere i 1000 miliardi di dollari.

 

La Cina è divenuta in poco tempo il maggior investitore nel Laos, rubando il primato a thailandesi e vietnamiti, e ampliando la sfera di interesse dal settore manifatturiero a quello agricolo, idroelettrico e minerario. È la cooperazione economica e nel settore energetico a fare gola a Pechino e a sollevare i malumori degli altri partners sud-orientali. Durante il vertice che nel 2008 ha riunito i membri della Greater Mekong Subregion, Cina (Guanxi e Yunnan), Myanmar, Laos, Cambogia, Thailandia e Vietnam, i due Paesi hanno stipulato sette accordi esclusivi che hanno esteso la cooperazione all’ambito militare e alla sicurezza, alla formazione del personale tecnico e di intelligence, e hanno assicurato al Laos le esportazioni del know-how tecnologico. Pechino ha offerto 100 milioni di dollari per l’invio di velivoli militari per la Lao Aviation. L’inaugurazione della prima borsa laotiana, la Lao Securities Exchange, ci appare come una nota stonata nel Paese più povero dell’Asia dove ancora il 74% della popolazione vive con meno di 2 dollari al giorno e solo il 68,7% può dirsi alfabetizzata. Tuttavia, ai detrattori che stigmatizzano la nuova partnership sino-laotiana ed evidenziano l’asimmetria di interessi, l’univocità dei benefici godibili e lo sfruttamento della debolezza del Laos ad opera della Cina, non resta che sottolineare come anche grazie a questo sodalizio il tasso di crescita del Prodotto Interno Lordo del Paese sia incrementato dal 5,5% nel 2003 al 7,8% nel 2011. Il Laos è ora un po’ più cinese e un po’ meno povero.

 

M.Dolores Cabras

Ghedda-fine

La notizia della fine del Colonnello è rimbalzata tra le agenzie di stampa, così come le immagini: Gheddafi è morto, ucciso a Sirte, forse dagli uomini del CNT che hanno finalmente espugnato l’ultima roccaforte del regime, forse dal fuoco degli elicotteri NATO. In ogni caso con la caduta di Bani Walid nei giorni scorsi il regime è davvero finito. La Libia è libera dal tiranno? Sembra proprio così, ma il difficile arriva ora. Il “Caffè” prova ad offrirvi alcune prospettive alla fine di una dittatura durata più di quarant’anni

 

QUALE VERSIONE – Forse sono stati gli elicotteri della NATO a ferirlo alle gambe prima e ucciderlo poi, oppure sono stati gli insorti, entrati finalmente a Sirte, a sparare al Colonnello ferito mentre questi chiedeva “Non sparate, non sparate!” I dettagli esatti della sua fine forse li sapremo tra giorni o forse mai, ma se le indicazioni del CNT sono esatte (e, va detto, non sempre lo sono state), il rais è ora davvero morto. Il regime del resto era già finito da settimane, con le sue ultime forze arroccate nelle ultime basi, isolate e impossibilitate a scampare alla morsa dei ribelli. Ora erano i lealisti ad essere pochi, male armati – probabilmente con poche munizioni – col morale a terra e chiusi in gabbia, come erano stati i ribelli all’inizio della guerra.

 

COME LUI VOLEVA? – Gheddafi sembrava diventato un fantasma, addirittura indicato alla guida dei Beduini nel deserto (forse una voce fatta girare ad arte proprio per sviare le ricerche mentre lui era a Sirte?).  Gheddafi muore invece nella sua città natale, in un certo senso come aveva voluto, combattendo fino – quasi – all’ultimo. Ne avevamo parlato in un precedente articolo (v. “Nella testa del Colonnello”): per lui meglio morire da martire che vivere in esilio, dunque meglio continuare a scappare o combattere che accettare un accordo visto come umiliante.

 

I suoi figli ne hanno seguito la parabola discendente. Alcuni probabilmente morti (Khamis e Mutassim i più probabili), altri fuggiti all’estero, altri (Saif al-Islam) ancora alla macchia. Dalle indiscrezioni filtrate sono stati catturati anche molti degli ultimi fedelissimi, tra cui Abdallah Senoussi e Mansour Daou, ex-capi dei servizi segreti e di sicurezza, così come altri ex-gerarchi. Nessuna possibilità che il regime si riprenda ora, semplicemente perché il regime non esiste più, né ci sono forze che possano riportare i pochi superstiti alla riscossa. Ora per tutti gli attori in gioco è più importante pensare a come assicurarsi un futuro nel nuovo assetto del paese, e questo include anche le tribù prima legate al colonnello.

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DAMNATIO MEMORIAE? – Gheddafi ha subito una sorte per certi versi simile a quell’Omar Al-Mukhtar, eroe libico della resistenza agli Italiani, la cui foto egli mostrò quando venne in visita al nostro paese. Difficile però che il Colonnello sia ricordato come martire più che come feroce dittatore; troppo l’odio e l’ostilità verso di lui. Al-Mukhtar inoltre non ha mai governato il paese e la similitudine sarebbe del tutto inappropriata. Solo una cosa potrebbe, paradossalmente, salvargli l’immagine tra i suoi. Come Amnesty International ha riportato, i ribelli hanno iniziato ad usare metodi troppo simili a quelli del regime con i prigionieri; se il trend dovesse continuare, e soprattutto se il processo di pacificazione nazionale dovesse fallire, non è escluso che il rais rimanga come icona di chi, dalla rivolta, ha ottenuto solo peggio.

 

SFIDE – La guerra di Libia può ora dirsi conclusa? Sì e no. La dittatura della famiglia Gheddafi ora appartiene al passato, ma il paese rimane pieno di gruppi armati ciascuno con le proprie idee su come debba essere il futuro, su come vendicarsi di torti passati, su come cercare di mantenere i diritti che aveva con il precedente regime. Forse la sfida non sarà più tra pro-Gheddafi e anti-Gheddafi, ma potrebbe comunque rimanere feroce. Come verranno divisi i proventi del petrolio e del gas naturale? Come verranno rappresentate tutte le anime della Libia a Tripoli? Lo stato rimarrà fondamentalmente laico o la Sharia entrerà maggiormente nella vita comune? E soprattutto come reagirà chi non sarà d’accordo con le nuove istituzioni? La risposta a queste domande influenzerà il futuro di questo paese. Il regime è finito e la Libia è libera. Il difficile però inizia ora.

 

Lorenzo Nannetti

Made in China? Basta!

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Un progetto di legge, approvato martedì 11 ottobre dal Senato americano, rischia di scatenare una guerra commerciale tra Washington e Pechino.  In un ambiente politico ed economico molto delicato, i senatori statunitensi vogliono frenare le importazioni dalla Cina che, a loro avviso, sarebbero avvantaggiate dalla manipolazione dello moneta cinese e danneggerebbero i lavoratori americani. La risposta di Pechino non si è fatta attendere, ma i dubbi sulla sortita di stampo protezionistico e del suo reale impatto sull’economia americana e cinese sono molti

TENSIONE TRA USA E CINA – I rapporti tra le due prime economie del mondo non sono certo dei migliori, in particolare dopo l’accordo tra gli Stati Uniti e Taiwan per la vendita di armi, tra cui alcuni F-16, che ha fatto irritare parecchio il governo cinese, al punto da costringere l’Amministrazione Obama a ritirare gli aerei da combattimento dall’accordo. Dal punto di vista economico gli Stati Uniti accusano la Cina di infrangere in maniera continuativa le regole del WTO (World Trade Organization) sul commercio e di mantenere artificiosamente sottovalutato il renminbi. Oltre alla problematica relazione tra Washington e Pechino è necessario tenere presente la situazione interna americana. A seguito della crisi economica internazionale, la politica americana non è riuscita ad evitare un declino del reddito intorno al 10%, la svalutazione delle proprietà immobiliari e una disoccupazione superiore all’8%. A ciò si aggiunge, dopo le elezioni di mid-term dello scorso autunno, un Senato con maggioranza democratica e una Camera dei Rappresentanti a maggioranza repubblicana che complicano non poco la situazione. Infine l’inizio imminente delle primarie, e più in generale l’avvicinarsi delle elezioni presidenziali, si trasformano in una corsa alla conquista dei voti dei blue collar workers e dei latinos, categorie molto sensibili all’impatto del commercio internazionale sull’occupazione americana. LA PROPOSTA – Il disegno S.1619 prevede che il Ministero del Tesoro rediga ogni due anni un rapporto sull’andamento della politica monetaria internazionale e dei tassi di cambio tra il dollaro e le altre valute, rapporto che dovrà essere presentato in Parlamento. Inoltre incarica il Ministero del Tesoro di verificare semestralmente il reale tasso di cambio delle valute straniere, controllando che non ci siano stati accumuli ufficiali o semi-ufficiali, da parte dei governi, di assets americani per fini legati al riequilibrio della bilancia dei pagamenti. Infine, la parte più rilevante, emenda il Tariff Act del 1930 per riallineare il prezzo di importazione dei prodotti nel caso in cui il governo di provenienza tenga artificialmente sottovalutata la propria valuta, in relazione al dollaro. In pratica, secondo il Senato americano, se un Paese manipola la propria moneta compie un’azione di concorrenza sleale cui il governo statunitense pone rimedio applicando delle trade penalties. Il testo ha passato la lettura a Capitol Hill con una maggioranza di 63 a 35, con diversi senatori repubblicani che hanno votato a favore del Currency Exchange Rate Oversight Reform Act of 2011. Dei candidati alle primarie repubblicane solo Rick Perry, il governatore del Texas vicino al tea party, si è opposto pubblicamente alla proposta di legge, mentre il più moderato Mitt Romney ha scritto un duro intervento sul Washington Post contro la politica economica e commerciale cinese. Il difficile compromesso tra lo spirito liberista e la necessità di catturare i voti delle unions ha fatto sì che non ci sarà un passaggio alla Camera dei Rappresentanti e, quasi sicuramente, questo testo non verrà neanche discusso. LA REAZIONE CINESE– Nonostante sia remota la possibilità dell’effettiva entrata in vigore di una legge così punitiva, la risposta cinese non si è fatta attendere. L’agenzia di stampa ufficiale Xinhua ha paragonato il progetto di legge allo Smoot-Hawley Act del 1930, il quale contribuì al peggioramento della situazione economica mondiale in seguito alla Grande crisi. Diversi esponenti del governo di Pechino hanno annunciato che una politica di stampo protezionistico da parte statunitense non rimarrebbe senza conseguenze. Nella realtà si è fatto ben poco, anzi la banca centrale cinese ha rivisto al rialzo il tasso di cambio tra renminbi e dollaro, lanciando così un segnale distensivo. Yi Gang, direttore dell’agenzia statale che regola il tasso di cambio, sostiene che un rafforzamento del renminbi sarebbe vitale per l’economia cinese perché una sottovalutazione della moneta causa una diminuzione reale del reddito e il surplus della bilancia cinese, che è la causa principale del problema inflazionistico in Cina. Analisti americani rilevano che, sebbene il renminbi si sia rivalutato del 30% dal 2005, la moneta cinese sia mantenuta sottovalutata del 40% rispetto al dollaro.

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CHI VINCE E CHI PERDE – Secondo uno studio del MIT di Boston esiste una relazione tra l’importazione di prodotti cinesi e il più basso tasso di occupazione delle aree manifatturiere. Inoltre il peso della più alta disoccupazione ricade su tutti i contribuenti come costo sociale. Il vantaggio è per i consumatori che hanno a disposizione beni più economici e imprese che, per rimanere sul mercato, sono costrette a investire molto nell’innovazione e nella ricerca e sviluppo. Come fa notare l’Economist è invece più difficile trovare una relazione così limpida tra l’andamento della valuta cinese e il disavanzo commerciale degli Stati Uniti con la Cina. I problemi riguardanti la proprietà intellettuale e il suo trasferimento, le leggi cinesi sulla proprietà delle imprese e i sussidi all’esportazione dovrebbero preoccupare molto di più i lavoratori americani. GLI USA TORNANO ISOLAZIONISTI? – La mossa del Senato ha quindi una valenza sia di politica interna che di politica estera, ma non bisogna pensare che gli Stati Uniti siano pronti a una svolta isolazionista. Come già fece Nixon nel 1971 quando, per convincere gli altri governi a lasciar svalutare il dollaro, impose una tassa d’importazione del 10%, così il Senato cerca di convincere il governo cinese a rivalutare il renminbi imponendo delle barriere tariffarie (un episodio simile accadde anche nel 2005, spingendo Pechino a rivedere la propria politica monetaria). La misura non farebbe presagire una nuova politica protezionistica anche perché, qualche giorno prima del voto a Capitol Hill, sono stati raggiunti gli accordi bilaterali con Panama, Colombia e Corea del Sud con cui vengono maggiormente liberalizzati gli scambi commerciali. Inoltre potrebbe arrivare presto sui banchi delle Commissioni parlamentari un nuovo disegno di legge per rilasciare le cosiddette “start-up visa”, ovvero visti facilitati per gli stranieri che investono in attività produttive negli Stati Uniti. Davide Colombo [email protected]

Il Dragone affila gli artigli

Come sta evolvendo la strategia militare di Pechino? La Cina ha messo in mare la sua prima portaerei a metà agosto, raggiungendo quello status internazionale inseguito sin dagli anni Settanta. Sentimento espresso molto bene nelle parole di Zhang Wenmu, professore all’Università di Aereonautica e Astronautica di Pechino, in un contributo sul “Global Times”, il quale ha scritto che “senza portaerei uno Stato non ha un reale diritto di parola nei grandi fatti della politica internazionale.” Vediamo tutti gli sviluppi, basati su un forte aumento delle spese militari

LE SPESE MILITARI CINESI – La Cina è lo stato che ha aumentato più in fretta, in termini percentuali, le spese militari nel periodo tra il 2001 e il 2010, con un incremento del 189%, pari al 12,5% in media l’anno. Gli Stati Uniti (la prima potenza militare) che hanno visto crescere il budget per la propria difesa dai quasi 305 miliardi di $ del 2001, agli attuali 698 miliardi di $, segnano “solo”, si fa per dire, un +81%. Bisogna precisare che gli USA spendono annualmente quasi sei volte in più – in assoluto – della seconda potenza militare: la Cina. Il bilancio ufficiale cinese per il 2010 è stato di 532 miliardi di yuan (78 miliardi di $), ma il SIPRI (Stockholm International Peace Research Institute) di Stoccolma, stima che le spese totali siano state di 809 miliardi di yuan (119 miliardi di $). Per un confronto, l’Inghilterra, al terzo posto, ha un budget per lo stesso periodo poco inferiore ai 60 miliardi di $. La vertiginosa crescita del budget della difesa cinese è persino superiore della crescita del suo PIL, che ha registrato un +10,5% in media all’anno nel periodo considerato. Questa vera e propria corsa alla modernizzazione militare, ha però subito gli effetti della crisi economica nell’ultimo anno: nel 2010 l’aumento del budget per la difesa è aumentato del 3,8% rispetto al 2009, a fronte dei ben più consistenti livelli di crescita degli anni precedenti. LA STRATEGIA CINESE – Secondo la linea ufficiale del PCC, l’incremento delle spese è dovuto a due ragioni principali: aumentare gli stipendi e le generali condizioni di vita delle proprie truppe (fatto normale, considerata la crescita economica); e la modernizzazione delle forze armate con l’obiettivo di raggiungere un più alto grado di ‘informatizzazione’ (così da colmare il gap con l’Occidente, da sempre cruccio di Pechino). Se è vero che la Cina dipende ancora largamente dalla tecnologia russa – soprattutto per i motori dei jet, è altrettanto vero che l’industria militare cinese ha fatto notevoli passi avanti nella sua abilità di sviluppo di armamenti moderni. In particolar modo, l’attenzione è stata posta sulla capacità di ‘vincere guerre locali in condizioni di elevata informatizzazione’ (leggi: Taiwan), in particolar modo sistemi missilistici, tecnologia spaziale e cyber war. La questione dello stretto di Taiwan rimane la più sensibile. Molti commentatori (occidentali) prestano molta attenzione all’obiettivo della Cina di creare una capacità militare ‘anti-access’ e ‘area-denial’, che consiste nel limitare al minimo la capacità d’intervento americano in un eventuale conflitto con Taiwan. Dal 2008, la Cina ha iniziato la sua collaborazione nelle operazioni di peace-keeping e ha dedicato sempre maggiore attenzione alle missioni contro la pirateria marittima. Questione cruciale, quest’ultima, alla base del veloce sviluppo della marina (PLAN – People Liberation Army Navy). LA PROIEZIONE MARITTIMA DELLA CINA – I maggiori rifornimenti energetici cinesi passano per rotte marine; attraverso la rotta che va dal Golfo Persico e passa per il Mar Cinese del Sud, area molto ‘calda’ per gli equilibri asiatici, che ha visto un’escalation delle tensioni negli ultimi anni. Perciò la Cina ha bisogno di una moderna marina militare in grado di difendere le proprie rotte commerciali. Strategia sintetizzata nel concetto di “sicurezza marittima” introdotto all’inizio dello scorso decennio dal PLAN. Da quel momento in poi il PLAN, ha tra i propri compiti operazioni connesse alla sicurezza di quelle vie nevralgiche. Lo scorso 10 agosto sono stati resi noti ufficialmente i lavori di completamento della portaerei ex-“Varyag,” (nella foto sotto) acquistata nel 1998 dall’Ucraina (il cui destino era diventare un gigantesco casinò) annunciando i primi test in mare. L’importanza della portaerei (il cui nome ufficiale non è ancora stato assegnato) va oltre le questioni strategiche di difesa delle rotte marine e all’accesso alle risorse marine su cui la Cina dichiara piena sovranità (i vari piccoli arcipelaghi del Mar Cinese del Sud: isole Spratly, Paracels, Pratas; e nel Mar Cinese Orientale); ma rappresenta un alto valore simbolico di rinascita della Cina e del suo status internazionale, sentimenti che riflettono il diffuso nazionalismo cinese.

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DOVE VA LA CINA? – La Cina continua a ripetere, instancabilmente, ormai da quasi dieci anni, il mantra del “peaceful development.” Ossia una crescita in potenza economica, politica e militare, con il solo carattere difensivo. Specialmente dai “tre demoni” (ai quali spesso gli ufficiali del governo cinese fanno riferimento): quali il separatismo (Taiwan, Tibet, Xinjiang), il terrorismo (Uiguri) e l’estremismo (forze anti-comuniste, vedi Falun-Gong). Considerando le altrui preoccupazioni come eccessive. Ovviamente, non la vedono così i vicini di casa della potenza cinese, compresi quelli un po’ più lontani, ma solo geograficamente, come gli Stati Uniti. E’ proprio la crescente forza militare cinese in tutte i rami delle forze armate a far emergere lampante la contraddizione tra parole e fatti. Un buon esempio del contrasto tra i due punti di vista, lo dà il confronto tra i due documenti sulle forze armate cinesi presentati nel 2011: il biennale Libro bianco della Difesa, pubblicato in Marzo dal Ministero della Difesa cinese; e dal Rapporto annuale al Congresso Americano sugli sviluppi militari riguardanti la RPC, redatto dall’Ufficio del Segretario alla Difesa americano. Il primo si focalizza sugli obiettivi strategici cinesi e l’evoluzione istituzionale. Specialmente sul ruolo del PLA (People Liberation Army) nella difesa degli interessi cinesi e sui cambiamenti organizzativi al suo interno – nonché, sulle innovazioni scientifiche e tecnologiche, ma senza fornire dati specifici sulle capacità militari; mentre il secondo, è in larga parte concentrato sulle quantità di armi in possesso dei cinesi (vedi Pollack, Brookings Institution). La Cina continua ad essere concentrata sul suo sviluppo economico, ma la sua mancanza di trasparenza crea dubbi e sospetti in molti altri attori internazionali. Le due prospettive contrastanti ne sono un esempio, testimonianza dell’estrema difficoltà e complessità nel fare previsioni di lunga durata. 

Marco Spinello redazione@ilcaffègeopolitico.net