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La grande esclusa entra nel WTO

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Lo scorso 9 novembre Russia e Georgia, grazie alla mediazione svizzera, hanno firmato l’accordo bilaterale che ha consentito a Mosca di entrare a far parte del WTO (World Trade Organization). Lo ha comunicato il direttore generale dell’Organizzazione, Pascal Lamy. Che cosa implica questa notizia? Le opportunità commerciali per i partner della Russia sono molte, ma alla base vi è un chiaro disegno della Russia per aumentare la propria influenza geopolitica verso Occidente

DICIOTTO ANNI DI NEGOZIAZIONI – Fino ad oggi quella russa era la più importante economia, a livello mondiale, ancora fuori dall’Organizzazione. La sua adesione  – dopo quella della Cina di dieci anni fa – rappresenta la più importante novità in seno all’istituzione che con essa arriva a coprire il 98% del commercio mondiale. La prima richiesta del governo di Mosca per l’ingresso nel WTO risale al 1993, ma negli anni non è mai riuscita a farsi ammettere a causa dei diversi problemi che aveva con gli altri stati membri. Le trattative sono sempre state ostacolate dalla diffidenza reciproca, dalla lontananza tra il sistema economico occidentale e quello che la Russia aveva ereditato dall’URSS e dalla mancata volontà di quest’ultima a rinunciare alle proprie prerogative, come ad esempio la “tassa” per il sorvolo della Siberia, le alte barriere doganali all’ingresso di merci e servizi (a protezione di un industria troppo debole, incapace di affrontare la concorrenza internazionale) ed infine la fortissima controversia con la Georgia. Nel corso di questi 18 anni la maggior parte delle controversie sono state appianate e nel 2010 è stato raggiunto un accordo di principio anche con gli USA e l’UE. Il veto della Georgia costituiva, difatti, l’ultimo ostacolo da superare per la conclusione dei negoziati per l’effettiva adesione della Russia al WTO. Già dal 2004 la Georgia (membro del WTO dal 2000) esercitava il suo potere di veto contro la Russia a causa del suo sostegno a favore dell’indipendenza alle province dell’Abkhazia e dell’Ossezia del Sud. I rapporti tra Mosca e Tbilisi si sono poi completamente interrotti nel 2008, dopo dell’intervento della Russia nella guerra dei 5 giorni che ha fatto perdere alla Georgia un quinto del proprio territorio nazionale. Le relazioni formali sono riprese solo lo scorso aprile  attraverso la mediazione svizzera che ha favorito l’accordo tra i due paesi in conflitto. UN ACCORDO PER L’IMPORT-EXPORT – Dopo il riconoscimento dell’indipendenza dell’Abkhazia e dell’Ossezia del Sud da parte della Russia, il confine secondo Tbilisi e Mosca non passa lungo la stessa linea, pertanto affinché sia garantito lo scambio delle merci, l’accordo prevede l’affidamento ad una società privata – in grado di garantire una posizione super partes il compito di mediare in questa difficile situazione. Nonostante il dissenso espresso dalle due province secessioniste preoccupate nuovamente per la sicurezza della loro sovranità nazionale, si tratta di un accordo storico del quale saranno in tanti a beneficiare, primi fra tutti la stessa Georgia e la Russia, ma anche gli Stati Uniti che – senza nulla togliere alla mediazione svizzera – hanno esercitato una notevole pressione sul governo di Mikheil Saakašvili affinché togliesse il veto, e l’economia mondiale in genere. UNO SGUARDO AI PRINCIPALI PROTAGONISTI: RUSSIA… – Mosca con l’ingresso nel WTO accetta di aderire concretamente alle regole del mercato internazionale. Prendendo in considerazione gli prospettive economiche nel breve periodo le preoccupazioni non sono poche. Il Governo dovrà preoccuparsi di abbassare le barriere doganali applicate alle importazioni (fino al 7,8%), aprirsi alla competizione abolendo gradualmente i sussidi alle aziende e al settore agricolo e l’industria sarà costretta a modernizzarsi e a diversificare. Il rischio ovviamente per chi non è abbastanza forte da reggere il confronto potrebbe soccombere, ma le ricadute positive nel medio e nel lungo periodo non mancheranno. Anche il sistema bancario andrà a beneficiarne potrà aprirsi agli stranieri, rendendo possibile un controllo del 50% del capitale e nel giro di nove anni le compagnie di assicurazione potranno aprire uffici in Russia. A loro volta gli imprenditori russi potranno invocare una maggiore protezione all’estero e negoziare a tariffe più favorevoli. Il volto della Russia rinnovato, sarà quello di un paese che intende integrarsi effettivamente all’economia mondiale nel rispetto delle regole comuni. Garantire maggiore affidabilità e trasparenza permetterà, inoltre, di rassicurare i mercati e favorire l’arrivo degli IDE. In definitiva nel medio e nel lungo periodo la Russia, sfruttando questa nuova apertura, potrebbe sviluppare ritmi di crescita maggiori di quelli che ha registrato negli ultimi anni. … LA GEORGIA… – da due anni subisce l’embargo russo sull’esportazione suoi prodotti più importanti, il vino e l’acqua, e il suo mercato si è notevolmente ridotto. Come sostiene il giornalista e profondo conoscitore della regione Eric Hoesli: “Porre fine all'embargo sulla candidatura di Mosca al WTO avrà un impatto commerciale positivo per Tbilisi, il cui principale mercato di vendita è proprio la Russia”. Inoltre, la Georgia è perfettamente cosciente della sua condizione di piccolo stato che coesiste affianco ad un “gigante” economico e militare e nei confronti del quale non può mantenere una politica aggressiva per lungo tempo, senza che questa non assuma una connotazione sfavorevole per essa stessa. Ciò nonostante è difficile pensare che d’ora in avanti i rapporti tra Mosca e Tbilisi andranno verso la risoluzione del conflitto e la conciliazione. E’ più probabile che si tratti solo di una parentesi all’interno di posizioni discordanti.

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E GLI USA – dopo aver raggiunto un accordo di principio con la Russia, hanno fatto notevoli pressioni sul governo georgiano perché rinunciasse al veto e aprisse alla possibilità di accogliere Mosca all’interno del WTO. Le ragioni sono al contempo di ordine politico ed economico. Da una parte la volontà di accogliere la Russia nell’organizzazione è un tentativo di conciliazione dopo le tensioni nate a causa del Ballistic Missile Defense System in Central Europe (per il quale Mosca accusa l’occidente di avere un atteggiamento aggressivo nei suoi confronti), per far si che si impegni maggiormente affinché l’Iran non accresca ancora la sua aggressività e che semplifichi e consenta il transito dei rifornimenti per l’Afghanistan. Dall’altra Washington è cosciente del fatto che la Russia in questi anni, nonostante fosse fuori dal WTO non è rimasta certo isolata, ma ha dato vita o è entrata a far parte di diverse organizzazioni politico-economiche regionali che godono di grande prestigio internazionale come la SCO (Shanghai Cooperation Organization), il Collettive Security Treaty Organization, la CIS Free Trade Zone e la Customs Union (ovvero un’unione doganale con Bielorussia, Kazakhstan e a breve Kirghizistan), attraverso le quali sta lentamente dando vita ad un’unione economica che comprende tutti i paesi dell’ex URSS, consentendole così di mantenere ancora un’influenza decisiva in tutta l’area, erodendo gli spazi che l’occidente aveva guadagnato dopo la caduta dell’impero sovietico. Con l’ingresso di Mosca nel WTO gli USA sperano di poter limitare l’ascendente russo e riguadagnare spazio di manovra in Asia Centrale. Il governo russo si muove, quindi, in due direzioni. Aspira ad entrare a far parte del modello economico occidentale e spera anche di riuscire a promuovere l’accesso di paesi come l’Uzbekistan, il Kazakhstan e la Bielorussia che stanno negoziando il loro ingresso nel WTO, ma allo stesso tempo è attenta a non rischiare di rimanere isolata a causa delle pressioni del sistema occidentale. Il suo ingresso nell’organizzazione è ormai un dato di fatto e sarà ufficializzato definitivamente durante l’assemblea della Conferenza dei Ministri del WTO, prevista a Ginevra dal 15 al 17 dicembre prossimo. La membership sarà effettiva entro 30 giorni dal voto e la Duma potrebbe ratificarla già entro febbraio 2012, prima delle prossime elezioni presidenziali russe, che potrebbero riportare Vladimir Putin alla guida del Cremlino. Per l’attuale Primo Ministro russo l’adesione al WTO sarà senz’altro importantissima per garantirsi, dopo la sua eventuale rielezione, la fiducia dei mercati.

Marianna Piano [email protected]

Parliamo di sanzioni (3)

Concludiamo il nostro focus sul tema delle sanzioni internazionali. I regimi mostrano di avere un’alta resistenza alle sanzioni. E’ curioso invece come si continui a fare grande affidamento su di esse sperando possano avere effetti anche a breve termine. In realtà il problema è che le alternative sono o peggiori oppure non più applicabili. Quando si arriva ad applicare sanzioni infatti la situazione è già critica e lunghi tempi per cambiare approccio possono non essere più disponibili

 

Terza parte CHE FARE? – Nel momento in cui ci accorgiamo che le sanzioni, delineate come lo sono ora, non funzionano, bisogna però anche chiedersi che alternativa esista. Ovviamente esiste il conflitto, che non a caso è risultato essere l’unico sistema capace di operare un regime change laddove siano state implementate sanzioni: Serbia, Afghanistan, Iraq, Libia. Tuttavia i problemi diplomatici, politici, umanitari e operativi sono indubbi, soprattutto nei casi in cui il conflitto potrebbe non limitarsi al singolo paese ma essere foriero di maggiori instabilità regionali (è proprio il caso di Siria e Iran). Eppure la scelta militare continua ad essere quella di preferenza qualora infine ci si accorga che le sanzioni non hanno avuto effetto. Perché? Il motivo va ricercato probabilmente nel fallimento della diplomazia.

 

MEGLIO SENZA? – Si potrebbe dire che le sanzioni funzionano solo quando non vengono usate, ovvero quando la semplice minaccia di imporle basta a provocare un cambio di rotta al governo affetto. Questo non deve sorprendere perché se un regime si sente sufficientemente forte da non volersi piegare davanti alla comunità internazionale prima che scattino le sanzioni, probabilmente è perché sa proprio che può sopportarle, almeno per qualche tempo. Inoltre, ammettere di cedere davanti alle sanzioni viene visto come cedere all’intimidazione straniera, cosa che molti regimi, applicando una politica di potenza che si presenta capace di sfidare il mondo, non possono o non vogliono accettare. Al contrario, se quel governo si sente vulnerabile alle sanzioni, probabilmente cederà prima di vedersele comminare.

 

FORSE E’ GIA’ TARDI – Dunque se l’imposizione di sanzioni è essa stessa l’espressione della capacità di resistenza del paese bersaglio (mi sanzionano perché non ho intenzione di cedere e so che non avrò bisogno di cedere perché ho tutte le contromisure), la guerra diventa poi l’unico esito plausibile per risolvere la questione dopo l’applicazione delle sanzioni. Cosa significa? Significa che una volta arrivati alle sanzioni è già un po’ troppo tardi e che perciò la comunità internazionale lo spazio di manovra dovrebbe trovarlo PRIMA.

 

DIPLOMAZIA – Le motivazioni per le quali la diplomazia non riesce a trovare tale spazio o arrivare a dei risultati prima dipende molto caso per caso, ma spesso manca la volontà di osservare il problema da più angolazioni e cercando soluzioni non sempre ortodosse. In molti casi questo implica il cercare di capire le motivazioni (non solo politiche, economiche e diplomatiche, ma anche culturali, sociali e psicologiche) dietro a determinate politiche di potenza o posizioni ostili, oppure l’offrire vie d’uscita che non risultino umilianti (quest’ultimo metodo ad esempio fu alla base della liberazione degli ostaggi USA in Iran dopo la rivoluzione del 1979). Spesso la diplomazia occidentale, indipendentemente da quanto giustificate possano essere o meno le sue richieste , si pone in posizione di esigere che l’altra parte accetti le sue condizioni senza offrire sufficienti contropartite, o meglio supponendo (spesso sbagliando) che le contropartite offerte abbiano un valore adeguato. A volte non viene nemmeno offerta la riduzione delle sanzioni. A questo si associ il clima di sfiducia che spesso si viene a creare dopo decenni di contrasti e che a volte rende impossibile una ridefinizione dell’intero processo negoziale: se tu hai cercato di danneggiarmi e ingannarmi in ogni modo fino ad ora, come posso crederti? Creare un nuovo negoziato che porti ad accordi seriamente accettati da tutti gli attori coinvolti diventa così molto più complesso, a volte impossibile.

 

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TEMPISMO – Il processo diplomatico deve perciò iniziare il prima possibile e puntare a comprendere meglio l’altra parte per trovare punti di contatto subito, prima che la situazione degeneri oltre situazioni difficilmente recuperabili. La situazione attuale invece vede spesso un considerevole spreco di tempo in iniziative diplomatiche non appropriate. Meno tempo disponibile significa meno chance di un accordo in tempi rapidi. Dunque va continuato lo sforzo negoziale sempre e comunque? Le porte non vanno mai chiuse totalmente (almeno per permettere una soluzione davvero last-minute), ma non bisogna però neanche essere ingenui: proprio perché in alcuni casi (come in Iran) la situazione diplomatica appare già molto compromessa e difficilmente revisionabile, il dialogo rischia di diventare un’arma nelle mani di quei regimi che cercano solo di guadagnare sufficiente tempo per raggiungere i propri scopi prima di una risposta più seria. Fu il caso di Milosevic in Serbia durante i massacri in Kosovo ed è il caso di Teheran ora per quanto riguarda il programma nucleare. Perfino lo stesso Bashar Assad ha recentemente affermato di accettare il piano di pace della Lega Araba per poi invece continuare la repressione. In tali casi, lo spazio diplomatico è quasi nullo e per ricrearlo ci vorrebbe tanto tempo, che a questo punto forse manca. Ecco perché l’opzione militare diventa più appetibile.

 

COMUNQUE SERVONO – Badate, questo non significa che non vada eseguita nessuna sanzione. Come già detto, se si arrivano a considerare sanzioni, la situazione è già compromessa. Inoltre le sanzioni militari sono spesso efficaci davvero a ridurre le capacità belliche dei regimi (anche se non ne eliminano la pericolosità), e quelle personali ed economiche sui patrimoni esteri strettamente legati alla leadership possono comunque, in alcuni casi, ridurre la loro capacità di usare fondi per scopi pericolosi. Ma non bastano e non basteranno, dunque non stupiamoci se nuove sanzioni non risolveranno i dossier diplomatici siriano e iraniano. Rimane importante il supporto di quella parte della società civile che, quando prende coscienza, può determinare essa stessa dall’interno un cambio di rotta o addirittura un regime change. E’ avvenuto in Tunisia ed Egitto, e altrove ha permesso riforme. Ma perché ciò avvenga questa parte di società civile deve esistere ed essere interessata a migliorare la propria condizione e guidare il proprio destino. Può accadere in Iran, mentre in Siria di fatto è già iniziata la guerra civile, fattore che aumenterà quel processo di disgregamento interno della società e delle istituzioni di cui abbiamo parlato in precedenza.

 

GUARDIAMO LA REALTA’ – Era meglio affrontare diversamente la situazione in passato, perché ora l’alternativa, il BATNA dell’Occidente in questi casi, è poco favorevole: se non si trovano accordi diplomatici (ora compromessi), che alternativa esiste? Le sanzioni appaiono inefficaci, non risolvono il problema ma lo pospongono solo, spesso aggravandolo. Accettare che la situazione evolva da sola vuol dire prepararsi alle conseguenze che questo può comportare (dalla totale repressione della rivolta siriana, all’Iran armato di bomba atomica…). Siamo disposti ad accettarlo? Se sì ci stiamo preparando a tale opzione? La terza alternativa invece è la guerra, prospettiva certo non allettante.

 

Voi quale scegliereste?

 

Lorenzo Nannetti

Parliamo di sanzioni (2)

Nella prima parte della nostra analisi sulle sanzioni internazionali abbiamo visto i problemi che esse possono causare alla popolazione civile prima che ai governi. Arriviamo ora alla seconda parte: vediamo quali sono gli effetti verso i regimi bersaglio delle sanzioni, e come essi riescano a sopravvivere così a lungo in tali condizioni nonostante l’isolamento internazionale

 

Seconda parte INTOCCATI – Al contrario delle altre classi sociali colpite da sanzioni, i ricchi restano invece ricchi. Bisogna sempre ricordare infatti che i regimi hanno alte capacità di sopravvivenza o, per meglio dire, sanno come fregare il sistema per rimanere in sella. Se pensiamo all’Iraq sotto Saddam, il programma Oil for Food fallì proprio per la capacità del regime, anche tramite corruzione di funzionari ONU, di appropriarsi delle risorse destinate alla popolazione, guadagnando così un mezzo di sostentamento e, contemporaneamente, un’arma di propaganda mostrando la sofferenza della popolazione ridotta alla fame. Con le forze irachene fedeli al regime libere di schiacciare le rivolte curde e sciite nonostante le misure internazionali, non sorprende dunque che la caduta del Rais sia avvenuta per mano militare. ASSEDIO – Non solo. L’isolamento e le sanzioni consentono a un regime di provare a indirizzare lo scontento verso una sorta di mentalità d’assedio. L’idea è quella di convincere la popolazione che lo stato si trova al centro di una congiura (di solito degli USA e dell’Occidente) e che solo l’unità nazionale può salvare la situazione. La ricerca di un nemico al di fuori è comune a tutti i fenomeni dittatoriali per veicolare lo scontento popolare verso un capro espiatorio esterno, ed è ad esempio il modo sfruttato dal governo della Corea del Nord. Va detto però che questo metodo non funziona invece bene nel caso dei Paesi arabi, soprattutto perché lì tendono a prevalere le differenze settarie interne: sunniti contro sciiti, drusi contro alawiti, cristiani che spesso si trovano a dover supportare il governo per evitare le rappresaglie degli estremisti islamici e diventano così ancora più bersagli… Da notare come poi questi contrasti si trasferiscano anche in sede internazionale: il voto alla Lega Araba per estromettere la Siria dall’organizzazione ha visto una frattura proprio lungo linee settarie, con Libano, Yemen e Iran (tutti con alte concentrazioni di Sciiti) contrarie e l’Iraq (dove sono rilevanti) neutrale.

 

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GLI AMICI AIUTANO – Quello che avviene più facilmente è che il regime ha la scusa per stringere ancora di più il controllo sul paese con ulteriori misure straordinarie in tema di sicurezza e controllo, inibendo ulteriormente la capacità degli oppositori di operare. Inoltre un regime sa bene chi deve tenersi amico e questo approccio selettivo ne rafforza la posizione. Così l’amicizia diplomatica e i rapporti commerciali con Russia e Cina possono controbilanciare l’ostilità di USA, UE e Arabia Saudita all’ONU, l’intimidazione e l’estensione di privilegi a parte dell’esercito e ai massimi dirigenti delle industrie chiave può evitare che troppe truppe disertino e che la grande economia rimanga sotto controllo. Appartenere a una minoranza che senza il potere rischia di essere soggetta a rappresaglie aiuta inoltre ad avere una fedeltà molto forte da parte dei propri correligionari. Questi, in molti casi, sentono infatti di avere un destino legato alle sorti del regime stesso.

 

E DOPO? – Con tutto il potere e tutte le istituzioni legate alla leadership, un paese così ridotto fa molta più fatica a rialzarsi anche in caso di uscita di scena della dittatura di turno, semplicemente perché il Paese, di fatto, non esiste più. L’intera economia e struttura sociale, devastata, va infatti ricostruita da zero o quasi, compito che favorisce poi la ribalta di gruppi estremisti. La povertà inoltre rende facile dividere la popolazione offrendo denaro e altri vantaggi economici per comprare sostenitori anche tra le file di chi in teoria protesterebbe ma in pratica è troppo impegnato a cercare di sopravvivere.

 

NO RESULT – In definitiva, tutti questi elementi aiutano a capire perché il sistema di sanzioni economiche internazionali sul quale tanto si conta non riesca ad ottenere mai o quasi mai lo scopo prefissato. Per quanto in questi ultimi anni si stia cercando di affinare le tecniche e i termini delle sanzioni (in particolare colpendo selettivamente le industrie e i personaggi legati più strettamente al regime), non si sono ancora osservati risultati tangibili laddove sono state impiegate. In termini diplomatici, come già abbiamo spiegato in passato, le sanzioni costituiscono ancora un BATNA accettabile per i regimi, spesso convinti che la pressione estera si fermerà a tali forme e non raggiungerà mai l’intervento militare. (Fine seconda parte – Nella terza ragioneremo se esistano alternative alle sanzioni)

 

Lorenzo Nannetti

Finchè vedrai sventolar bandiera turkmena…

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Continuiamo a parlare di questo Stato poco conosciuto ma strategico per gli equilibri geopolitici in Asia Centrale. Con l’indipendenza dall’Unione Sovietica, dal 1991 il Turkmenistan ha vissuto attanagliato sotto l’assolutismo del suo Presidente, Niyazov, che reprimeva costantemente qualsiasi tipo di opposizione al potere costituito. A diventare centrali per il progresso di un Paese come questo, sono state le riserve di idrocarburi e gas naturali, rendendolo a pieno titolo attore protagonista nello scenario economico mondiale

UN POTENZIALE INESPRESSO – Fin dalla dichiarazione di sovranità nazionale il Turkmenistan si è ritrovato a affrontare parecchie difficoltà nell’utilizzo e nello sfruttamento del suo potenziale energetico, non potendo quindi diventare competitivo nel mercato mondiale non solo per la carenza di infrastrutture, ma anche per la forte influenza russa nella politica interna, e in particolare per quanto riguarda lo sfruttamento e il controllo della Central Asia-Centre pipeline, che parte dalla capitale Ashgabat e arriva a Aleksandrov Gay. Sulla base degli studi condotti dalla British Petroleum-BP e della Energy Information Administation (EIA), il mar Caspio rimane un’area di fondamentale importanza per la produzione di greggio con 1.9 milioni di barili al giorno, includendo anche la produzione di gas naturale liquido pari al 2% del totale mondiale. Fino al 1994 le esportazioni di gas e petrolio turkmeno dipendevano pesantemente dalla volontà della Russia, nonostante il Paese sia al decimo posto tra i maggiori produttori di gas e petrolio al mondo. Il regime autoritario, la società chiusa di stampo tribale e la mancanza di infrastrutture hanno contribuito ad una caduta netta nello scambio dell’oro nero. Le relazioni tra i due Paesi hanno cominciato a incrinarsi nel 2009 in seguito alle esplosioni di un tratto della pipeline a causa, si sospettò, di scarsa manutenzione. LA LOTTA PER LA PIPELINE – Il potenziale petrolifero del Turkmenistan è stato dapprima di grande interesse per l’Europa, poi la lotta per la pipeline ha iniziato ad essere particolarmente importante anche per Paesi come la Cina e l’Afghanistan. La Cina, per poter proseguire con la sua ascesa economica, avrebbe infatti un grande vantaggio nell'assicurarsi l’accesso alle riserve petrolifere dell’Asia Centrale. Il governo cinese, infatti, ha cominciato ad acquistare petrolio Turkmeno a partire dal 2009, grazie anche all'appoggio dell'attuale Presidente turkmeno Gurbanguly Berdymukhammedov. TRANS ASIAN GAS PIPELINE – Il 2010 è stato per la Cina un anno segnato da importanti scelte commerciali e strategiche: il 14 Dicembre è stato firmato ad Ashgabat un accordo per una conduttura di circa 1700 km, la “Central Asia-China Gas Pipeline”. Una volta ultimata nel 2013, il gasdotto porterà oltre 40 miliardi di metri cubi l'anno di gas turkmeno nella regione cinese dello Xinjiang, passando per Uzbekistan e Kazakstan, grazie a un accordo tra la China National Petroleum Corporation (Cnpc) e la KazStroyService. Il costo atteso è di 20 miliardi di dollari. La costruzione della TAGP è stata fortemente appoggiata dagli Stati Uniti: sfruttare i giacimenti petroliferi turkmeni, e quindi investire nel Paese, significa evitare costruzioni di gasdotti tra Iran, Pakistan e India, evitando quindi di rafforzare il ruolo strategico di questi Paesi nel quadro geopolitico mondiale. Nonostante lo sfruttamento della nuova pipeline segni rilevanti cambiamenti nella regione, ci sono ancora aspetti nell’accordo che mettono in forse stabilità e sicurezza sia in Afghanistan che in Pakistan. Il presidente Karzai ha stabilito che a difesa degli 830 km di tratta afgana del gasdotto ci saranno circa 7000 uomini facenti parte delle forze speciali afgane. L’Afghanistan è un Paese poverissimo, prevalentemente agricolo e che vive una condizione interna di conflitto permanente che paralizza le relazioni economiche e commerciali del Paese. Nonostante ciò, riveste un’importanza strategica enorme, come via di transito per gli idrocarburi in altri paesi che lo hanno consacrato ad essere identificato come “la chiave dell’Asia”. L’Afghanistan ha la consapevolezza di essere un Paese di transito, e ora il Paese fa parte dell’accordo SAFTA (South Asia Free Trade Area) e dell’ECOTA (Economic Cooperation Organization Trade Agreement) che ha regolato le esportazioni e le importazioni nel Paese, promuovendo di conseguenza la costruzione di nuove infrastrutture, con il coinvolgimento e il sostegno di diversi Paesi Europei, tra questi anche l’Italia, coinvolti non solo nella costruzione, ma anche nella ricerca, nell’estrazione e nella trasformazione delle materie prime.

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MA LA CINA E' SEMPRE AL VARCO – Recentemente la Cina ha potenziato le relazioni con l’Asia Centrale e, in particolare, il gigante asiatico rivolge le sue attenzioni alle riserve di petrolio e gas turkmene. Nel 2009 il presidente cinese ha acconsentito ad un prestito di 4.1 miliardi di dollari dalla Banca Statale Cinese destinati al miglioramento e all’ampliamento della conduttura trans-caspica. Sempre la Cina ha concesso al Kazakistan prestiti per circa 10 miliardi di dollari per vedere crescere le tre grandi compagnie petrolifere nazionali e per prolungare il gasdotto Kazakistan-Cina. La fortissima necessità di petrolio da parte della Cina per lo sviluppo di tutto il suo complesso industriale ha reso il Kazakistan il paese dell’Asia Centrale strategicamente più importante per l’approvvigionamento di petrolio e gas naturali. L’oleodotto che partendo dal Kazakistan porta petrolio nello Sinkiang è stato costruito dalla China National Petroleum Company e dalla kazaka KazmunayGas grazie ad accordi commerciali conclusi tra i due paesi nel luglio del 2009. In parallelo, continuano le richieste di collaborazione presentate al Turkmenistan, che ha preso impegni sul fronte export per i prossimi dieci anni con Russia, Iran e soprattutto con la Cina. L’attuale situazione geopolitica potrebbe quindi far pensare a una “guerra delle pipeline” dove la Cina continua ad avere un ruolo fondamentale in Asia Centrale, non solo per lo sfruttamento delle risorse petrolifere Turkmene, ma anche per l’intensificarsi dei rapporti con Kazakistan per lo sfruttamento degli idrocarburi. SEMPRE LA VIA DELLA SETA – La via della seta oggi è crocevia per il trasporto delle risorse energetiche, che sono anche risorse economiche, politiche, che sono entrate a pieno titolo nel tavolo di confronto dei grandi della terra. Nonostante le difficoltà legate alla territorialità, il Turkmenistan è un ponte di scambi, un crocevia di interessi geopolitici che condiziona l’economia occidentale e non solo. Lo sfondo di un crescente guadagno ha più volte sedato crisi interne agli Stati e inoltre, ad ogni tentennamento occidentale, che preme per il rispetto dei diritti umani e della libertà della popolazione, subentra la Cina che con il suo potenziale economico, con i suoi investimenti nell’Area, mette a tacere giganti della terra a Oriente e a Occidente. Federica Pani [email protected]

Quanto conta Berlino?

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In tempi di crisi economica la Germania viene sempre più considerata il decisore di ultima istanza delle politiche europee. Resta da chiarire se ci troviamo di fronte ad un egemone oppure ad una sorta di “primus inter pares” la cui libertà d'azione è limitata. La stabilità economica e finanziaria – almeno fino ad oggi – ne fanno comunque in ogni caso l'attore più rilevante nell'Unione Europea di oggi

DI NUOVO PROTAGONISTI – L’Europa e il debito sovrano, l’Europa e la disoccupazione, l’Europa e le scelte dolorose. In una parola, l’Europa e la crisi. Se n’è parlato molto e  se ne parlerà ancora a lungo di un fenomeno che sta cambiando il mondo, che ha accelerato l’ascesa dei Paesi Emergenti e sta spingendo a rallentando quelli di antica industrializzazione. In Europa la crisi sta modificando gli equilibri fra gli stati membri e sta creando fratture fra nord e sud. Come tutti – o quasi- i fenomeni europei, esso si presenta in forma complessa, perché molti sono gli attori in gioco e altrettante le sfumature. Pur essendo coscienti che la semplificazione è sempre un peccato nell’analisi politica, si può supporre che al centro delle nuove dinamiche sia il ruolo della Germania. La Germania unificata, la Germania che rappresenta il bastione contro gli attacchi alla moneta unica. Sono stati in molti i giornali che si sono spesi a raccontare come Berlino stia emergendo a guida del Vecchio Continente. Parlando di onde lunghe, viene spontaneo notare come la Germania stia conoscendo un’espansione politica unica da settant’anni a questa parte. Per tutta la guerra fredda il Paese era stato diviso dal bipolarismo mondiale, con il capo chinato per i misfatti del Reich. Ora -quasi controvoglia- si trova di nuovo ad essere il campione dell’Europa continentaleMANCANZA DI LEADERSHIP – Ma fino a che punto si spinge l’influenza tedesca? Angela Merkel propone una politica di tempi lunghi, in cui ognuno deve fare il suo dovere e le mosse ardite sono fuorilegge. Certo, la cancelliera cammina sulle uova. La diffidenza tedesca verso trasferimenti indiretti di denaro ai paesi debitori non gonfia le vele del coraggio. Ma, come ha sottolineato Ernesto Galli Della Loggia sul “Corriere della Sera” qualche tempo fa, a giudicare da quanto si è visto dall’inizio della crisi c’è una mancanza generale di leadership in tutte le capitali, Berlino inclusa. Manca uno statista anche sappia prendere il timone della nave. E questa, abbandonata ai flutti della tempesta, rischia di affondare. A riprova delle reticenze politiche europee vanno citati i recenti incontri dei vertici politici continentali. Sfociati in importanti dichiarazioni, non sono stati in grado, però, di rassicurare i mercati o mettere sul piatto un piano concreto e definitivo.

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UN POTERE LIMITATO – Al di là del non-decisionismo e della mancanza di coraggio, va detto che nessuno in Europa può contare essere considerato un egemone. La Germania è il più Paese più popoloso e quello con la maggiore economia del’’eurozona. Secondo i dati riportati dal Fondo Monetario Internazionale, il suo PIL (misurato a parità di potere d’acquisto) nel 2010 era di oltre 3,2 trilioni di dollari. La sua tripla A in tema di sicurezza finanziaria non è stata attaccata né, a differenza della Francia, traballa (quantomeno per ora). Nonostante questo, Berlino non è in condizione di decidere da sola le strategie future della comunità. Il suo peso strategico, in un momento in cui gli altri attori sono in difficoltà, aumenta. Ma in condizioni normali la sua influenza è quella di un primus inter pares piuttosto che quella di un leader assoluto. E questo è tanto più vero quando si pensi che l’Europa è un castello costruito sul concetto di consenso. I trattati proteggono efficacemente i diversi partner e rendono eventuali imposizioni più difficili. Non solo, ma i sentimenti anti-europeistici di alcuni membri potrebbero essere aggravati se le politiche di Berlino sembrassero aggressive. In conclusione,sembra che ci siano buone ragioni per credere che la Germania –nonostante sia la prima “potenza” europea- abbia in realtà una capacità di imporre il proprio volere piuttosto limitata.  Costrizioni interne, un peso poi non così eccessivo e la mancanza di un leader forte ne limitano fortemente l’influenza. Michele Penna [email protected]

Tutti gli uomini del Presidente

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Ad un anno dalle elezioni Presidenziali, andiamo a vedere la struttura di potere alla base delle più importanti decisioni prese da Barack Obama in ambito economico e finanziario. Tanti uomini, da Larry Summers a Paul Volcker passando per Ben Bernanke, che hanno impresso orientamenti a volte contrastanti fra loro. Il tutto all'insegna di un turn-over che ha portato ad un ricambio frequente alle leve del potere

CHI MUOVE I FILI? – La cifra della presidenza Obama (o almeno del suo primo tempo, se di questo si tratta) rimarrà negli annali il “leading from behind”. E’ una definizione coniata con riferimento alla politica estera e di sicurezza nazionale, ma la gestione dell’economia, per sua natura e tempi, ricade molto più sotto il dominio del legislativo, per cui si è dovuto fare i conti anche con rapporti di forza parlamentari sfavorevoli al presidente (soprattutto dalle elezioni di mid term, un anno fa). Da un elenco dei collaboratori e consiglieri economici che si sono avvicendati nelle posizioni chiave si sviluppa così il profilo di una presidenza, di una impresa politica, con le sue ambizioni, le sue battaglie, le sue cadute, i punti di resistenza, e le sue speranze. Emerge appunto un percorso tormentato, ma lasciamo decidere ai fatti e al libero giudizio del lettore se l’intenso turn over nell’entourage presidenziale riveli erraticità, opportunismo, pavidità o una mano forte e una testa pensante “dietro le quinte”.. Si deve partire da due coordinate fondamentali, una esterna e una interna:

a) Da molti mesi si propone una divaricazione tra Usa e leadership UE, sulla politica economica. Mentre gli europei insistono su un rigore fiscale incondizionato, visto come unica e urgente soluzione agli squilibri finanziari degli stati, gli americani puntano a una strategia dei due tempi: risanare prima le economie, recuperare competitività e occupazione, e la base industriale duramente colpita da crisi e delocalizzazione, e poi procedere con decisione, e con un respiro di medio periodo, alle necessarie politiche fiscali restrittive. b) Qual è la formazione, e la provenienza dei consiglieri? Quanti e quali di essi vengono dalla grande finanza di Wall Street? E’ un aspetto sensibile, considerata la grandissima importanza che ha la riforma del sistema finanziario nel programma obamiano, e il ruolo della finanza sregolata nel tracollo del 2008 e nella perdurante crisi economica. “I BIG” – Cominciamo con chi non c’è ma avrebbe potuto esserci. i grandi economisti della sinistra – Paul Krugman, Joseph Stiglitz, Robert Reich – che avevano salutato il mandato Obama con grandi speranze, sono ormai arroccati su posizioni fortemente critiche o comunque ben distanti rispetto al presidente e alla sua gestione economica, considerata ormai persa in una inconcludente deriva centrista. Anche se le sferzanti e frequenti contestazioni di Krugman sul NYT lasciano spesso un piccolo margine di aspettativa. Sono professori universitari, Krugman e Stiglitz (a suo tempo vice-presidente della Banca Mondiale, che ovviamente non è una semplice banca) in particolare sono premi Nobel. Reich fu l’economista di riferimento del primo Clinton, prima che la svolta moderata del presidente lo mettesse fuori gioco, assieme al progetto di riforma sanitaria della moglie Hillary. Il vecchio Paul Volcker (nella foto sotto), a suo tempo considerato il “consigliere del Principe”, il più influente collaboratore di Obama per la politica economica, ha presieduto l'Economic Recovery Advisory Board voluto dal presidente, e ha ispirato la riforma del sistema finanziario (Dodd-Frank Act, luglio 2010) contro cui la grande finanza Usa ha condotto una guerra senza quartiere, incondizionatamente appoggiata dalla destra repubblicana e da una parte degli stessi democratici. La battaglia più aspra, si è combattuta proprio sulla “Volcker Rule”, il divieto quasi completo alle grandi banche commerciali di operare in proprio (e cioè attingendo alla massa di depositi dei risparmiatori) sui mercati speculativi – borsa, derivati, partecipazioni superiori al 3% in hedge fund. L’asse Obama-Volcker è stato battuto, ma la questione rimane aperta. Volcker con la sua autorevolezza ha potuto coprire il presidente anche "a destra", dalle accuse di socialismo e ostilità ideologica alla libera impresa – si è dimesso nel febbraio 2011. E' stato a lungo presidente della Federal Reserve, negli anni di Reagan. Si dimise per insanabile contrasto sulla politica di deregulation finanziaria, da lui considerata foriera di disastri. Negli anni successivi si prese anche lui qualche passaggio “on the wild side” della finanza, alla guida della banca d’affari  J. Rothschild, Wolfensohn & Co, per assumere poi, nel 1996, la presidenza dell’ Independent Committee of Eminent Persons – fondato per indagare sui conti dormienti in Svizzera degli ebrei periti nell’Olocausto, e trattare con gli istituti finanziari coinvolti. Altra personalità fondamentale, quasi un contrappunto di Volcker nell’entourage presidenziale, è stato Larry Summers, già segretario al Tesoro di Clinton, e alla guida del National Economic Council per due anni, fino a novembre 2010. Anch'egli autorevolissimo professore a Harvard, Summers è un po’ l’altro volto della presidenza Obama in politica economica. Si può dire che la guerra sotterranea tra i due grandi consiglieri per il cuore della presidenza Obama sia la vera storia della prima fase di politica economica: noto per una impostazione più centrista e contrario alla Volcker Rule, spesso in contrasto con lo stesso ex-presidente fed (che, si dice, fu poi estromesso dai meeting nello studio Ovale), Summers si è opposto alla introduzione di limiti alle stellari retribuzioni dei top-manager finanziari, ha impresso un orientamento pro-business allo stimolo fiscale (sgravi alle imprese, anziché fondi per le infrastrutture), è stato criticato per conflitto di interessi (avendo ricevuto nel 2008 ricchissimi bonus da un hedge fund e da società poi salvate/aiutate da fondi pubblici). Come Segretario al Tesoro di Clinton aveva sostenuto l’abrogazione parziale del Glass-Steagall Act, precisamente delle norme che stabilivano una separazione tra banca d’affari e banca commerciale. Un salto di qualità nella deregulation avviata da Reagan che aprì le ultime dighe alla speculazione. Summers ha lasciato l’incarico al Nec alla fine del 2010.

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GLI ALTRI – In polemica con Summers si è dimessa nel settembre 2010 un’altra importante collaboratrice del presidente, Christina Romer, presidente del Council of Economic Advisers. Pare che Romer – cui competeva la elaborazione di simulazioni econometriche per l’impatto delle misure di stimolo all’economia varate nel 2009 – fosse favorevole a un programma più vasto (almeno 1.2 trilioni di dollari, anziché gli 800 miliardi poi approvati), e che il presidente del Nec abbia praticamente impedito la discussione stessa della questione col presidente. La Romer viene dall’Università di Berkley, dove insegna economia. Peter Orszag, altro economista-chiave, è stato direttore dell’ Office of Management and Budget, si è dimesso nel luglio 2010. Ha avuto un ruolo cruciale nella elaborazione del piano di riforma della sanità, ma i suoi sforzi per convincere il presidente a rompere la promessa elettorale e aumentare le imposte anche per una parte della classe media sono stati frustrati. Anche in questo caso pare che l’influsso di Summers su Obama sia stato una barriera insuperabile (questa volta un influsso di sinistra, o keynesiano, dunque). Ma si deve notare come il presidente – pressato anche dalla sinistra affinchè lanciasse un nuovo grande piano di spesa pubblica – abbia scelto una via pragmatica e intermedia. Si deve assolutamente ricordare Elizabeth Warren, se pure è una esperta di diritto economico e finanziario, più che una economista in senso stretto: ha concepito e praticamente costruito la nuova authority federale che vigila sui prodotti finanziari, contemplata dalla legge di riforma del sistema finanziario per proteggere i consumatori contro le banche – su di lei e la nuova agenzia si è concentrata gran parte della durissima offensiva di Wall Street e dei repubblicani. Non ha potuto presiedere il nuovo organismo, ma ora si candiderà al Senato. E’ professoressa di diritto commerciale ad Harvard. Non è un consigliere, ma il partner del presidente nel tandem che guida la politica economica e monetaria del paese, come presidente della Federal Reserve, Ben Bernanke. Era nel comitato della Fed, poi nel consiglio di esperti economici del presidente con Bush jr., anche lui autorevole professore di economia, alla Princeton University. La sintonia con l’orientamento presidenziale appare chiara, e in effetti i due presidenti sono perfettamente accomunati nelle violente accuse della destra repubblicana come cospiratori contro la potenza americana (Obama come socialista spendaccione antiamericano e incapace – Bernanke accusato di annacquare il dollaro, per la politica di allentamento quantitativo, cioè l’espansione della liquidità in circolazione). Ultimo, ma non ultimo, c’è l’alter ego economico, l’enigmatico Tim Geithner, il segretario al Tesoro, spesso in predicato di dimettersi. Viene dai vertici della Federal Reserve. Andrea Caternolo [email protected]

 

Il sentiero tortuoso della democrazia

I sette giorni che ci attendono vedono il mondo impegnato in diversi momenti basilari del progresso verso la democrazia. Spagna e Italia affrontano l’Europa rispettivamente con un nuovo Parlamento e un nuovo Governo, Egitto e Siria versano il loro tributo di sangue nel protrarsi delle rivolte popolari, il Marocco cerca la sua strada verso la democrazia mentre Myanmar e Cambogia affrontano i fantasmi del passato tra mille difficoltà. È un caffè che sa di ardua sfida quello che vi proponiamo come ogni settimana

EURASIA Lunedì 21- Tempo di risultati in Spagna dove chiusi i seggi per le elezioni politiche, preoccupati da tassi di disoccupazione al 20 % e un’economia che stenta a ripartire, il favorito Mariano Rajoy del Partido Popular ha sconfitto con un risultato senza precedenti il Socialista Alfredo Rubalcalba sarà chiamato a gestire la risalita della nazione in un periodo di piena crisi economica. Martedì 22 – Il neo-Presidente del Consiglio italiano Mario Monti è atteso in mattinata a Bruxelles dove si incontrerà con il Presidente della Commissione Europea M. Barroso e il Presidente del Consiglio Europeo H. Van Rompuy. Monti sarà chiamato ad illustrare sul piano pratico le riforme e i provvedimenti che intende attuare per rispondere alle sollecitazioni e alle domande  che la Commissione aveva già inoltrato al precedente governo senza ottenerne risposta. Giovedì 24- Con un meeting informale ma di “duro lavoro” i capi di governo di Francia, Germania e Italia si troveranno a Strasburgo, città simbolo per l’integrazione europea, per discutere di progetti fondamentali per il progresso e la stabilità dell’Eurozona. Merkel, Monti e Sarkozy discuteranno degli “eurobond” e di nuove iniziative per il rafforzamento delle economie in difficoltà. Sarà l’occasione anche per capire se l’Italia, accantonato Silvio Berlusconi e il suo governo, sarà ammessa al timone del vecchio continente dalla bilaterale franco-tedesca ammaccata dalle tensioni finanziarie. AMERICHE CANADA – Si chiude lunedì il vertice sulla Sicurezza dell’America del Nord, in cui Leon Panetta e Peter MacKay, rispettivamente Segretario alla difesa americano e Ministro della Difesa canadese, hanno ribadito la loro fiducia nel programma di sviluppo congiunto dei caccia di V^ generazione   F-35 Lockeed-Martin. Ottawa ha intenzione di acquistare dal 2016 al 2020 65 jet ad una cifra di 80 milioni di dollari l’uno, un impegno finanziario contestato duramente dal partito liberale e dall’opposizione. COLOMBIA – Terminato il viaggio ad Istanbul ed Ankara per inaugurare rappresentanze economico-diplomatiche in Turchia, il Presidente colombiano Juan Manuel Santos e il Ministro degli Esteri Maria Angela Holguin si recheranno a Londra dove tra lunedì e martedì discuteranno dello sviluppo economico-ambientale con il premier David Cameron e la Regina Elisabetta II. Al suo ritorno in patria Santos riceverà il 28 Novembre il corrispettivo venezuelano Hugo Chàvez in vista dell’incontro della Comunità di Stato latino-americani e caraibici. HAITI – Il Presidente Michel Martelly annuncerà Lunedì il suo progetto per la reintroduzione di un corpo di Forze Armate nazionali. Il decreto presidenziale istituisce una Commissione di studio con 40 giorni di tempo per studiare un piano per il ripristino dell’esercito abolito nel 1995 da Jean-Baptiste Aristide. I paesi che finanziano gli aiuti sembrano ostili dato che già finanziano i 12.000 caschi blu dell’ONU e l’addestramento di 10.000 poliziotti per il mantenimento dell’ordine pubblico. AFRICA GAMBIA – Circa 800.000 elettori sono chiamati alle urne per designare il nuovo Presidente del Gambia nelle elezioni di Martedì 24 Novembre. La sfida riguarda il Presidente uscente Yahya Jammeh dell’ Alliance for Patriotic Reorientation and Construction (APRC) e altri tre sfidanti, appartenenti alla Coalizione Democratica, al Partito Socialista e al Partito di Riconciliazione Nazionale. Al Presidente eletto spetta anche la nomina di 5 delle 53 poltrone dell’unica camera dell’Assemblea Nazionale. MAROCCO – Uno dei paesi del Maghreb che ha retto meglio alle turbolenze popolari della scorsa primavera, chiama alle urne venerdì 25 circa 16 milioni di elettori cui spetta il compito di sancire il cambiamento pacifico sponsorizzato da Re Mohamed VI e dal suo Primo Ministro Abbas El Fassi. 9 principali formazioni si contendono i 325 seggi della camera elettiva, tra i favoriti il Partito Islamico per la Giustizia e lo Sviluppo che attualmente detiene 47 rappresentanti, la novità consiste nell’obbligo per il Monarca a scegliere il Capo di Governo dalla lista vincente. LIBIA – Con Saif Al Islam Gheddafi, erede politico del raìs, assicurato alla giustizia Sabato insieme all’inseparabile capo dei Servizi Segreti Abdullah Senussi ,  la Libia si appresta a varare un nuovo governo sotto la guida del tecnocrate Abdel Rahim al-Kib entro Lunedì. Le priorità sono il ripristino del rispetto dei diritti umani fondamentali, dello Stato di diritto e la deposizione delle armi da parte delle differenti fazioni armate che si spartiscono il controllo del territorio. In settimana il procuratore della Corte Penale Internazionale Luis Moreno Ocampo sarà in Libia per discutere delle sorti di Saif al Islam che, stando alle ultime dichiarazioni di al-Kib dovrebbe essere processato in patria. SOMALIA – Le forze keniote che hanno invaso da settimane la Somalia sud-orientale ricevono un aiuto vitale nella lotta contro le forze di Al Shabaab, sostenute dall’Eritrea,  dalle truppe etiopi che nel week-end hanno oltrepassato un confine fantasma conquistando il centro di Kalabeir, sulla strada imperiale che congiungeva Addis Abeba e Mogadiscio, le due capitali del colonialismo italiano. Anche la marina militare nostrana sembra coinvolta in operazioni d’appoggio ai raid aerei condotti da Regno Unito e Stati Uniti. Venerdì si riunisce l’IGAD, il blocco regionale per lo sviluppo che riunisce Eritrea, Gibuti, Etiopia, Somalia, Kenya, Uganda e Sudan e si preannunciano scontri sulle modalità d’intervento nel “failed State” per eccellenza.

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ASIA MYANMAR – Il regime di Thein Sein appare sempre più vicino alla normalizzazione e al riconoscimento internazionale grazie alla road map democratica assunta dall’ex generale. Dopo l’annuncio del premio Nobel per la pace Aung San Suu Kyi della partecipazione della Lega Nazionale della Democrazia alle prossime elezioni e quello della visita del Segretario di Stato americano Hillary Clinton il primo dicembre, anche il Segretario Generale dell’ONU Ban Ki Moon ha accettato l’invito delle autorità di Naypyidaw per guidare il paese sulla via della democrazia. I rischi di una scommessa che si preannuncia azzardata sono un’ulteriore ricaduta violenta come quelle seguite dopo le proteste del 1988 e del 2007 per un regime ancora strettamente controllato da una giunta militare autoritaria. THAILANDIA – Il paese si avvia alla normalizzazione con il defluire progressivo dell’alluvione che ha colpito duramente la capitale Bangkok e l’economia fiorente della regione. La ricostruzione guidata dalla Croce Rossa thailandese beneficerà di 10 milioni di dollari di aiuti stanziati dagli Stati Uniti dopo la visita del Segretario di Stato Hillary Clinton. Le barriere contro l’acqua costruite nel perimetro della capitale sembrano garantire un perimetro di sicurezza per la gestione dell’emergenza e per riallacciare le comunicazioni con le campagne abbandonate a loro stesse. CAMBOGIA – Nella mattinata di Lunedì le Extraordinary Chambers per la Cambogia apriranno le porte delle aule giudiziarie per 3 dei più alti rappresentanti del regime liberticida dei Khmer Rossi, che regnarono dal 1975 al 1979 con un bilancio di 2 milioni di morti. Nuon Chea “Fratello N^2”, l’ex Ministro degli Esteri Ieng Sary e l’ex Capo di Stato Khieu Samphan sono accusati di svariati crimini internazionali tra cui genocidio e tortura. Il tribunale appoggiato dall’ONU è stato a lungo al centro di polemiche e voci di interferenze e corruzione da parte del governo di Phnom Penh che hanno portato alle dimissioni per protesta del giudice tedesco Siegfrid Blunk. MEDIO ORIENTE Giovedì 24 – La Lega Araba si riunisce a Il Cairo per discutere di ulteriori sanzioni contro la violazione del piano per la pace proposto al regime siriano di Bashar al-Assad. La Turchia intanto, oltre ad ospitare il centro di comando dei disertori del Free Syrian Army che ha colpito diversi obiettivi militari, si prepara all’attuazione di una “buffer zone” o “no-fly zone” per proteggere le città simbolo della rivolta assediate dai blindati delle Forze di Sicurezza. Occhi puntati anche sul Qatar di Hamad al Thani, tra i più favorevoli ad un intervento arabo a favore dei protestanti, che potrebbe armare e organizzare i disertori dell’esercito come già fece con i ribelli libici del CNT. IRAN – Mentre continua il gioco delle parti su un possibile attacco preventivo da parte di Israele, con il Ministro della Difesa Ehud Barak  dichiaratosi “pronto ad agire”, la vera strategia  è quella indiretta, fatta di guerra psicologica, azioni mirate contro il sistema missilistico di Teheran e omicidi mirati contro chi come Ahmed Rezai si dice pronto a collaborare con l’esterno. Vendite di ordigni anti-bunker tra Stati-Uniti e paesi del Golfo, una volta classificate top-secret appaiono sui media internazionali, così come la bombaBig Blue”, un gigante di oltre 6 metri e di 2,4 tonnellate di esplosivo in grado di polverizzare i bunker nucleari di Nord Corea e Iran. La guerra fredda che ci ha lasciato vent’anni fa torna in grande spolvero nel terzo millennio contro i progetti sulla proliferazione nucleare iraniana. EGITTO – Un week-end di sangue ha di nuovo infiammato Piazza Tahrir dove un numero imprecisato di protestanti hanno perso la vita sotto il fuoco delle forze di sicurezza. Il governo della giunta militare sembra convinto nell’indire le elezioni e proseguire la repressione nonostante l’arresto della candidata Bothaina Kamel. Altri partiti hanno sospeso in segno di protesta la campagna elettorale, mentre i Fratelli Musulmani si dicono contrari a qualsiasi rinvio dell’espressione della volontà del popolo. L’élite al governo potrebbe sfruttare i disordini sia per rimandare il voto, obiettivamente ingestibile in condizioni così gravi, o per escludere i movimenti della rivolta con una campagna di arresti preventivi. Fabio Stella [email protected]

La via del gas passa per il Turkmenistan

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Una volta si chiamava via della Seta… il percorso è pressochè lo stesso, ma invece del prezioso tessuto è il gas che interessa a Pechino. La Cina, sempre più assetata di energia, sta siglando una serie di accordi per rafforzare la propria presenza strategica in Asia Centrale, che mirano alla creazione e al rafforzamento di gasdotti che da Ovest porteranno energia al Dragone. Con un piccolo, grande problema: la Russia non è disposta a stare a guardare

Tratto da “China Files” NON PIU' VIA DELLA SETA – Pechino ha da tempo avviato un intenso import dall’Asia centrale, ricoprendo quella che un tempo era la Via della seta di tubature metalliche per il gas. Collegano le riserve turkmene, uzbeche e kazake al suo territorio. Il presidente turkmeno arriva domani (22 novembre, ndr) nella capitale per firmare una nuova intesa. Una firma lunga e piena di consonanti da un parte e migliaia di chilometri di nuove condutture dall’altra. Sono questi i binari su cui viaggiano gli ultimi progetti per l’approvvigionamento di gas del Dragone cinese, assetato di una risorsa sempre più scarsa e costosa, ma a cui la dirigenza comunista guarda con crescente interesse quale componente fondamentale del mix energetico che dovrà alimentare il Paese negli anni a venire. Per ovviare alla strutturale carenza di gas con cui ha sempre dovuto fare i conti, Pechino ha da tempo avviato un intenso import dall’Asia centrale, ricoprendo quella che un tempo era la Via della seta di tubature metalliche che collegano le riserve turkmene, uzbeche e kazake al suo territorio. Nei prossimi giorni la già solida cooperazione in materia energetica tra Cina e Turkmenistan sarà ulteriormente rafforzata per mano di Gurbanguly Berdymukhamedov, il presidente dello Stato centro-asiatico, che durante la sua prossima visita nella capitale cinese, tra il 22 e il 25 novembre, firmerà una nuova intesa per intensificare gli scambi di gas con il suo prezioso partner commerciale. IL GASDOTTO DA OVEST – Una notizia che giunge a poche ore di distanza da un’altra “rivelazione” rilasciata ai media cinesi dalla China National Petroleum Company (Cnpc). Per bocca di un suo portavoce il colosso petrolifero ha infatti annunciato che la terza sezione della West-East gas pipeline, il colossale progetto studiato per collegare le regioni centrali del continente con la zona costiera del Paese della Grande Muraglia, sarà ultimata entro la fine del 2013, in netto anticipo rispetto a quanto inizialmente previsto.  L’entrata in funzione del gasdotto tra Turkmenistan e Cina nel dicembre del 2009 ha dato il via alla realizzazione di un sistema di condutture dirette dall’Asia Centrale alla costa cinese che ha inciso profondamente sugli equilibri energetici dell’intero spazio euroasiatico. Oltre a collegare il ricco giacimento turkmeno di Bagtyyarlyk alle infrastrutture cinesi nella provincia dello Xinjiang, la rete di tubature presenta bracci secondari che raggiungono la città di Gazli, nella regione di Bukhara, a due passi dalle riserve uzbeke (concentrate principalmente nella zona di Qashqadaryo), e il territorio kazako. In questo quadro Tashkent e Astana sono pronte a cedere al Dragone 10 miliardi di metri cubi di gas l’anno, mentre le promesse avanzate da Asgabat parlano addirittura di 40 miliardi di metri cubi ogni dodici mesi per i prossimi trent’anni. Importazioni a dieci zeri di cui Pechino ha bisogno per raggiungere l’obiettivo più volte annunciato di aumentare dall’attuale 4 al 10 per cento la quota di energia proveniente dal gas entro il 2020, riducendo la propria dipendenza dal carbone e dal petrolio. IL DRAGONE ASSETATO – Un traguardo che le autorità cinesi stanno perseguendo con il loro abituale zelo, tanto che, secondo i dati riportati dal China Daily, tra gennaio e ottobre il consumo di gas del gigante asiatico ha raggiunto i 104 miliardi di metri cubi, segnando un aumento superiore al 20 per cento rispetto all’anno scorso. Per sopperire alla crescente richiesta i vertici del Partito comunista hanno deciso da un lato di incrementare la produzione nazionale, che ha superato i 42 miliardi di metri cubi (più 6,6 per cento) e dall’altro di spingere sulle importazioni, che stando alla Commissione nazionale per lo sviluppo e le riforme sono salite di oltre l’86 per cento negli ultimi dodici mesi. L’annuncio fatto dalla Cnpc sulla prossima entrata in funzione della terza sezione della West-Est pipeline si inserisce appunto in questo contesto. Con i suoi 5.200 chilometri di lunghezza, una capacità di trasporto di 30 miliardi di metri cubi l’anno, sei bracci secondari, tre impianti di stoccaggio e un terminale per il trattamento del gas naturale liquefatto, questo gasdotto è stato pensato per collegare la parte nordoccidentale del Paese alla città di Fuzhou, nella provincia sudorientale del Fujian. L’infrastruttura andrà ad aggiungersi alle due sezioni già presenti, la prima della quali si snoda lungo un percorso di 4.200 chilometri raccordando lo Xinjiang a Shanghai e pompando ogni anno 12 miliardi di metri cubi di gas, mentre la seconda, che dovrebbe entrare in funzione a giugno, corre per oltre 9.000 chilometri e arriva fino a Guangzhou, nel Guandong. Nelle intenzioni della Cnpc la tentacolare pipeline dovrebbe in futuro svilupparsi anche con una quarta e una quinta sezione (i lavori di entrambe dovrebbero iniziare nel 2015), studiate per raggiungere tutta la fascia costiera del Paese. Il risultato sarà un nuovo sistema circolatorio che attraverserà 66 contee e 10 province, pompando linfa vitale in ogni ganglio del corpo del Dragone.  

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IN ROTTA DI COLLISIONE CON MOSCA? – Muovendosi contemporaneamente sul versante commerciale e su quello del potenziamento delle infrastrutture, Pechino punta non solo a mettere un’ipoteca sulle future importazioni di gas di cui avrà crescente bisogno, ma anche a lanciare un chiaro segnale di insofferenza alla Russia, con cui da tempo è in trattative per una maxi-fornitura senza riuscire a raggiungere un accordo. L’ultimo tentativo di intesa risale a giugno, quando il lungo faccia a faccia tra il presidente russo Dmitri Medvedev e il leader cinese Hu Jintao durante il Forum economico di San Pietroburgo si è concluso con un nulla di fatto. I rapporti tra le due potenze si reggono in questo momento su equilibri estremamente delicati dato che il crescente dinamismo cinese in Asia Centrale rappresenta un ostacolo evidente ai mai del tutto sopiti piani egemonici di Mosca sulla regione. Sin dal crollo dell’Unione sovietica il Dragone ha lavorato con metodica pertinacia al rafforzamento dei legami con i governi centro-asiatici e oggi la sua presenza si fa sentire tanto nel settore energetico che in quello commerciale e della sicurezza, grazie soprattutto alla Shanghai cooperation organization (SCO). Malgrado il fastidio, però, Mosca è costretta a inghiottire la bile e a continuare a sorridere al vicino, perché l’export di gas verso la Cina è un affare troppo importante per potervi rinunciare.  In questo senso sia Mosca che Pechino non hanno certo dimenticato il memorandum sottoscritto nel 2006 da Alexei Miller, amministratore delegato della Gazprom e da Chen Geng, suo corrispettivo della Cnpc, per la costruzione dell’Altai gas pipeline, che attraverso un percorso di 2.800 chilometri dovrebbe portare il gas dalle riserve siberiane di Nadym e Urengoy allo Xinjiang, congiungendosi proprio con la West-Est gas pipeline. Per il momento il progetto è stato messo in stand-by a causa della divergenza di vedute sui prezzi del gas esportato, ma tra gli addetti ai lavori non si è mai smesso del tutto di parlarne, segno di un interesse forse sopito ma non del tutto scomparso.

Paolo Tosatti [email protected]

Parliamo di sanzioni (1)

Di fronte a casi come la rivolta in Siria contro il regime di Bashar Assad, o nei confronti dell’Iran per la mancata piena collaborazione sul suo programma nucleare, la reazione della comunità internazionale è quella di imporre sanzioni. Ma siamo sicuri che abbiano un reale effetto? Forse sarebbe ora di rivedere l’intero approccio e ripensarlo in maniera più appropriata: in tre puntate andiamo ad esaminare i problemi del sistema sanzionatorio internazionale e, infine, a suggerire le possibili alternative

 

Prima parte NUOVE SANZIONI? – Mesi di rivolta, pressioni diplomatiche e isolamento internazionale non hanno per ora portato alla cessazione della repressione in Siria. Damasco, per quanto stigmatizzata anche dalla Lega Araba, continua a rimanere sulle proprie posizioni, contando sull’effettiva reticenza occidentale ad impiegare la forza (v. Particolarità siriane). Mentre l’ONU discute su nuove sanzioni (con Cina e Russia contrarie) e Lega Araba e Turchia preparano le proprie, possiamo sperare che tali misure convincano Bashar Assad a cedere? Guardando ad altri casi, è facile prevedere di no. Molti analisti, tra i quali il Professor Joshua Landis, autore del famoso blog “Syria Comment”, notano come sia improbabile che il regime cada per queste sanzioni, semplicemente perché nessun leader arabo è mai caduto a causa di esse. Secondo Landis le sanzioni inoltre “distruggono le istituzioni nazionali, decimano la middle-class e degradano la società, come avvenuto in Iraq. Rendono la costruzione di democrazia ancora più difficile una volta che il regime è caduto (in altro modo)”.

 

FALLIMENTI – Cerchiamo di approfondire questa analisi. Se pensiamo ai paesi che sono soggetti a sanzioni economiche da anni, non ne troveremo nessuno sul procinto di cadere solo per questo motivo. L’Iran è sotto sanzioni dal 1979, eppure il regime degli Ayatollah continua a esistere e controllare il paese, né, secondo l’intelligence internazionale e l’AIEA, appare aver interrotto il suo programma nucleare. La Corea del Nord è sempre più isolata ed economicamente a pezzi, con la popolazione ritenuta alla fame e in condizioni sociali molto difficili, ma ancora governata da Kim Jong Il e sempre aggressiva verso i vicini. I Talebani in Afghanistan hanno ceduto solo dopo l’invasione USA. Myanmar è sempre governata dalla giunta dei generali, mentre a Gaza il blocco e le sanzioni israeliane hanno sì isolato Hamas ma non hanno portato a un cambio di regime (regime change) e la questione della Striscia rimane aperta. La Serbia degli anni ’90 fu sottoposta a pesanti sanzioni economiche in seguito alla sua condotta nella guerra contro la Croazia e in Bosnia-Herzegovina, ma non va dimenticato che Milosevic venne cacciato solo in seguito ai bombardamenti NATO.

 

ECONOMIE LEGATE – Soffermarsi sugli effetti non basta però per comprendere il problema, meglio dunque vedere il perché. Ci sono infatti due punti da capire. Il primo riguarda la natura dei contatti economici nel mondo attuale. Possiamo chiamarla globalizzazione o semplicemente interconnessione economica, ma la realtà è che al giorno d’oggi esistono pochissimi casi di paesi economicamente completamente isolati (forse solo la Corea del Nord). Le economie dei paesi sono così connesse da non poter più creare sanzioni che colpiscano solo quello bersaglio. In altre parole, ogni stato commercia e fa affari con molti altri, dunque punire un paese in realtà finisce per danneggiare anche tutti gli altri che con quello avevano rapporti. Risultato? Alcune nazioni si oppongono e si rifiutano di aderire alle sanzioni perché non vogliono smettere di fare affari con quello stato e se qualcuno non partecipa, l’effetto delle sanzioni viene mitigato (non commercio col paese X ma posso ancora farlo col paese Y). Inoltre si innesca un meccanismo opposto di scarsa competizione, per il quale le aziende trovano addirittura più conveniente fare affari con paesi sotto sanzioni perché questo garantisce appunto una minor concorrenza, una sorta di mercato esclusivo ove poter operare più liberamente (e spesso con maggiori ricavi, che il governo sotto sanzioni è di solito più disposto a concedere). Questo effetto disincentiva le nazioni e le aziende nel momento in cui il ragionamento di molti manager diventa: “se non lo faccio io tanto lo farebbe qualcun altro, quindi l’effetto è lo stesso, ovvero nullo. Perciò perché devo essere solo io a non guadagnarci?”

 

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BERSAGLIO MANCATO – Il secondo punto riguarda gli effetti reali su chi è colpito dalle sanzioni. L’economia ne viene ovviamente impattata: meno commercio significa meno beni di uso comune disponibili, con conseguente rialzo dei prezzi ed esplosione del fenomeno del mercato nero. Blocco degli investimenti esteri delle banche implica meno denaro circolante in patria e svalutazione della moneta locale, oltre al rischio di mancato pagamento dei salari. Per embarghi energetici si giunge a un calo della disponibilità di benzina, gasolio per riscaldamento e nei casi più gravi anche elettricità nelle zone provinciali. Tutto ciò va a colpire la popolazione molto prima di chi governa dato che tutte queste commodities rimangono comunque disponibili per il regime semplicemente per la maggiore disponibilità di denaro. In particolare, se è vero che chi è già povero tende a restare povero – anche se molto più di prima – è vero anche che quella che potremmo definire classe media (studenti, artigiani, piccoli imprenditori, commercianti, impiegati, ovvero tutti coloro che davvero fanno tirare avanti il paese) tende a impoverirsi e, in ultimo, a scomparire perché le attività ad essa legate iniziano a chiudere una a una. Nel momento in cui questo avviene in maniera consistente, la popolazione perde ogni controllo sull’economia del paese e dunque anche sulla capacità di influenzare davvero il governo tramite la minaccia di scioperi o proteste ad alto impatto.

 

E ALTROVE? – Non è un caso infatti che in Iran, dove tale situazione ancora non si è verificata, la maggior paura del governo sia una rivolta dei Bazarij, i commercianti dei bazar, che per numero e capacità economica può davvero mettere in ginocchio il paese come avvenne nel 1979 – quando appoggiarono la rivoluzione khomeinista. Altrettanto emblematico è il caso dell’Egitto di quest’anno, dove la rivolta ebbe il supporto di tutti i ceti popolari, incluso quello medio non piegato da alcuna sanzione e che poté bloccare l’intero paese (portando l’esercito a valutare come fosse meglio appoggiare e guidare la caduta di Mubarak e non il contrario). (Fine prima parte – Nella seconda parte vedremo come reagiscono i regimi alle sanzioni)

 

Lorenzo Nannetti

La strada violenta verso le urne

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Da Città del Messico – Il 2012 sarà un anno cruciale per il Messico, poiché si terranno le elezioni presidenziali. Il successore di Felipe Calderón sarà il vincitore di una competizione fra i tre principali partiti, che rappresentano il perpetuarsi delle consuetudini politiche del gigante latino-americano. Tanti i problemi che affliggono il Paese: l'economia è in stallo – in controtendenza con il resto della regione – mentre violenza e criminalità, legate al narcotraffico, dilagano soprattutto al Nord

ELEZIONI E VIOLENZA – Nel mezzo del cammin di una guerra civile che pare senza fine, il Messico si appresta ad un lungo anno elettorale in cui i vari contendenti dei tre principali partiti si contenderanno il bollente scranno del Presidente, che dovrà cercare di mettere fine all’onda di violenza che ha causato più di 50.000 morti, migliaia di desaparecidos, sequestri, fosse comuni, attentati e ha posto in serie difficoltà l'economia messicana, unica tra quelle dell’America Latina a non crescere, nonostante le enormi riserve di risorse naturali, tra le quali spicca il petrolio. E le prime vittime della contesa elettorale sono già apparse: l’undici novembre l’elicottero che trasportava il Ministro degli Interni, José Francisco Blake Mora, e la sua mano destra in tema di diritti umani, Felipe Zamora Castro, insieme ad altre 6 persone di diversi ministeri sono morti in un tragico incidente in cui il suo veicolo si è disintegrato nelle montagne fuori Città del Messico. Due giorni dopo, si sono svolte le elezioni in Michoacán, uno degli stati del Messico dove regna il Cartello del narcotraffico de La Familia e dove i tre candidati si sono dichiarati vincitori. Tra loro Cocoa Calderón, la sorella del Presidente in carica. Le indagini per scoprire le cause dell’incidente aereo che ha portato alla morte del secondo ministro degli interni in 3 anni sono state affidate al Ministro dei Trasporti e hanno abbandonato in poche ore le prime pagine dei giornali. IL “BELLO” DELLA POLITICA – Le elezioni federali sembra che ricalcheranno un copione già visto in passato. Il PRI, Partido Revolucionario Institucional, cerca di ritornare al potere dopo anni di governi del PAN (Partido de Acción Nacional), presentando il suo campione da rotocalco televisivo, Enrique Peña Nieto (nella foto sotto), ex governatore dello Stato di México dove si è distinto per costruire opere infrastrutturali caratterizzate per la discutibile utilità, reprimere con l'uso della forza manifestazioni e non approvare progetti vitali per evitare le periodiche inondazioni della zona. In compenso, le zone vicine a Toluca, la capitale dello stato, sono abitate dai più potenti narcotrafficanti che le prediligono come destinazioni di villeggiatura, mentre al nord si contendono il territorio. Bello, curriculum e atteggiamento da tipico politico messicano è il probabile prossimo presidente, carica che si sta preparando a ricoprire da almeno 5 anni, quando firmò l’accordo con Televisa, la più potente catena televisiva che non perde occasione per citarlo e lodarlo. GLI AVVERSARI – A contendere  lo scettro a Peña Nieto, ci riproverà Andrés Manuel López Obrador, esponente del Partido Revolucionario Democrata, PRD, sconfitto da Calderón alle elezioni del 2006 con un margine risicatissimo e in seguito ad elezioni che hanno sollevato alcuni sospetti. López Obrador in questi 5 anni ha cercato di avvicinarsi al settore industriale per rassicurarlo sulle sue intenzioni come futuro presidente. Non libero da scandali durante il suo passato politico, per molti messicani rappresenta il cambio vero, una nuova forma di vedere la politica in favore dei cittadini e della nazione. Ha sconfitto nelle primarie del PRD l’attuale sindaco di Città del Messico, Marcelo Ebrard, chi si è contraddistinto per le sue riforme in favore dell'ambiente e dei diritti umani. Ultimo partito in lizza è il Partido de Acción Nacional (PAN), il quale dopo dodici anni di potere probabilmente lascerà la stanza dei bottoni. Arrivato al potere dopo novant'anni di dominio pressochè incontrastato del PRI, il PAN doveva rappresentare il cambio. In realtà,negli ultimi anni la sicurezza è diminuita, l'economia è in crisi, il tasso di disoccupati aumentato. In cambio, le fortune della famiglia Calderón, attuale presidente, sono floride e il “Chapo” Guzman, leader di uno dei principali cartelli del narcotraffico, regna incontrastato nel nord del paese.

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PERICOLO ASTENSIONE – In attesa di conoscere i programmi, i veri assenti di questo inizio di campagna elettorale, chi trionferà nel luglio 2012? Probabilmente l’astensione: nello Stato de México, la regione governata fino a qualche mese fa dall’aspirante del PRI, quasi il 60% della popolazione non è andata a votare. E' indubbio che chiunque vinca le elezioni dovrà fare i conti con il narcotraffico, che nonostante la dura lotta combattuta in questi anni e che ha contribuito ad alzare notevolmente il tasso di violenza nel Paese, detiene ancora una grande fetta di potere soprattutto nelle regioni settentrionali. Andrea Cerami (da Città del Messico) [email protected]

La partita di Dilma contro il crimine

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A distanza di un anno dall’ultimo intervento armato nelle favelas, l’esercito brasiliano è nuovamente intervenuto con soldati e blindati a la Rocinha, una delle favelas più grandi del Paese, situata nella parte sud di Rio de Janeiro. A differenza degli interventi passati non è stato necessario sparare un solo colpo, ma i problemi di criminalità rimangono endemici nella società brasiliana, per quanto in misura minore rispetto al passato. Allo stesso tempo, la corruzione dilagante rappresenta un grave problema per il governo di Dilma Rousseff, che deve sconfiggere questi problemi in vista dei grandi eventi sportivi che il Brasile ospiterà nei prossimi anni

CARRI ARMATI A LA ROCINHA – Già nel novembre del 2009 e del 2010 l’esercito brasiliano era intervenuto nelle maggiori favelas brasiliane con l’obiettivo di riportarle sotto il controllo dello stato e combattere le potenti organizzazioni dei narcotrafficanti che operavano come uno stato nello stato. Nel 2010 l’intervento nella favela di Villa Cruzeiro si era risolta in un vero e proprio scontro armato con le bande dei narcotrafficanti e l’uso dei carri armati: dopo un assedio durato cinque giorni almeno trenta persone erano state uccise negli scontri a fuoco. Nell’occasione dell’operazione “Shock di pace” di questo fine settimana ciò non si è verificato: i ripetuti annunci del Ministero della Difesa e della Polizia sull’intenzione di intervenire nuovamente nella favela hanno provocato la fuga dei narcotrafficanti, spariti assieme a droga ed armamenti. D’altra parte già nel corso della settimana passata la polizia aveva messo a segno un colpo importante arrestando Nem, considerato il leader della favela e primo nella lista dei narcotrafficanti ricercati dalla polizia brasiliana. CRIMINALITA’ IN DIMINUZIONE – Gli interventi del governo brasiliano dimostrano sicuramente l’intenzione di combattere la criminalità ed il commercio di droga, storicamente fra le piaghe maggiori del Paese. L’operazione a La Rocinha e la sua occupazione militare dimostrano chiaramente come sia possibile sradicare il narcotraffico e ridurre il livello di criminalità, in presenza di una chiara volontà politica. Chiaramente la necessità di prepararsi al meglio per ospitare i Mondiali di calcio del 2014, la Copa America del 2015 ed i Giochi Olimpici del 2016 invogliano il governo a risolvere il problema; d’altra parte, la soluzione pare ancora lontana. I livelli di criminalità appaiono sicuramente in diminuzione rispetto al recente passato, ma rimangono ancora particolarmente elevati: il tasso di omicidi rimane oltre il triplo di quello mondiale, mentre rimangono frequenti i casi di rapimenti, rapine e criminalità comune. La stessa polizia è spesso responsabile di violenze e violazioni dei diritti umani, oltre a dimostrare altissimi livelli di corruzione. D’altro canto, anche nel caso dell’arresto di Nem si è riproposto questo problema: il leader de La Rocinha pagava la polizia perché questa lo proteggesse e gli passasse informazioni. Il fatto che questo pagamento corrispondesse alla metà dei suoi guadagni fa capire quanto potere abbia la polizia, anche nei confronti del narcotrafficante più temuto di Rio.

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GLI INTERVENTI ARMATI NON BASTANO– I soli interventi militari e le successive occupazioni, per quanto efficaci nel sottrarre almeno momentaneamente le favelas dal controllo dei mercanti della droga, non appaiono però sufficienti a risolvere da soli i problemi di criminalità del Brasile. A dispetto di una crescita economica sostenuta, le disparità economiche e sociali nel Paese rimangono acute, con il 26% della popolazione sotto la soglia di povertà, e sicuramente contribuiscono a spiegare gli alti livelli di criminalità nelle favelas. Inoltre, manca un sistema legislativo coerente in grado di combattere efficacemente le organizzazioni dei mercanti della droga: non esistono misure speciali per gli arrestati, e lo stato non offre nessun tipo di protezione ai testimoni ed ai pentiti. Francesco Gattiglio [email protected]

Emirati Arabi Uniti… ecologici

Abu Dhabi è una delle capitali mondiali del petrolio e presto lo diverrà anche per l'ecologia. La capitale emiratina, infatti, sembra essere giunta ad una svolta inimmaginabile fino a pochi anni fa. Nonostante la sua florida economia petrolifera, gli Emirati Arabi Uniti hanno deciso di divenire un importante punto di riferimento a livello globale nella ricerca tecnologica e nello sviluppo di energie pulite. Questa scelta è stata premiata con la decisione da parte del consorzio europeo EUROSOLAR – l'associazione europea per le energie rinnovabili – di istituire il quartier generale, nel pieno del deserto arabico, di un segretariato dell'International Renewable Energy Agency (IRENA)

COS'E' IRENA ? – L'Agenzia Internazionale delle Energie Rinnovabili è stata fondata nel gennaio 2009 a Bonn, su iniziativa di Germania, Spagna e Danimarca con l'intento di promuovere progetti di energie pulite. Essa include 148 Paesi membri e il suo compito principale è quello di agevolare la diffusione e l'adozione a livello globale delle energie rinnovabili mediante la fornitura di servizi di consulenza e di assistenza a Paesi industrializzati e in via di sviluppo. Si occuperà, inoltre, della ricerca di soluzioni globali alle sfide che si frappongono allo sviluppo delle energie rinnovabili e offrirà il proprio sostegno nella definizione di politiche in materia a tutti i livelli. IRENA si occuperà della promozione delle energie rinnovabili, ritenute la strada da percorrere per raggiungere gli obiettivi mondiali in materia di protezione del clima, sicurezza energetica, crescita economica e future opportunità di lavoro. La nuova agenzia integra l'Agenzia Internazionale per l'Energia (AIE) e l'Agenzia Internazionale per l'Energia Atomica (AIEA), dotando le energie rinnovabili di una voce univoca a livello internazionale. Il suo quartier generale sarà nell'avveniristica Masdar City, la prima città eco-sostenibile al mondo a pochi Km da Abu Dhabi e pienamente operativa dal 2016. IRENA rappresenta, dunque, il successo di un piccolo Stato nella realizzazione di un progetto così ambizioso sulla scena internazionale: gli EAU, infatti, non hanno lesinato risorse politiche ed economiche e hanno offerto il proprio sostegno all'agenzia grazie con un finanziamento di 136 milioni di dollari per un periodo di sei anni. IL RUOLO DEGLI EAU NELLE ENERGIE PULITE – Sono quasi dieci anni che il governo del Paese arabo investe ingenti risorse economiche (circa 15 miliardi di dollari) nel settore delle energie rinnovabili e del nucleare civile: società nazionali, come Masdar e Aldar, sono impegnate in progetti di green energy al fine di rendere il Paese meno dipendente energeticamente dal petrolio. I  piani di sviluppo di energie alternative dovrebbero essere in grado di generare, entro il 2020, il 7% dell’energia totale nazionale. Questi progetti rientrano negli obiettivi prefissati dall'Abu Dhabi Economic Vision 2030, un documento guida del governo nazionale per la transizione degli EAU da un’economia basata sulle risorse naturali ad una incentrata sulla conoscenza tecnologica e sull’innovazione. Ecco perché l'aggiudicazione della sede centrale di IRENA, indubbiamente, farà di Abu Dhabi un centro di eccellenza nella green economy e nel settore della clean technology.

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NON SOLO POLITICA ECOLOGICA – La scelta ecologista del governo dell'Emiro Zayed bin Sultan al-Nahyan si spiega con l'esigenza di rendere il Paese un punto di riferimento internazionale per tutte quelle imprese e quei centri di ricerca che progettano sistemi di sostenibilità ambientale. Non di meno, tale iniziativa potrebbe far divenire lo Stato del Golfo un importante centro nevralgico dal punto di vista politico per i Paesi in via di sviluppo. Il dinamismo degli EAU, quindi, deve essere interpretato con la necessità della propria sopravvivenza politica e con la volontà di accrescere la propria rilevanza politica-economica nell'intero scacchiere regionale. Parallelamente alla crescita di influenza dell'Emirato nel contesto regionale, la futura affermazione della nuova agenzia internazionale risiederà nell'impegno dei Paesi che intenderanno finanziarla e nelle capacità di rendere effettive ed efficaci le proprie attività. IRENA, insomma, è destinata ad essere o uno strumento innovativo in un settore strategico come quello delle clean-technologies, o un'entità come tante altre in un panorama internazionale già affollato di vari enti ed organizzazioni che spesso si sovrappongono in termini di operatività e obiettivi finali. Pertanto, i destini di Abu Dhabi e di IRENA sembrano essere legati a doppio filo: quanto più IRENA diverrà operativa attraverso la cooperazione tra i Paesi membri, tanto più gli Emirati Arabi Uniti potranno divenire un attore influente nella penisola arabica e nei più importanti fori internazionali. Giuseppe Dentice [email protected]