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"L'imparzialità è un sogno, la probità è un dovere"

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Stars and Stripes

Stelle e strisce anche nel logo della nazionale, gli Stati Uniti sono pronti a partecipare al Mondiale 2010 per cercare di entrare nella storia. Non certo la storia del calcio, una vittoria sembra assai improbabile, ma cercheranno di certo un piazzamento migliore di quelli ottenuti finora. Arrivati ai quarti di finale nel 2002, gli statunitensi non hanno superato nel 2006 il girone eliminatorio. Una sfida importante per gli uomini del c.t. Bradley, chiamati a dare ancora maggiore visibilità ad un movimento calcistico giovane ma in costante ascesa. Il soccer non è certo lo sport nazionale e far bene ai prossimi mondiali potrebbe voler dire lanciare la sfida a sport molto più popolari, come il basket o il baseball.

 

IL PAESE

Superpotenza uscita vincitrice dalla Guerra Fredda, gli Stati Uniti si trovano a dover fronteggiare una delle crisi più profonde della loro storia. Crisi economica e politica, la prima nata dalla mancanza di regole che ha portato il sistema finanziario ad affondare l’economia reale. La seconda dovuta ad un unilateralismo a volte arrogante, che ha fatto dell’ex presidente George W. Bush uno dei leader più contestati del pianeta. Il paese si trova ora a dover lottare per dimostrare di poter essere ancora quel faro della libertà e della prosperità che ha attirato milioni di emigranti nel corso del secolo scorso. La variegata composizione etnica-religiosa statunitense è ben rappresentata nella nazionale, in cui militano almeno otto afro-americani e c’è una nutrita rappresentanza di giocatori di origine messicana. Con una particolarità: come ha fatto notare il difensore Jonathan Bornstein gli Stati Uniti sono l’unica squadra che può permettersi di schierare un messicano ebreo facendolo giocare per la propria bandiera. La prima Coppa del Mondo africana coincide con la prima presidenza afro-americana della storia, un connubio importante, come un ideale ritorno alle origini.

Barack Obama seguirà le partite di Boccanegra e compagni, un po’ per dovere, un po’ perché appassionato di soccer dato che le figlie giocano a Washington nella squadra della scuola. Il presidente sarà presente alla cerimonia di apertura e la nazione seguirà in diretta le partite di una squadra che sembra essere in crescita e potrebbe puntare ad un buon piazzamento. La Casa Bianca ha già fatto sapere che l’ex presidente Bill Clinton è stato nominato ambasciatore statunitense per i mondiali del 2018 e del 2022, dovrà convincere la FIFA a riportare i Mondiali negli Stati Uniti. Washington spera così di poter sfruttare al meglio il potenziale politico-diplomatico che una manifestazione di tale portata rappresenta, senza dimenticare che, per il prossimo futuro, la nazionale si è posta come obiettivo una vittoria nella massima competizione calcistica globale.

 

IL CAFFE’ IN PILLOLE

  • Riuscirà la nazionale a far dimenticare la tragedia della marea nera nelle acque del Golfo del Messico? E’ quello che probabilmente sperano molti funzionari a Washington, date le ultime difficoltà mediatiche riguardo proprio alla delicata questione. I sondaggi indicano in netto calo la popolarità del presidente Obama, che secondo l’opinione pubblica statunitense non è stato finora capace di mettere un freno al disastro. I sondaggi potrebbero rivelarsi un annuncio infausto: a novembre si vota per il rinnovo del Congresso e in pochi sono disposti a scommettere su un buon risultato per i Democratici guidati dal presidente.
  • Ancora impegnati in Afghanistan ed Iraq, gli Stati Uniti sembrano essere lontani dal voler programmare una exit strategy definitiva e completa dai due paesi. Gli attacchi degli ultimi giorni in Afghanistan contro i convogli della missione ISAF e i militari statunitensi sono un segnale evidente del fatto che il paese non è ancora completamente pacificato. In molti a Washington considerano di vitale importanza riuscire ad arrivare ad una stabilizzazione per poter poi lasciare che siano le forze di sicurezza nazionale a farsi carico della responsabilità della sicurezza interna.

 

UNA NUOVA REALTA’?

Fino a pochissimi anni fa Stati Uniti e calcio non era un connubio naturale. Troppo lontano questo sport dalle tradizioni statunitensi, del resto troppo invase dal football americano, il baseball, il basket… sport, questi, in cui gli USA dominano a livello mondiale. Perfino i Mondiali di calcio organizzati in casa, quelli di USA ’94, non sortirono alcun effetto positivo per il calcio statunitense, se non quello della pubblicità. Da qualche anno a questa parte, invece, gli USA si propongono al mondo come una nuova realtà del calcio, in grado di poter competere a livello internazionale con molte squadre, a tal punto che gli Stati Uniti non sembrano più essere la Cenerentola del calcio che erano una volta.

Il grande salto di qualità si è reso evidente durante la scorsa edizione della Confederation Cup, in cui gli USA arrivarono in finale, eliminando i Campioni europei della Spagna. Nella finale si portarono avanti 2 – 0 contro il Brasile, salvo perdere 3 -2. Ma tanto è bastato per far ricredere molti circa la squadra statunitense. Si presenta quest’anno con il suo uomo di gran lunga più forte, il numero 10 Landon Donovan e due attaccanti sicuramente insidiosi come Clint Dempsey e Jozy Altidore, allenata da Bob Bradley (il cui figlio, Michael, è anche tra gli undici titolari), per stupire ancora. L’esordio nel girone C contro l’Inghilterra è stato positivo, con un pareggio. La seconda partita contro la Slovenia è stata rocambolesca: da 0 -2 a 2 – 2 e con il gol del vantaggio inspiegabilmente annullato. Hanno buone possibilità di passare il turno e di entrare nella fase ad eliminazione diretta, dove potrebbero essere un avversario difficile per chiunque.

 

GEOPALLONE

E’ bastata la partita inaugurale del girone C, il 12 giugno scorso, a rappresentare la connessione tra calcio e politica per gli Stati Uniti. Inghilterra contro Stari Uniti, due dei Paesi, anzi i due Paesi, più invisi ai gruppi terroristici di matrice islamica, nell’occhio del ciclone per gli interventi armati in Afghanistan e Iraq. Al-Qaeda aveva rilasciato vari comunicati alla vigilia dei Mondiali, sottolineando quanto fosse ghiotta quest’occasione per il gruppo terroristico, per poter colpire al cuore i nemici insieme. Mai partita di calcio fu più blindata: è stata rinominata la “partita della sicurezza”, il match più a rischio dei Mondiali. Servizi segreti di tutto il mondo sono stati allertati per questa partita e le immagini dell’apparato di sicurezza che scortava i pullman delle due squadre hanno rievocato quelle delle parate dei capi di Stato. Nel 2010 il rapporto tra calcio e politica si misura anche attraverso questi indici.

 

Simone Comi e Stefano Torelli

I Leoni di Sua Maesta’

I tre leoni inglesi introdotti nello stemma da re Riccardo I nel 1190, le rose rosse simbolo della dinastia Tudor: le maglie della nazionale inglese sono marchiate dalla storia. Una storia gloriosa, un nazionalismo che riecheggia ancora nei centri del potere britannico. L’Union Jack ha sventolato per secoli sui mari e nei più remoti angoli del globo, i ritratti dei regnanti e la sterlina sono arrivati dall’Oceano Indiano a quello Atlantico e l’impero inglese ha dominato il mondo prima di passare il testimone a quegli Stati Uniti che null’altro erano se non una colonia. Gli stessi USA che sono nel girone degli Inlgesi. I leoni cercano la vittoria dopo 44 anni, ma l'inizio del mondiale di Capello è un vero incubo

IL PAESE

Il Regno Unito si trova ad un bivio importante, scegliere entrare a far parte di un club esclusivo come quello dell’euro o mantenere vivi uno dei simboli nazionali, come lo è la sterlina, mantenendo il ruolo di collante che ha finora avuto tra il Vecchio ed il Nuovo mondo. I segnali degli ultimi giorni lasciano pensare che sarà proprio l’ultimo scenario quello più probabile. Il nuovo Ministro degli Esteri britannico ha fatto sapere che intende promuovere un atlantismo “vecchia maniera” e la sua prima visita ufficiale sarà proprio a Washington. Il neo-premier David Cameron ha rassicurato gli elettori Tory, sottolineando che nella prossima legislatura il Regno Unito si terrà ben lontano da quell’Europa economico-finanziaria che ha rischiato il tracollo ed è ancora preda di una crisi profonda.

Senza contare che ogni ulteriore passaggio di sovranità verso l’Unione Europea dovrà essere approvato tramite referendum. I tre leoni, e il nuovo governo, proteggeranno quindi il Regno Unito da una deriva europeista invisa a molti, come abbiamo detto poco sopra: il nazionalismo riecheggia ancora nei centri del potere britannico e, finché Dio continuerà a salvare la Regina, Londra rimarrà ben lontana da un’Europa in cui potrebbe veder dissolvere buona parte delle millenarie tradizioni britanniche.

IL CAFFE’ IN PILLOLE

  • Quale futuro per il governo del Primo Ministro Cameron? Molti sono gli interrogativi che pendono sul capo di un esecutivo che potrebbe presto spaccarsi su alcune questioni fondamentali di politica interna ed internazionale. Il vicepremier Nick Clegg potrebbe essere il primo a guidare la fronda intra-governativa per bloccare le proposte più conservatrici di alcuni dei fidati uomini che Cameron ha portato al governo.

  • Anche il Regno Unito ha sofferto per la crisi economica che ha attanagliato, e ancora pesa, sul Vecchio Continente. Il grave dissesto greco e la settimana nera dei mercati europei è giunta in un momento di transizione politica nel Regno Unito. Anche per questo motivo Londra si è rifiutata di sostenere le misure a sostegno del salvataggio greco, senza dimenticare che, al contempo, ha rimarcato la sua non appartenenza all’area euro chiamandosi quindi fuori da eventuali manovre a sostegno di altri paesi europei.

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UN ITALIANO ALLA CORTE DELLA REGINA

C'è bel po’ di Italia nell’Inghilterra che partecipa al Mondiale in Sudafrica. Fabio Capello guida una squadra composta da molti giocatori che hanno avuto, o ancora hanno, forti legami con la scuola calcistica italiana. Basti pensare ai giocatori del Chelsea, del Manchester City o del West Ham, allenati nell’ultima stagione da Carlo Ancelotti, Roberto Mancini e Gianfranco Zola. Sarà un allenatore italiano a riportare nel Regno Unito una coppa che manca dal 1966? I sudditi della Regina lo sperano con tutto il cuore.

La squadra sembrerebbe avere le carte in regola, grazie al talento indiscusso di Wayne Rooney in attacco e alla coppia centrale di centrocampo probabilmente più forte del mondo: Gerrard-Lampard. La fascia destra, con il capitano David Beckam infortunato (ma comunque in Sudafrica, accanto a Capello), è occupata dal giovane Aaron Lennon, promettente ala del Tottenham. Il problema vero sembra essere il portiere: David James (anche detto “Calamity James”…) ha quasi 40 anni e non ispira sicurezza, e Robert Green ha esordito con una papera clamorosa. L'esordio nel girone C non è stato dei migliori, con due criticatissimi pareggi, e adesso l'Inghilterra ha bisogno di una vittoria con la Slovenia per passare il turno. Da lì in poi, tutto potrebbe accadere, perché il potenziale inglese è tra i migliori del torneo.

GEOPALLONE

Calcio e politica sono spesso un tutt'uno nel Regno Unito. Basti pensare alle parole del Primo Ministro Cameron alla vigilia dei Mondiali nella Camera dei Lord. Alzandosi in piedi e invitando tutti i parlamentari ad un applauso, ha augurato all'Inghilterra la vittoria e definito Fabio Capello “l'uomo più importante per il Paese in questo momento”. Del resto è qui che il calcio è stato inventato. Il collegamento con la politica e il potere è evidente nel calcio inglese anche guardando un fenomeno che sta prendendo piede negli ultimi anni: l'acquisto delle squadre di club da parte degli investitori miliardari stranieri.

Ha iniziato il miliardario imprenditore russo Roman Abramovich nel 2003 con l'acquisto della prestigiosa squadra di Londra del Chelsea. Poi è stata la volta del miliardario uomo d'affari ed ex Primo Ministro thailandese Thaksin Shinawatra, con il Manchester City e, adesso, è la volta dell'invasione dei petrodollari arabi. Lo stesso Manchester City è stato acquistato dal figlio dell'ex Presidente e fratello dell'attuale Presidente degli Emirati Arabi Uniti, lo Shaykh Mansur bin Zayd Al Nahyan, portando la squadra a compiere acquisti del calibro di Robinho e, adesso, Vieira, l'argentino Tevez e l'allenatore ex Inter Roberto Mancini. Lo stesso gruppo finanziario del Manchester City, l'Abu Dhabi United Group, ha poi acquistato il Portsmouth nel 2008 e si parla di una proposta miliardaria (circa 300 milioni di sterline, per il 50% della società) anche per il Liverpool, da parte del figlio dell'ex Re dell'Arabia Saudita Fahd. Se questi non sono intrecci tra calcio e politica…

Simone Comi e Stefano Torelli

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Deutschland international

La nazionale di calcio tedesca è il perfetto specchio di una società multiculturale, quale è la Germania di oggi. Ed efficiente come da tradizione teutonica: chiedere agli australiani che hanno già provato la macchina da gol teutonica. La Germania di questi mondiali sembra una squadra di ottimo livello, solida in tutti reparti e capace di far bene. La signora Merkel spera probabilmente che l’entusiasmo attorno alla selezione nazionale possa distrarre i tedeschi dai problemi che coinvolgono l’incerta coalizione della CDU con i liberali.

IL PAESE

 

Dopo gli sbandamenti della crisi finanziaria, gli alti bassi dei mercati internazionali, l’Europa continua ad essere trainata da un motore economico di marca tedesca. I tedeschi sono giustamente soddisfatti della forza della loro economia, di gran lunga la prima a livello europeo, ma pretendono anche che i partner europei si allineino ai loro standard di rigore economico-finanziario. In questo senso si spiegano i mugugni della Merkel rispetto al salvataggio della Grecia. Le difficoltà incontrate dalla cancelliera nel far accettare i sacrifici in favore della Grecia all’opinione pubblica nazionale fanno il paio con la crisi di consenso che ha investito la CDU alle ultime elezioni di Maggio nel Nord Reno-Westfalia. Nel land più popoloso della Repubblica Federale il partito della Merkel ha perso ben 10 punti percentuali e la maggioranza in favore dei socialisti. Con questo pessimo risultato i cristiano-democratici hanno perso anche la maggioranza al Bundesrat, il consiglio federale, cosa che obbligherà il governo federale a una continua ricerca del compromesso con l’opposizione socialdemocratica.

Berlino, dopo la vicenda greca ha deciso di dare il buon esempio al resto d’Europa e ha annunciato con grande enfasi una manovra fiscale di rigore che mira a portare il debito pubblico al di sotto del 3% del pil entro il 2014. Con 80 miliardi di tagli al bilancio pubblico nei prossimi 4 anni (in verità i nuovi tagli approvati sarebbero dell’entità di 26 miliardi, mentre gli 80 totali sarebbero frutto di correzioni già decise in passato) la Germania punta così a rientrare nei parametri del patto di stabilità voluto da Bruxelles. “Rigore e stabilità nei conti pubblici” sono le condizioni che la Germania prima della classe pone ai partner europei per proseguire nella sua opera di apripista  dell’integrazione economico-monetaria europea.

CAFFE' IN PILLOLE

 

  • Il difficile momento politico per Angela Merkel è evidenziato dai sondaggi: secondo l’ultimo dell’emittente nazionale ZDF per la prima volta da otto anni la CDU con il 32% delle preferenze sarebbe stata superata dall’SPD che avrebbe invece il 35%

 

  • Uno degli ambiti in cui è previsto si abbatta la scure della manovra di bilancio è la difesa. Secondo il ministro della difesa Schuring, intervistato da Der Spiegel, nei prossimi anni la bundeswher verrà radicalmente riformata nel senso di una forza numericamente ridotta e maggiormente professionalizzata e entro 10 anni verrà abolita la leva obbligatoria.

LA SQUADRA

 

La squadra di Loew dimostra personalità in tutti i reparti, nonostante un’età media relativamente bassa. La difesa, guidata dal capitano Lahm può contare su giocatori come Mertesacker e Badstuber. A centrocampo gioca una delle bandiere della nazionale Schweinsteiger a cui tocca anche far dimenticare l’assenza per infortunio del giocatore tedesco più rappresentativo e dai piedi migliori, Michael Ballack. Il centrocampista può contare su buoni comprimari nel centro della formazione teutonica come Ozil, Marin e Khedira. Davanti giocano l’inossidabile Klose, che abitualmente si trova particolarmente a suo agio in nazionale e il bomber Podolski. Il compito di rifornire di palloni i due avanti ricadrà soprattutto sul ventenne Muller reduce da un’ottima stagione con il Bayern. Appare infine giusto ricordare che la nazionale tedesca è stata funestata quest’anno da un lutto particolarmente tragico che ha commosso i giocatori e tutta la nazione: il portiere dell’Hannover Enke, nel giro della selezione nazionale, da tempo sofferente di depressione, causata probabilmente anche dalla perdita della sua primogenita a soli due anni, ha scelto  di togliersi la vita buttandosi sotto un treno.

 

GEOPALLONE

 

La selezione nazionale della Germania sembra più che altro una multinazionale: ben 11 giocatori tradiscono origini al di fuori dei confini tedeschi. Klose, Podolski e Trochowski hanno evidenti origini polacche, Boateng, Khedira e Aogo sono di ascendenza africana, Ozil e Tasci rappresentano la nutrita comunità turco-tedesca, Marin è nato in Bosnia, Cacau in Brasile e Mario Gomez ha il padre di Granada. In questo caso non siamo di fronte alle solite naturalizzazioni di comodo, la maggior parte di questi giocatori hanno vissuto sempre in Germania a dispetto dell’aspetto o dei cognomi, semplicemente si tratta della rappresentazione sul campo da calcio di una dei modelli di società più aperti e multietnici esistenti in Europa. La Germania è la nazione del vecchio continente con il maggior numero di immigrati circa 7,3 milioni, pari all’8,8 % circa della popolazione. Il gruppo più numeroso è costituito da turchi seguiti dagli…italiani(600.000)! Nel melting pot della nazionale tedesca si trovano storie come quella di Jerome Boateng, difensore di padre ghanese che dovrà giocare in questo mondiale contro il fratellastro Kevin-Prince che a scelto di giocare per la nazionale ghanese. Ad accendere la rivalità familiare ci si è messo anche il fatto che è stato proprio il fratellastro a effettuare in coppa d’Inghilterra il tackle che è costato a Ballack i mondiali e i legamenti. Da allora pare che i due non si parlino più…

Jacopo Marazia

L’asse Parigi-Berlino taglia fuori Bruxelles

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Nicolas Sarkozy e Angela Merkel non sono mai andati troppo d'accordo, sia per le differenze caratteriali che per motivi strettamente politici. Ma c'è qualcosa che unisce il cancelliere tedesco e il presidente francese, soprattutto da quando c'è in ballo la gestione della crisi: la volontà di prendere in mano il governo economico europeo.

FRANCIA E GERMANIA IN PRIMA LINEA – Nelle scorse settimane sono state prese tre decisioni importanti nell'ambito dell'economia europea. Da un lato Sarkozy e Merkel hanno scritto una lettera comune sollecitando l'introduzione di una severa normativa su alcuni strumenti finanziari messi sotto accusa dalla crisi; dall'altro i ministri delle finanze dell'eurozona hanno approvato il meccanismo di stabilizzazione dell'euro, basato su un fondo speciale che soccorrerà i paesi membri in caso di crisi; inoltre il cancelliere tedesco e il presidente francese hanno stabilito i criteri per la formazione del “governo economico” dell'Unione europea.

A gestire tutte e tre le situazioni dal punto di vista politico, diplomatico e decisionale sono stati i governi di Francia e Germania, che hanno preferito scontrarsi e mediare tra di loro per trovare una posizione unica, invece che perdere tempo coinvolgendo la Commissione europea o gli altri paesi dell'eurozona. La Spagna, nella difficile situazione economica in cui si trova, non gode di alcun potere contrattuale nei confronti di Merkel e Sarkozy. L'Italia sembra aver delegato la rappresentanza della sua economia ai tecnici e in particolare a Mario Draghi, governatore della Banca d'Italia e presidente del Financial Stability Board, e non pare intenzionata ad entrare nei rapporti di forza interni all'Europa con i suoi rappresentanti politici. Gli altri paesi dell'UE, troppo piccoli per contare, sono scarsamente rappresentati da una Commissione europea debole e da un presidente, Manuel Barroso, che è stato rieletto proprio perché considerato “morbido” nei confronti dei forti interessi nazionali interni all'Unione.

LE NUOVE REGOLE FINANZIARIE E IL GOVERNO ECONOMICO DELL'UNIONE – Nelle scorse settimane, il governo tedesco ha deciso unilateralmente di proibire alcuni strumenti finanziari, considerati nocivi per i mercati. All'inizio la reazione della Francia è stata dura: il ministro dell'economia Christine Lagarde ha definito la scelta “discutibile”. La scorsa settimana, però, Merkel e Sarkozy hanno scritto a due mani una lettera in cui esprimevano una posizione comune contro le vendite allo scoperto di certe azioni, obbligazioni e credit default swap sui titoli pubblici, che a loro parere vanno proibite “a livello europeo”. Si tratta della possibilità di prendere a prestito un titolo e poi venderlo, senza realmente possederlo: un'operazione di speculazione finanziaria che Francia e Germania vorrebbero proibire sulla scorta dell'impopolarità di queste operazioni.

Questo tema è stato affrontato durante il summit Francia-Germania che si è svolto a Berlino lunedì scorso. Durante l'incontro, però, la posta in gioco era più alta. Secondo il governo francese, la crisi finanziaria ed economica ha dimostrato che l'unione monetaria avrebbe bisogno di un governo politico; secondo Berlino, invece, l'Europa non ha alcun bisogno di nuove istituzioni, e anzi una gestione politica dell'economia dell'eurozona potrebbe avere conseguenze negative sull'indipendenza della Banca centrale europea. Tra le due posizioni ha vinto il compromesso: verrà creato un coordinamento economico comune all'Europa, ma non sarà chiuso ai 16 paesi dell'euro, bensì allargato ai 27 dell'Unione europea. In questo modo Merkel ha minato alle basi l'idea stessa di un "governo economico": è già difficile trovare intese tra i 16 stati membri della zona euro, portare 27 paesi ad avere una posizione comune è impresa quasi impossibile. L'unica concessione a Sarkozy è che i paesi con i conti in disordine perderanno il diritto di voto. Barroso non è stato neppure consultato sulla vicenda.

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IL FONDO EUROPEO DI STABILITA' – Nella scorsa settimana, dopo un mese di trattative, è venuto alla luce il Fondo di stabilità della zona euro. Il fondo, approvato a inizio maggio, gestirà 440 miliardi di euro, destinati a soccorrere i paesi membri in caso di crisi. Partecipano al fondo i 16 paesi della moneta unica, più Svezia e Polonia. Ognuno dei paesi dovrebbe essere in grado di garantire il 120% della propria quota, in modo da poter compensare l'eventuale default di uno degli stati membri.

Si tratta senza dubbio di un evento economico di primo piano, e anche in questa occasione a decidere tempi e modi dell'intervento sono state innanzitutto le diplomazie tedesca e francese. Dopo il “caso Grecia”, con Merkel che ha esitato ad aiutare il paese ellenico per paura di perdere consensi in termini elettorali, Parigi voleva evitare che si ripetesse una situazione del genere. Durante le trattative non sono mancati gli scontri tra Francia e Germania, in particolare sulla necessità di un'approvazione politica (da parte dei parlamenti nazionali) dei finanziamenti al fondo. I problemi sono stati risolti, e il fondo verrà attivato nei prossimi giorni.

Anche in questa situazione, ad elaborare idee e strategie sono stati i singoli governi nazionali, e in particolare quelli francese e tedesco. La Commissione è messa sempre più all'angolo, anche per quanto riguarda le decisioni economiche che sembravano ormai destinate a passare sempre più a Bruxelles.

Stefano Ungaro

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La geopolitica del pallone e le dittature

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Il rapporto tra calcio e politica, durante questi Mondiali, è un tema che stiamo trattando con la nostra rubrica "il Caffè Mondiale". Andiamo ad analizzare, prendendo spunto da un video che circola sulla rete, come il calcio può essere usato dai regimi e come noi stessi possiamo essere influenzati nella percezione di alcune realtà

A guardarlo c’è davvero da non crederci. Un video della tv di Stato della Corea del Nord, che in questi giorni circola in rete, mostra come si sia trasmessa a Pyongyang la partita di calcio Corea del Nord – Brasile, che i Coreani hanno perso per 2 – 1, ma dopo una prestazione a suo modo da incorniciare. Essere l’ultima squadra del ranking FIFA al mondo, infatti, e arrivare ad un passo dal costringere il Brasile, la più titolata al mondo, ad un pareggio, sarebbe stato un risultato destinato ad entrare dritto dritto nella storia dei Mondiali di calcio. Così non è andata, ma davvero grande rispetto per la Corea del Nord, che per qualche minuto ci ha fatto pensare “siamo tutti Nord-coreani”…

La squadra coreana era vista, dai telespettarori, con ancora più simpatia perché, oltre alla simpatia naturale ispirata dal più debole, dal Davide che affronta Golia, si aggiungeva una sorta di sentimento di tenerezza verso quei giocatori che stavano vivendo un momento importantissimo della loro vita, non solo calcistica, se si pensa al regime cui devono essere sottoposti in casa, quotidianamente. La mente, almeno la mia, è andata agli atleti iracheni che Saddam Hussein faceva imprigionare, torturare e, nei casi limite, condannare a morte, perché autori magari di un autogol o perché non avevano fatto fare bella figura all’Iraq nelle competizioni internazionali. Ecco, senza sapere se i calciatori della Corea del Nord andasero o meno incontro a simili destini, comunque ho avuto un moto spontaneo di simpatia in più, verso questa squadra.

E torniamo alla TV nord-coreana. Un viedo, mandato in onda il giorno dopo e non in diretta, mostra le immagini andate in onda a Pyongyang, in cui si vede la squadra asiatica fare grandi azioni corali (immagini montate ad arte, che escludevano le azioni brasiliane), con commenti di sottofondo che assumono toni trionfalistici del tipo “i nostri coraggiosissimi ragazzi”, “il Brasile è alle strette, li stiamo distruggendo” e così via. Il gol coreano, quello del 2-1, è raccontato come il gol dell’1-0 e i due gol brasiliani vengono censurati. Alla fine, si vedono i giocatori esultare e il pubblico in festa (sono le immagini dell’esultanza del gol della Corea del Nord, appunto) e in sovraimpressione passa la scritta: “risultato finale 1-0”. Per la Corea del Nord chiaramente. Alla fine addirittura la commentatrice dalla studio, si lascia andare alla “notizia” che la Corea del Nord è campione del mondo.

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Ora, il video potrebbe benissimo essere un falso, non lo sappiamo. Ma per quelle che sono le condizioni di vita e di isolamento della Corea del Nord, potrebbe anche benissimo essere tutto vero. E di nuovo si proporrebbe il tema della geopolitica del calcio. Il calcio, un Mondiale di calcio anzi, come vetrina per i leader tirannici del pianeta. Perché no, è sempre accaduto. Ciò che sembra incredibile, nel mondo globalizzato del XXI° secolo, è come un regime possa arrivare a ridurre i propri abitanti (sudditi) a una sitiuazione di tale isolamento dal resto del mondo, da falsificare addirittura il risultato di una partita di calcio. Che il calcio a questi livelli fosse anche politica, non è un fatto nuovo. L’Italia fascista nel 1934 ospitava un Mondiale e, guarda caso, lo vinceva. Stessa cosa dicasi per il cosiddetto “Mondiale dei Colonnelli” del 1978, organizzato nell’Argentina della giunta golpista e immancabilmente vinto dai padroni di casa. Clamorosa rimane la partita Argentina – Perù, ultima partita del gruppo per guadagnare la finale. I padroni di casa avrebbero dovuto vincere, per superare la differenza reti della concorrente Brasile, con 3 gol di scarto, ma segnandone almeno 4. Risultato: 6 – 0. Ma in questi casi, si tratta di partite probabilmente truccate ad arte. Oggi in Corea del Nord, invece, non si influenza il corso della partita, ma si dà semplicemente una notizia falsa che, in quei 120.000 chilometri quadrati, dovrebbe risultare essere vera. E il calcio è di nuovo arma politica, ad uso interno.

E pensare che, agli occhi di tutto il resto del mondo, la Corea del Nord, nella partita contro il Brasile, è stata eroica comunque, anche se ha perso. Che perdesse era chiaro, ma vedere con quanta grinta abbia giocato e constarare che è arrivata a davvero un passo dall’inchiodare i Brasiliani al pareggio, ha fatto sì che quella squadra fosse osannata, fuori la propria patria, come una vincitrice. Questo è il paradosso: descrivere la realtà per come è stata, sarebbe bastato per dare l’idea di quanto sia stata importante la prestazione della squadra nord-coreana all’esordio mondiale contro il Brasile. Invece no. La prerogativa dei tiranni e dei dittatori è sempre e solo una: l’iperbole. Esagerare, esagerare, esagerare. A tal punto che forse gli stessi Nord-coreani rischiano di non crederci davvero. La dittatura invece è vera, verissima. A tal punto che, anche se il video fosse un falso (ripeto: probabile), noi possiamo benissimo ritenere che sia vero. La realtà si stravolge sotto i calci di una partita dei Mondiali. Questa è la geopolitica del pallone.

Stefano Torelli

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Tour latino

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Si è concluso giovedì scorso il tour del Segretario di Stato USA Hillary Clinton in America Latina che ha fatto tappa in Perù, Ecuador, Colombia e Barbados. L’obiettivo è rilanciare i rapporti tra Washington e  la regione soprattutto in un momento di tensione come quella attuale causata dall’accordo sul nucleare tra Brasile, Iran e Turchia. È la seconda volta, dopo il tour di fine febbraio in Argentina, Uruguay, Brasile, Cile, Costa Rica e Guatemala, che la ex first lady va in America latina.

PRIMA TAPPA: LIMA –  Si è svolta a Lima (Perù) la quarantesima Assemblea Generale dell’Organizzazione degli Stati Americani (OSA), “Pace, Sicurezza e cooperazione nelle Americhe”, in presenza dei rappresentanti dei 33 paesi membri, durante la quale il padrone di casa, il Presidente peruviano Alan Garcia ha proposto un accordo per fissare i limiti della spesa militare nella regione, stimata a più di 35.000 milioni di dollari nei prossimi anni. Rispetto al periodo 2000-2004, tra il 2005 e il 2009 si è assistito a un aumento del 150% delle spese militari, vedendo come maggiori protagonisti Brasile, Cile, Colombia e Venezuela.

Rendere l’OSA più forte, energica ed efficace: questi i buoni propositi elencati dal Segretario di Stato statunitense, Hillary Clinton. Il tutto legato alla necessità di dare più peso alla  missione principale dell’organizzazione: promuovere il rafforzamento delle istituzioni democratiche e garantire una corretta applicazione della Carta Democratica Interamericana.

RITORNO DELL’HONDURAS? – Da un anno a questa parte uno dei motivi di tensione nella regione latinoamericana riguarda l’Honduras, piccolo Stato centroamericano espulso dall’OSA dopo il golpe che nel giugno 2009 depose il Presidente Manuel Zelaya. Anche se non inclusa nell’agenda ufficiale, la questione sul reintegro dell’Honduras nell’Osa è stato al centro del dibattito nel corso dell’Assemblea. La Clinton ha chiesto la riammissione del paese honduregno nella comunità latinoamericana, in ragione della presidenza di Porfirio Lobo, eletto lo scorso novembre, accettata dalla maggior parte della popolazione come Presidente legittimo, e che, a giudizio degli Stati Uniti, ne dovrebbe consentire la reintegrazione.

La regione rimane comunque divisa sull’argomento. Da un lato vi sono Venezuela, Brasile, Nicaragua, Bolivia e Ecuador, che si sono opposti a questa possibilità perché il colpo di Stato ha violato la Carta Democratica Interamericana. Il Brasile, inoltre, ha sostenuto che il ritorno dell’Honduras dovrebbe essere accompagnato e associato da misure specifiche necessarie per una nuova fase di democratizzazione che tuteli i diritti e le garanzie fondamentali. A questo proposito, è fondamentale che si permetta al Presidente deposto Manuel Zelaya di partecipare di nuovo alla vita politica del proprio paese. Dall’altro, invece, vi sono la Colombia e il Perù, gli unici ad aver riconosciuto il governo di Porfirio Lobo e, non a caso, i paesi latinoamericani più vicini agli Stati Uniti.

A dispetto di queste divergenze, nel corso del Vertice è stata decisa l’istituzione di una Commissione che si occuperà di verificare la possibilità del reintegro dell’Honduras nell’organizzazione, avendo come termine il 30 luglio per presentare le sue osservazioni.

Il Presidente honduregno Porfirio Lobo ha accolto bene questa decisione esprimendo il suo desiderio di collaborare con il panel. I membri della Commissione saranno scelti dal Segretario Generale José Miguel Insulza, e a differenza dei Commissari precedenti che erano diplomatici o funzionari, in questo caso la precondizione fondamentale per far parte del panel è la residenza a Washington per garantire e facilitare la continua presenza presso la sede dell’organizzazione.

SECONDA TAPPA: QUITO – La tappa più delicata del viaggio del funzionario statunitense è stata quella di Quito, non solo perchè il Presidente Rafael Correa è uno dei più stretti alleati del presidente venezuelano Hugo Chávez, ma anche perchè è la prima visita, dopo dieci anni, di un alto rappresentante dell’amministrazione statunitense. L’incontro ha avuto risvolti più che positivi, i due paesi hanno affermato l’intenzione di instaurare relazioni rilevanti nelle aree della sicurezza, cooperazione e sviluppo.

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TERZA TAPPA: BOGOTA’ – Nella due giorni nella capitale colombiana, il Segretario di Stato statunitense ha discusso a lungo con il Presidente Álvaro Uribe e con i due candidati alla presidenza colombiana – il secondo turno è previsto per il 20 giugno – Juan Manuel Santos e Antanas Mockus, ai quali ha assicurato che gli Stati Uniti continueranno a essere “socio firme” (solido alleato) della Colombia nella lotta contro il narcotraffico e la guerriglia. Grandi sforzi, inoltre, verranno compiuti per ratificare il Trattato di Libero Commercio (TLC) i cui negoziati furono avvitati nel 2007 con l’amministrazione Bush.

La Colombia, dal 2003 è il paese in cui gli Stati Uniti destinano il maggior numero di aiuti nel quadro del “Piano Colombia di lotta contro la guerriglia e il traffico di droga”, sono stati versati più di 6 miliardi di dollari. A ciò si aggiunga il tanto contestato accordo siglato nell’ottobre del 2009 che consente all’esercito statunitense di utilizzare sette basi militari colombiane.

QUARTA TAPPA: BARBADOS – Impatto della crisi economica nella regione e la gigantesca macchia nera nel Golfo del Messico sono stati gli argomenti più dibattuti in presenza dei Ministri degli Esteri della Comunità dei Caraibi (Caricom). La Clinton nel corso dell’incontro ha annunciato la nuova iniziativa statunitense di Sicurezza per la Cuenca del Caribe che include un finanziamento di 124 milioni di dollari per aiutare i paesi della zona per la lotta contro il traffico illegale di droga e armi, diventata una crescente minaccia.

In generale, si può esprimere un giudizio positivo sul tour della Clinton in America Latina. I rapporti cordiali e di alleanza con i maggiori partner della regione, Colombia e Perù, sono stati confermati. Manca, tuttavia, una strategia da offrire al vero attore pivot della regione, il Brasile, che nel corso della presidenza Obama ha manifestato una sempre maggiore autonomia e si è allontanato dalla Casa Bianca. Inoltre, rimangono critiche le relazioni diplomatiche con il Venezuela: il leader Hugo Chàvez non ha risparmiato le proprie critiche, “cantandole” (nel vero senso della parola: guardate questo video http://www.youtube.com/watch?v=cShOMpqWdlk) alla Clinton.

Valeria Risuglia

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La mano de Dios sul Mondiale

Dopo Inghilterra e Spagna è l'Argentina di Diego Armando Maradona la favorita per la conquista del mondiale Sud Africano. Nonostante qualche eccellente esclusione, sono tantissime le stelle al servizio dell''ex Pibe de Oro il quale si candida ad essere, nel bene e nel male, uno dei maggiori protagonisti di questa avventura mondiale.

IL PAESE

Buenos Aires può finalmente tornare a sorridere. Dopo anni di grave crisi economica, il Prodotto Interno Lordo del paese è tornato stabilmente a crescere. Rispetto ai confinanti paesi sudamericani, il Brasile rimane il paese con il più alto PIL (1.574,04 miliardi di dollari) seguito a ruota dal Venezuela e dall’Argentina che comunque si attesta in terza posizione. Dopo il gravissimo crack finanziario del 2001, che creò un buco nero di oltre 100 miliardi di dollari, l'economia del paese è dunque tornata a girare. Tuttavia permangono alcuni problemi di rilievo come ad esempio un deficit pubblico cronico che nessuna amministrazione è riuscito a ripianare.

Attualmente, anche attraverso alcune misure a sorpresa ed a volte impopolari, la presidentessa argentina Cristina Elisabet Fernández de Kirchner, dal 2007 al comando della nazione, sta provando a trovare una soluzione per l'economia del paese.

Messico e nuvole…sopra il Mondiale

La nazionale centroamericana si presenta in Sudafrica con la voglia e l'entusiasmo tipici delle formazioni latine. Non irresistibile, la formazione biancoverde può contare tuttavia su alcuni uomini pericolosi, come l'attaccante Vela. In Messico il calcio è uno sport molto importante e per ben due volte nell'arco di soli sedici anni lo stadio “Azteca” della capitale ha visto svolgersi due finali mondiali. Un altro affascinante intreccio tra sport e politica, come scoprirete leggendo questo articolo

IL PAESE

Nordamerica o Centroamerica? Gli analisti dibattono al giorno d'oggi su dove collocare il Messico. Da un punto di vista meramente linguistico e culturale la risposta sarebbe univoca: si tratta del primo Paese dell'America Latina, quindi a sud del Rio Bravo (confine di naturale con gli Stati Uniti) non può che iniziare il Centroamerica. Se però si fa un'analisi meramente geopolitica, e quindi si vanno a studiare le aree di influenza e la trama delle relazioni politico-economiche, si può anche affermare che il Messico faccia parte del Nordamerica. Il Paese ispanico fa parte del NAFTA (North American Free Trade Agreement), l'associazione di libero scambio con USA e Canada sorta all'inizio degli anni'90 e che rappresenta croce e delizia degli analisti di relazioni internazionali che si occupano del Messico. Se da una parte c'è infatti chi sostiene che l'accordo abbia beneficiato fortemente le maquiladoras (fabbriche con manodopera a basso costo situate vicino al confine con lo zio Sam), e quindi il tessuto produttivo messicano, dall'altra c'è chi vede nel NAFTA il simbolo dello sfruttamento statunitense nei confronti del proprio vicino “povero”. Comunque la si guardi, è innegabile comunque che il Paese di origine azteca sia legato a doppio filo con Washington e che l'economia nazionale, una delle più sviluppate di tutta l'America Latina, dipenda strettamente da quello che succede a Wall Street. Non è un caso se il Messico è lo Stato che ha risentito maggiormente, tra quelli latinoamericani, degli effetti nefasti della crisi economica che ha avuto origine proprio negli USA: una pesante recessione, nell'ordine del 5%, ha colpito il Paese nel 2009, in netta controtendenza con l'altra grande potenza latina, il Brasile, che ha invece terminato l'anno scorso con un record del PIL in attivo.

CAFFE' IN PILLOLE

  • Pur avendo cultura e lingua ispanica, si può dire che il Messico sia un mondo totalmente a sé rispetto agli altri grandi Paesi latini che stanno a sud del Canale di Panama. Nell'orbita geopolitica di Città del Messico gravitano infatti gli altri piccoli Paesi dell'America Centrale, che come un effetto “domino” sono stati a loro volta colpiti dalla crisi che è partita negli USA, ma non quelli dalla Colombia in giù. La demarcazione tra America Centrale e Meridionale è dunque molto netta.

  • Un grave problema del Messico è il narcotraffico, su cui si innesta una situazione di criminalità che ha raggiunto tassi altissimi negli ultimi anni. Diverse aree, soprattutto al Nord dove maggiori sono i traffici illegali diretti verso gli Stati Uniti, sono fuori controllo delle istituzioni pubbliche e controllate invece dai grandi cartelli mafiosi, spesso con la complicità delle forze dell'ordine.

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LA SQUADRA

Il Messico si presenta ai Mondiali sudafricani con la voglia di far bene, ma senza poter vantare troppe ambizioni. Sempre presente alla competizione a causa del facile girone di qualificazione in cui è inserita, la formazione ispanica non ha mai particolarmente brillato alla fase finale. La stella della squadra è l'attaccante Carlos Vela, ventenne in forza all'Arsenal, che ha fatto penare non poco gli azzurri in occasione dell'incontro amichevole di due settimane fa prima della partenza per l'Africa.

Il Messico si trova nel girone A, insieme ai padroni di casa, alla Francia e all'Uruguay. Un raggruppamento abbastanza difficile ed equilibrato, nel quale difficilmente riuscirà ad ottenere il passaggio agli ottavi.

GEOPALLONE

Sembrerà strano, ma un Paese con una tradizione calcistica non proprio eccezionale come il Messico può vantare di aver ospitato due edizioni dei Mondiali, per di più a distanza molto ravvicinata: 1970 e 1986. Se la prima è nel cuore dei tifosi italiani per la storica semifinale giocata con la Germania, la seconda è invece passata alla storia per le prodezze di Diego Armando Maradona.

Come mai al Messico fu affidata l'organizzazione di due Mondiali a così breve distanza di tempo? E' presto detto: in origine la competizione dell'86 era stata assegnata alla Colombia. Il Paese sudamericano fu costretto a rinunciare ad ospitare la manifestazione per l'impossibilità di realizzare tutte le strutture richieste (stadi, infrastrutture, eccetera). La FIFA decise dunque di ripiegare sul Messico, che si trovava relativamente vicino e aveva ancora gli stadi costruiti per il '70 in buono stato. Questo tuttavia non fu sufficiente per risparmiare un ingente sforzo economico delle casse statali che, già provate per il terribile terremoto che si era verificato due mesi prima dell'inizio dei Mondiali, si trovarono ancora più “prosciugate”. Fu l'inizio di un periodo di declino economico per la nazione centroamericana, dopo anni di boom legati allo sfruttamento delle risorse petrolifere.

Davide Tentori

[email protected]

Occhio azzurri, stasera non si scherza

A pochissime ore dall'esordio azzurro in Sudafrica, ecco la scheda del Paraguay. Un Paese pieno di tensioni, che oggi si è fermato per il match contro gli azzurri, alla ricerca di una tiepida unità nazionale. Vediamo lo stato di salute del Paese e della Nazionale, che “si attaccherà alle vostre caviglie dal primo all'ultimo minuto”. Parola del grande Paolo Montero, che ha inseguito palloni (e caviglie) per un'intera carriera in Italia

IL PAESE:

Paraguay. Storia di lunghe dittature e di democrazia instabile. Finchè, nel 1954, il Paese sfocia nel regime del dittatore Alfredo Strossner, che, appoggiato apertamente dagli Stati Uniti, diede vita a una dittatura di ben 35 anni. Gli estesi abusi dei diritti civili, la corruzione e i brogli elettorali, l'uso della violenza come arma politica, portano a una sollevazione militare, il cui leader, Andrès Rodriguez, diviene Presidente nel 1989. Nel 1992 è stata varata una nuova Costituzione, e nel 1993 un civile è stato eletto presidente, per la prima volta da quasi mezzo secolo. Nel 2003 ha inizio la presidenza Duarte, con il quale si apre un periodo di maggiore stabilità, durato sino al 2008, anno di scadenza del suo mandato. Le elezioni presidenziali di quell'anno sono vinte con ampio margine da Fernando Lugo. Un ex vescovo cattolico, incline al populismo di sinistra, che per governare ha ottenuto le dimissioni dallo stato clericale. Come priorità, due questioni di grandissima importanza: la riforma agraria e i negoziati per la revisione della struttura tariffaria delle esportazioni di elettricità verso il Brasile. Proprio per questo, se sul piano internazionale non esistono vere minacce per il Paese, è possibile che le relazioni col Brasile subiscano un irrigidimento nel momento in cui il presidente Lugo tenterà di rinegoziare le condizioni delle forniture di elettricità. Un ulteriore interrogativo sorge in merito ai rapporti con Taiwan, importanti rispetto alle potenzialità di finanziamento estero: Lugo preferirebbe favorire la normalizzazione dei rapporti con la Cina, fatto che comporterebbe la rottura con quelli di Taiwan.

Venendo all’attualità, è delle ultime settimane la notizia della dichiarazione dello stato d'emergenza per 30 giorni: sono stati dispiegati contingenti militari per fronteggiare un gruppo terrorista (EPP, "Esercito del popolo paraguaiano"), autore di una serie di rapimenti e omicidi. Una ferita profonda, che sta causando grandi divisioni nel Paese e una sfiducia crescente nei riguardi del Presidente Lugo.

IN PILLOLE:

Ancora presente la cultura indigena, che, diversamente da molte altre aree dell'America Latina, è riuscita a convivere con quella iberica. Ciò è dimostrato dal fatto che ben il 94% della popolazione parla il guaranì. Allo stesso modo, dal punto di vista etnico e culturale la società paraguaiana è una delle più omogenee di tutta l'America Latina. Circa il 65% della popolazione è composta da meticci di origine spagnola e amerindia.

– I confini dello Stato del Paraguay sono definiti dai due principali fiumi: il Paraguay e il Paranà. Fiumi che rappresentano le principali vie di comunicazione. Non a caso la maggior parte delle città paraguaiane sorgono su riva e hanno importanti porti fluviali.

Oltre al guaranì, parlato dal 95% della popolazione, e allo spagnolo, parlato dal 75% (entrambe lingue nazionali), si parlano ancora le lingue dei piccoli gruppi di immigrati giunti nel paese nel corso del tempo (italiani, tedeschi, giapponesi, coreani, cinesi, arabi, portoghesi brasiliani e spagnoli argentini).

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GEOPALLONE:

In un periodo non proprio facile per il Paese, dove il rischio colpo di Stato pare essere una prospettiva non così remota, per il calcio sembrerebbe non esserci posto. Grandi divisioni nel popolo e nel governo, e una sfiducia in aumento ora dopo ora nei confronti del presidente Lugo, accusato da molti (tra cui il vicepresidente Federico Franco) di non fare abbastanza per catturare i membri dell'EPP. Critiche che arrivano addirittura nel sospetto di un suo presunto "ruolo" all'interno di questi gruppi. Insomma, non proprio la situazione ideale per un mondiale alle porte. E dunque, c'è posto per il calcio in un Paese diviso e in pericolo? Conosciamo tutti la forza e il potere del pallone. Solo quattro anni fa e il nostro Paese era sul tetto del mondo: bandiere, cori, abbracci, coriandoli, per giorni e giorni. Come se di tutto il resto neanche la più piccola ombra. Se lo sarà ricordato, e anche molto bene, il presidente Lugo, che ha indetto un giorno di riposo per la partita Italia-Paraguay. Riposo che corre dall'educazione e dalle scuole, su fino alla classe dirigente. Perchè un gol allontana tanti problemi e disordini. Ce lo ricordiamo bene noi. E anche un Paraguay che farà di tutto per seppellire le nostre bandiere che ancora non hanno smesso di sventolare. Destini che si incrociano.

L’ALBIRROJA, UNA ROGNA. PAROLA DI MONTERO

Spesso basta una sola parola: Sud America. E alla mente viene, con grande fretta, un'idea di calcio fatta di talento e fantasia, cosparsa di un mistero che sfiora la poetica. Prima di tutti l'Uruguay che, nella prima metà del '900, tutto il mondo ha imparato ad ammirare e un po' anche ad invidiare. Poi il Brasile, macchina inesauribile di talenti, e dopo ancora l'Argentina, dove tango e calcio sembrano quasi una cosa sola. Patria del più grande di tutti: Diego Armando Maradona. In questa rete di calcio sudamericano manca il Paraguay, mai neanche avvicinatosi alla vittoria mondiale. Due soli ottavi di finale ottenuti: a Francia 1998 e Corea-Giappone 2002. Nel 2006 invece non hanno conseguito la qualificazione.

In questa occasione, invece, il Paraguay arriva in Sud Africa da vero e proprio protagonista. La formazione guidata da Gerardo Martino ha ottenuto, nel girone unico sudamericano, un totale di 33 punti: solo uno in meno del Brasile europeo che tanto fa paura. "Occhio al Paraguay!" quindi. Un eco che giunge da lontano, come avviso per chi non sapesse ancora. A maggior ragione se a mettere in guardia tutto il mondo ci pensa l'ex difensore bianconero Paolo Montero che, in quanto a esperienza del calcio povero sudamericano, non è proprio l'ultimo arrivato: "Fate attenzione, perchè il Paraguay è una squadra de mierda, affrontarla è una rogna. Si attaccheranno alle vostre caviglie al primo minuto e non le molleranno fino all'ultimo".

Come dire: grande difesa e aggressività. Pochi spazi dietro e pronti a ripartire. Infatti, se il Paraguay ha fondato la propria storia – calcistica e non – su una strenua resistenza e sull'orgoglio di un popolo che si definisce di combattenti, quest'anno c'è qualcosa in più. Un bagaglio offensivo pronto a dar senso all'esercizio della difesa ad oltranza.

Un unico interrogativo: l’integrità fisica della stella di questa nazionale, Roque Santa Cruz (attaccante del Manchester City). Le voci che girano in questi giorni lo ripetono continuamente: i destini dell'Albirroja ("I biancorossi") dipendono dal ginocchio instabile del loro fuoriclasse. Classe purissima e tendini molto deboli: quando sta bene (molto raramente) può fare impazzire qualsiasi difesa.

Il popolo paraguaiano si fa sentire e per le strade fiorisce, oltre gli attuali problemi del Paese, sembra fiorire un sentimento comune di grande impresa. Il pronostico? Molto difficile dirlo, anche se il girone sembrerebbe essere accessibile: dopo l'Italia (si spera) potrebbe essere proprio l’Albirroja ad accedere agli ottavi, davanti a due nazionali (Nuova Zelanda e Slovacchia) che non sembrano proprio irresistibili. Occhio al Paraguay quindi, e gambe (o ginocchia) in spalla.

Luca Manes [email protected]

Le aquile hanno messo a posto le teste

Dopo un ventennio, tragico sotto molti aspetti, seguito alla dissoluzione della Jugoslavia, la Serbia si sta risollevando. Sotto la guida del presidente moderato e filo europeista Boris Tadic il paese si sta lasciando alle spalle il suo difficile passato recente. Sicuramente non senza qualche strascico. La questione del Kosovo continua ad agitare il dibattito politico interno e i rapporti internazionali.

IL PAESE

Nonostante le difficoltà politiche e una certa resistenza nell’opinione pubblica, Tadic ha imboccato decisamente la strada che porta verso Bruxelles, rinunciando all’intransigenza sulla questione kosovara che viene invocata a gran voce dai nazionalisti. La Serbia di oggi è una nazione che sta rinascendo e che gode finalmente della pace dopo anni di guerre e sanzioni economiche. Oltre che dalle tossine della guerra, la Serbia si sta liberando in questi anni anche del giogo che i gruppi criminali locali avevano posto sulla vita politica del paese negli anni della guerra e del regime di Milosevic. L’evento che mostrò al paese e al mondo intero fino a che punto il potere criminale influisse sulla vita del paese fu l’assassinio del primo ministro filo-occidentale Zoran Dindic nel 2003 (tentativo riuscito seguito a un precedente fallito). La nuova classe dirigente sta perseguendo con notevole perseveranza l’obbiettivo di traghettare Belgrado verso l’Unione Europea e in generale di ricostruire i rapporti con la comunità internazionale. In questo senso è stata fondamentale la collaborazione fornita dalla Serbia per la cattura dei criminali di guerra, primo fra tutti Karadzic, nonché la recente dichiarazione del parlamento di condanna del massacro di Srebrenica. Certo si potrebbe obbiettare che sia stata di una dichiarazione un po’ tardiva e qualcuno avrebbe voluto una condanna più netta sancita attraverso la definizione dell’evento come un “genocidio”. Sicuramente uno dei ricercati più importanti dal tribunale dell’Aja, l’ex generale Ratko Mladic, responsabile appunto del massacro di Srebrenica, rimane ancora alla macchia, probabilmente nascosto in patria o nella Repubblica Srpska. Tuttavia gli sforzi dell’attuale leadership per riportare il paese verso una normalità democratica sono innegabili e l’Europa se ne è accorta. L’adesione di Belgrado è apertamente appoggiata da Italia, Spagna e Grecia, mentre l’Olanda rimprovera da sempre la mancata piena collaborazione di Belgrado nella cattura dei criminali. Infine un segnale di speranza viene dalla ripresa di rapporti di cordialità tra gli ex nemici degli anni ’90: almeno a livello di leadership negli ultimi mesi si è osservato un riavvicinamento di Croazia e Slovenia a Belgrado.

 

CAFFE’ IN PILLOLE

 

  • A volte anche i dettagli di stile sono importanti per la politica internazionale: per sottolineare il clima informale e amichevole del recente storico incontro tra il presidente serbo Tadic e l’omonimo croato Josipovic i due politici si sono presentati alle telecamere senza cravatta. Così lo storico summit che sancisce un netto miglioramento tra i due ex acerrimi nemici è passato alle cronache come “l’incontro senza cravatta”.

  • Se a un italiano capita di passare per la Serbia non potrà fare a meno di notare la quantità di Punto e altri modelli di macchina della Fiat che girano per il paese con un marchio diverso. Si tratta delle Zastava, fabbrica di automobili di Kragujevac, che ha una storica partnership con la casa di Torino. Anche i consistenti investimenti del Gruppo Fiat in Serbia (che vengono qui dirottati anche dall’Italia, alla faccia del “made in italy” tanto sbandierato dalla fabbrica di Torino) sono alla base della ripresa della crescita del pil nazionale, che ha ricominciato a crescere nell’ultimo trimestre dopo aver sofferto particolarmente la crisi.

 

I SOLITI OSTICI SERBI

La nazionale serba ha buone individualità e appare in ottima forma. La squadra ha vinto il girone di avvicinamento ai mondiali, ottenendo la qualificazione con una giornata di anticipo. Certo il girone con Germania, Ghana, e Australia non è tra i più semplici, ma il passaggio agli ottavi è alla portata degli slavi. Guidata da capitan Stankovic, delle cui qualità c’è poco da discutere, la rappresentativa serba può contare su una rocciosa difesa con Vidic, Kolarov e Ivanovic, e un buon centrocampo con Krasic, a quanto pare nelle mire della Juve e Jovanovic, fresco di un contratto con il Liverpool. Le vere difficoltà per la squadra potrebbero arrivare dal reparto avanzato: Zigic e Pantelic non sembrano avere le caratteristiche per fare la differenza. In panchina siede Radomir Antic, tecnico dalla grande esperienza che ha guidato nella sua carriera Real Madrid, Barcellona e Atletico Madrid.

 

GEOPALLONE

 

Parlando dei rapporti tra politica e calcio (o sport più in generale)in Serbia si potrebbero veramente versare fiumi di inchiostro. Il rapporto del popolo serbo con il calcio è talmente stretto che anche il parlamento nazionale ha deciso di sospendere i lavori per la durata dei mondiali! Quale che sia lo sport di squadra basket, pallavolo, calcio, pallanuoto, i serbi hanno da sempre una rappresentativa nazionale di alto livello. Lo sport ha quindi una grande importanza nella vita di questo popolo. E’ naturale che da tempi non sospetti la politica si sia interessata allo sport, soprattutto un certo tipo di politica che fa leva su sentimenti nazionalistici e patriottici. Sul “caffè” si è già parlato di come negli anni oscuri della guerra le curve degli stadi siano diventati un palcoscenico non secondario della tragedia che stava investendo il paese e i balcani in generale. Ad esempio gli scontri tra tifosi croati e serbi seguiti alla partita tra Dinamo Zagabria e Stella Rossa Belgrado del 1990 sono passati alla storia come il primo episodio simbolico della guerra che avrebbe portato di lì a poco alla dissoluzione della Repubblica Federale di Jugoslavia. Anche la nazionale ha subito le conseguenze delle sanzioni internazionali dovute alla guerra e fino al ’96 è stata esclusa dalle competizioni internazionali. Fortunatamente la Serbia si sta lasciando il suo difficile passato alle spalle, mentre la passione dei serbi per il calcio non è certo diminuita. La nazionale è oggi chiamata a rappresentare una nuova Serbia, di nuovo accettata nella comunità internazionale, come nelle competizioni sportive, e pronta a rinascere anche sul campo di gioco.

Jacopo Marazia

Un ponte che divide

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Mitrovica, città situata nel nord del Kosovo, è stata paragonata da molti alla Berlino della Guerra Fredda o a Gerusalemme per la sua spaccatura interna. Concittadini ma appartenenti a due differenti etnie, gli abitanti di Mitrovica sono stati protagonisti di un escalation di sangue, in una guerra che li ha visti contrapposti dall’ultimo decennio del secolo scorso  e che non ha ancora avuto completamente fine.

I TERRIBILI ’90 DEI BALCANI

Per capire l’emblematicità del “caso Mitrovica” bisogna, però, fare un salto indietro cercando di comprendere la complessità della questione balcanica.

I Balcani occidentali, ovvero i territori che nella seconda metà del secolo scorso corrispondevano alla Jugoslavia, sono stati storicamente terra di passaggio e di conquista, sin dal tempo dell’Impero Romano, passando per la dominazione ottomana, fino ad arrivare agli austro-ungarici, contribuendo a creare un bagaglio culturale, etnico e religioso estremamente ricco e composito, tenuto insieme da Tito durante l’esperienza jugoslava.

La struttura multinazionale della Federazione non avrebbe, da sola, grande importanza per lo sviluppo della crisi degli anni Novanta, se la distribuzione etnica fosse coincisa con i confini territoriali delle repubbliche. I fatti, invece, ci dicono che solamente la Slovenia poteva dirsi etnicamente omogenea (90% di sloveni) e difatti fu la prima repubblica a dichiararsi unilateralmente indipendente nel 1991 dando vita a soli dieci giorni di guerra.

Per completare questo quadro estremamente eterogeneo vanno aggiunti altri due fattori: in primis le differenze religiose che, coincidendo in gran parte con il fattore etnico, hanno influito fortemente sulla disgregazione dalla federazione jugoslava acuendo le differenze. In secondo luogo l’aspetto economico, in cui le repubbliche settentrionali erano di gran lunga più ricche e sviluppate del resto del paese, ma dove anche all’interno della stessa Serbia vi erano enormi differenze, con la provincia autonoma del Kosovo che si distingueva per essere la più povera.

Questa enorme complessità ed eterogeneità è stata la migliore alleata di un nazionalismo crescente che ha trovato spazio nel vuoto lasciato dalla morte di Tito e del socialismo stesso.

Esso ha così svolto un ruolo da protagonista nelle guerre che si sono succedute durante tutti gli Anni Novanta e che miravano a ridefinire i confini su base etnico-religiosa.

Una volta che anche Croazia e Bosnia-Herzegovina ottennero la loro indipendenza, seppure a caro prezzo, alla Serbia non rimaneva altro che difendere l’ultimo baluardo il quale, però, aveva anch’esso mire indipendentiste: il Kosovo.

La dirigenza politica serba, con a capo Slobodan Milosevic, gli intellettuali, gli storici e la gerarchia della Chiesa Ortodossa hanno svolto un ruolo decisivo nella costruzione  nell’immaginario collettivo dell’identità etnica, della memoria storica e dei suoi miti e simboli fondanti, attraverso il quale il Kosovo veniva, e viene tuttora, rivendicato come la “Gerusalemme” serba, escludendo qualsiasi tipo di riconciliazione con la popolazione albanese.

La seconda metà degli Anni Novanta è stata così caratterizzata in Kosovo da una guerra carica di sangue, eccidi e barbarie tra due popolazioni che fino al giorno precedente convivevano l’una a fianco dell’altra.

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LA DIFFICILE CONVIVENZA TRA L’ETNIA SERBA E ALBANESE A MITROVICA

 Kosovska Mitrovica, in questo senso risulta essere un caso emblematico, poiché la guerra ha creato una fortissima dicotomia e distanza tra le due maggiori etnie: il fiume Ibar, che taglia in due la città, rappresenta la divisione naturale tra esse.

Osservando la città dall’alto si può notare come sia netta la differenza tra le due sponde dell’Ibar: nella zona sud, ovvero la parte abitata dagli albanesi, salta all’occhio il rosso mattone delle case non intonacate, figlio della volontà di ripartire, di ricominciare a vivere, ma anche delle poche risorse disponibili e delle difficoltà postbelliche. Per contro, nella zona nord, dove vivono i serbi, in quella che si può definire tranquillamente un’enclave, risalta la multicromaticità dei palazzi di epoca socialista frutto di una vita che, a loro modo di vedere, non c’è più.

In un contesto del genere, il ponte rappresenta un luogo sensibile e viene così caricato di un alto valore simbolico. Dalla fine della guerra esso è presidiato da forze militari, prima dell’ONU ed ora dell’EULEX, con l’obiettivo di evitare che eventuali contatti tra le due etnie inneschino scontri violenti.

I ponti solitamente sono elementi di congiunzione. Mettono in contatto un’isola con la terra ferma, una riva con l’altra. Facilitano il contatto tra le persone e lo scambio di merci. Agevolano l’interazione.

Uniscono, solitamente.

A Mitrovica invece, esso diventa il simbolo della divisione, dell’incomunicabilità, del conflitto. Di fatto un albanese non frequenta da anni la zona nord della città, così come un serbo non passeggia da tempo sulla riva sud del fiume. E questo perché rischiano la loro incolumità.

Contemporaneamente ogni azione di un appartenente all’altra etnia risulta essere un pretesto per alimentare il risentimento. Ad esempio, gli albanesi hanno criticato con fermezza la costruzione di una chiesa ortodossa su una collina nel lato nord della città poiché, essendo visibile anche dalla zona sud, è ritenuta come altamente provocatoria per essi. Per contro, essendo la divisione lungo il fiume Ibar del tutto arbitraria ed essendo caricati di valore simbolico questi luoghi, non sorprende che una chiesa ortodossa, rimasta a sud, sia presidiata dalle truppe della Kfor  poiché fu teatro di atti vandalici commessi dagli albanesi durante gli scontri del marzo 2004.

Allo stesso modo una moschea che si trovava nella zona nord ora non esiste più.

Inoltre una costruzione così arbitraria di un confine ha fatto sì che il cimitero serbo rimanesse nella zona albanese e quello albanese nella zona serba, limitando così ulteriormente la libertà di movimento delle persone che si trovano impossibilitati ad andare a trovare i loro cari defunti.

Infrastrutture, lavoro e un progetto politico di rilancio della città mancano sia da una parte che dall’altra, ma la sottile differenza che si delinea è di natura psicologica. Sentirsi vincitori morali del conflitto ha conferito agli albanesi una forza, a livello psicologico, che non è presente nei serbi.

Politicamente, inoltre, le differenze sono lampanti: gli albanesi sono molto più vicini a posizioni europeiste, e soprattutto filo americane, tanto che una delle vie principali della capitale Pristina è intitolata a Bill Clinton, ritenuto un vero e proprio salvatore, mentre i serbi credono ancora nel governo di Belgrado e godono dell’appoggio russo.

 

A due anni dall’autoproclamazione dell’indipendenza del Kosovo, avvenuta il 17 febbraio 2008, la situazione per gran parte della popolazione rimane drammatica. Attualmente questo piccolo stato nel cuore dei Balcani è lontano dal garantire una vita dignitosa ai propri cittadini, indipendentemente dalla loro etnia di appartenenza. Essi sono accomunati dalla povertà, da situazioni abitative di grandissimo degrado in cui l’acqua e l’elettricità non sono sempre garantite, da una mancanza completa di grandi investimenti e quindi di un reale rilancio economico. Le strutture sanitarie sono completamente inadeguate alle risposte che dovrebbero dare ai cittadini mentre l’unico ospedale della città, situato nella zona serba, non è frutto di investimenti da parte del Ministero della Sanità kosovaro poichè “rimasto dalla parte sbagliata della città”.

Il rilancio dell’industria mineraria Trepca, attualmente ridotta ad una discarica di rifiuti tossici a cielo aperto, non è mai stato avviato per mancanza di investitori, anche stranieri, che si facessero carico della bonifica.

A undici anni dalla fine della guerra appare ancora vivo il risentimento che spesso si trasforma in odio. Sembra esserci bisogno di molto tempo ancora per far sì che paura, ideali etnici e razziali vengano meno.

La NATO, l’UNMIK (United Nation Mission In Kosovo) e la comunità internazionale in generale non sono riuscite ad avviare un processo reale di integrazione, limitandosi a mantenere la città sotto controllo e, di conseguenza, divisa.

Mentre la questione kosovara è dimenticata dai media e declassata nell’agenda politica dei governi, i Kosovari, serbi o albanesi che siano, più che vivere continuano a sopravvivere.

Giulio Di Rosa [email protected]

Il Mondiale della sicurezza

I Campionati Mondiali di Calcio non rappresentano solo un grande evento sportivo, ma aprono una finestra diretta sul continente africano ed in particolare su un Paese, il Sud Africa, che ormai da tempo si propone come una grande forza emergente nel panorama internazionale. Una delle sfide è dimostrare di essere preparati rispetto ad una delle maggiori attuali preoccupazioni globali: la sicurezza civile.

CONTESTO Un grande evento offre un'occasione eccellente per chiunque voglia dimostrare qualcosa: non solo a livello sportivo, ma anche a livello politico e criminale questo Mondiale africano rappresenta dunque un cassa di risonanza eccezionale, un'occasione da cogliere.

Se sui campi di calcio le nazionali stanno lottando per dimostrare la propria abilità, una partita di ben altro livello si gioca per mettere in mostra il Sud Africa come attore forte e partner affidabile sulla scena mondiale. Sebbene il Paese soffra ancora fortemente dal punto di vista della disparità sociale e lotti contro ampie sacche di povertà, la sua economia è la più vivace del continente africano, di cui rappresenta circa il 20% del PIL, e la sua politica interna ha oramai raggiunto una buona stabilità. Ma non è tutto.

Questo grande evento, che in quanto tale è critico dal punto di vista organizzativo, chiama il Paese a misurarsi con una delle maggiori sfide globali odierne: la gestione ed il mantenimento di alti standard di sicurezza e di protezione dei cittadini e delle infrastrutture, per di più durante l'arco di un mese, con necessità costanti 24 ore su 24, con molti obiettivi sensibili da tutelare.

LE MINACCE – La prima minaccia a cui si pensa è chiaramente quella del terrorismo jihadista internazionale. Quale miglior occasione per un attacco eccezionale e di grande risonanza mediatica? Ma il Sud Africa è lontano per tutti e nessun gruppo terroristico, da quelli legati ad Al Qaeda a quelli africani (Al Qaeda nel Maghreb Islamico, Stato Islamico dell'Iraq, Al Qaeda nella Penisola Arabica, i somali di Al Shabaab) possiede ad oggi il supporto logistico in terra sud africana per poter condurre attacchi. Inoltre questi gruppi sono già pesantemente “impegnati” nei propri territori.

Altra minaccia, sempre di matrice terroristica, sono i cosiddetti “lupi solitaried i piccoli gruppi locali. Le loro attività sono alquanto imprevedibili e, sebbene i loro attacchi possano avere solo dimensioni ridotte per la mancanza di mezzi e abilità, nel contesto di un evento come il Mondiale l'impatto sarebbe comunque forte. In realtà anche questo tipo di minaccia è riportata come poco probabile.

Un altro fenomeno tipico degli eventi calcistici, la violenza degli hooligans, ha visto nei mesi passati una forte collaborazione tra autorità sud africane e straniere per individuare e monitorare i gruppi di tifosi a rischio, secondo schemi ben collaudati.

Eccoci quindi alla maggiore preoccupazione: l'esplosione della criminalità organizzata e di quella comune, già generalmente molto diffusa e violenta. Anche per via del possibile ingresso nel Paese di gruppi criminali nigeriani e dallo Zimbabwe, il rischio dell'aumento esponenziale di atti criminali a danni di turisti è alto, data l'enorme attrattiva delle ricchezze portate da questi e data la facilità di mischiarsi alle grandi folle. Così come ancora più alto è il rischio che le zone periferiche del Paese e quelle non toccate da eventi legati al Mondiale diventino facile preda della criminalità, dato che gran parte delle forze di sicurezza sarà impegnata presso le 9 città sede degli incontri calcistici e presso le maggiori attrazioni turistiche. Un difficile bilanciamento quindi, quello che la sicurezza sud africana deve trovare, tra tutela generale della popolazione e attenzione speciale a stranieri e “aree mondiali”: una escalation di criminalità contro la popolazione potrebbe rivelarsi per l'immagine del Paese tanto dannosa quanto lo sarebbero atti terroristici.

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LA PREPARAZIONE – Sebbene quindi la principale minaccia sia la criminalità comune, il Paese ha comunque sviluppato un sistema di sicurezza adatto a fronteggiare il peggiore scenario, sebbene permanga la preoccupazione relativa alla inesperienza delle forze di sicurezza sud africane nella gestione di grandi eventi. Tale problema è stato affrontato con un piano in 7 fasi, sviluppato dal 2004 ad oggi, attraverso la “prova generale” della Confederations Cup del 2009, e con l'aiuto delle forze di sicurezza straniere. Oltre 44.000 unità di polizia sono impiegate ogni giorno, con il supporto di nuove tecnologie, sorveglianza costante dello spazio aereo, marittimo e sottomarino, oltre che con l'ovvio impiego di squadre speciali antiterrorismo. Inoltre è stato sviluppato un aggiornato modello di gestione delle crisi, sulla base delle oramai acquisite esperienze di americani ed europei, che hanno contribuito anche con le lezioni apprese durante i Campionati del Mondo di Germania 2006. Le squadre ed il personale straniero sono inoltre protette da un folto schieramento di sicurezza privata.

I RISCHI – L'apparato di sicurezza sud africano dovrebbe dunque poter gestire il Mondiale con sufficiente prontezza, sebbene i dubbi relativi alle reali capacità di affrontare un attacco di vasta portata rimangano. Il Mondiale non dovrebbe quindi essere rovinato da eventi tragici come quelli che hanno colpito la nazionale del Togo alla Coppa d'Africa in gennaio, in Angola, quando un gruppo armato assaltò la squadra uccidendo e ferendone diversi membri.

Il rischio più concreto pare dunque essere portato dalla criminalità comune per l'immagine del Paese: già la rapina subita da alcuni giornalisti stranieri a Pretoria ha suscitato un polverone. Il ripetersi di atti simili, così come l'eventuale aumento della criminalità nella aree non coinvolte nelle attività del Mondiale mostrerebbe la “coperta corta” della sicurezza sud africana.

D'altra parte però un risultato è stato raggiunto: il Sud Africa ha intensificato i rapporti con le forze di sicurezza straniere, apprendendone e condividendone gli standard. Se tutto andrà bene, questo sarà di certo un ulteriore passo avanti per il Paese.

L'unico pericolo per il quale non è stata studiata una soluzione, quindi, rimane quello delle temibili trombe, le vuvuzelas… ma solo per le orecchie dei tifosi.

Pietro Costanzo

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